Rileggere Craxi (la storia). Rivedere Craxi (il film), di A. Carioti, L Ferrarella, P. Battista e S. Ulivi

A vent’anni dalla morte di Bettino Craxi (19 gennaio 2000) «la Lettura» ha chiamato a discutere di lui tre storici: Roberto Chiarini, presidente della Fondazione Craxi dal 2009 al 2014; Silvio Pons, presidente dell’Istituto Gramsci; Giovanni Scirocco, vicedirettore della «Rivista Storica del Socialismo».

 

A vent’anni (19 gennaio 20009 dalla scomparsa del segretario socialista, tre storici si confrontano sulla sua opera. Chiarini: sfidò l’egemonia comunista e cercò di superare la paralisi italiana, ma poi si arrese al piccolo cabotaggio. Pons: innovatore di ampio respiro in politica estera, sul piano interno rimase prigioniero del vecchio sistema. Scirocco: accentrò il partito e non riuscì a sfondare elettoralmente. Fino a Tangentopoli e all’autoesilio di Hammamet. In  LA LETTURA, 1 dicembre 2019

 

A vent’anni dalla morte di Bettino Craxi (19 gennaio 2000) «la Lettura» ha chiamato a discutere di lui tre storici: Roberto Chiarini, presidente della Fondazione Craxi dal 2009 al 2014; Silvio Pons, presidente dell’Istituto Gramsci; Giovanni Scirocco, vicedirettore della «Rivista Storica del Socialismo».

 

Che leader è stato Craxi? Un socialista modernizzatore o un caso di potere personalistico? Un precursore di Tony Blair o di Silvio Berlusconi?

GIOVANNI SCIROCCO — La questione non può essere posta in questi termini. Craxi appartiene senz’altro alla tradizione socialdemocratica. Era un anticomunista, ma convinto che il capitalismo, nelle sue forme più aggressive, dovesse essere temperato. Come il suo maestro Pietro Nenni, s’ispirava al motto politique d’abord, la politica innanzitutto. Quindi molta attenzione alla tattica, meno alla strategia e agli aspetti ideologici. Non aveva la vocazione intellettuale di altri leader del Psi come Francesco De Martino e Riccardo Lombardi: spesso nello scrivere i suoi testi ricorreva all’aiuto di studiosi, quali Luciano Pellicani e Virgilio Dagnino. Però conosceva il valore politico delle battaglie culturali, in un sistema mediatico ben diverso da quello attuale. Per valutare la sua leadership bisogna esaminare diverse fasi.

Proviamo a riassumerle.

GIOVANNI SCIROCCO — Eletto segretario nel 1976 grazie all’alleanza con la sinistra lombardiana, Craxi al Congresso di Torino del 1978 presenta un progetto per l’alternativa socialista. Nello stesso anno pubblica Il vangelo socialista, il «saggio su Proudhon» che in realtà è una critica del leninismo. Poi nel 1981 viene eletto presidente in Francia il socialista François Mitterrand, sulla base di un programma comune con i comunisti che però si rivela presto inapplicabile. Nel contempo Craxi, al Congresso di Palermo, abbandona l’alternativa e sceglie la governabilità, cioè l’alleanza con la Dc, con una forte accentuazione del suo ruolo di leader. Nel 1982 si tiene la conferenza di Rimini, dove il Psi sposta l’attenzione dal lavoratore al cittadino e al consumatore, in nome di «meriti e bisogni». Si usciva dagli anni di piombo e la nave tornava ad andare, per usare un altro slogan di Craxi, che l’anno dopo sarebbe diventato capo del governo, mentre Silvio Berlusconi accresceva le sue fortune imprenditoriali.

ROBERTO CHIARINI — Aggiungo che Craxi già negli anni Cinquanta matura un forte rigetto del comunismo di marca sovietica e una volontà di reagire al predominio del Pci sulla sinistra. Inoltre è espressione del socialismo riformista milanese, che ha molta più fiducia nei suoi mezzi rispetto ad altri settori del Psi (penso a figure come il suo predecessore De Martino), che di fatto accettano di essere gregari dei comunisti. Il Pci dal canto suo tende a relegare i socialisti in un ruolo subordinato, suscitando in loro, specie a livello periferico, un risentimento e un desiderio di riscatto sui quali Craxi riesce a fare leva. GIOVANNI SCIROCCO — Sì, questo dato psicologico è stato uno dei fattori più importanti del suo successo.

ROBERTO CHIARINI — Quanto al rapporto con Berlusconi, Craxi è un modernizzatore, ma resta un uomo di partito, legato alla tradizione novecentesca. E questo è un suo limite. Però avverte che la società sta cambiando. Claudio Martelli racconta che una sera Craxi ospitò riservatamente a casa sua il segretario comunista Enrico Berlinguer, che era accompagnato da Elio Quercioli, deputato milanese del Pci. A un certo punto Craxi uscì sul balcone con la scusa di fumare, portando con sé Quercioli. E gli disse, riferendosi a Berlinguer: «Ma questo qui è mai stato a Milano?». Il leader del Psi respira l’aria di una città che cresce, produce, si apre al mondo. È la tanto bistrattata «Milano da bere», che però aveva un dinamismo reale, con cui Craxi entra in sintonia. Quindi finisce per trovarsi sulla stessa lunghezza d’onda di Berlusconi.

SILVIO PONS — Il duello tra Pci e Psi colpisce per l’ostinazione dei contendenti, che porta entrambi alla disfatta. Berlinguer è uno sconfitto, ma lo è anche Craxi. E fallisce sul piano politico, a prescindere dalle vicende giudiziarie. Secondo me è legittimo chiedersi se Craxi sia l’anticipatore di Blair o di Berlusconi: in realtà c’è del vero in entrambe le definizioni, perché la sua opera politica è complessa, per certi versi contraddittoria. Comunque, per rispondere alla domanda, Craxi rimane nell’alveo del socialismo europeo. Anzi, il suo progetto è proprio riallineare il sistema italiano sulle coordinate dell’Europa occidentale, con una competizione tra socialisti e moderati che releghi i comunisti ai margini, come nella Francia di Mitterrand. Ne consegue la linea della governabilità adottata da Craxi nel 1981 e molto criticata: di certo è una visione minimalista, che non consente grandi iniziative di rinnovamento, ma io tenderei a rivalutarla. Per quale ragione?

SILVIO PONS — Perché cerca di rimettere in moto una democrazia bloccata, senza alternanza. Lo si vede nel 1981, quando Craxi chiede a Berlinguer di mostrarsi aperto verso la prospettiva di un governo a guida socialista, in cambio del riconoscimento della piena legittimità democratica del Pci. La proposta cade nel vuoto, perché i comunisti ritengono di non avere alcun bisogno di essere legittimati. Però dimostra che la strategia di Craxi, per quanto aggressiva verso il Pci, guarda a sinistra. Berlusconi invece appartiene a un’altra storia e l’idea che il leader del Psi gli abbia spianato la strada è dovuta alle peculiarità della situazione italiana dopo la fine della guerra fredda.

ROBERTO CHIARINI — L’episodio ricordato da Pons è molto significativo, perché in gioco c’era l’egemonia sulla sinistra. Berlinguer non poteva accettare che Craxi fosse il regista di un’operazione di sblocco del sistema con i comunisti a traino, perché vedeva nel Pci e nella Dc gli assi portanti della politica italiana. Era questo il senso del compromesso storico, rispetto al quale il Psi doveva essere un semplice comprimario.

SILVIO PONS — Eppure nella proposta di Craxi c’era il riconoscimento, sia pure fortemente condizionato, di quanto fosse anacronistica la pregiudiziale, la conventio ad excludendum, verso il Pci. Viene da pensare che arroccarsi nel ruolo di oppositori non dispiacesse troppo ai comunisti nel clima dei primi anni Ottanta, con Ronald Reagan alla Casa Bianca e il riaccendersi della tensione tra Est e Ovest.

ROBERTO CHIARINI — È così: fallita la politica di unità nazionale, che aveva visto l’ingresso del Pci nella maggioranza, Berlinguer si rituffa all’opposizione come in un bagno rigenerante.

GIOVANNI SCIROCCO — Teniamo anche conto che la proposta di Craxi è del marzo 1981. Subito dopo la situazione cambia in fretta. Mitterrand incontra difficoltà che gli impongono di moderare le ambizioni di cambiamento. E in dicembre a Varsavia c’è il golpe militare contro il sindacato libero Solidarnosc, che accentua i venti di guerra fredda.

ROBERTO CHIARINI — Credo però che, al di là delle situazioni contingenti, sia le culture politiche delle classi dirigenti sia il senso sedimentato nelle rispettive basi rendessero impossibile evitare il duello all’ultimo sangue tra Pci e Psi. Provate a leggere le note che mandava a Berlinguer il suo braccio destro Antonio Tatò, nelle quali spicca un’ostilità quasi antropologica per Craxi. Sono pulsioni vive ancora oggi. Matteo Renzi è lontano anni luce dalla storia del Pci, ma alla domanda se si sentiva erede più di Berlinguer o di Craxi, ha risposto Berlinguer. Sa bene che nell’immaginario del popolo di sinistra Craxi è l’uomo nero, un tabù da cui stare alla larga.

GIOVANNI SCIROCCO — D’altronde i socialisti non si tiravano indietro nella polemica. Craxi era un tipo sanguigno, approvò i fischi rivolti a Berlinguer dal Congresso socialista di Verona nel 1984. La sua sconfitta derivò dal fatto che il Psi non riuscì a decollare elettoralmente, non superò mai il 15%. Così Craxi poteva svolgere solo un ruolo d’interdizione, non sbloccare il sistema. La sua stessa ipotesi di «grande riforma» delle istituzioni non venne chiarita.

Non andava in senso presidenziale?

GIOVANNI SCIROCCO — Mai in modo preciso ed esplicito. D’altronde con i voti che aveva, Craxi non poteva che difendere il sistema elettorale proporzionale.

ROBERTO CHIARINI — Io però vedo una contraddizione forte tra «grande riforma» e difesa del proporzionale. Quando diventa presidente del Consiglio, Craxi tocca con mano la necessità di cambiare le istituzioni per rafforzare l’azione di governo. Quindi accentua la sua immagine di modernizzatore intenzionato a rompere le pastoie consociative. Il suo presidenzialismo è uno slogan rivolto a chi non ne può più della paralisi italiana, ma non diventa un progetto istituzionale. E poi Craxi ha bisogno del proporzionale per contare nel sistema politico, anche perché crede ancora nella funzione del Psi come forza strutturata. Del resto come reagiscono gli altri partiti all’idea della «grande riforma»? Guardando all’indietro, dipingendo Craxi come un aspirante dittatore, con gli stivaloni di Mussolini. Sono fossilizzati nel passato. Lui invece aveva capito un’esigenza reale di personalizzazione della politica, che oggi si è imposta in modo evidente.

SILVIO PONS — Non vorrei che sottovalutassimo i risultati comunque ottenuti dal Psi a metà degli anni Ottanta. Craxi spacca la Dc, crea in quel partito una divisione duratura tra filosocialisti e antisocialisti, e questo gli dà una grande forza politica. Inoltre mette nell’angolo il Pci, che si differenzia dagli altri partiti comunisti, ma in Italia non trova sbocchi. Anche il Pci si spacca, in modo meno vistoso, con la divergenza tra Berlinguer e Giorgio Napolitano. Quando poi arriva al vertice Achille Occhetto, nel 1988, il nuovo segretario cambia la posizione del partito sulle riforme istituzionali, proprio il tema su cui era incalzato dai socialisti. Però intanto Craxi perde slancio.

SILVIO PONS — L’esperienza alla guida del governo, dal 1983 al 1987, non dà i frutti sperati, anzi finisce per ingabbiare Craxi nel vecchio sistema di potere che aveva sostenuto di voler scardinare. Perciò non sfonda a sinistra: il 27 per cento che ancora nel 1987 vota Pci non è fatto di veterocomunisti, ma di cittadini insoddisfatti della prova di governo craxiana. E dal 1989 in poi non si capisce più che strategia abbia il leader socialista, dove voglia andare. ROBERTO CHIARINI — A quel punto si è un po’ arreso al piccolo cabotaggio, senza coltivare più un grande disegno. Ha acquisito molta popolarità personale, che però non si traduce in consensi elettorali. Tanta gente lo stima, ma continua a votare Dc o Pci per appartenenza sociale o culturale. Dal momento che lo sfondamento è fallito, Craxi cerca di far valere al massimo le forze che ha. Poi Martelli nel Psi comincia a fare la fronda. E Craxi diventa insicuro, sospettoso.

GIOVANNI SCIROCCO — Molti suoi ex collaboratori sostengono che pesava anche la malattia. In condizioni di salute precarie, Craxi sente di non avere una lunga prospettiva di vita davanti a sé e cerca di capitalizzare nell’immediato il suo patrimonio politico.

SILVIO PONS — Poi c’è il contesto internazionale. Il sistema politico italiano riflette il bipolarismo della guerra fredda, ma negli anni Ottanta tutto cambia. Il Pci non sa che fare: spera in Mikhail Gorbaciov, ma vuole anche entrare nell’Internazionale socialista. Craxi, accusato ingiustamente di essere la «nuova destra», propone un anticomunismo diverso da quello valoriale ma tollerante dei democristiani, che in fondo legittimava il Pci. Lui invece accusa i comunisti di essere vecchi, sorpassati dalla modernità.

GIOVANNI SCIROCCO — Il guaio è che negli anni Novanta, con i vincoli di Maastricht, la crisi dei conti pubblici, la rivolta fiscale cavalcata dalla Lega, le privatizzazioni, non c’è più spazio per la visione innovatrice, ma pur sempre socialdemocratica, di Craxi, secondo cui la politica doveva tenere le redini del sistema.

ROBERTO CHIARINI — Però Craxi intendeva l’atlantismo in modo dinamico. L’episodio famoso di Sigonella, con il rifiuto di consegnare agli americani i dirottatori della nave «Achille Lauro», va inserito in un impegno di apertura al mondo arabo e di appoggio agli oppositori dei regimi dittatoriali in Spagna, Cile, Polonia, Cecoslovacchia. Craxi si prodiga per l’integrazione europea, fino a scontrarsi nel 1985 con Margaret Thatcher. Persegue uno scongelamento dei blocchi che rafforzi il ruolo dell’Italia. E resta attento a questi temi anche dopo il 1992, dichiarandosi sempre europeista, ma critico verso la piega presa dall’Unione.

SILVIO PONS—In politica estera l’azione di Craxi al governo è innovativa perché afferma l’idea che l’Italia possa farsi valere come «quinta potenza industriale del mondo». Segna una discontinuità con le esperienze precedenti e non trova riscontro in quelle successive, è un’eredità che si perde. Oggi l’europeismo ha un segno tutto difensivo, mentre con Craxi c’era una forte capacità d’iniziativa, anche verso Mosca, benché poi lui si schieri contro l’ipotesi di un piano occidentale per aiutare Gorbaciov. È in fatto di politica interna che Craxi, a capo del governo, non riesce a smuovere le acque.

E poi viene travolto dalle inchieste giudiziarie. Ma il problema di come si finanzia la politica esiste ovunque. Perché solo in Italia provoca la caduta non di un leader, ma dell’intero sistema?

GIOVANNI SCIROCCO — Chi fa finta che la politica non abbia un costo è spesso, quasi sempre, in malafede. Ma in Italia all’inizio degli anni Novanta pochi capiscono il cambio di paradigma segnato dalla caduta del Muro e da Maastricht, novità che i partiti non riescono a governare. Il loro tentativo di resistenza, con l’alleanza tra Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani (il Caf), viene visto dai cittadini come una difesa di privilegi iniqui. Il Psi inoltre soffriva storicamente di un deficit organizzativo, amplificato dalla decisione di puntare molto sul carisma del segretario. Lo stesso meccanismo di finanziamento del partito, che un tempo passava attraverso il controllo istituzionale delle correnti, era stato accentrato in modo verticistico, costringendo le realtà locali ad arrangiarsi e rendendo quindi il sistema più vulnerabile.

ROBERTO CHIARINI — È così che prolifera a livello periferico un malaffare di cui la leadership del Psi non si cura. Quando poi a Milano viene arrestato per tangenti Mario Chiesa, lo si liquida come un caso isolato. E quando anche Craxi finisce sotto inchiesta, il partito si squaglia. Nessuno ha il coraggio di porre la questione in termini politici, di affermare che il finanziamento irregolare dei partiti è cosa diversa dagli arricchimenti personali. Anzi, sui mass media passa la lettura che i secondi siano meno gravi del primo. Craxi solleva il problema con il discorso alla Camera del 3 luglio 1992, ma è tardi. Anzi a quel punto diventa lui il simbolo della corruzione da abbattere.

SILVIO PONS — I fattori di crisi sono numerosi, ma a me sembra decisivo un punto: se la guerra fredda presupponeva una comunità italiana divisa, la sua fine esigeva una ridefinizione unitaria dell’interesse nazionale. Qui emergono i limiti di Craxi: in teoria il 1989 gli dà ragione, ma lui in quella fase non lascia traccia, si limita a mettere la scritta «Unità socialista» nel simbolo del Psi. Un’incapacità di adeguarsi a condizioni nuove che delegittima lui e l’intera classe politica.

ROBERTO CHIARINI — Tutto ciò è vero, in Italia gli argini della guerra fredda erano più importanti che altrove. Ma bisogna aggiungere che, anche per quel motivo, il peso dei partiti nella società (nella sanità, nelle banche, nei sindacati) era enorme. Ci si sentiva prima comunisti o socialisti o democristiani, e poi italiani. Uno strapotere che dal 1992 si ritorce su chi lo ha esercitato e del quale Craxi diventa il simbolo, il capro espiatorio.

GIOVANNI SCIROCCO — In fondo le monetine che la folla gli lancia davanti all’hotel Raphael sono la sua piazzale Loreto, equivalgono a metterlo a testa in giù, perché appare l’esponente più in vista dell’esecrata partitocrazia.

SILVIO PONS — Eppure non aveva colpe nemmeno lontanamente paragonabili a quelle di Mussolini.

ROBERTO CHIARINI — Certo, ma purtroppo la sua immagine si è sedimentata nella memoria collettiva come legata a Tangentopoli. E ciò impedisce tuttora alla sinistra di riconoscere che Craxi fa parte a pieno titolo della sua storia.

 

 

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