L’eternità delle virtù cardinali nell’ultimo saggio di Vito Mancuso, di Daniele Madau

Per il catechismo cattolico le quattro virtù cardinali sono: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza.


Vito Mancuso (nella  FOTO) è uno dei più importanti e ascoltati teologi di questo tempo, di cui, come pochi, sa interpretare le necessità e le ansie di novità. Ora sposato, è stato sacerdote e, nei suoi studi, ha espresso chiaramente quali posizioni e dogmi della chiesa cattolica non condivide. E’, per tutto questo, un interlocutore critico, autorevole e disponibile, che ha risposto alle nostre domande in occasione della pubblicazione, per la Garzanti, dell’ultimo suo saggio ‘La forza di essere migliori’.

Prof. Mancuso, nel preparare l’intervista ho ripreso in mano gli ultimi suoi volumi e, in quello dedicato alla bellezza, ho ritrovato la dedica posta in apertura e rivolta all’Italia. Vorrei allora partire da qui, dal contesto socio-politico italiano che, per riprendere, invece, il titolo dell’ultimo suo saggio, non facilita né gratifica chi compie lo sforzo di essere migliore. Eppure le tematiche etiche e  morali come, ad esempio, quelle che lei tocca, compresa l’ultima, hanno sempre eco, risonanza e accoglienza. Come giudica questa discrasia?Le porgo questa domanda in quanto lei non si è tenuto lontano, in passato, dalle discussioni morali in ambito politico.

È un problema antico quello del rapporto tra politica ed etica, basti pensare a Socrate e al suo rifiuto di partecipare alla vita politica: è una caratteristica quasi intrinseca della società umana. Per stare a quanto detto da lei chi legge certe tipologie di testi, compresi i miei libri, è un’esigua minoranza, dotata di una certa sensibilità che, sicuramente, non può avere la forza di incidere.

Questa minoranza, che avverte il problema etico-spirituale, trova in queste tematiche la consolazione della filosofia, come capitò a Severino Boezio, col suo ‘De consolatione philosophiae’ scritto in carcere prima di morire.

Lei, in quanto filosofo e teologo, ha pubblicato saggi di entrambe le discipline: quale deve essere il loro rapporto, si deve ancora parlare di ‘philosophia ancilla theologiae’?

La filosofia non è servile, come il termine ancilla indicava, e deve instaurare un rapporto di grande collaborazione con la teologia, così come deve avvenire anche il contrario. La filosofia deve evitare che la teologia sia disumanizzata e troppo alta, così come la teologia ha il compito di dare maggior respiro alla filosofia.

Affrontiamo in maniera più approfondita il suo ultimo volume, che si concentra sulle virtù cardinali, le quali furono già individuate in età antica. Come mai anche oggi hanno la stessa valenza?

Perché sono vere, adeguate, perenni e come tali sanno vincere il tempo. Ognuno, in ogni tempo, ritrova la sua vita descritta e interpretata in confronto all’intelligenza, la greca fronesis, con la quale possiamo esercitare la ‘prudenza’. Ognuno di noi è poi costituito anche dai suoi desideri, dalle sue paure, dalle sue volontà con le quali deve maturare la ‘giustizia’; acquisite queste devi avere, poi, la capacità di resistere tramite la ‘fortezza’ e di affrontare ogni cosa seriamente tramite la ‘temperanza’.

 

Nei suoi libri, quando si tratta dell’amore, della bellezza, della libertà, della vita, si ha la sensazione di essere presi per mano e tramite il suo ‘metodo’ (che ha in sé la radice greca di ‘viaggio, cammino’) di intraprendere un cammino. Dopo questo saggio, come proseguirà questo cammino, quali sbocchi potrà avere la sua riflessione filosofico-teologica futura? Ha un ambito di ricerca e riflessione già individuato?

Ho sempre una molteplicità di progetti in mente, che spesso, poi, lascio momentaneamente da parte o abbandono. Precisamente, però, in questo momento mi sto concentrando sui grandi maestri, portando avanti un laboratorio di etica dedicato a Socrate, Buddha, Confucio, Gesù Cristo.

È d’obbligo, ora, una domanda sulla Sardegna, terra che lei frequenta assiduamente, a esempio con gli incontri nella comunità ‘La collina’. Anche nella nostra isola si avverte il cedimento di un certo modo di vivere la religione, con i suoi santi e la sua tradizione, e la necessità di una modalità nuova. Si sente di riflettere su questo e dare qualche indicazione?

No, non credo di poter dare indicazioni. Il mio pensiero è universale, rivolto a tutti, come testimoniato dal fatto che partecipo a  convegni e  presentazioni in ogni luogo d’Italia. Posso solo riflettere sul fatto che ogni persona dovrebbe interrogarsi su chi voglia essere e cosa voglia fare, considerando che la devozione a un santo non ha valore se poi non si ha una certa condotta di vita o una certa moralità.  Riporto le parole del cardinal Martini sulla necessità di avere ‘individui pensanti’, con speranza e fiducia nei grandi valori dell’umanità.

Ci avviamo alla conclusione con le ultime due domande. Perché alcuni tra gli stati secolarizzati o comunque non a maggioranza cattolica presentano uno stato sociale molto avanzato e funzionale, una corruzione quasi inesistente e una spiccata solidarietà, laddove questi aspetti risultano deficitari in luoghi tradizionalmente a grande maggioranza cattolica?

È un qualcosa a cui penso spesso e posso rispondere indicando due possibilità. La prima è che la religione sia un fattore di corruzione. Io non condivido e scarto questa possibilità; non per partito preso ma, se non altro, per tutte le persone specchiate che ho incontrato e che conosco, consacrati o no, ma comunque credenti.

Credo, invece, che gli stati altamente secolarizzati abbiano attribuito allo stato la sacralità della religione: ad esso riservano la dedizione assoluta, la supplica, la devozione, trasfigurando così, in maniera sacrale, l’ambito sociale e civile.

Si potrebbe anche parlare di indole di popoli, dovuta al fattore climatico. L’esposizione al clima severo, a esempio, degli stati nordici e i conseguenti stati di necessità possono aver forgiato un carattere più onesto e solidale, per fronteggiare le intemperie e la natura spesso avversa.

Per la natura della sua formazione e dei suoi studi e anche per una volontaria attenzione al tema, lei affronta spesso il “sacro”: può darne una definizione?

Il sentimento del sacro si avverte quando si sente di essere al cospetto di qualcosa più grande di noi e vitale. Gli esseri umani hanno sempre percepito questo sentimento davanti, ad esempio, alla ‘polis’, al fuoco sacro, al proprio popolo, come nel caso dell’ebraismo. Pensando alla Chiesa, possiamo aver presente la sacralità del papa, della sedia gestatoria. Nella nostra religione la sfera del sacro non è venuta meno ma nella società sì e, così, diventano quasi sacre le forme di quotidianità, con riti sportivi o di partecipazione di massa.

Io lavoro molto a questo tema, insistendo nei miei libri con la necessità di tornare alla sacralità nei confronti dell’acqua, della natura, della biosfera, di tutti gli elementi. Dobbiamo avvertire la fecondità della terra, la sua maternità e l’abbraccio del suo seno.

 

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