Dal collegio a Casa Savoia la folgorante carriera di Manno Senza «esteriore grandezza», di SALVATORE TOLA

Studente a Cagliari, fu impressionato dall’esempio degli uomini famosi che avevano «ricusato ogni pompa» e «percorso a piedi tutta quella via».

 

Il barone Giuseppe Manno (che era nato ad Alghero nel 1786) è ricordato soprattutto per la «Storia di Sardegna», guardata come esemplare dagli storici sardi delle generazioni successive. Ma si occupò anche di altri argomenti, in numerose opere, in particolare di etimologia e di linguistica: il saggio «Della fortuna delle parole», che gli aprì le porte dell’Accademia della Crusca, ebbe un grande successo e numerose edizioni, nell’arco di più di un secolo. Funzionario di Casa Savoia, magistrato e uomo politico di primo piano, era poco incline a parlare di sé; ma nel 1839, spinto da una pia società sorta per aprire una scuola per sordomuti, si decise – per offrirlo in beneficenza – a pubblicare un libro nel quale raccoglieva i ricordi degli anni che aveva trascorso a Cagliari, nel collegio detto «dei nobili»: dai nove fino ai diciotto, quando aveva conseguito la laurea in Leggi.

Nell’introduzione spiega che si era servito delle pagine che aveva scritto allora per prendere nota di «quello che andavagli passando per l’anima», e poterne poi dare «rendiconto» ai genitori e avere «quasi il conforto di un colloquio con esso loro». E così lungo le pagine dell’operina, che s’intitola «Il giornale di un collegiale», si rivolge ogni tanto al padre, qualche volta anche alla madre. Il primo elemento che emerge è la nostalgia per la sua città, Alghero. Già nel viaggio verso Cagliari, durato ben quattro giorni, aveva iniziato a parlarle da lontano, rivelando che rimpiangeva «le alture di Scala Vicada », e poi «la cima incappellata da nubi del tuo Montidoglia e quel promontorio della Caccia»; anche perché «da quella sommità di montagna e da quella punta di terra poteasi vedere la casa dei miei maggiori».

Di sé fa cenno spesso in tono ironico: ricorda al padre che i giudizi dei superiori non lo spingevano sino al «bravissimo» ma lo collocavano nella «positura di passabilmente bravo». Racconta poi di come si era dedicato a letture non previste dai programmi. Della «Divina Commedia» prima di tutto: procedeva a fatica, perché il testo era privo di note, ma quel poco che capiva «basta», spiegava «perché io trovi schiuso avanti a me un altro mondo intellettuale, nel quale questo mondo materiale è condotto a quella perfezione che dee pur esservi». Il libro era di proprietà di un compagno poco appassionato alla lettura, e così due opere più moderne: «Ossian» del poeta scozzese Macpherson (tradotta da Melchiorre Cesarotti) e la «Basswilliana» di Vincenzo Monti. Il giovane Manno desiderava averle tutte e tre, per «accrescere… la povera mia biblioteca»; e per convincere il proprietario – al quale piacevano «più i pani che i circensi» – a cedergliele, gli passò per più giorni, condannandosi a una «durissima privazione», la sua colazione.

Per quanto bravo – ma forse proprio perché bravo – era insofferente verso le esercitazioni formali in uso a quei tempi. Come le «sabbatine», riunioni di alunni e docenti che si tenevano – di sabato, appunto – per discutere argomenti consumati dal tempo servendosi di sillogismi: «In mezzo a tanto buio e tanta stranezza di formole», lamentava, «o non intendo niente di quanto mi s’insegna, o quel poco che giungo ad intendere mi sembra troppo discosto dall’uso che io vorrei pur farne». Mario Ciusa Romagna, che ha curato l’ultima edizione del «Diario», ricorda a questo punto che anche Giovanni Spano ha criticato quei metodi: «Senza saper latino, e senza saper dialettica, dovevamo argomentare sopra le tesi… con sillogismi e con entimemi, come si costumava nella scuola di logica». In questa occasione il giovane Manno fece «mala prova», ma continuava ad essere considerato «una delle colonne della scuola». I docenti non si ricredettero neppure quando diede qualche prova di insubordinazione e anche di indisciplina. Combinò un paio di scherzi a un “prefetto” (un sorvegliante degli allievi) che rivelava ingenuità e scarsa conoscenza dell’italiano.

Una prima volta lo convinse che bisognava alzarsi, scappellarsi e dire un «Dio ti aiuti» a chi aveva un colpo di tosse, così come a chi starnutiva; i compagni avevano capito e si erano fatti prendere da ripetuti attacchi di tosse, e la povera vittima continuava a prodursi nella piccola cerimonia. Ancora peggio quando il prefetto si ammalò e, dovendo spiegare che avvertiva bruciore al centro del petto, chiese come si chiamava quella parte del corpo: Manno fu pronto ad approfittare e così il poveretto quando arrivò il medico gli disse, tra le risate generali, che avvertiva un dolore al tendine di Achille.

L’impresa per la quale il giovane collegiale rischiò l’espulsione avvenne nel periodo in cui la scuola si trovava in vacanza a Selargius: si unì a una schiera di compagni e lasciarono di notte la camerata, attratti in un primo momento dal chiaro di luna ma per finire poi, dopo alcuni vagabondaggi per le campagne circostanti, in una bottega di Pauli, oggi Monserrato, rinomata per la produzione dei pani di sapa. A distanza di anni Manno non rinnegava nulla di quegli anni lontani; se faceva il confronto «fra i primordii e la sequela della nostra vita», riflette nell’introduzione, «fra i pensieri di quel tempo e le cure presenti, fra la condizione di allora e la fortuna d’oggidì, fra i saggi giovanili e i fatti dell’uomo maturo» appariva evidente che «quell’uomo è nella società ciò che volle essere nel collegio». D’altra parte ci fu, in quel lontano periodo, un episodio che finì per precorrere l’avvio del suo prestigioso futuro di personaggio pubblico e di Stato: il 3 marzo 1799 il re Carlo Emanuele IV, costretto a lasciare gli stati di terraferma a causa dell’invasione napoleonica, arrivava a Cagliari per trovare rifugio insieme alla famiglia e alla corte.

I collegiali poterono assistere, e Manno provò una forte impressione; soprattutto perché era andato convinto che «quei grandi personaggi dovessero abbarbagliarmi gli occhi con oro, con gemme, con ogni maniera di esteriore grandezza», e invece avevano «ricusato ogni pompa» e avevano «percorso modestamente a piedi tutta quella via». Avvertiva già quella vicinanza che si sarebbe concretizzata qualche anno più tardi con la chiamata a un incarico, modesto ma primo gradino di una folgorante carriera.

L ANUOVA SARDEGNA 3 GENNAIO 2020

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