Gramsci e la genesi di un pensiero nuovo, di Guido Liguori

Un brano tratto dal libro di Guido Liguori (venduto in edicola con La nuova Sardegna). I riferimenti filosofici e la formazione del grande pensatore sardo.


La cultura antipositivistica dei primi del Novecento ebbe un ruolo importante nella formazione di Antonio Gramsci. Il pragmatismo statunitense di William James (e quello italiano di Giovanni Vailati), la filosofia di Henri Bergson (e poi la “revisione” del marxismo, in senso rivoluzionario, di Georges Sorel, che in parte anche a Bergson si ispirava per le sue teorie, che avrebbero nutrito il “sindacalismo rivoluzionario”, presente soprattutto in Italia), il neoidealismo di Croce e Gentile, i quali nel primo quindicennio del Novecento soppiantarono il positivismo dando vita a una nuova egemonia, che aveva preso le mosse anche da una certa lettura, sia pure critica, di Marx, alla quale non era stata estranea l’influenza del primo marxista italiano, Antonio Labriola. Gramsci in questa molteplicità di idee, di correnti filosofiche e culturali (molto rilevanti furono anche gli altri influssi provenienti soprattutto dalla vicina Francia), vide la rivalutazione dell’elemento soggettivo, della volontà, contro il determinismo economicistico dei teorici marxisti della Seconda Internazionale, per i quali sarebbero stati i grandi processi storici che avrebbero portato al socialismo. Questa concezione – che pretendeva di avere dalla sua, in coerenza con le influenze positivistiche, anche i crismi di una assoluta scientificità – pareva a Gramsci adagiarsi in una attesa messianica del socialismo che non prevedeva né il soggetto rivoluzionario, né la sua capacita di “organizzare” la rivoluzione, di prepararla adeguatamente – anche sul piano culturale-. Vi era poi un altro motivo (hegeliano, prima che marxista) su cui Croce esercitava il suo fascino sul giovane studente sardo, come egli stesso ricorderà più tardi, in una lettera scritta dal carcere: il neoidealismo crociano predicava una visione laica del mondo moderno: «mi pareva che tanto io come il Cosmo come molti altri intellettuali del tempo (si può dire nei primi 15 anni del secolo) ci trovassimo in un terreno comune che era questo: partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l’uomo moderno può e deve vivere senza religione e s’intende senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altrimenti si vuole dire. Questo punto mi pare anche oggi il maggiore contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani» (lettera a Tania del 17 agosto 1931). I paesi cattolici, a causa della Controriforma, apparivano a Gramsci più arretrati, di contro all’humus culturale da cui era nata la grande filosofia classica tedesca, e in particolare la filosofia di Hegel, che in un articolo del 1916 contrapponeva alla Chiesa cattolica, simboleggiata dal Sillabo di Pio IX, ovvero l’Elenco contenente i principali errori del nostro tempo (1864), gli errori della modernità, a giudizio del papa. E nel febbraio 1917, su La città futura, Croce veniva definito da Gramsci «il più grande pensatore d’Europa in questo momento» e un brano del filosofo partenopeo, tratto da Religione e serenità (del 1913) era riprodotto su quel “numero unico” curato da Gramsci, come più tardi sull’Ordine Nuovo, con il titolo La vanità della religione. In Gentile, invece, Gramsci trovò un altro motivo che sarà centrale nel suo marxismo maturo, il tema della “filosofia della prassi” come interpretazione di Marx fondata su uno spostamento di accento – a partire dalle Tesi su Feuerbach, un breve ma importante scritto marxiano del 1845 pubblicato postumo – dal determinismo economico all’elemento della prassi umana, e dunque del soggetto trasformatore. La formazione giovanile di Gramsci influenzò profondamente quello che sarebbe divenuto il suo marxismo (che svilupperà soprattutto a partire dal 1917): egli elaborò del pensiero di Marx una versione volontaristica e soggettivistica che era consonante col suo ribellismo maturato – sia pure confusamente – già in Sardegna. Tale formazione lo conduceva a opporsi, anche nell’ambito della cultura socialista, al riformismo allora predicato in Italia soprattutto dalla Critica sociale di Turati e Treves. Il clima antipositivistico e antideterministico in cui si formò Gramsci aveva infatti – come si è accennato – ricadute anche sul piano politico. Il movimento socialista del primo quindicennio del Novecento era dominato dalla cultura positivistica, e da un marxismo che negava il soggetto, per esaltare le leggi oggettive della società e della storia, il mito del progresso e della scienza, che avrebbero garantito il trionfo inesorabile del socialismo. Da qui la possibile deriva “fatalistica” che Gramsci paventava: se l’evoluzionismo (mutuato da Darwin) e il determinismo economicista (la lettura prevalente di Marx, per cui l’evoluzione della struttura produttiva determinava in modo immediato e ferreo tutto il resto della realtà economico-sociale) autorizzavano la certezza che inevitabilmente si sarebbe prima o poi giunti al socialismo, poteva scaturirne un atteggiamento passivo, di riformismo di piccolo cabotaggio o di roboanti e vuoti proclami rivoluzionari, in attesa che la nuova società arrivasse a prescindere dall’attività del soggetto rivoluzionario, con tutti i pericoli e le fatiche che tale attività comportava.

 

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