Nico Motzo soldato e partigiano in Grecia (1939-1944), di Luciano Carta (4. Continua).

QUARTA PUNTATA. 6. Il dilemma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943: da occupante ad “andartes”, nelle file della Resistenza greca (8 settembre 1943 – 24 novembre 1944) ( NELLA FOTO: immagini della resistenza greca).

Lo sbarco in Sicilia degli Alleati tra il 9 e il 10 luglio 1943 fece precipitare la situazione politica italiana e modificò completamente la situazione bellica. Il 25 luglio 1943 Vittorio Emanuele III fece arrestare Mussolini e affidò il governo al generale Pietro Badoglio. Era il crollo del regime fascista. Durante i 45 giorni che seguirono, sebbene ufficialmente il governo avesse proclamato la continuazione della guerra a fianco dei tedeschi, in realtà, soprattutto dopo che nella seconda decade di agosto fu completata l’occupazione della Sicilia, divenne febbrile l’attività diplomatica presso il Comando Alleato per giungere all’ormai ineludibile firma dell’armistizio, che infatti fu annunciato l’8 settembre 1943. In virtù di esso l’Italia diventava cobelligerante degli Alleati, sebbene nel prosieguo della guerra non sia mai stata elevata al rango di alleata. Quanto avvenne subito dopo è a tutti noto: la fuga del sovrano e del governo a Brindisi, lo sfascio completo dell’Esercito i cui Alti Comandi furono lasciati senza direttive, l’occupazione dell’Italia da parte dei nazisti, la ricostituzione dei partiti politici, la formazione del Comitato di Liberazione Nazionale, l’organizzazione della Resistenza, la creazione della Repubblica di Salò nella quale Mussolini divenne in pratica il Gauleiter (governatore) dell’Italia settentrionale alle dipendenze di Hitler.

La parte delle Memorie che inizia con l’armistizio dell’8 settembre 1943 nell’economia della narrazione abbraccia la metà dell’opera ed è senza dubbio quella più avvincente e tragica. Nella narrazione degli avvenimenti non vi è alcun cenno alla situazione venutasi a creare in Italia dopo il 25 luglio, periodo nel quale, come abbiamo visto, la Divisione “Forlì” alla fine di agosto era ancora impegnata in rastrellamenti del territorio greco contro i partigiani nell’entroterra della Tessaglia. Solo gli amici greci dimostravano di avere esatta nozione di quanto stava accadendo e dell’evoluzione politica in Italia. «I greci – scrive l’Autore – insistevano col dire, che fra pochi giorni l’Italia avrebbe chiesto l’armistizio. Ma noi italiani non ne sapevamo niente»[1].

L’annuncio dell’Armistizio fu accolto dalle truppe italiane con manifestazioni di giubilo; in seno alla Compagnia di cui faceva parte il Motzo si creò il clima tipico del congedo imminente; considerato che 120 uomini sui 400 effettivi erano musicanti, «non appena ebbero la notizia ognuno prese il proprio strumento e incominciarono a strombettare e a ballare cantando la canzone del congedante»[2]. Neppure gli ufficiali compresero la gravità della situazione. Il protagonista, forse anche per i contatti con la ragazza, sua amica appartenente all’organizzazione comunista, che era persona assai politicizzata, fu il solo nella Compagnia a comprendere le conseguenze reali dell’armistizio e a prefigurare l’atteggiamento che avrebbero assunto le truppe tedesche nei confronti di quelle italiane. Ai soldati sfuggiva sicuramente il fatto che proprio durante l’estate 1943 il Comando Supremo Italiano aveva posto l’XI Armata, le cui unità erano impiegate come truppe di occupazione in Grecia, alle dirette dipendenze dei tedeschi, impedendole di fatto iniziative autonome. Tra il 9 e il 10 settembre, il Comando tedesco procedeva al disarmo delle nostre truppe, rivendicando prima le armi collettive e pesanti e subito dopo quelle individuali. Solo per un orgoglioso senso di onore alcuni ufficiali subalterni tentarono di resistere alla consegna delle armi. I greci dal canto loro cercarono di convincere, senza esito, i Comandi italiani a cedere le armi alle forze partigiane, che in questa fase erano in contatto con la Missione Militare Britannica. «Ma il nostro Comando italiano – commenta l’Autore – non ne volle sapere»[3]. Il comandante della Divisione “Forlì” generale Francesco Antonio Arena acconsentì a farsi disarmare, come fecero, salvo poche eccezioni, gran parte dei comandanti delle altre unità, anche se rifiutò di collaborare con i tedeschi[4]. Il disarmo fu accettato perché i tedeschi promettevano in cambio la partenza delle truppe per l’Italia. Purtroppo non fu così, come aveva ben compreso l’Autore. «Finito il disarmo – egli scrive – il mio Reggimento fu inquadrato e portato alla stazione, venne caricato sui vagoni bestiame e fatto partire per la Germania; da allora non seppi più niente dei miei cari compagni d’armi».[5] Quanti opposero resistenza al disarmo, come la Divisione “Acqui” a Cefalonia, furono massacrati dai tedeschi[6].

La salvezza per Nico Motzo venne dalla ragazza greca di Lamìa sua amica. Dopo avere vanamente cercato di convincere a fuggire gli altri due bolotanesi della Divisione “Forlì”, Costantino Sechi e Giuseppe Sassu,[7] appartenenti ad altra Compagnia, l’11 settembre egli si rifugiò in casa dell’amica, che lo aiutò a mettersi in salvo presso le bande partigiane comuniste che operavano sulle montagne di Stavros (in greco Stauròs), dove divenne “sinagonistis”, compagno di lotta dei partigiani greci. A Karpenisi, cittadina della Grecia centrale a ovest di Lamìa, nell’attuale circondario amministrativo dell’Euritania, sede del Comando delle forze della Resistenza in Tessaglia, fu inserito nei ranghi dell’esercito partigiano dell’E.L.A.S. Diventava così un “andartes”, partigiano o guerrigliero della Resistenza greca. Egli non fu il solo del suo Reggimento ad aver scelto la fuga presso le formazioni partigiane. A Stavros trovò altri due commilitoni.

Chi ha conosciuto Nico Motzo sa che egli non ha mai professato idee comuniste e anche nel racconto delle Memorie traspaiono chiare indicazioni di distanza da quell’ideologia. Ci chiediamo: perché egli scelse di combattere tra le file dei partigiani comunisti dell’ELAS? Un insieme di motivi, noi riteniamo, hanno concorso a questa scelta. In primo luogo la situazione concrea in cui il protagonista venne a trovarsi e la vicinanza ad una “sinagonistria” (compagna di lotta), la ragazza amica di Lamìa, che ebbe un ruolo decisivo nel metterlo al sicuro, sottraendolo ai rastrellamenti dei tedeschi. Si trattò, cioè, anzitutto, di una situazione di necessità. In secondo luogo è da mettere la lucidità con cui il Motzo – noi crediamo anche a seguito dei contatti con gli ambienti politicizzati di Lamìa cui la ragazza greca apparteneva e che seguivano con grande attenzione l’evolversi della situazione politico-militare – comprese le reali intenzioni dei tedeschi una volta effettuato il disarmo delle truppe italiane. Egli, a differenza della gran parte dei commilitoni e degli stessi Comandi militari, riuscì a non farsi abbagliare dal falso miraggio del pronto rimpatrio da parte dei tedeschi. In terzo luogo ci pare sia da annoverare il profondo senso del dovere e dell’onore, che mai gli avrebbe consentito di accettare il gesto disonorevole del disarmo. Questo aspetto è molto evidente in diversi punti delle Memorie, in particolare nel dialogo figurato che egli descrive in occasione dell’incontro con un altro italiano fuggito dal Reggimento, un siciliano che egli ritrova tra i partigiani appena giunto a Stavros. Costui si era unito alla Resistenza greca ancor prima dell’armistizio e del disarmo; egli era pertanto, nella scala di valori del Motzo, un “disertore”, come esplicitamente gli rimprovera. La “fuga” del Motzo dal Reggimento aveva tutt’altra motivazione. Le vicende susseguitesi in seno al Reggimento tra l’8 e il 10 settembre 1943 avevano interamente mutato la situazione dell’Esercito italiano. Con l’armistizio non poteva più avere vigenza l’alleanza con l’Asse perché l’Italia aveva fatto un’altra scelta di campo. Al siciliano, che gli rinfacciava il ritardo con cui aveva deciso di abbandonare l’Esercito italiano, egli risponde: «Senti, gli dissi, cosa pretendevi, che i soldati italiani fossero disertori come te? Siamo scappati adesso perché l’Italia ha chiesto l’armistizio, altrimenti per conto mio non mi ero mosso di certo»[8]. In quarto luogo, dalla narrazione si coglie un’istintiva senso di repulsione verso i nazisti, tracotanti, crudeli e altezzosi, che poco avevano da spartire con chi aveva sempre coltivato valori di rispetto verso le persone, di solidarietà verso i propri simili, di fratellanza, di condivisione delle sofferenze con la popolazione con la quale si era venuto a trovare, suo malgrado, nella posizione di occupante. In un altro franco scambio di opinioni con il capitano degli andartes Bignì, che gli chiedeva come mai fosse scappato dal suo Reggimento da solo, Motzo così motivava la sa scelta:

 

Gli risposi che avevo fatto di tutto per convincere altri soldati a fuggire, ma che non era voluto venire nessuno perché si diceva che i partigiani li ammazzavano”. “E allora tu perché sei fuggito?”. “Io non davo retta a queste chiacchere, e poi pensai, che se anche mi ammazzavate, se non altro il mio fucile non sarebbe caduto in mano ai tedeschi[9].

Infine è da considerare un’ultima ragione, ma non per questo la meno importante: l’istinto e la volontà di voler salvare a tutti i costi la pelle.

Il primo impatto con i partigiani dell’E.L.A.S. non fu del tutto rassicurante: si trattava di bande di combattenti costretti a operare nelle zone montagnose, poco curati nella persona, dall’aspetto selvaggio, con barba e capelli lunghi e disordinati, mezzo scalzi, con gli abiti a brandelli. Più briganti che soldati, insomma: questa fu la prima impressione.

 

Li trovammo [i partigiani] in attesa nascosti nel letto di un fiume disseccato, a prima vista mi sembrava di sognare, erano una trentina di uomini, tutti con la barba lunga fino alla cintola, i capelli lunghi da arrivare fin sopra le spalle, anzi qualcuno li aveva annodati dietro la nuca, chi mezzo scalzo e chi scalzo del tutto, con le giberne a cinta, una alla vita e due incrociate nelle spalle e sul petto, con infilati i caricatori, da dove si potevano contare le cartucce da lontano, tutto ciò componeva un quadro spaventevole, e come per completarlo si vedevano i pugnali col manico e fodero di ottone, ben lavorati, infilati nelle cinture. Non appena li vidi, nel momento, quasi mi pentii di quanto avevo fatto[10].

Una volta inserito negli organici della Resistenza iniziarono gli spostamenti continui e i primi concreti pericoli. Il primo fu il rischio da lui corso di essere linciato dalla popolazione del villaggio che alla fine di agosto era stato incendiato dalle truppe italiane durante i rastrellamenti, cui egli aveva partecipato. L’ardimentoso e astuto comandante, il quale «da uomo fuori legge che era, era diventato capitano»[11], lo salvò, sottraendolo a quelle «mani che sembravano artigli»[12] che si protendevano verso di lui, essendo riuscito, scrive l’Autore, «a dominare l’ira di quella folla, che con molta ragione si era scagliata verso di me»[13]. La folla non poteva sapere che egli era stato l’unico soldato italiano che non aveva appiccato il fuoco alle case.

Giunto presso il Comando di Divisione partigiano, che aveva sede, come s’è detto, nel grosso borgo montano di Karpenisi, il protagonista s’imbatté in altre interessanti sorprese. Anzitutto la scoperta che delle bande partigiane facevano parte «sette ragazze vestite da uomo e armate come noi»[14]. In secondo luogo il sostegno incondizionato delle popolazioni montanare alla lotta partigiana, per cui, egli commenta con fine ironia, «o per amore o per forza tutti erano comunisti»[15].

A Karpenisi inizia per il protagonista la lotta armata contro i tedeschi e la narrazione diventa, da questo momento, particolarmente avvincente, anche se le indicazioni di tempo e soprattutto di luogo sono spesso generiche, per cui non è facile individuare esattamente tutte le località che furono teatro della guerra partigiana.

 

Il primo agguato vittorioso delle forze partigiane contro i tedeschi, cui il Motzo partecipò, avvenne nelle gole delle montagne intorno a Karpenisi e l’azione consisteva nel sabotaggio di ponti e di vie di comunicazione. Dopo quattro ore di scontro, combattuto da ambe le parti con un accanimento indescrivibile, i tedeschi si ritirarono, lasciando sul posto diversi mezzi motorizzati, cinque o sei morti, diversi feriti che furono finiti sul posto e cinque prigionieri che di lì a qualche giorno furono fucilati. Nello scontro, scrive l’Autore pieno di ammirazione, «le sette ragazze […] si batterono con un accanimento indescrivibile»[16]. L’episodio avvenne intorno alla metà di dicembre 1943. Occorreva attendersi la risposta del nemico, che avrebbe organizzato un rastrellamento in grade stile con l’impiego di oltre tremila uomini. Era necessario spostarsi in località montane più sicure. Il 20 dicembre la banda partigiana partì e all’atto della partenza si aggregò al gruppo un nuovo ardimentoso andartes sardo, Costantino Biasetti di Tiana[17], proveniente anch’egli dal 43° Reggimento “Forlì”.

Gli spostamenti comportavano lunghi tragitti di alcuni giorni, senza potersi fermare neanche di notte, in condizioni atmosferiche proibitive per la pioggia, il fango, la neve, le temperature proibitive, con diversi componenti ancora vestiti con indumenti estivi, senza cibo e mezzo scalzi. Ciononostante tra i partigiani si registrava un clima allegro. «I sacrifici – scrive l’Autore – erano immensi, ma la comitiva era sempre allegra. Le sette partigiane marciavano davanti a noi e non si davano un minuto di riposo, per voler giungere al più presto possibile dove era il nemico»[18].  Dopo due giorni di strada, la sosta in un piccolo paese, poi il posizionamento strategico sulla cresta di una «montagna altissima»[19]. La direzione di marcia, a quando è dato desumere dalle rare indicazioni topografiche, era verso le montagne dell’Epiro meridionale, in direzione della città di Giànnina. Lo scontro con i tedeschi, «tre o quattromila, circa 50 per ognuno di noi»[20], commenta l’autore, fu favorevole ai partigiani, che però erano privi di rinforzi e senza viveri. Furono costretti ad abbandonare la posizione favorevole sulla sommità della montagna per paura di un accerchiamento da parte delle rilevanti forze nemiche. Dopo mezza giornata di strada la banda partigiana riceve il contrordine di riprendere la precedente posizione. «Eravamo due giorni senza mangiare – scrive l’Autore – e se non fosse per il desiderio di batterci con quei cani, nessuno avrebbe pensato a eseguire quell’ordine»[21]. I morsi della fame non erano più sopportabili e il gruppo decise di scendere a valle, nel paese, dove furono accolti dagli abitanti che li distribuiscono tra le famiglie per sfamarli. Una fatale imprudenza, l’aver lasciato la periferia del piccolo centro montano senza una pattuglia di guardia, chiuse i partigiani in una trappola. Era trascorsa poco più di un’ora quando la campana del paese suonò a martello: i tedeschi erano tornati in forze. Era una notte buia e ognuno si salvò come poté, guadagnando di nuovo la montagna. Nico Motzo dovette ricorrere a uno dei suoi gesti di astuzia per ingannare il soldato tedesco che lo teneva di mira e avere salva la vita. Finalmente all’alba riuscì anch’egli a guadagnare la cresta della montagna. Due partigiani mancavano all’appello. Li avrebbero trovati qualche giorno dopo impiccati dai tedeschi nella piazza del paese. Una giovane ragazza, responsabile della delazione che aveva consentito la cattura dei due impiccati, sarebbe stata sottoposta dalla giustizia partigiana a un supplizio orrendo[22].

Mentre il gruppo è sotto il tiro delle armi tedesche, per non morire di fame, un partigiano ateniese e il sardo di Tiana vanno alla conquista del cibo, rendendosi protagonisti di un’impresa temeraria ma necessaria: riescono a dirottare verso le postazioni dei compagni un gregge di capre, in mezzo al fuoco rabbioso dei tedeschi: «Le capre che portarono – scrive il Motzo – erano 32, ne toccava una per ogni tre partigiani. Come lupi, subito le ammazzammo […] Preparammo dei fuochi e potemmo arrostire la carne e sfamarci un pochino, togliendoci quelle tenaglia che ci stringeva lo stomaco»[23]. Questo episodio si verificò alla fine di dicembre del 1943. La banda partigiana continuò nei suoi spostamenti. Il 1° gennaio 1944 giunse ad Agnanda, presso il fiume Aspropotamo, l’antico Achelòo della mitologia greca, dove i partigiani dovevano montare la guardia al celebre ponte di Plaka, il generale Adolfo Infante[24].

Prima di narrare la vicenda bellica relativa alla difesa di quel ponte, l’Autore inserisce, in una lunga parentesi, il racconto relativo al generale Adolfo Infante e al colonnello Giuseppe Berti. Si tratta di un inciso di notevole importanza per comprendere la visione complessiva dell’Autore in merito a tutta la campagna di Grecia. Il generale Infante, che era accompagnato da un capitano e da un sergente, quando incrociò la banda partigiana di cui faceva parte il Motzo, era diretto verso la costa occidentale dell’Albania, nel tentativo di rientrare in Italia. Come correttamente riconosce il Motzo, il generale Infante al momento della firma dell’Armistizio comandava in Tessaglia la 24a Divisione di Fanteria “Pinerolo”. Insieme con la Divisione “Pinerolo” era anche il 6° Reggimento Lancieri d’Aosta, comandato dal colonnello Giuseppe Berti. Differentemente da quanto era avvenuto per la grande maggioranza dei reparti dell’Esercito italiano in Grecia, che avevano ceduto le armi ai tedeschi e subito dopo erano stati internati nei campi di concentramento in Germania, il generale Infante e il colonnello Berti il 12 settembre 1943, grazie alla mediazione della Missione Militare Britannica, erano riusciti a stipulare un accordo di collaborazione con le formazioni partigiane dell’E.L.A.S. A partire dal 15 settembre oltre 8.000 uomini provenienti dalle due suddette unità si rifugiarono sulle montagne del Pindo e organizzati in un Reggimento denominato  T.I.M.O. (Truppe Italiane Macedonia Orientale), furono utilizzati in operazioni contro i tedeschi. Già addetto militare nelle ambasciate di Londra e di Washington, il generale Infante vantava buoni rapporti con la Missione alleata. «Il generale Infante – secondo la ricostruzione del Motzo – fu l’unico, il più in gamba degli ufficiali superiori, che assieme al colonnello Berti Giuseppe, comandante del Reggimento di Cavalleria (6° Lancieri d’Aosta), sfuggissero al disarmo dei tedeschi»[25]. Tuttavia, a partire dall’ottobre 1943 i reparti della “Pinerolo” e del 6° Lancieri d’Aosta furono man mano privati delle armi dai partigiani dell’E.L.A.S. e internati in campi di prigionia, nei quali molti soldati morirono di fame e di stenti. Di fronte alla protesta del generale Infante e del colonnello Berti presso la Missione Militare Britannica, si ottenne solamente che gli inglesi avrebbero provveduto al sostentamento dei soldati e che un piccolo numero di essi sarebbe stato impiegato in qualche azione di sabotaggio contro le truppe tedesche. La condizione d’internamento non subiva però sostanziali modifiche. Tra le altre cose è opportuno ricordare che in questa fase i rapporti tra la Missione Britannica e le altre due organizzazioni partigiane non comuniste dell’E.D.E.S. e dell’E.K.K.A. con l’E.L.A.S. non erano delle migliori, anche se numerosi soldati furono distribuiti presso le famiglie greche per lavori agricoli e pastorali, con la garanzia che i britannici avrebbero pagato il sostentamento. In questa situazione, grazie all’intermediazione britannica, nel giugno 1944 il generale Infante accettò di farsi rimpatriare, mentre i suoi soldati furono costretti a rimanere in Grecia[26]. Per questo motivo il colonnello Berti, giocando sull’assonanza del nome, bollava il generale Infante come “Infame”. Il colonnello Berti non aveva voluto accettare il rientro in patria prima che fossero stati liberati i suoi soldati e per questo soffrì anche una lunga prigionia. È evidente che in questa vicenda, ancora non studiata a fondo dalla ricerca storica, si scontravano due mentalità: contrapposte. Da una parte stava un militare e politico navigato e prammatico come il generale Infante, e dall’altra il colonnello Berti, per il quale i valori irrinunciabile per un militare era l’onore, il senso del dovere e la diretta responsabilità verso i soldati a lui affidati. Questi valori avrebbero dovuto spingere il generale a rifiutare il rimpatrio se prima non fossero stati rimpatriati i suoi soldati. Il Motzo sta senza tentennamenti da parte del colonnello Berti. Ironia della sorte, lo diciamo per inciso, nell’immediato dopoguerra sarà proprio il generale Infante a firmare la lettera di riconoscimento a Nico Motzo della medaglia al valor militare!

Il seguito del racconto, incentrato sullo scontro con i tedeschi lungo la vallata del fiume Aspropotamo, presso il ponte di Plaka, assume toni veramente epici, che delineiamo nei suoi momenti essenziali per lasciare interamente al lettore di gustare nella sua genuinità il racconto. Nel corso di questo scontro si ebbe il ferimento del tenente Micio, comandante della squadra partigiana; la morte di due componenti del gruppo, che avevano scelto come nome di battaglia gli pseudonimi di Thànatos e Pòlimos e l’eroico tentativo fatto da Nico Motzo di salvare quest’ultimo. Sarà proprio questo gesto eroico a contribuire in modo determinante a fargli assegnare la medaglia d’argento al valor militare. Non solo, ma in quello stesso scontro, avvenuto il 4 gennaio 1944, l’Autore, come egli scrive, ebbe la sua parte: «Una pallottola esplosiva mi prese di striscio la nuca e contemporaneamente mi attraversò la spalla sinistra uscendone dal braccio»[27]. Riesce provvidenzialmente a ruzzolare dentro una pozza d’acqua e a fasciare con una gambiera la ferita della testa; quindi si dispone ad attendere la morte: «I tedeschi avanzavano fin vicino dov’ero io. Attendevo la mia ultima ora. Ero certo che mi avrebbero trovato e finito dentro quel buco che mi sarebbe servito per l’eternità. Ma prima ci sarebbe stato qualche conto da regolare»[28].

Fu questo, com’è ovvio, l’episodio che s’impresse maggiormente nell’animo del protagonista ed egli l’ha raccontato anche in anni recenti in prosa e in versi, in schietto sardo bolotanese.

Deo so istadu feridu – egli scrive nel suo ultimo racconto della vicenda, affidato nel 2012 all’introduzione premessa alla recente edizione della raccolta delle sue poesie -, ca fia chircande de ponnere in sarbu unu partiganu, cun d’una cossa abberta dae una balla esplosiva. Non fini pius isparande e apo decisu de mi lu garrigare in palas, ca timìa, chi sos tedescos esseren beninde pro finire s’opera, ca non faghian presoneris. Apo fattu male sos contos! Cando mi han bidu, ana torradu a isparare, hapo intesu a Polimos (sopranumene ’e gherra) chi ha lassadu de si mantennere e mi so sapidu chi fit mortu, l’apo postu in terra.

Su nemigu fidi ancora attentu e hada abbertu su fogu de sa mitraglia contra a mie. Una balla mi es bintrada in palas e bessida in su bratzu, chentza mi faghere perunu dannu; un’attera pro fortuna est’iscoppiada accurtzu, faghindemi in conca, una bella ferida in su ’attìle e prenindemi de ischeggiasa. Duas ballas intelligentes, ca non mi hana mortu; hapo trouladu in d’unu palinzu e ruttu che so in d’unu corovozu fattu dae s’abba; custu es bistadu su riparu dae sas ballas, chi sighian a fruschiare chentza mi ferrere. Zughia su fusile a tracolla ma non mi nde fia sapìdu. Sa poesia intitulada “Sa mama ’e su partigianu” còntada de su bellu momentu»[29].

E in un’intensa rievocazione poetica, quarantacinque anni dopo, ricordando quei terribili momenti, nel 1998 egli avrebbe scritto, con il pensiero rivolto alla madre:

Fidi una die fritta, mala ’e zerru,

de abba, ‘entu e unu corovozu,

chi mi pariada bennidu a s’abbozu:

pro mi sarbare dae cussu inferru.

Cando in cussu palinzu, troulande,

che so ruttu a intro mi pariada,

chi l’haere mandadu mamma mia:

ca solu a issa mi fia invocande.

[…]

Sas ballas colaian fruschiande:

minettosas chircande onzi cuzone,

deo fatza a terra in cuss’angrone:

cun sos pagos istrazzos tricchiande.

Cun’abba e sambene ’uttiande,

a unu potzigheddu chi bi haiada,

ei sas bumbullicas chi faghiada,

fin’ogros lastinosos pompiande.

[…]

Abbaidande cussu corovozu,

mi nesi, ses bistadu fortunadu.

Es mamma mia chi mi l’ha mandadu,

ca tenia bisonzu e cussu appozu.

Pustis de duos annos de traschias,

chentza tenner de me perun’indissiu,

in manu sempre tzughiada s’uffitziu,

pro s’invocare a Deus e Maria [30].

Dopo tre lunghe ore di attesa i tedeschi iniziano la ritirata. Riesce, con uno sforzo estremo dettato «dal desiderio dell’odio e della vendetta»[31] ad abbattere il soldato tedesco che azionava la mitragliatrice. Attira l’attenzione dei compagni che lo cercavano tra i morti. Salvatosi miracolosamente, viene medicato ad Agnanda, però necessita il ricovero in ospedale. In compagnia di altri sei compagni feriti, inizia la lunga rincorsa dell’ospedale da campo, che si sposta continuamente. Riescono finalmente a raggiungerlo il 7 gennaio, dopo tre giorni di cammino, a Nikova. Grazie alla generosità del suo comandante di squadra, il tenente Micio, anch’egli ferito, viene affettuosamente ospitato dalla famiglia di lui a Stylida, a est di Lamìa, sul Golfo dell’Eubea, dove avrebbe dovuto trascorrere un mese di convalescenza. In pratica i due feriti hanno percorso un lungo tragitto, febbricitanti e sfiniti dalla fatica, tornando a ritroso dalle montagne dell’Epiro orientale verso i luoghi donde l’Autore era partito l’11 settembre 1943, dopo essere stato nascosto nella città di Lamìa dall’amica greca, impiegando 9 lunghi giorni di viaggio. «Stilida – egli scrive – era quasi una cittadina, con un panorama bellissimo, aveva ai piedi il mare e subito dopo alle spalle la montagna. Alla sinistra si estendeva una pianura di ulivi, frutteti e agrumeti, ricca di pesca, e di vini squisiti. Per me, dopo tanti mesi di continui sacrifici, era un paradiso»[32]. Qui un medico gli presta le cure necessarie, estraendogli anche una scheggia dalla testa. Rimessosi in sesto, familiarizza con gli abitanti e per non essere di aggravio eccessivo alla famiglia ospitante, inizia a fare qualche piccolo lavoro nelle vigne, improvvisandosi potatore di pergolati. «I Greci – scrive – restavano ammirati per come facevo bene i pergolati alla sarda e tutti mi cercavano e restavano molto contenti del mio lavoro»[33]. Ma anche a Stylida, nella Greca ormai interamente occupata dai nazisti e con un movimento partigiano attivo su tutti i fronti, non vi era sicurezza.

Il 13 febbraio 1944, a seguito di una soffiata fatta probabilmente dallo stesso medico che curava sia il tenente Micio che Nico Motzo, i tedeschi circondano la cittadina per dare loro la caccia. Si salvano entrambi fortunosamente. La rappresaglia tedesca fu immediata: incendiarono le case e impiccarono nella piazza il capo locale dei comunisti. Nico e il tenente Micio trovarono rifugio, ancora una volta, sui monti, questa vola ospiti per dieci giorni dei monaci del monastero di San Giorgio. Essendo terminato il periodo della licenza di convalescenza, entrambi rientrano al Comando dell’organizzazione partigiana a Karpenisi e il 5 marzo l’Autore è di nuovo in servizio, addetto alla custodia del carcere locale.

Le posizioni acquisite dalle diverse sigle della Resistenza nelle zone montuose dell’interno, tra l’Epiro, la catena del Pindo, la Macedonia e la Tessaglia, erano molto solide. L’E.A.M. / E.L.A.S. in questi mesi in cui anche i tedeschi andavano man mano ritirandosi, avevano costituito una sorta di Stato nazionale indipendente ben organizzato, basato su principi democratici e con un sistema giudiziario ben strutturato. Proprio nel marzo 1944 nei territori già liberati denominati “Grecia Libera”, l’E.A.M. / E.L.A.S. davano vita a un Comitato Politico di Liberazione Nazionale (P.E.E.A.) che aveva come finalità la prosecuzione della lotta per la liberazione di tutto il territorio nazionale dai nazisti e l’amministrazione dei territori liberati. «Dopo la creazione del P.E.E.A. – scrive Rosario Aprile – l’autoamministrazione si fece strada rapidamente. In tutta la “Grecia Libera” furono eletti “Comitati amministrativi e giudiziari locali”, mentre avvocati e giuristi elaboravano rapidamente il “Codice dell’amministrazione e della giustizia”»[34].

Nella “Grecia Libera” Nico Motzo visse gli ultimi mesi della sua militanza tra le forze armate della Resistenza dell’E.L.A.S. Del funzionamento degli ordinamenti dello Stato partigiano egli ci offre un’immagine viva, descrivendo con ammirata partecipazione l’adesione della popolazione, l’inflessibile giustizia partigiana, le azioni di rappresaglia contro le truppe tedesche, ma anche la crudeltà delle esecuzioni e l’immotivata sete di sangue di qualcuno dei capi degli andartes. Gli ultimi mesi trascorsi tra i partigiani dell’E.L.A.S. furono anch’essi densi di avvenimenti e di pericoli, in una fase in cui, con l’avanzata progressiva delle truppe alleate su tutti i fronti, le forze tedesche, costrette alla ritirata lenta ma inesorabile, divennero ancora più crudeli nei confronti delle popolazioni civili.

Nel nuovo incarico di custode del carcere di Karpenisi l’Autore ha maggiore facilità di incontrare italiani, prigionieri dell’esercito partigiano o in stato di libertà; tra essi anche qualcuno che aveva fatto parte della Divisione “Forlì”. Tra i prigionieri era presente anche un sardo, certo Gibellini di Nuoro, che egli s’impegnò a liberare dalla cattività e a farlo assumere in una famiglia privata come custode del bestiame. In quegli stessi mesi visse anche l’esperienza di essere inserito nel plotone di esecuzione incaricato di giustiziare i condannati giudicati dal tribunale partigiano. Come in precedenza, quando era dalla parte degli occupanti, riuscì a non prendere materialmente parte alle esecuzioni.

Qualche tempo dopo il Comando partigiano e tutti gli abitanti furono costretti ad abbandonare Karpenisi per l’avanzata dei tedeschi, i quali, con l’appoggio dell’aviazione, riuscirono a impadronirsi dell’importante centro montano e lo distrussero completamente. Inseguiti dalle truppe tedesche i partigiani con tutti i prigionieri si rifugiarono nelle montagne epirote dell’Àgrafa, l’antico Pindo della mitologia, nel paese di Paliocastro, non molto distante da Giànnina.

 

Nel periodo di permanenza a Karpenisi il Motzo aveva ritrovato, tra i prigionieri del carcere, insieme ad altri prigionieri italiani, il colonnello Giuseppe Berti, che, come sappiamo, egli ammirava moltissimo. Ebbe con lui lunghi colloqui durante i quali apprese, tra l’altro, che il colonnello aveva frequentato la scuola di guerra insieme a Leonardo Motzo, il celebre comandante della Compagnia d’Assalto della “Brigata Sassari” sulla Bainsizza nel 1917, pluridecorato e zio di Nico[35]. Questi a sua volta raccontò al colonnello la sua avventura tra i partigiani dell’E.L.A.S. e il suo ferimento in battaglia. Il colonnello promise il suo interessamento per fargli assegnare, quando fosse rientrato in Italia, o la promozione ad “aiutante di battaglia” o la medaglia d’argento al valor militare. Invitato a scegliere il Motzo scelse quest’ultima e il Berti fu di parola, anche se la comunicazione del riconoscimento dell’onorificenza nel 1946 l’avrebbe firmata il generale Infante, primo aiutante di campo del Luogotenente del Regno Umberto di Savoia. Nei mesi successivi il Comando partigiano tentò di incriminare il colonnello Berti per crimini di guerra, ma fu la stessa popolazione delle montagne della Tessaglia a salvare il comandante del 6° Lancieri d’Aosta dal plotone di esecuzione. Come racconta l’Autore, il Berti venne portato in giro per i paesi dove avevano operato il 6° Lanceri e la Divisione “Pinerolo”, accompagnato dai componenti di una Commissione mista di partigiani dell’E.L.A.S. e di rappresentanti anglo-americani per verificare se quelle popolazioni avessero riconosciuto in lui il comandante che si era reso colpevole dell’esecuzione di civili. In uno di questi paesi, racconta il Motzo,

Ci fu una manifestazione in suo favore. Si trattava di parecchi uomini che un giorno, mentre un battaglione del colonnello si trovava in rastrellamento, furono presi prigionieri e portati al Comando di Divisione, dove li trattennero diversi giorni. Il generale comandante della Divisione diede ordine di fucilarli ma il colonnello si oppose e anziché fucilarli li mise in libertà. Furono proprio questi a salvarlo dalle gravi accuse di crimine di guerra. Così dopo che la Grecia fu libera dai tedeschi e che tutti i soldati italiani erano già rientrati, come era suo desiderio di partire per ultimo dalla Grecia, poté tornare in Italia[36].

Attorno alla prima metà di ottobre 1944 le truppe tedesche avevano completamente abbandonato il suolo ellenico. Georgios Papandreu, che era a capo del governo greco in esilio, il 18 ottobre 1944 insediava ad Atene un governo di unità nazionale. La Grecia era finalmente diventata un Paese libero.(4. Continua)


[1] Ivi, p. 134.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p. 135.

[4] Per questo motivo il generale Francesco Antonio Arena (1889-1945) fu internato in Polonia e nel gennaio 1945 fu ucciso dai russi mentre tentava la fuga.

[5] Memorie, pp. 138-39.

[6] Sull’eccidio delle truppe italiane a Cefalonia e nelle altre Isole dello Jonio, su cui nelle Memorie si trova solo un rapido cenno, la bibliografia è assai copiosa. Oltre alla filmografia, trasmissioni televisive e siti Internet dedicati all’evento, ricordiamo: A. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953; G. Rochat, M. Venturi, La Divisione Acqui a Cefalonia, Milano, Mursia, 1993; A. Caruso, Italiani dovete morire, Milano, Longanesi, 2000; P. Paoletti, I traditi di Cefalonia e I traditi di Corfù, Genova, Frilli, 2003; G. E. Rusconi, Cefalonia, Torino, Einaudi, 2004.

[7] Su Giuseppe Sassu, vedi, Memorie, pp. 108-109 nota 33; su Costantino Sechi, ivi, p. 137 e nota 90.

[8] Memorie, pp.140-41.

[9] Ivi, p. 142.

[10] Ivi, pp. 141-42.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 143.

[14] Ivi, p. 144.

[15] Ivi, p. 145.

[16] Ibidem.

[17] Piccolo paese della Barbagia in provincia di Nuoro.

[18] Ivi, p. 147.

[19] Ibidem.

[20] Ivi, p. 148.

[21] Ibidem.

[22] Cfr. ivi, pp.155-56.

[23] Ivi, p. 151.

[24] Cfr. ivi, pp. 152-53; cenni biografici sul generale Infante, ivi, nota 118.

[25] Ivi, p. 153.

[26] «Al termine del disarmo – scrive Pasquale Iuso – la posizione del generale Infante, accusato di essere vicino alla componente monarchica della resistenza e accusato di voler trasferire nelle zone di attività di questi gruppi partigiani l’intera forza della “Pinerolo”, divenne particolarmente critica. Le missioni alleate, non potendo garantire la sua incolumità, lo convinsero a rimpatriare, superando la sua resistenza ad abbandonare truppe e uomini. Accompagnato da ufficiali alleati a piedi raggiunse l’Albania e da lì, con un peschereccio battente bandiera americana, Brindisi. In Italia fu nominato sotto capo di Stato Maggiore presso il Comando Supremo e poi primo aiutante di campo del futuro re Umberto II» (P. Iuso, Esercito, guerra e nazione. I soldati italiani tra Balcani e Mediterraneo orientale 1940-1945, cit., p. 275 e nota 40, con i riferimenti bibliografici ivi citati).

[27] Ivi, p. 159.

[28] Ivi, p. 160.

[29] N. Motzo, Dedicadu a chie ha gana de mi connoschere, in Ammentos de vida. Poesie di Nicheddu Motzo, 7a edizione “Rimas in limba” a cura dell’Associazione Culturale e Folclorica “Ortachis”, Tipografia Centro Grafica Bolotana, luglio 2015, p. 11. «Io sono stato ferito perché stavo tentando si mettere in salvo un partigiano che aveva una coscia squarciata da una pallottola esplosiva. Avevano cessato il fuoco ed io ho deciso di caricarmi sulle spalle il ferito perché avevo paura che i tedeschi stessero arrivando per finire l’opera: non facevano prigionieri. Ho fatto male i conti! Quando mi hanno visto hanno ripreso a sparare; ho sentito Polimos (è il soprannome da combattente) che ha smesso di mantenersi a me e mi sono accorto che era morto. L’ho deposto per terra. Il nemico era ancora vigile e ha aperto il fuoco contro di me con la mitragliatrice. Una pallottola mi è entrata nella spalla ed è fuoruscita dal braccio, senza farmi alcun danno; un’altra, per fortuna, è esplosa vicino, facendomi una bella ferita sul collo e riempiendomi di schegge. Due pallottole intelligenti perché non mi hanno lasciato stecchito. Ho rotolato nella china e sono caduto in un pozzetto pieno d’acqua, che mi ha protetto dalle pallottole che continuavano a fischiare senza colpirmi. Avevo il fucile a tracolla ma non me n’ero accorto. La poesia intitolata La mamma del partigiano raccolta questo momento tragico» (traduzione  nostra).

[30] N. Motzo, Sa mama de su partigianu, in Id., Ammentos de vida, cit., pp. 26-28. «Era una fredda giornata ‘inverno, acqua e vento; [mi sono imbattuto] in una pozzanghera che mi sembrava fosse venuto in mio soccorso per salvarmi da quell’inferno. Quando, rotolandomi in quella china, sono caduto in un pozzetto pieno d’acqua, mi pareva che l’avesse mandata mia madre, perché pregavo solo lei. // Le pallottole passavano fischiando, minacciose, frugando ogni angolo; io stato faccia a terra in un angolino con i pochi stracci zuppi. // Gocciolavano sangue ed acqua dentro una pozzanghera che era lì e le bollicine cha faceva sembravano occhi pietosi intenti a guardare. // Guardando quel piccolo pozzo dicevo a me stesso: “Sono stato fortunato. Me l’ha mandato mia madre perché ero in pericolo e avevo bisogno di aiuto”. // In due anni di traversie, senza avere di me alcuna notizia, teneva sempre in mano il libro delle preghiere per pregare Dio e la Vergine» (traduzione nostra)

[31] Ivi, p. 160.

[32] Ivi, p. 166.

[33] Ibidem.

[34] R. Aprile, Storia della Grecia moderna, cit., pp. 265-266.

[35] Per un profilo biografico del generale Leonardo Motzo (1895-1971), rimandiamo a L. Carta, Bolotana nella Grande Guerra, Bolotana, Tip. Centro Grafica, 2017, pp. 142-175.

[36] Memorie, p. 177.

 

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