La rabbia contro i governi unisce il mondo intero, di Ian Bremmer

Tensioni in Egitto, Libano, Iraq come in Cile, Ecuador (nella foto: EVO MORALES) , Spagna. E a Hong Kong. La democrazia resta ancora il sistema migliore per guardare al futuro?

 

 

Non c’è giustizia in questo mondo, e nulla di nuovo in questa affermazione. La novità invece sta nell’indignazione popolare davanti all’ingiustizia, che è esplosa ovunque con tale rapidità e intensità da creare sollevamenti che non accennano a placarsi. Negli ultimi mesi, le contestazioni hanno attraversato un gran numero di Paesi, sia ricchi che poveri, e di ogni cifra politica, dalle democrazie consolidate fino ai regimi più repressivi. Motivo della rabbia è la diffusa percezione che la politica continui ad agire sempre e comunque per gli interessi delle élite, scavalcando quelli del popolo. Nei Paesi in via di sviluppo si svolgono regolarmente manifestazioni di protesta, e per buoni motivi. Le popolazioni sono costrette a sopportare i disagi causati dall’incapacità dei governi a fornire i servizi più basilari, e la mancanza di istituzioni politiche avanzate significa che attori non tradizionali – in maggior parte gli stessi contestatori – tendono a far vacillare l’ago della bilancia.

Nelle ultime settimane, l’Egitto ha visto sfilare per le strade le manifestazioni più imponenti dai giorni della Primavera araba, motivate dalle accuse di corruzione mosse contro il presidente Abdel Fattah al-Sisi e i militari, e per di più esacerbate dalle riforme economiche che hanno da un lato ridotto i sussidi e dall’altro alzato le tasse per i più poveri del Paese. In Libano, una «tassa whatsapp» sulle comunicazioni online ha fatto scattare le proteste, che ben presto sono state scavalcate da ben più vaste rivendicazioni economiche e politiche, costringendo alla fine il primo ministro Saad Hariri a rassegnare le dimissioni. In Iraq, il presidente del Consiglio Adel Abdul Mahdi non se la passa molto meglio rispetto al premier libanese: il Paese è stato messo a ferro e fuoco per mano di cittadini esasperati per l’alto tasso di disoccupazione e per la pessima qualità delle infrastrutture e dei servizi.

In Ecuador, la decisione del presidente Lenin Moreno di azzerare i tradizionali sussidi per i carburanti ha segnato l’inizio di settimane di proteste su tutta una gamma di istanze sociali, che da ultimo l’hanno costretto a fare marcia indietro, un evento che è stato accolto come una vittoria dai manifestanti, ma che rappresenta in realtà una vera sconfitta per la disciplina fiscale del Paese. Storicamente, le proteste si rivelano meno efficaci nei Paesi più ricchi, vuoi perché già in pugno alle lobby, vuoi perché le fasce di popolazione più influenti possono permettersi il lusso di aspettare la successiva tornata elettorale per affidare il proprio disappunto politico alle urne. Sempre di più spesso, tuttavia, le cabine elettorali non sembrano più in grado di fungere da valvola di sfogo alle aspettative disattese dalla politica.

In Cile, l’innesco che ha dato fuoco ai disordini in uno dei Paesi più ricchi e stabili di tutta l’America Latina è stato l’aumento del 3 per cento del prezzo dei biglietti della metropolitana, varato da Sebastián Piñera. A quel punto la gente è affluita nelle piazze per manifestare anche contro le pensioni insufficienti e l’alto costo dei servizi di base, come la sanità e le utenze. I manifestanti hanno persino acceso fuochi in alcune strade. L’esasperazione degli animi ha toccato il culmine quando il governo ha fatto ricorso ai soldati in assetto antisommossa, in un Paese con una lunga storia di dittatura militare alle spalle come il Cile.

Un anno fa, i movimenti dei gilet gialli in Francia sono riusciti a paralizzare quasi completamente Parigi, e benché l’ondata di proteste si sia già in larga misura esaurita, l’imminente riforma delle pensioni e il prossimo anniversario della rivolta rischiano di far nuovamente divampare il malcontento. In Spagna, la recente decisione della Corte suprema di comminare lunghe pene detentive ai leader catalani che avevano lanciato il referendum per l’indipendenza nel 2017 e avanzato la richiesta di secessione ha fatto scattare proteste massicce, che vanno a complicare le elezioni di questo fine settimana in quanto già si teme che dalle urne non emergerà un chiaro vincitore.

Nel frattempo, all’altro capo del mondo, le proteste proseguono senza tregua a Hong Kong per la ventiduesima settimana consecutiva, seminando lo scompiglio e lo sconcerto nei centri di potere di una delle principali economie globali. Di tutte le proteste oggi in atto, proprio quelle di Hong Kong sembrano rappresentare la minaccia minore al proprio governo e – indirettamente – a Pechino, il quale si concede il lusso di aspettare tranquillamente la fine delle contestazioni.

Di qui la domanda fondamentale: in questi giorni di diffuso malcontento e di frustrazione politica, la democrazia resta ancora la migliore forma di governo per guardare al futuro? Se la democrazia è fiorita in questi ultimi decenni, ciò è stato possibile grazie al progressivo contributo dei cittadini alla produttività economica (uno dei principali effetti secondari della globalizzazione), che ha agevolato e allargato la loro partecipazione ai processi politici. Ma oggi la globalizzazione è in ritirata e la tecnologia ha cominciato a sostituirsi alla manodopera e continuerà a farlo per molti anni a venire.

È una questione sulla quale dovremo continuare a interrogarci, benché sia ancora troppo presto per dire che i giorni migliori della democrazia sono ormai alle nostre spalle. E la globalizzazione ha fatto segnare successi troppo importanti per vederla condannata alla rottamazione senza appello. Eppure, quando si sommano tutti questi problemi strutturali a un’economia globale in fase di rallentamento, diventa ancor più difficile per i governi soddisfare le legittime richieste dei loro cittadini per i prossimi anni. Se c’è una cosa che unisce il mondo intero nel 2019, è la rabbia contro i governi: e questo dovrebbe far riflettere seriamente tanto i governi quanto i popoli, che oggi si sollevano per contestarli.

Il corriere della sera, 9 novembre 2019

 

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    1 Comment to “La rabbia contro i governi unisce il mondo intero, di Ian Bremmer”

    1. By Mario Pudhu, 12 novembre 2019 @ 09:07

      Su gigante Cina ite contu faghet de Hong Kong, chi “i principi non si toccano” e duncas si sa sovranidade la tenet issa a sa terachedha de Hong Kong li imponet de no ritirare sa lege pro s’estraditzione?
      Ma sos princípios serbint pro un’iscopu prus artu, netzessàriu, zustu e nóbbile de sa “lesa maestà”! Totu s’àteru est a insístere in su cretinismu, e su gigante mundiale Cina ndhe podet fàghere a mancu chentza dannu perunu, antzis istabbilindhe unu raportu rispetosu cun totu Hong Kong.

      Proite si faedhat de «disagi causati dall’incapacità dei governi a fornire i servizi più basilari»? “i governi”, demogràticos cantu podent èssere, sunt cundennados a èssere terachedhos a servítziu de sos “comitati d’affari” de sos gigantes de sa ‘economia’ de gherra chi depent bínchere sa gherra contras a i concorrenti/nemigos pro su domíniu, ossessionados pro si fàghere meres de su mundhu intreu e ammuntonare milliardos pro fàghere muntones prus mannos de milliardos, ispozendhe su restu de s’umanidade de risorsas, de su triballu, de su netzessàriu fintzas solu pro si campare, e a costu de distrúere e mandhare innoromala totu su Pianeta!
      Parlamentos e Guvernos ‘demogràticos’, ma terachedhos postos a fàghere la quadratura del cerchio, buratinos in manu e a servítziu de sos meres de una economia de gherra pro sa gherra chi faghent a bínchidas pro dominare su mundhu e pro sos armamentos chi produint e impreant bochindhe sa zente e distruindhe benes, triballu e totu su logu, produindhe pro unu cossumismu afarista e muntonarzista a costu de lassare mòrrere in su bisonzu de unu mínimu dignitosu siat puru, comente est zustu, modestu, una parte manna de s’umanidade.
      Est custa ‘economia’ criminale chi cheret cambiada de ‘economia’ de gherra a economia “concorrente-cooperante” e no “concorrente” de homo homini lupus e isciacallu.
      «la tecnologia ha cominciato a sostituirsi alla manodopera e continuerà a farlo per molti anni a venire»! «Ha cominciato?» Custu cristianu no ischit de sa gherra de sos triballadores contr’a sas màchinas a fiune de s’Otighentos! Solu in tempos de iscraos de galera e servi della gleba no aiat comintzadu! E a donzi modu “la tecnologia” no est una divinidade chi neune cumandhat: sunt sos meres de custa economia de gherra chi ndhe sunt e si ndhe faghent meres pro bínchere sa gherra cun sos ‘concorrenti’ in su domíniu e contr’a chie tenet bisonzu e pedit fintzas solu de si campare cun sas manos suas e, in ‘alternativa’, lu ‘líbberat’ disocupèndhelu.

      Candho narat «si sommano tutti questi problemi strutturali a un’economia globale in fase di rallentamento, diventa ancor più difficile per i governi soddisfare le legittime richieste dei loro cittadini», si podet ischire ite misurant pro nàrrere chi sa ‘economia globale’ est rallentendhe? Misurant unu “PIL” genéricu chentza fàghere contu de canta zente est irfainada chentza triballu? E comente s’ispiegat chi una “ristrutturazione” moltíplicat a tantas bortas sa produtzione e su profitu e invetze, pro èssere pagu, irmesat e iscàrrigat sa “manodopera” a si la campare su “púbblicu”?
      Custu “PIL” est che a su contu chi in d-unu logu “in média” donunzu si mànigat tre caboniscos candho bi at zente patindhe fàmine chi no ndhe assazat mai mancu bículu?
      E mancu candho custa ‘economia’ no est “in fase di rallentamento” ma ispinta a su parossismu, sos guvernos e istitutziones demogràticas no ant mai fatu fronte a sos bisonzos de sa zente prus bisonzosa, e mancu sas ‘economias’ prus ricas e irvilupadas, dominantes e in ativu, lu faghent, e si est cussas chi sunt in passivu est unu disastru colletivu chi no tenet mai allébiu.
      Custu artículu no pessat minimamente de pònnere in discussione una ‘economia’ assurda, criminale, mortale, de gherra (e sa funtzione de sos guvernos siat puru ‘demogràticos’) in d-unu mundhu incarreradu e ispintu a totu fortza a sa distrutzione fintzas solu ca est faghindhe un’irvilupu macu chi no est progressu ma ossessione de dominadores pro dominare su mundhu ammuntonendhe dinari, sangrendhe sos anémicos e coltivendhe ideales consumistas e fabbrichendhe un’esércitu de zente disocupada e a mentalidade e cumportamentos dipendhentes e dipendhentistas chi si no agatat unu mere no si ponet e medas bortas, antzis sempre de prus, no si podet pònnere a fàghere cosa de bonu.
      Una istitutzione che a s’ONU a ite b’est? Pro ispetare tzarrendhe sa distrutzione de su Pianeta, gherras ‘civiles’ in donzi cuzone de su mundhu, demogratzias inútiles e ditaduras criminales?