Nico Motzo soldato e partigiano in Grecia (1939-1944), di Luciano Carta (1. Continua).

“Andartes”. Pro chi non morzat sa memoria.

 

Ammentandhe sos “eroes”mannos

e minores de domo nostra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Le “Memorie di vita militare”: una testimonianza preziosa

Un uomo di belle fattezze e di piccola ma proporzionata statura, ritto, fiero e sicuro in sella a un cavallo per i sentieri della campagna di Bolotana; una persona sempre affabile, che ispirava simpatia con i suoi vezzosi baffetti alla Clarke Gable, sostenuto, eretto e rapido nell’incedere. È questo il ricordo che chi scrive, da quando era ragazzo, ha conservato del signor Antonico Stefano Motzo, a tutti noto nel paese come Nicheddu Motzo, per i meno giovani tiu Nicheddu.

Era difficile immaginare, dietro quell’aspetto raffinato e civile, l’uomo ardimentoso, coraggioso, astuto, e al tempo stesso profondamente umano, riflessivo, pacato, calcolatore, ma talvolta anche guascone, pieno di ‘balentìa’ positiva, quale emerge dalle sue Memorie di vita militare, che raccontano la sua personale esperienza di soldato, in tutto “sette anni, sette mesi e un giorno”[1], dal maggio 1938 al novembre 1945, prima sul fronte alpino occidentale e poi in Albania e in Grecia, durante il secondo conflitto mondiale. All’interno di questa esperienza, l’avventura, eccezionale e tragica, della guerra sul fronte greco-albanese e della fuga, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ad evitare di cadere in mano dei nazisti, tra le formazioni partigiane comuniste dell’E.L.A.S., l’Esercito di Liberazione Nazionale della Grecia, fino al novembre 1944, prima del sospirato e fortunoso rientro in Sardegna.

La vicenda raccontata da Nico Motzo si aggiunge alle non numerose testimonianze di soldati italiani aggregatisi alla Resistenza greca nel 1943-1944. Una testimonianza di sicuro valore documentario, che vede la luce settant’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale per la ritrosia dell’Autore a manifestare la sua interessante vicenda personale e umana. Anche Nico Motzo, al pari di numerosi ex-deportati nei campi di concentramento nazisti, sembra aver attraversato un lungo periodo di “afasia”, sebbene avesse redatto il testo fin dal 1954. Decise di farla conoscere a chi scrive nel dicembre 2011. Ero venuto a conoscenza della sua vicenda, per sommi capi, dalla nipote prof.ssa Letizia Fassò, oggi docente di Storia e Filosofia nel Liceo “Dettori” di Cagliari, la quale mi manifestò l’opinione che essa, forse, avrebbe meritato di essere conosciuta. Al termine di un lungo e affabile colloquio, l’Autore mi affidò una copia del dattiloscritto, con la raccomandazione di leggerlo, valutarlo, emendarlo nell’ortografia e poi eventualmente pubblicarlo. La vicenda era stata in parte rivelata al pubblico in occasione di una manifestazione promossa dall’Amministrazione comunale di Bolotana e dall’ISTASAC di Nuoro, nel quadro delle ricerche, avviate da quell’Istituto, sui militari italiani internati nei campi di concentramento nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. I relatori di quell’iniziativa, i proff. Aldo Borghesi e Marina Moncelsi, realizzarono in seguito una lunga intervista al protagonista, conservata nella documentazione dell’Istituto per la Storia della Resistenza nuorese.

La lettura del dattiloscritto mi rivelò una vicenda di notevole interesse non solo umano e personale, ma soprattutto storico. Essa meritava di essere portata a conoscenza del pubblico come vicenda significativa di una pagina di storia ancora non adeguatamente posta in luce dalla ricerca, scritta dai numerosi soldati, e in qualche caso come vedremo da intere unità combattenti dell’Esercito Italiano, che sul fronte greco non vollero subire l’onta del disarmo e dell’internamento ad opera delle truppe naziste.

Nico Motzo è deceduto a Quartu S. Elena il 27 marzo 2015, all’età di 97 anni. La pubblicazione postuma delle sue Memorie, oggetto di legittimo orgoglio e di commosso ricordo da parte dei figli, è stata da essi favorita e incoraggiata e pertanto a loro in primo luogo – Gian Battista, Bruna, Alberto, Laura Caterina, e Sandra – va il ringraziamento dei cultori di storia e dei lettori. Esse, tuttavia, non avrebbero potuto vedere la luce senza il convinto sostegno dell’Amministrazione comunale di Bolotana – in particolare dell’ex sindaco Francesco Manconi e dell’assessore alla Pubblica Istruzione Maria Elena Motzo –, il sostegno della Fondazione Banco di Sardegna e l’apporto di alcuni compaesani – in particolare il funzionario dell’Ufficio Anagrafe del Comune Beniamino Piras e l’insegnante Salvatore Pedde – che hanno dato un valido contributo nel reperimento di notizie, minute ma essenziali, su persone e avvenimenti locali che altrimenti sarebbe stato impossibile acquisire. Grazie a questo apporto collettivo, che chi scrive non si stancherà mai di incoraggiare e promuovere nelle nostre “piccole patrie locali”, ricche di energie e competenze che spesso attendono solo di essere messe alla prova, possiamo leggere e conservare doverosamente la memoria della vicenda di Nico Motzo, testimonianza di significativo valore etico e storico, che deve rimanere patrimonio della comunità locale e della più ampia società civile.

Come avviene spesso nella memorialistica autobiografica, le vicende presenti nelle Memorie di Nico Motzo sono narrate da un punto di vista eminentemente personale, con scarsi riferimenti alle vicende politiche, sociali e militari all’interno delle quali si svolge storicamente la vicenda del singolo. A colmare tali lacune e a offrire un quadro delle vicende generali della Seconda Guerra Mondiale guerra sul fronte balcanico chi scrive ha redatto il testo che segue, inteso a inserire in una dimensione più ampia, come merita, la vicenda personale.

 

2. Caporal Maggiore nel 38° Reggimento Fanteria “Ravenna”.

L’avventura di Nico Motzo inizia nel maggio 1938, anno in cui l’autore parte per il servizio militare di leva. Era nato a Bolotana il 9 agosto 1917 da una famiglia mediamente benestante. Suo padre, Stefano, che era stato al fronte durante la Grande Guerra, era un agiato contadino[2]. Stefano e il fratello, il grande storico dell’antichità Bacchisio Raimondo Motzo[3], dopo la morte dei genitori avvenuta quando ancora erano in tenera età, erano stati allevati dallo zio sacerdote Leonardo Motzo Zolo, un ex frate cappuccino bolotanese passato al clero secolare dopo la soppressione dei conventi, che dopo essere stato reggente della parrocchia del paese natale, era diventato parroco di Benetutti[4]. La madre di Nico, Giuseppa Corrias, apparteneva a una cospicua famiglia di allevatori[5]. Nel parentado vi era anche un altro personaggio importante, che si era distinto nella Grande Guerra, l’allora colonnello Leonardo Motzo, già comandante della Compagnia d’Assalto della “Brigata Sassari” sulla Bainsizza, pluridecorato al valor militare, che nel 1930 aveva pubblicato un vivace e documentato racconto della celebre unità combattente sarda, intitolato Gli intrepidi sardi della Brigata Sassari[6].

Nico, a differenza del fratello Nino, che dopo aver conseguito un titolo di scuola secondaria superiore aveva intrapreso la carriera militare divenendo ufficiale dell’Esercito, non andò oltre il diploma di 5a Elementare e fino alla partenza per il servizio militare aveva coadiuvato il padre nelle attività dell’azienda agricola di famiglia.

Come tutti i ventenni di allora, Nico al momento della partenza per il servizio militare appare sufficientemente partecipe di quella cultura informata alla bolsa retorica dell’Italia “imperiale” diffusa dal fascismo, che negli anni immediatamente precedenti aveva dato inizio alla sua avventura di “grande potenza” con la conquista dell’Etiopia. Assegnato al 38° Reggimento Fanteria “Ravenna” della Divisione “Assietta”[7], raggiunge il Corpo il 24 maggio 1938. Si intravvedono, nelle prime battute della narrazione, una forte sete di novità e un sentito desiderio di evasione dalla povera ed angusta realtà della Sardegna. «Restai contento – egli scrive – di essere inviato in Continente, perché avevo desiderio di conoscerlo, e non provai alcun rammarico nel lasciare la Sardegna»[8].

Intelligente, perspicace, desideroso di emergere tra i commilitoni, la giovane recluta, una volta iniziato l’addestramento all’uso delle armi, in occasione delle esercitazioni di tiro che si svolgono a Rhuilles nell’alta Val di Susa, consegue i primi successi e le ambite promozioni: tiratore scelto di fucile ’91, di fucile mitragliatore Breda mod. 30 e di pistola mod. 89. Durante il campo sul confine francese il giovane fante comincia a uscire dal guscio e a rivolgere l’attenzione ad un orizzonte più vasto che in seguito lo inghiottirà completamente e di cui mostrerà di possedere una sufficiente conoscenza per intraprendere un itinerario di maturazione personale che lo aiuterà prima a nutrire dubbi sull’assennatezza delle scelte militari del governo fascista e poi a prendere coscienza della sciagurata alleanza dell’Italia con il nazismo e a maturare la coraggiosa decisione di combattere al fianco della Resistenza greca. «C’era un po’ di malumore con la Francia – egli annota riferendosi all’estate-autunno 1938 – e si vociferava d’una imminente guerra»[9]. Sono le prime riflessioni fatte quasi di sfuggita. Il giovane protagonista appare ancora immerso nei sogni giovanili e nelle piccole ambizioni della vita militare.

Sulle Alpi italo-francesi è attratto dalle bellezze e dalla maestosità dei paesaggi alpini e qui, per un innocente desiderio romantico di cogliere sulle vette le stelle alpine, è protagonista di una piccola avventura che poteva avere, per lui e per un suo commilitone, conseguenze fatali. L’episodio delle stelle alpine dà inizio, nelle Memorie, al racconto, sempre attraente nella semplicità del modesto tessuto espressivo, delle avventurose vicende del protagonista, che costituiscono l’aspetto più accattivante del racconto[10].

Nel mese di agosto consegue un altro importante successo personale. Partecipa brillantemente agli esami per il grado di Caporale e il 31 agosto gli viene comunicata la promozione. Ottiene la prima licenza premio e al rientro, il 31 dicembre 1938, gli viene riconosciuto l’avanzamento di grado a Caporal Maggiore. È molto apprezzato dai Superiori del suo Battaglione ed è utilizzato prima nell’ufficio del Comandante e poi nell’ufficio postale; infine, ormai conosciuto per la sua accortezza e precisione, come responsabile dello spaccio. Un compito non semplice e di notevole responsabilità, quest’ultimo, considerato che il Reggimento nella caserma contava «oltre tremila soldati» e «l’incasso medio si aggirava dalle dodici alle quattordici mila lire, di allora, al giorno»[11].

 

3. La guerra sul fronte delle Alpi occidentali (giugno 1940).

Il “battesimo di fuoco” fu vissuto da Nico Motzo sul fronte delle Alpi occidentali all’indomani della dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra fatta da Benito Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia il 10 giugno 1940. Con il racconto della guerra le Memorie proiettano il lettore in una dimensione che diventa sempre più vasta che l’Autore, dal suo limitato punto di osservazione, coglie solo parzialmente. Ciò ha reso necessario l’inserimento delle tappe della vicenda personale in un teatro più vasto, politico e militare, nel quale essa trova la sua corretta collocazione. Un quadro che ci sforzeremo di delineare nel modo il più possibile sintetico, le cui vicende principali abbiamo inserito anche in nota, nel commento al testo delle Memorie.

Abbiamo fatto cenno al particolare clima della società di allora, educata al mito dell’Italia grande potenza “imperiale”, diffuso a piene mani dal fascismo con l’aggressione dell’Etiopia nell’ottobre 1935 e la sua conquista nel maggio 1936. Anche l’Italia poteva ergersi a potenza imperialista avendo conquistato il suo impero coloniale. La conquista dell’Etiopia rappresentò il primo tassello di una politica internazionale aggressiva, alla ricerca di un suo “spazio vitale”, che nei disegni del fascismo doveva essere rafforzato sullo scacchiere europeo, nella Penisola balcanica.

Nel frattempo, dopo il consolidamento interno e la creazione dello Stato totalitario da parte del Partito Nazional Socialista a partire dal 1933, anche la Germania nazista iniziò una politica aggressiva con la rivendicazione di un suo Lebensraum (spazio vitale) nel Vecchio Continente.

Nasceva da questi presupposti ideologici e politici l’avvicinamento dell’Italia fascista alla Germania nazista, sancito con un patto di alleanza firmato nell’ottobre 1936 denominato “Asse Roma-Berlino”.

La Germania aveva individuato il suo “spazio vitale” nell’Est europeo, mentre l’Italia, come abbiamo detto, puntava all’espansione nello scacchiere balcanico. La politica di espansione tedesca ebbe inizio con l’annessione dell’Austria nel marzo 1938 e con lo smembramento della Cecoslovacchia, che portò alla creazione di un protettorato tedesco nella Boemia e nella Moravia, le cui risorse minerarie erano essenziali alla Germania, e di un governo filo-nazista in Slovacchia. L’Italia non volle stare alla finestra e nell’aprile 1939 iniziò la guerra sul fronte balcanico con l’invasione e l’annessione dell’Albania che sarebbe servita come base strategica per l’invasione della Grecia e della Jugoslavia. Mussolini, a fronte dei successi tedeschi, non volendo perder terreno e prestigio, inaugurava così quella “guerra parallela” che avrebbe costituito il motivo politico e ideologico della successiva estensione del conflitto. Nel maggio 1939 il suggello ufficiale della politica di aggressione imperialistica dei due regimi totalitari veniva sancito con la firma del cosiddetto “Patto d’Acciaio”, che prevedeva l’immediato intervento militare di una delle parti contraenti qualora una di esse si trovasse implicata in operazioni belliche con una o più potenze, senza tuttavia specificare il problema delle responsabilità nel promuovere la guerra e la reciproca preventiva consultazione.

Assicuratasi la neutralità interessata dell’URSS con il “Patto di non aggressione”, firmato dai rispettivi ministri degli Esteri Ribbentrop e Molotov il 23 agosto 1939, una settimana dopo, all’alba del 1° settembre 1939, la Germania nazista invadeva la Polonia, dando inizio alla conflagrazione mondiale. Il 3 settembre Francia e Inghilterra dichiaravano guerra alla Germania. Mussolini avrebbe voluto dar corso alla sua “guerra parallela” sul fronte balcanico, ma la situazione dell’Esercito non lo consentiva; secondo le valutazioni degli Alti Comandi, l’Italia non avrebbe potuto affrontare un impegno bellico prima del 1942. Fu giocoforza per il governo italiano assumere ufficialmente l’ibrida posizione di “non belligeranza”, annunciata nello stesso giorno dell’invasione nazista della Polonia. La scelta dell’Italia, circostanza importante per comprendere le reali vedute del duce, non fu comunicata alle potenze da Mussolini stesso, ma fu annunciata come determinazione del Consiglio dei Ministri, a voler significare che né Mussolini né il Gran Consiglio del Fascismo si assumevano direttamente la responsabilità dell’atto. Si trattava, insomma, di una posizione interlocutoria, in attesa di momenti più propizi per intervenire nella guerra, che nasceva dalla coscienza dell’oggettiva impreparazione dell’Italia. Una realtà quella dell’impreparazione del Paese e dell’Esercito, che smentiva per la prima volta clamorosamente «la propaganda e l’ideologia di un regime che della politica estera aveva fatto l’elemento di coesione della militarizzazione della vita interna, che la guerra aveva continuamente invocata, annunciata, predicata, ma che di fronte allo scatenamento della guerra si arrestava smarrito e impotente»[12].

Nei mesi che seguirono l’Inghilterra e la Francia tentarono di far sì che l’Italia acquisisse un ruolo di capofila dei paesi neutrali, ma la classe dirigente italiana non volle accettare tale ruolo perché ciò avrebbe significato l’abbandono di ogni ambizione di espansione balcanica e la guida di un blocco di Stati in funzione anti-tedesca. Nessuno di questi obiettivi era negli intenti della classe dirigente e della borghesia italiane. Non è un caso che il ministro degli Esteri Gian Galeazzo Ciano, notoriamente il solo uomo di accentuate simpatie britanniche tra gli uomini di governo fascisti, che come lo stesso Mussolini manifestò in questi mesi un risentimento anti-tedesco, perché la Germania aveva ignorato l’Italia alleata in occasione dell’aggressione alla Polonia, non abbia mai realmente preso in considerazione l’invito rivolto all’Italia di guidare il gruppo dei Paesi che si erano dichiarati neutrali. In quei mesi di “non belligeranza” il ministro Ciano, che era stato protagonista della conquista dell’Albania nella primavera 1939, nell’ottobre 1940 sarà, dopo Mussolini, il maggior responsabile e l’organizzatore dell’aggressione alla Grecia. Non fu, dunque, come avrebbe detto W. Churchill nel radio-messaggio agli italiani del 23 febbraio 1942, «un uomo solo», ossia Benito Mussolini, a schierare «il popolo italiano in lotta mortale contro l’Impero britannico»[13], a precipitare l’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, ma si trattò di una scelta coscientemente, ma anche irresponsabilmente, coltivata e voluta da tutta la classe dirigente italiana che continuò a perseguire il programma dell’imperialismo fascista iniziato a metà degli anni Trenta. Il problema vero, semmai, per quella classe dirigente, era stabilire “quando” iniziare la guerra di aggressione, considerata la consaputa inadeguatezza delle forse armate italiane.

L’occasione venne nel maggio 1940, quando la Germania nazista, in funzione dell’attacco alla Russia e per garantirsi le spalle sul fonte occidentale, aggredì e sottomise la Francia con una “guerra lampo” (Blitzkrieg), travolgendone le linee di difesa nell’arco di poche settimane. A quel punto fu Mussolini a rompere gli indugi di fronte alle irresistibili vittorie tedesche. Egli non intendeva in nessun modo rinunciare a sedersi al tavolo della pace tra i vincitori e per ottenere questo risultato aveva necessità di non ritardare più oltre l’avvio della “guerra parallela”, e di gettare su quel tavolo, come ebbe cinicamente ad affermare, «un migliaio di morti da far valere nelle trattative»[14].

Sono, quelle che abbiamo delineato, le ragioni della dichiarazione di guerra fatta da Mussolini contro la Francia, ormai abbattuta dalle armi tedesche, e contro l’Inghilterra il 10 giugno 1940. L’indomani, 11 giugno, come riporta il Foglio matricolare, Nico Motzo e il suo Reggimento iniziarono la guerra sul fronte alpino. Con la ristrutturazione dell’Esercito, la Divisione “Assietta” e il 38° Reggimento avevano cambiato nome, diventando Divisione “Forlì” e 43° Reggimento Fanteria mobilitato. Il Reggimento fu schierato sul confine francese nella Val Maira, presso Dronero, Prazzo e Stroppio, in provincia di Cuneo, dove l’Autore continuò a occuparsi dello spaccio allestito al fronte.

L’Italia era entrata in guerra nonostante la notoria impreparazione militare e la mancanza di un equipaggiamento adeguato dell’Esercito. Come nota il Motzo, sebbene fosse estate, numerosi soldati, che in alta montagna vestivano i panni estivi, soffrirono di congelamento agli arti: «tutti noi soldati – egli scrive – eravamo vestiti in tela. Il freddo non era stato previsto e i soldati ebbero moltissimi congelamenti agli arti»[15]. Tra essi, nell’ospedale da campo N. 1, il compaesano Giuseppe Sassu, che egli si caricò sulle spalle trasportandolo nello spaccio, dove gli praticò i primi soccorsi; l’indomani lo accompagnò in ospedale[16].

La campagna di guerra sul fronte alpino durò quattordici giorni, dall’11 al 25 giugno 1940, quando fu firmato l’armistizio a Compiègne. L’Italia aveva schierato 360.000 uomini sul confine con la Francia tra il Piemonte e la Liguria ed era riuscita a penetrare per pochi chilometri sul territorio francese. Erano caduti 631 soldati, 616 risultarono dispersi e vi furono 2631 tra feriti e congelati. Era quel «migliaio di morti» cinicamente programmati dal duce per potersi sedere tra i vincitori al tavolo della pace. La Germania, che aveva schierato 141 Divisioni per un totale di 3.360.000 soldati, ebbe 45.000 tra morti e dispersi e oltre 110.000 feriti; la Francia, che aveva schierato 144 Divisioni per un totale di 3.300.000 soldati, registrò 400.000 tra morti e feriti e 1.900.000 prigionieri.

Sul tavolo della pace l’aggressione vigliacca alla Francia fatta dall’Italia quando il paese transalpino era stato messo in ginocchio dai nazisti, fruttò all’Italia un ben tenue bottino. Sebbene le pretese fossero spropositate, rivendicando la restituzione di Nizza e la cessione della Corsica e di Tunisi nell’Africa settentrionale o di Gibuti nell’Africa orientale, ottenne solamente un lembo della Costa Azzurra, addentrando il confine in territorio francese fino a Mentone, a 20 chilometri dal vecchio confine di Ventimiglia. La Francia fu occupata per tre quarti direttamente dalla Germania nel territorio settentrionale e lungo tutta la costa atlantica, mentre a sud di Parigi e nella parte meridionale si costituì un governo collaborazionista guidato dal maresciallo Philippe Pétain.

Il 43° Reggimento, che si trasferì per qualche mese «in riposo»[17] ad Agordo, in provincia di Belluno nel Veneto, rientrò ad Alba nel novembre 1940. Nico Motzo poté fruire di una licenza di due settimane, l’ultima prima del trasferimento sul fronte greco-albanese. (1. Continua)

 


[1] Tutte le citazioni sono desunte da N. Motzo, Memorie di vita militare (di seguito citato Memorie), pubblicate integralmente in Idem, Memorie di vita militare. Da soldato a partigiano (andartes) in Grecia (1938-1945), a cura di L. Carta, con un saggio di A. Borghesi, Nuoro, Il Maestrale, 2016. A questo volume si riferiscono le indicazioni di pagina. La citazione di cui sopra è ivi, p. 189. Per un inquadramento generale della partecipazione degli italiani alla Resistenza all’estero durante la seconda guerra mondiale, oltre al saggio di Aldo Borghesi pubblicato nel volume citato, si rimanda a I. Muraca, I partigiani all’estero: la Resistenza fuori d’Italia, in Dizionario della Resistenza, a cura di E. Collotti, R. Sandri e F. Sessi, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, Torino, Einaudi, 2000, pp. 148-1790. Per le problematiche connesse alla partecipazione dei sardi alla Resistenza cfr. S. Sechi, La partecipazione dei sardi alla Resistenza, in L’antifascismo in Sardegna, a cura di M. Brigaglia e altri, Cagliari, Edizioni della Torre, 1986 (2a ed. 2008); L. M. Plaisant, Sardegna, in Dizionario della Resistenza, vol. I, cit., pp. 612-617. Tra le altre pubblicazioni di memorie relative alla partecipazione alla Resistenza in Paesi esteri di ex militari sardi ricordiamo: G. Sotgiu. Da Berane a Berane. Diario di un garibaldino ferito, Cagliari, Terma, 1990; G. Cuccu, Ivo e le stelle. Un partigiano sardo in Jugoslavia, Cagliari, Cuec, 1991; D. Porcheddu, Ho baciato la morte. Diario di un partigiano, Cagliari, Taim, 1994.

[2] Stefano Motzo (1885- 1964), che nel paese, dove le persone sono conosciute con il soprannome, era chiamato “tiu Mazzòne”, il “signor Volpe”, a voler significare doti di destrezza e di astuzia, era nato a Bolotana il 9 giugno 1885 ed è morto ivi il 16 aprile 1964.

[3] Bacchisio Raimondo, nato a Bolotana nel 1883 e morto a Napoli nel 1970, era dunque il fratello maggiore.

[4] Leonardo Motzo Zolo, che come religioso cappuccino aveva assunto il nome di fra’ Fedele, fu parroco reggente di Bolotana negli anni 1872-1877. Nella chiesa parrocchiale di San Pietro è rimasto un ricordo di questo sacerdote nella lastra marmorea da lui fatta apporre sulla parete destra della cappella della Sacra Famiglia, da lui eretta e ornata con un prezioso dipinto. Il testo dell’iscrizione incisa sula lastra è il seguente: «ALTARE HOC / SACRAE FAMILIAE DICATUM / REVERENDUS LEONARDUS MOZZO ZOLO / PAROCHI MUNERE FUNGENS / PROPRIIS EREXIT SUMPTIBUS / ANNO UNIVERSALIS IUBILAEI / MDCCCLXXV» (cfr. R. Caprara, I Beni culturali della Chiesa di Bolotana, Bolotana, Edizione della Parrocchia di S. Pietro Apostolo, 2002, pp. 87 e 183. Il marmo appare scheggiato, in corrispondenza del nome e del cognome del donatore, da colpi di martello, che sarebbero stati inferti dal bolotanese Billia Sulas per non essere stato accettato dal parroco come padrino di battesimo perché non aveva fatto il precetto pasquale (cfr. A. Senes, Schegge di vita paesana, in “Quaderni Bolotanesi”, Numero unico (1977), pp. 30-32).

[5] Giuseppa Corrias era nata a Bolotana il 28 maggio 1890 ed è ivi deceduta il 5 settembre 1949. Dal matrimonio nacquero 5 figli: Giovanni Raimondo, noto Nino (Bolotana, 2 febbraio 1914-1966, che divenne ufficiale dell’Esercito); Antonico Stefano Lorenzo, detto Nico (1917-2015); Narcisa Caterina, nota Cisa (Bolotana, 14 marzo 1920 – Nuoro, 9 maggio 1995); Giuseppa, nota Peppina, nata il 31 agosto 1923; Chiara Francesca, nata a Bolotana il 2 ottobre 1925. La famiglia abitava in Via Cavallotti N. 96, attale via Marconi 110, tuttora abitata dagli eredi.

[6] Cfr. L. Motzo, Gli intrepidi sardi della Brigata Sassari, Cagliari, Ed. Fondazione “Il Nuraghe”, 1930. Il volume è stato riproposto di recente con il medesimo titolo dalle Edizioni Della Torre nel 1980 e nel 2007. L’ultima edizione è a cura di Manlio Brigaglia.

[7] Verrà inquadrato nel II Battaglione, 5a Compagnia, comandato del tenente colonnello Giovanni Battista Spairani.

[8] Memorie, p. 101.

[9] Ivi, p.103.

[10] Cfr. ivi, p. 104.

[11] Ivi, p. 106.

[12] E. Ragionieri, L’Italia nella seconda guerra mondiale, in Idem, Storia d’Italia, volume quarto, Dall’Unità d’Italia a oggi, tomo terzo, Torino, Giulio Einaudi editore, 1976, p. 2282.

[13] Ivi, p. 2289.

[14] Ivi, p. 2294.

[15] Memorie, p. 108.

[16] L’episodio su Giuseppe Sassu, ivi, pp. 108-109.

[17] Ibidem.

 

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