Una congregazione religiosa dalla parte della donna: le Pie Suore della Redenzione, di Luciano Carta

Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de battordighe.

1. “In  fondo quello di cui avevo veramente bisogno era di sentirmi almeno per una volta accolta”. Questa testimonianza sintetizza l’esperienza di redenzione di una donna emarginata, che ha ritrovato la forza e le condizioni per ricostruire la propria esistenza grazie all’opera silenziosa e discreta della congregazione religiosa delle Pie Suore della Redenzione[1]. Una testimonianza fra le tante dello stesso tenore conservate tra le carte dell’archivio di questa congregazione religiosa, fondata a Cagliari nel 1935, che ha scelto come campo specifico della propria attività la promozione della donna.

Nel panorama della ricerca storica in Sardegna l’attenzione alla storia religiosa, in particolare a quella dell’età contemporanea, è stata nel complesso alquanto limitata e rivolta prevalentemente allo studio del magistero ecclesiastico, dell’associazionismo cattolico, della vicenda biografica di figure significative del clero secolare e regolare[2]. Solo di recente, sulla falsariga della metodologia storiografica della cosiddetta “storia della pietà”, inaugurata in Italia da don Giuseppe De Luca[3], si è rivolta l’attenzione alle forme della religiosità, alle caratteristiche proprie di singole famiglie religiose o di specifiche chiese locali, all’individuazione del nesso tra spiritualità e azione, al rapporto che sussiste tra le forme individualizzanti delle esperienze religiose e i campi entro cui si è esplicata la loro attività. Secondo la terminologia propria del linguaggio teologico, gli studiosi hanno concentrato l’indagine sul ‘carisma’ proprio delle esperienze religiose dell’isola, focalizzando l’attenzione in particolare su quelle congregazioni sorte tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento che hanno saputo interpretare i fenomeni emergenti dell’evoluzione sociale e  hanno scelto come campo di azione i contesti di emarginazione propri della società contemporanea nella fasi di trapasso dalla civiltà contadina a quella industriale, dalle forme culturali della società rurale a quelle della società urbana.  Ne è scaturito un quadro ricco della vita religiosa in Sardegna che denota un vigore spirituale e un impegno sociale in favore dei ceti deboli ed emarginati per molti versi inatteso e poco conosciuto: tra il 1888 e il 1965 sono state fondate sedici congregazioni religiose[4].

A illustrare sinteticamente i tratti salienti di una di queste congregazioni religiose, quella della Pie Suore della Redenzione, è dedicato questo breve lavoro[5].

 

2.  La congregazione delle Pie Suore della Redenzione viene fondata in Sardegna il 6 aprile 1935 da Anna Figus, nata a Cagliari il 18 aprile 1900 e morta a Roma quasi centenaria il 27 giugno 1995[6].  Ultima di sette figli, di agiata famiglia borghese, dopo aver perso la madre all’età di un anno viene allevata con cura amorevole dal padre. Nell’ambiente del capoluogo sardo del primo ventennio del Novecento, dominato sotto il profilo politico e amministrativo dalla consorteria liberale di Francesco Cocco Ortu e di Ottone Bacaredda, socialmente ed economicamente in bilico tra arretratezza e modernizzazione, culturalmente caratterizzato dalle contese tra un agguerrito laicismo di stampo massonico radicale e socialista e un movimento cattolico composito ma aperto alle sfide della modernità, la fondatrice della Congregazione matura la propria formazione religiosa e culturale. Essa fu caratterizzata da una religiosità intensa ma non chiusa, ispirata alle grandi aperture proprie del pontificato Leone XIII e alla dimensione spirituale del pontificato di Pio X, che pure non fu esente da arroccamenti e diffidenze soprattutto nei confronti degli esiti del sapere scientifico e della democrazia politica[7].

Dalle aperture del pontificato leoniano il movimento cattolico cagliaritano di inizio secolo mutuava un’efficace presenza organizzata nella società, ricca di dibattito e di posizioni diversificate. Promosso e incoraggiato da monsignor Pietro Balestra, tipico “vescovo di azione cattolica”[8], il movimento cattolico cagliaritano annoverava tra le personalità di spicco l’avvocato Enrico Sanjust, esponente del clerico-moderatismo locale, fondatore di due giornali tra il 1898 e il 1913[9]. In questo ambiente dominato dai clerico-moderati non mancavano tuttavia gruppi di cattolici radicali, sensibili ai problemi di una società in rapida trasformazione, che si ispiravano al movimento democratico-cristiano di Romolo Murri. Negli anni che precedettero la condanna del modernismo da parte di Pio X con l’enciclica Pascendi (1907) questi gruppi, guidati da un drappello di giovani sacerdoti formatisi al Collegio Leoniano di Roma, diedero vita ad un Circolo democratico-cristiano e alla breve esperienza del giornale Il Lavoratore (1904-1905). Tra gli animatori del gruppo dei democratici cristiani era don Virgilio Angioni, un sacerdote che resterà in prima fila nei decenni successivi nelle iniziative volte all’assistenza e al recupero degli emarginati[10].

Durante gli anni della prima guerra mondiale Anna Figus frequentò l’Istituto Magistrale Statale “E. D’Arborea”, dove conseguì il diploma per l’insegnamento nelle scuole elementari nel 1918.[11] Per l’opposizione del genitore non poté, come sarebbe stato suo vivo desiderio, continuare gli studi in un Ateneo della penisola per conseguire la laurea in Pedagogia. Tra il 1920 e il 1925 si impegnò attivamente nell’associazionismo, divenendo delegata regionale della Gioventù Femminile di Azione Cattolica. Tale periodo di impegno nell’associazionismo cattolico coincide con la fase iniziale dell’episcopato cagliaritano di Ernesto Maria Piovella, figura eminente della Chiesa sarda nella prima metà del Novecento che negli oltre quaranta anni di magistero ha dato un impulso decisivo all’organizzazione del movimento cattolico in numerosi campi dell’azione sociale e ha lasciato un’impronta caratteristica e forte di spiritualità. Giunto a Cagliari nel 1920 dopo aver guidato la diocesi di Alghero (1907-1914) e l’archidiocesi di Oristano (1914-1920), l’arcivescovo lombardo nei ventinove anni del suo magistero nel capoluogo sardo ha saputo coniugare un’intensa spiritualità con un’azione sociale concreta e capillare. Egli ha dato un fortissimo impulso all’educazione della prima infanzia con la creazione di una fitta rete di asili infantili e con la fondazione a tal fine della congregazione religiosa delle Ancelle della Sacra Famiglia (1933); ha promosso l’organizzazione dell’Azione Cattolica in tutti i suoi rami, rivolgendo cure particolari alla gioventù studiosa con l’istituzione della FUCI e del Movimento dei Laureati Cattolici, che costituirono un validissimo argine opposto dall’intellettualità isolana alle pretese egemoniche del totalitarismo fascista nel campo dell’educazione soprattutto dopo la firma dei Patti Lateranensi (1929); ha sostenuto con la sua autorità, spesso in contrasto con le anguste vedute di una parte dei cattolici cagliaritani, l’opera coraggiosa di cattolici illuminati rivolta al recupero e all’integrazione sociale e religiosa degli emarginati, incoraggiando la nascita dell’Opera del Buon Pastore fondata nel 1923 da don Virgilio Angioni in favore dell’infanzia abbandonata e sostenendo la fondazione, dodici anni dopo, della congregazione delle Pie Suore della Redenzione per il recupero di donne provenienti dagli ambienti della prostituzione[12].

Nel 1925 questo campo di apostolato era ancora lontano dai propositi della futura fondatrice. Era maturata in lei sempre più viva la vocazione claustrale, per cui chiese ed ottenne l’accettazione nell’Ordine delle Monache Sacramentine a Torino. Poiché gravi motivi di salute non le permisero di abbracciare la vita religiosa all’interno di quell’Ordine, Anna Figus decise ugualmente di dedicarsi come laica alla vita consacrata. Abbandonato l’impegno attivo nell’Azione Cattolica, entrò a far parte del Terz’Ordine Francescano. Fino al 1934 si dedicò, oltre che alla cura del vecchio genitore, ad una nascosta ed intensa vita di preghiera e ad un’attività discreta di aiuto ai poveri e agli indigenti. Le biografie ufficiali della Congregazione non offrono indizi concreti atti a spiegare i motivi di questo cambiamento di indirizzo nella sua vita. E’ tuttavia significativo che l’attenzione rivolta all’emarginazione sociale sia maturata in seno alla famiglia religiosa laica del Terz’Ordine Francescano, che rappresenta una scelta evangelica radicale, nel quale Ordine Anna Figus ha intrapreso un percorso di ascesi spirituale molto simile a quello di Virgilio Angioni, l’altro apostolo degli emarginati e degli ultimi nel capoluogo sardo durante il periodo tra le due guerre.[13]

Un episodio del 1928 anticipa l’interesse per quello che sarà il campo di azione della Congregazione. In sintonia con le iniziative di apostolato laicale organizzate dall’arcivescovo Piovella, Anna Figus si associò ad una missionaria laica nella visita ai degenti dell’Ospedale Civile di Cagliari. Durante quella visita la missionaria laica, con disappunto della Figus, non volle visitare le degenti del Reparto Dermosifilopatico, in genere giovani donne gravitanti nell’universo della prostituzione e delle case chiuse del capoluogo. L’atteggiamento della missionaria, frutto di prevenzioni sociali e di una distorta applicazione del messaggio evangelico, colpì profondamente Anna Figus, anche se nell’immediato la decisa condanna interiore dell’atteggiamento manicheo della missionaria non si concretò in un progetto di intervento in quella realtà di degrado morale e di emarginazione sociale.

L’amicizia con Rita Atzori, altra missionaria laica alla quale l’associazionismo cattolico affidò in quegli anni l’ufficio di visitatrice del Reparto Dermosifilopatico dell’Ospedale Civile di Cagliari, permise ad Anna Figus di coltivare l’interesse per i problemi di questo settore dell’emarginazione, fino al  concreto invito nel 1934 a occuparsene in prima persona. Alla fine di quell’anno Rita Atzori decise di partire missionaria in India e chiese all’amica di sostituirla come visitatrice di quel reparto. Inizialmente la Figus non pare accogliesse con entusiasmo l’invito. Una serie di colloqui chiarificatori con il sacerdote Giuseppe Lepori, da tempo interessato alla realizzazione di un progetto per il recupero morale e sociale di quelle donne, la convinsero ad abbracciare quel campo di apostolato e a impegnare in esso tutta se stessa. Lo storico non è certo in grado di dare ragione del motivo che spinse Anna Figus a fondare una famiglia religiosa con la specifica finalità di aiutare e redimere le prostitute. Non può neppure, finché non sarà possibile accedere alla documentazione conservata nell’archivio dell’Ordine, delineare l’itinerario mistico attraverso cui la fondatrice ha maturato la convinzione interiore di essere chiamata a consacrare la vita per questo fine attraverso la fondazione di un ordine religioso. E’ tuttavia facile intuire il presupposto teologico dell’iniziativa, che poggia sulla volontà e sul dovere proprio del cristiano di estendere a qualunque categoria di persone il messaggio evangelico di amore e di redenzione.

La tradizione interna dell’Ordine, che si basa sulla testimonianza diretta della fondatrice, racconta che nel gennaio 1935, in occasione di una delle tante iniziative di apostolato religioso promosse da monsignor Piovella, si svolse una “settimana della giovane”. Anna Figus, in qualche modo forzando la lettera pastorale di indizione dell’iniziativa nonché il parere inizialmente non positivo del suo confessore, il gesuita padre Giuseppe Abbo, riuscì a far inserire nel programma dell’iniziativa la visita al Reparto Dermosifilopatico dell’Ospedale San Giovanni di Dio e a ottenere la necessaria autorizzazione. Superate ulteriori difficoltà frapposte dal direttore del reparto, il professor Alberto Serra, l’amico di famiglia che restò molto sorpreso che una giovane della buona borghesia cagliaritana potesse avere dei contatti con delle “pubbliche peccatrici”, Anna Figus poté finalmente comunicare il suo messaggio di fede e di amore a quelle creature. Accolta dalle degenti con schiamazzi e con qualche volgarità, inizialmente scambiata per una nuova ospite, la Figus riuscì a farsi ascoltare e a trasmettere il suo messaggio religioso. Tanto fu gradito ed efficace quel gesto di attenzione che le degenti chiesero un altro incontro per il giorno successivo; il terzo giorno, secondo una tradizione agiografica consolidata, tutte le degenti presenti nel reparto si avvicinarono ai Sacramenti ed ebbero da Anna Figus la promessa che si sarebbe presa cura di loro.

Nei mesi successivi, superando difficoltà di ogni genere frapposte dal perbenismo borghese dell’ambiente dal quale proveniva e dall’ermetica chiusura di gran parte del clero cittadino, Anna Figus affrontò con decisione la battaglia per la fondazione di una congregazione religiosa dedita alla redenzione delle donne provenienti dal mondo della prostituzione. Decisiva per la realizzazione dell’opera fu la piena adesione dell’arcivescovo monsignor Piovella al progetto. Per ordine di quest’ultimo la fondatrice scrisse in una sola sera “come sotto dettatura” ai piedi del Crocifisso la prima Regola della nuova famiglia religiosa e successivamente predispose la bozza del metodo educativo su cui impostare il lavoro di recupero.[14] (14). Dopo che l’Arcivescovo ottenne dalla Congregazione vaticana per i Religiosi l’autorizzazione a varare in via sperimentale la nuova famiglia religiosa, il 6 aprile 1935 Anna Figus insieme alla dottoressa Peppina Murgia e ad altre due compagne prese i voti nella cattedrale di Cagliari. Per volontà dell’Ordinario Anna Figus, fondatrice del nuovo Ordine delle Pie Sorelle della Redenzione e dell’annessa Opera di riabilitazione delle donne, ne divenne prima superiora con il nome di suor Anna di Gesù. Il successivo 11 aprile giunsero le prime ospiti nella Casa Madre  della Congregazione intitolata a “Nostra Signora di Bonaria”, sita all’ultimo piano del numero civico 10 di via Fossario nel quartiere cagliaritano di Castello, già casa di abitazione della fondatrice.

3. Nella secolare tradizione della Chiesa cattolica l’attenzione verso gli ultimi e verso i fenomeni di emarginazione sociale ha costituito un elemento costante ed è stata realizzata con opere e secondo caratteristiche rispondenti allo spirito e alla mentalità dei tempi, cui ha corrisposto un adattamento del magistero ecclesiastico senza tradire la sostanza dell’insegnamento evangelico. Il “regno di Dio” ha sempre avuto, oltre che una dimensione mistica, una dimensione sociale e la Chiesa ha elaborato nella storia una “dottrina sociale” condizionata dai tempi e dai luoghi. Nel corso dell’Ottocento la Chiesa ha dovuto, non senza contrasti e ritardi, prendere coscienza delle istanze della società industriale, che andava trasformando radicalmente non solo le strutture della società, ma la natura stessa dei rapporti tra gli uomini e, conseguentemente, gli uomini stessi tanto nella moralità quanto nel loro essere cristiani. Questa presa di  coscienza ha trovato nell’enciclica di Leone XIII Rerum novarum (1891) la sua formulazione dottrinale più autorevole. L’enciclica leoniana, secondo M. D. Chenu, costituisce “nella storia dell’Occidente un avvenimento della massima importanza: rappresenta la suprema garanzia spirituale delle aspirazioni e delle rivolte degli oppressi”.[15]

La storia della Chiesa nel Novecento, anche nelle manifestazioni delle chiese locali, sarebbe difficilmente comprensibile dove non si partisse dalla “dottrina sociale” contenuta in questo fondamentale documento pontificio e nelle successive elaborazioni ed approfondimenti presenti nel magistero dei pontefici della prima metà di questo secolo, in particolare, per il periodo in esame, nell’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno, promulgata nel maggio 1931 in occasione del quarantesimo anniversario della Rerum novarum. Redatta in occasione della lotta contro il laicismo e lo statalismo che puntavano ad annullare “la funzione sociale della Chiesa”[16] (16) – la vicenda dell’Action française e della rivoluzione messicana ne costituiscono gli episodi più noti – l’enciclica fu significativamente pubblicata nel momento più acuto di tensione della Chiesa con il fascismo, che nel 1931 aveva deliberato lo scioglimento delle organizzazioni della Gioventù Cattolica e della Federazione Universitaria dei Cattolici Italiani (F.U.C.I.). Ricollegandosi all’insegnamento della Rerum novarum, Pio XI riconosceva ormai senza rancori i progressi della società industriale e contro le ingiustizie da essa prodotte delineava un “codice sociale” che individuava nel “bene comune” e nella realizzazione della “giustizia sociale” il fine specifico della società civile. L’azione sociale dei cattolici, in particolare dei laici, di cui l’enciclica riconosceva il ruolo nella gestione apostolica e comunitaria della Chiesa, doveva concretarsi soprattutto attraverso i movimenti di azione cattolica, soggetti portanti della dottrina sociale. Nella realizzazione del “bene comune” nella società civile la Chiesa rivendicava la sua libertà di azione contro le pretese dello Stato etico, conscia che tale rivendicazione costituiva insieme la più alta garanzia del diritto naturale dei popoli: “La Chiesa, battendosi per la sua libertà, difendeva di fatto nello stesso tempo i diritti naturali dell’uomo, la libertà dell’individuo e della famiglia davanti allo Stato”[17] (17). Superata la fase più acuta del contrasto con il fascismo, il 29 giugno 1931 Pio XI pubblicava l’enciclica Non abbiamo bisogno, specificamente diretta alla situazione italiana, nella quale egli criticava “la concezione totalitaria dello Stato, ribadendo i diritti naturali della famiglia e quelli soprannaturali della Chiesa sull’educazione”[18] (18). L’enciclica, che era ancora incentrata sulla contrapposizione di ascendenza agostiniana delle “due città” e si attardava sui vecchi presupposti dottrinali della superiorità dello spirituale sul temporale, della Chiesa sullo Stato, appare distante dalla sensibilità dell’uomo e del credente di oggi, soprattutto dopo il magistero giovanneo della Pacem in terris e paolino della Populorum progressio. Pur fondata sul presupposto dottrinale oggi desueto secondo cui a fronte di uno “Stato laico” il cristiano deve sentirsi impegnato nella costruzione dello “Stato cattolico”, che è poi la Chiesa concepita come “società perfetta”, va sicuramente ascritto a merito di papa Ratti l’avere energicamente affermato il diritto di esistenza e di azione della Chiesa contro tutti i regimi totalitari, una Chiesa garante del diritto naturale dei popoli, come verrà ribadito dallo stesso pontefice nell’ultima enciclica Mit brennender Sorge (1937), coraggiosa denuncia della politica antiumana e neopagana del nazismo.

E’ su questo terreno di affermazione e difesa dei principi e degli istituti  fondamentali del diritto naturale che si inscrive l’azione pastorale di monsignor Ernesto Maria Piovella durante il periodo cagliaritano, con l’attenzione portata all’educazione della gioventù e alla salvaguardia dell’integrità della famiglia, con la promozione di opere fondate sul rispetto della dignità della persona nei ceti più deboli della scala sociale. Un’attenzione ai bisogni della società pervasa e ispirata da una spiritualità profonda che “non si chiude in se stessa, non è avulsa dalla realtà, ma è fortemente aderente alle problematiche della città e del territorio diocesano”[19] (19).

E’ nel fervore di vita religiosa creato da monsignor Piovella nella diocesi e nella città di Cagliari che dev’essere individuato il terreno nel quale nasce e si afferma la determinazione di Anna Figus di fondare la Congregazione delle Pie Suore delle Redenzione. Nell’ambito di quel contesto la fondatrice sceglie come terreno dell’apostolato socio-religioso un settore, quello della devianza femminile, che era in quel periodo particolarmente vistoso. Fenomeno tipicamente cittadino, il mercato della prostituzione aveva assunto tra le due guerre una rilevanza sociale consistente. La città di Cagliari era stata già interessata a partire dall’inizio del secolo da un crescente fenomeno di inurbamento di masse consistenti di persone dall’entroterra provinciale e regionale; a partire dal 1921 tale fenomeno andò sempre più accentuandosi a causa della continua crisi dell’agricoltura. Nel decennio 1921-1931 Cagliari era cresciuta da 61.758 a 101.878 abitanti, sebbene occorra tener conto che all’incremento della popolazione concorse anche l’aggregazione di alcuni Comuni limitrofi. Come notava efficacemente nel 1932 l’ingegnere Silvio Doglio nell’opuscolo Dal sottano alla casa, tale inurbamento creava una situazione di sovraffollamento e di condizioni igieniche malsane nei sottani dei quartieri storici cittadini dove generalmente si addensava la popolazione inurbata[20] (20). Se a ciò si aggiunge l’impossibilità di assorbire manodopera da parte di una città con un terziario e un’industria ancora sviluppati, è facile inquadrare, in una situazione di forte disagio economico, il fenomeno della prostituzione praticata in genere come mezzo di sostentamento e di sopravvivenza. Tale fenomeno, tollerato e talvolta perfino incentivato dalla pubblica autorità, era anche accentuato dalle tradizionali attività portuali, che comportavano una notevole presenza in città di equipaggi di navi esterne che contribuivano fortemente all’incremento della prostituzione. “Nel 1933, uno degli anni più duri – scrive G. Tore – il capitano dei R. Carabinieri Tomasi segnalava al prefetto i rischi insiti nella ‘depressione morale’ dei ceti meno abbienti a causa del numero dei disoccupati che in città superava i tremila. Il capitano affermava di aver rilevato ‘condizioni di vera e propria indigenza’ e sosteneva che il malessere sociale si era tradotto in aumento dei furti” (21). In questo scenario di degrado economico, sociale e morale, che diverrà ancora più fosco durante la guerra, Anna Figus maturava la decisione di fondare un istituto per il recupero della donna.

Nel 1937, appena due anni dopo l’allestimento dell’Opera nella casa di abitazione della fondatrice, la congregazione riuscì ad assicurarsi l’intero edificio di via Fossario 10, dove venne aperto un laboratorio di sartoria e ricamo e successivamente anche una lavanderia e stireria per assicurare alle ospiti e alle suore una fonte di reddito. Intanto venivano aperte due nuove Case: a Guspini nel 1939 e a Sassari nel 1940.

I bombardamenti degli Alleati del febbraio 1943 costrinsero la Congregazione, come gran parte della popolazione di Cagliari, a sfollare nei paesi dell’interno. La Casa madre crollò parzialmente durante i bombardamenti del 13 maggio 1943. Dopo l’armistizio (8 settembre 1943), le truppe alleate si stabilirono a Cagliari e nei dintorni e poté avere inizio il rientro degli sfollati e la ricostruzione; le suore della Redenzione con le loro ospiti fecero ritorno in città nel 1944. La grave situazione di miseria della popolazione, la carenza di generi alimentari e il problema della sopravvivenza quotidiana comportarono anche il dilagare della prostituzione. Analogamente a quanto avveniva in ambito nazionale – a Roma nel 1944-45 il numero delle degenti per malattie veneree nelle strutture sanitarie risultò quintuplicato rispetto al periodo 1937-1944 – anche a Cagliari aumentarono in modo considerevole le donne ricoverate nel Reparto Dermosifilopatico dell’ospedale cittadino. S’intensificò parallelamente l’attività della Congregazione, che allo stesso tempo si impegnava in altri campi di attività suggeriti da nuove emergenze sociali: nel 1944 veniva aperta all’interno della sezione femminile delle Carceri Circondariali di Buoncammino a Cagliari la Casa del Buon Conforto per l’assistenza alle detenute; l’anno successivo veniva aperta sempre a Cagliari la Casa di Studio Santa Caterina da Siena per l’assistenza morale e spirituale delle studentesse universitarie, operante ancora oggi.

 

4. A partire dal 1949 la congregazione delle Pie Suore della Redenzione, che aveva operato sino a quel momento solo in Sardegna, ampliava progressivamente il proprio orizzonte di apostolato aprendo a Roma una prima Casa di accoglienza per adolescenti e giovani devianti. La formula delle Case di accoglienza, di carattere preventivo oltre che rieducativo, prevalentemente indirizzate all’educazione di giovani ragazze con esperienze familiari traumatiche, costituì l’elemento caratterizzante della diffusione in Italia della Congregazione nel decennio compreso tra il 1950 e il 1960. Tre Case di accoglienza furono infatti istituite a Padova, Firenze e Lanusei nel 1950 ed altre cinque furono aperte tra il 1952 e il 1957 a Napoli, Torino, Treviso, Flumini di Quartu e Ozieri. Considerata la funzione preventiva della Case di accoglienza, mutò anche profondamente il reclutamento delle ospiti dell’Opera, generalmente adolescenti date in affidamento dal Tribunale dei minori. Mutò inoltre nel nuovo contesto il rapporto con gli Enti pubblici, nei confronti dei quali la Congregazione iniziò a svolgere funzione di supporto nell’ambito dell’assistenza sociale in un periodo nel quale la pubblica amministrazione non era ancora sufficientemente dotata di strutture e di personale professionalmente competente per affrontare il problema del disadattamento minorile.

Questo ampliamento del raggio di azione della Congregazione, sempre attenta a cogliere i bisogni della società, non comportò tuttavia un abbandono della vocazione originaria. Proprio nella seconda metà degli anni Cinquanta, come conseguenza dell’approvazione della legge N. 75 del 20 febbraio 1958 sulla abolizione delle case chiuse, meglio nota come legge Merlin, le Pie Suore della Redenzione aprirono due Case a Roma e a Genova per ospitare ex prostitute ed attrezzarono le Case già esistenti per far fronte alla nuova situazione. Durante la discussione della legge in Senato l’opera svolta dalla Congregazione a favore del recupero delle ex prostitute fu ricordata ed encomiata dal senatore democratico-cristiano Boggiano Pico, relatore per il fronte abolizionista (22).

Al fine di offrire una possibilità di inserimento nel mondo del lavoro alle ospiti e alle giovani interessate alla professione infermieristica, nel 1960 la Congregazione apriva a Genova una scuola-convitto per infermiere, inserendosi in un nuovo campo di apostolato, quello sanitario.

Nella metà degli anni Cinquanta, con l’affermarsi di una nuova mentalità più permissiva nel costume conseguente all’incipiente boom economico della società italiana, assunse particolare rilevanza un nuovo fenomeno di disadattamento sociale, quello delle madri nubili. Tenaci convenzioni sociali, particolarmente accentuate in un periodo di crisi generazionale dei valori qual è stato quello che ha preceduto l’ondata liberatoria del Sessantotto, facevano sì che la maternità fuori dal matrimonio venisse vissuta, anche all’interno di famiglie di consolidata tradizione cattolica, come un evento tanto scandaloso da rendere impossibile l’accoglimento della madre nubile nelle famiglie di origine, soprattutto nei primissimi anni di vita del bambino. Per l’accoglienza delle madri nubili la congregazione aprì una prima Casa a Roma nel 1957. Altre due Case con le stesse finalità furono aperte successivamente a Cagliari nel 1981 e a Napoli nel 1982, anche a seguito dell’ulteriore evoluzione del costume e della legislazione sociale. Durante gli anni Settanta l’Italia ha vissuto una stagione particolarmente intensa di dibattito etico-politico relativamente all’emancipazione della donna e al diritto di famiglia. L’approvazione della legge Baslini-Fortuna che introduceva il divorzio nel nostro ordinamento, il tentativo referendario non riuscito di abrogazione nel 1974, l’intensificarsi delle rivendicazioni del movimento femminista, il dibattito sugli anticoncezionali, l’approvazione della legge sulla legalizzazione dell’aborto nel 1978, determinarono una svolta epocale nella formazione di una mentalità più permissiva. Sebbene la nuova legislazione sull’emancipazione femminile e sul diritto di famiglia abbiano indubitabilmente contribuito ad allineare la legislazione italiana a quella dei paesi più evoluti, pervasi da un irreversibile processo di laicizzazione, soprattutto la legge sulla liberalizzazione dell’aborto contribuì ad approfondire il dissidio nella coscienza individuale e sociale le cui conseguenze sono ancora oggi vivissime. La permissività della legislazione, che pure aveva come suo presupposto l’accettazione responsabile della vita, una volta divenuta elemento del costume, finì in molti casi per diventare un impedimento per le donne che, trovandosi nella situazione di dover affrontare una maternità non prevista o non desiderata, intendevano tuttavia portarla a termine. Per offrire alle gestanti nubili la possibilità di portare a termine la maternità senza dover subire i condizionamenti di una mentalità collettiva divenuta troppo permissiva e per  tutelare la vita del bambino nei primi tre anni di vita, la Congregazione aprì nel 1981 e nel 1982 le due suddette Case a Cagliari e a Napoli, adattando alle nuove esigenze strutture preesistenti.

Sempre attenta a cogliere i segni dei tempi e le trasformazioni del costume, per venire incontro tempestivamente a nuovi fenomeni di disadattamento sociale e per tutelare la dignità della donna, la Congregazione delle Suore della Redenzione ha anche rivolto particolare attenzione negli ultimi vent’anni al problema della tossicodipendenza, adattando a tal fine sin dal 1979 la Casa di Treviso.

La presenza tempestiva e intelligente, pronta e discreta, nell’ambito di situazioni a rischio per la dignità della donna è dettata sia dal carisma proprio della Congregazione sia dall’aderenza al magistero della Chiesa, interpretato con dedizione assoluta e con una forte dose di radicalismo e di preveggenza. Si è già avuto modo di segnalare questa attitudine della fondatrice ad una applicazione radicale del messaggio evangelico e a precorrere processi sociali e aspetti della mentalità che avrebbero avuto un più completo dispiegamento con l’evoluzione dei tempi. La preveggenza con cui nei primi anni della fondazione suor Anna di Gesù ha coraggiosamente superato le prevenzioni e le barriere sociali e religiose per andare incontro alle situazioni più problematiche, per curare le piaghe morali più disgustose della società, privilegiando sempre la persona e la sua dignità invece che l’ideologia, trova il suo inveramento negli aspetti più innovativi e più coraggiosi del magistero di Giovanni XXIII e di Paolo VI, i due pontefici che hanno colto in termini chiari i problemi del nostro tempo, accogliendone la sfida e tracciando la strada di una teologia pastorale rispondente alla sensibilità dell’uomo d’oggi. A ben guardare l’opera della Congregazione delle Pie Suore della Redenzione dalla fondazione ad oggi ha sempre avuto come punto di riferimento privilegiato la “dottrina sociale” della Chiesa; essa si snoda secondo le linee portanti segnate dalle encicliche sociali. Si è già sottolineata l’aderenza dell’opera della Congregazione all’insegnamento della Rerum novarum e della Quadragesimo anno nella prima fase della fondazione e la capacità di antivedere l’evoluzione sociale per adattare con preveggenza le forme di intervento. Le caratteristiche dell’apostolato della Congregazione tra gli anni Trenta e Cinquanta costituiscono spesso un’anticipazione della teologia pastorale delle due grandi encicliche di papa Giovanni e di Paolo VI Mater et Magistra (1961) e Octogesimo anno (1971), entrambe da considerare come un adeguamento ai nuovi tempi del magistero cattolico alla “dottrina sociale” della Rerum novarum.

Costituisce una risposta allo slancio apostolico della Populorum progressio di Paolo VI (1967) la svolta con cui la Congregazione, a coronamento del desiderio di rendere universale il proprio carisma, affronta l’esperienza missionaria nei paesi del Terzo Mondo. La scelta del nuovo campo di apostolato non poteva non orientarsi verso due Paesi, l’India e il Brasile, in cui la condizione femminile, per i condizionamenti della tradizione e per le storture dello sviluppo capitalistico, ha assunto caratteri di sfruttamento e di degrado tali da renderla simile ad una forma moderna di schiavitù.

In India la prima Casa missionaria fu aperta nel 1976 a Rippon, nella provincia dell’Alto Kerala; due anni dopo fu aperto a Bangalore un secondo Centro di assistenza per ragazze madri e di prevenzione per adolescenti. La condizione della donna in India presenta caratteristiche del tutto particolari. Insieme alla grande povertà – l’80% della popolazione vive in un grande stato di miseria – e alla divisione in caste ancora operante nonostante l’abolizione legale che risale al 1950, la mentalità propria delle religioni induista e musulmana contribuiscono in modo determinante a rendere la donna interamente sottomessa all’uomo e alle esigenze della famiglia di origine: il suo stato viene deciso dai genitori attraverso l’usanza del contratto matrimoniale fin dalla tenera età; tali contratti, che legano per sempre bambine e adolescenti ad uomini che non hanno scelto e che neppure conoscono, trasformano il matrimonio in un rapporto di schiavitù della moglie nei confronti del marito. L’estrema povertà, la “vendita” delle adolescenti per contratto matrimoniale, l’usanza religiosa induista delle “schiave del dio” o devadasi fanno della prostituzione una vera piaga sociale e culturale difficile da sradicare e da curare. Questi aspetti della società indiana hanno suggerito alla Congregazione di intraprendere l’attività missionaria in primo luogo come équipe medica, in sintonia con la concretezza e il realismo propri dell’azione apostolica delle Pie Suore. A Rippon fu aperto un Centro che si proponeva anzitutto di contribuire alla crescita culturale delle donne, rendendole coscienti della loro dignità di persone. Il Centro, oltre ad offrire alla popolazione nella sua generalità informazioni di carattere igienico, sanitario e di cultura generale, accoglie adolescenti strappate allo sfruttamento materiale e morale, aiutandole a raggiungere una condizione di vita dignitosa e autonoma indipendentemente dalla confessione religiosa. L’altra Casa di Bangalore svolge invece, in prevalenza, un’attività in favore delle ragazze madri, figure particolarmente a rischio nella società indiana perché respinte dalle comunità, con la drammatica alternativa dell’aborto, della soppressione del bambino, della prostituzione oppure, spesso, del suicidio. Nel Centro delle Pie Suore la ragazza madre, al riparo dai condizionamenti sociali, viene posta in grado di affrontare con serenità il parto e il periodo successivo fino allo svezzamento del bambino e viene aiutata nel reinserimento sociale.

Da una situazione analoga di miseria è caratterizzata la realtà del Brasile, dove la Congregazione ha aperto nel 1979 una Casa a Candido Mendes, nello Stato del Maranhao. Paese con situazioni paurose di povertà e di arretratezza – il 64% della popolazione vive in condizioni di grande miseria con un tasso altissimo di analfabetismo – l’emarginazione sociale è conseguenza in particolare dell’inurbamento di enormi masse di popolazione rurale, che riversandosi nelle periferie della grandi metropoli, vivono in condizioni subumane nelle cosiddette favelas. In un contesto di disoccupazione cronica, la malavita costituisce l’elemento più tristemente vistoso. La prostituzione, in particolare per le adolescenti, è spesso l’unico mezzo di sopravvivenza. Secondo i dati dell’UNICEF, il Brasile detiene il primato della prostituzione infantile con cinquecentomila prostitute bambine, molte delle quali introdotte nel mercato della droga oltre che in quello della prostituzione. In Brasile più di un milione di donne divengono mamme prima dei diciannove anni. In questo contesto le Pie Suore della Redenzione operano in collaborazione con l’UNICEF. Attualmente gestiscono due Case di accoglienza per bambine e adolescenti a rischio, per ex prostitute e per madri nubili a Sao Luis e a Fortaleza, città quest’ultima che detiene il triste primato della prostituzione infantile.

5. Abbiamo tratteggiato sin qui il contesto storico in cui è nata la Congregazione e le tappe della sua diffusione in Sardegna, in Italia e nel mondo. E’ opportuno ora delineare le tipologie di intervento e l’organizzazione interna delle Case dell’Opera.

I centri di attività della Congregazione sono fondamentalmente di due tipi: Case di recupero o rieducazione e Case di prevenzione. Tale distinzione tuttavia non appare oggi così rigida e vi è talvolta commistione tra le due tipologie a seconda dei problemi delle ospiti.

Considerata la finalità specifica per cui la Congregazione è sorta nel 1935, in origine le Case dell’Opera furono fondamentalmente Case di recupero morale, sociale e religioso di ex prostitute; l’internato temporaneo nelle Case, oltre che far riacquistare piena coscienza della propria dignità, si proponeva di reinserire le ospiti tramite il lavoro in un ambiente sano e onesto. Oggi, a causa delle profonde trasformazioni sociali, le Case di recupero o rieducazione ospitano prevalentemente “preadolescenti ed adolescenti in età inferiore ai 18 anni, con comportamenti devianti sul piano morale e sociale, a causa di situazioni familiari gravemente negative oppure per altri fattori personali o sociali” (23).

L’affidamento delle giovani alle Case di recupero avviene per il tramite del Servizio Sociale o del Tribunale dei minori, più raramente tramite i familiari o privati. Il gruppo presente all’interno della Casa non supera mai i quindici membri al fine di consentire un rapporto il più possibile personalizzato con le educatrici. Le Case di rieducazione, per la delicatezza delle problematiche proprie delle ospiti e al fine di rendere efficace il metodo educativo, sono impostate di norma ad “internato chiuso”, almeno nella prima fase dell’affidamento; la permanenza nelle Case è cioè a tempo pieno e i rapporti con l’esterno e con l’ambiente di provenienza possono avere una sensibile limitazione.

La vita nell’internato è scandita in modo semplice e familiare, secondo orari che regolano la vita comune, in modo da creare una relazione stretta tra ordine esteriore e ordine interiore. Gran parte del tempo, considerata l’età delle rieducande, è dedicato allo studio e a piccoli lavori domestici; particolare cura viene dedicata alla gestione del tempo libero, con l’organizzazione di attività ricreative, sportive e di drammatizzazione. Le religiose della Casa condividono con le ragazze tutti i momenti della vita quotidiana.

Nella tipologia delle Case di recupero si inseriscono anche le Case di accoglienza per madri in difficoltà, le Comunità terapeutiche per tossicodipendenti nonché la soppressa Casa del Buon Conforto presso il Carcere Circondariale di Buoncammino a Cagliari. Quest’ultima Casa fu aperta nella sezione femminile del carcere cagliaritano nel 1944 ed è rimasta attiva per trent’anni, fino al 1974, gestita da tre suore inserite all’interno della struttura carceraria come vigilatrici. L’apostolato carcerario è stato particolarmente sollecitato e voluto dalla fondatrice come attività privilegiata nella quale meglio che in altre attività riteneva possibile sperimentare in modo tangibile il mistero della redenzione. Particolarmente curata sotto il profilo igienico ed estetico, la sezione femminile delle carceri cagliaritane fu attrezzata dalle Suore della Redenzione di un laboratorio di maglieria nel quale le detenute realizzavano capi di vestiario da vendere all’esterno per realizzare qualche guadagno utile nel momento in cui avrebbero riacquistato la libertà. Sono numerose le testimonianze della proficuità dell’opera svolta nella Casa del Buon Conforto, cessata nel 1974 per mancanza di personale e per difficoltà legate all’evoluzione della legislazione penitenziaria.

Le Case di accoglienza per madri in difficoltà sono rivolte al sostegno delle madri, generalmente nubili, che per svariati motivi non sono in grado di portare avanti da sole la gravidanza o di provvedere al bambino nei primi anni di vita. In sintonia con la legislazione per la tutela della maternità, l’équipe educativa di queste case esige che almeno nei primi tre mesi di vita del bambino le madri non lavorino fuori casa al fine di instaurare col bambino un rapporto profondo. La permanenza nella Casa si protrae di norma sino al secondo anno di vita del bambino ed entro questo periodo vengono attivati tutti i canali per offrire alle giovani mamme la possibilità di rendersi economicamente autonome e di vivere in una casa propria.

La Comunità terapeutica per il recupero delle tossicodipendenti, aperta nel 1970, esiste solo nella Casa di Treviso e accoglie giovani donne tra i 18 e i 30 anni. Il metodo educativo, basato fondamentalmente sulla persuasione e sul recupero della responsabilità personale, si articola in un percorso terapeutico che comprende tre fasi. Nella prima fase la giovane, che entra liberamente in comunità, è sottoposta a notevoli limitazioni relazionali, tra cui l’interruzione di ogni comunicazione diretta con persone estranee nonché il divieto di uscire da sola, di usare sostanze stupefacenti e di fumare. La giovane è costantemente seguita da un’équipe educativa composta da un gruppo di suore e da specialisti esterni. In questa prima fase, che dura mediamente due mesi, il programma di recupero segue un percorso personalizzato in cui assumono particolare rilievo i momenti di confronto col gruppo, i lavori di servizio interno nella comunità e i colloqui personali con la responsabile cui la giovane è affidata. Il programma terapeutico vero e proprio inizia con la seconda fase, che dura mediamente dai 12 ai 18 mesi. Esso comprende anzitutto l’esercizio dell’autoanalisi che deve portare alla conoscenza di sé e delle proprie reazioni; segue quindi la ricerca tendente ad individuare un possibile futuro fondato su obiettivi e valori nuovi. La terza fase del programma terapeutico prevede il graduale reinserimento nel mondo esterno attraverso un lavoro part-time e la ripresa dei contatti con la famiglia. Dopo il definitivo reinserimento la comunità resta un punto di riferimento e offre la possibilità di effettuare verifiche periodiche.

Si è detto sopra che la seconda tipologia dell’attività delle Suore della Redenzione è quella svolta nelle Case di prevenzione. La distinzione tra Case di recupero e Case di prevenzione, rigida nella fase iniziale per le fasce diverse di età cui era rivolta l’attenzione della nuova Congregazione religiosa – Case di recupero per donne adulte con esperienze di prostituzione e Case di prevenzione per bambine adolescenti strappate ad ambienti familiari e sociali a rischio – oggi ha perso l’originaria valenza sia per l’abbassamento di età delle ospiti delle comunità sia per la trasformazione delle tipologie di intervento conseguenti all’evoluzione dei bisogni sociali e delle situazioni di devianza. La Casa di prevenzione, rivolta fin dalle origini alla tutela di adolescenti e preadolescenti disadattate di età inferiore ai diciotto anni, generalmente prive di un valido sostegno familiare e con esperienze personali negative, è stata concepita e strutturata come “comunità aperta”. Le minori, ospiti delle Case di prevenzione, vengono cioè inserite nelle istituzioni esterne presenti nel territorio, in particolare la scuola pubblica, la parrocchia, l’associazionismo. Non è prevista limitazione alcuna, vengono attivate visite frequenti in famiglia, fatta eccezione per conclamate situazioni di rischio, viene favorita la componente relazionale per rendere possibile una formazione della persona armonica e serena.

E’ pertanto evidente da questa schematica esposizione che, nonostante l’apostolato specifico della congregazione sia diretto, secondo l’espressione cara alla fondatrice, alle “Maddalene autentiche”, le Pie Suore hanno seguito, con attenzione vigile e con la sensibilità propria di chi è attento a cogliere i segni dei tempi, qualunque situazione negativa che abbia coinvolto la donna e si sono adoperate a mettere a disposizione operatrici, strumenti e valori adatti per la tutela e la crescita religiosa, culturale e umana della donna. In questa direzione operano le sedici Case attualmente gestite dalla Congregazione, undici in Italia e cinque tra India e Brasile.

 

6. La congregazione delle Pie Suore della Redenzione è un’istituzione di carattere prevalentemente educativo; è pertanto opportuno delineare il metodo pedagogico con riferimento alle Costituzioni dell’Ordine.

L’Opera non è sorta esclusivamente per il recupero umano e sociale della persona, ma per il fine spirituale di aiutare la persona a riconoscere in sé la sua identità di figlia di Dio; è attraverso la coscienza di questa identità che la persona recupera la propria integrità. Il metodo pedagogico ha pertanto come obiettivo primario “la formazione integrale della persona, o meglio la sua ricostruzione” (24); tale metodo costituisce parte integrante delle Costituzioni della Congregazione.

La particolare formazione culturale della fondatrice, diplomata presso l’Istituto Magistrale e particolarmente attenta alle problematiche psico-pedagogiche, ha comportato la delineazione di un metodo educativo innovativo soprattutto se rapportato all’istituzione scolastica e ai metodi pedagogici praticati in quel periodo in Italia e in Sardegna. Le intuizioni psico-pedagogiche di Anna Figus, che sembrano in parte rifarsi al metodo Montessori e alle esperienze più innovative della pratica educativa della prima metà del Novecento, sono diventate successivamente patrimonio comune delle istituzioni educative.

La prima importante intuizione pedagogica della fondatrice è che non può esservi attività educativa se non è impegnata in essa la persona dell’educatore nella sua integralità; non può esservi educazione se non attraverso la vita di chi educa. Il metodo è quindi strettamente correlato con le caratteristiche umane e spirituali delle religiose, che devono in primo luogo conoscere bene se stesse per poter esplicare proficuamente l’azione educativa, la quale si concreterà mediante le virtù e le attitudini proprie dell’educatrice. Ciò non significa che l’azione educativa sia affidata interamente alla soggettività dell’educatrice. Il metodo, secondo il dettato delle Costituzioni, è unico in tutti i settori di apostolato e l’unicità garantisce l’unitarietà dell’azione rieducativa. La soggettività dell’educatrice è solo il mezzo attraverso cui il metodo diventa concreta pratica educativa; la diversità dei mezzi non deve snaturare l’unitarietà del metodo. In sintonia con i principi della scienza pedagogica la fondatrice ha ritenuto essenziale, soprattutto di fronte a casi di giovani fortemente disadattate, che “le educatrici abbiano un unico modo di operare, perseguendo le stesse finalità” (25).

La vocazione religiosa della Pia Suora delle Redenzione, che intende realizzare nella sua esperienza di vita l’esempio del Salvatore, che si cura amorevolmente di ogni persona, è fondata sull’amore. Sarà pertanto l’amore anche l’aspetto fondamentale dell’azione educativa.

“L’amore di Gesù che accoglie ogni persona, che risana e che passa attraverso la persona della religiosa, si esprime concretamente con la pazienza, il perdono, la dolcezza e l’attenzione verso tutte. Le giovani che giungono nelle Case della Redenzione sono spesso deluse, amareggiate, sfruttate, rifiutate a volte dagli stessi genitori, umiliate nella loro dignità. Hanno tanto bisogno di comprensione perché nessuno mai ne ha avuta per loro; hanno bisogno di affetto vero, non interessato; spesso hanno fatto mille esperienze di vario genere, forse anche di violenza; hanno subito maltrattamenti e sono state usate; sono cariche di negatività e per la maggior parte conoscono soltanto gli aspetti deleteri e scabrosi della vita” (26).

 

In questo contesto l’attenzione vigile e l’amore premuroso e paziente nei confronti di persone fragili e provate dalle esperienze negative della vita costituiscono il presupposto della vita di relazione all’interno della Casa. La Pia Suora non perderà mai la fiducia che la giovane disadattata possa reincamminarsi nella via del bene e fonda tale fiducia nel fatto che essa è solo lo strumento del progetto di amore e di salvezza che Dio ha per ciascuna persona.

Strumento fondamentale perché l’amore diventi operante è il dialogo, inteso come elemento anche terapeutico di comprensione di sé, di superamento razionale e di liberazione dalle esperienze negative vissute. Attraverso il dialogo viene ricostruito un rapporto di fiducia e affettivo nel quale l’educatrice diviene un punto di riferimento importante e un  modello di vita col quale confrontarsi e talvolta anche scontrarsi. Nell’azione educativa la religiosa pone la massima attenzione nell’individuare i bisogni della giovane affidatale e nel rispetto delle regole proprie della comunità familiare e sociale.

Un posto di assoluto rilievo in tale opera di ricostruzione della personalità assume l’istruzione. L’Opera fa in modo di assicurare a tutte le ospiti un grado di istruzione adeguato alle capacità e alle attitudini personali. Le ospiti frequentano generalmente le scuole pubbliche e come supporto per la preparazione la Congregazione si avvale dell’aiuto di volontari, in genere docenti e operatori culturali, che in modo discreto e disinteressato coadiuvano le educatrici in questo campo.

Nel programma di rieducazione assume un ruolo importante la formazione religiosa, vista come elemento capace di operare in favore di un recupero integrale della persona. L’educazione religiosa non viene però imposta alle giovani. Essa costituisce piuttosto un’opzione e un invito, estremamente rispettoso degli orientamenti della persona e del suo grado di maturità.

La cura dell’ambiente e l’attenzione all’ordine esteriore delle Case dove le giovani trovano ospitalità costituiscono alcuni tra gli aspetti maggiormente posti in evidenza dalla fondatrice nelle Costituzioni dell’Ordine. Convinta che la proprietà e l’ordine dell’ambiente esterno sia specchio e immagine della compostezza e dell’ordine interiore, Madre Anna di Gesù ha raccomandato una particolare cura dell’ambiente: costituisce una caratteristica delle Case di accoglienza la proprietà, il gusto estetico, una certa raffinatezza dell’ambiente. Le Case si caratterizzano per

“un arredamento sobrio, curato con arte e buon gusto: stanze luminose, piacevolmente abbellite con fiori, piante oggetti ornamentali; sale da pranzo graziosamente apparecchiate con tavoli preparati per quattro o sei persone; camerette arredate con simpatia con tre o quattro letti invece che i soliti cameroni. All’esterno un ampio spazio verde dove è possibile trascorrere momenti di ricreazione o fare attività fisica” (27).

 

Secondo i canoni pedagogici di Madre Anna di Gesù, la bellezza esteriore come quella interiore ha un effetto di trascinamento e di fascino. Una delle sue massime preferite era: “Dal bello si passa al bene” (28).

 

7. Si intravede, anche in questi aspetti che a tutta prima possono apparire estrinseci al progetto educativo, una profonda aderenza al dettato evangelico dell’amore, che costituisce l’elemento portante del carisma di questa famiglia religiosa. L’attenzione all’ambiente esterno “vuole trasmettere alla giovane che arriva nelle Case della Redenzione la gioia e la festa che il Padre Celeste prova per il ritorno del figliol prodigo” (29), secondo l’insegnamento della celebre parabola del Vangelo di Luca.

Il carisma delle Pie Suore della Redenzione, la ragione teologica profonda della loro azione apostolica e il fondamento della loro spiritualità, risiede, come si è avuto occasione di accennare, nel mistero cristiano della Redenzione. In sintonia con la cristologia paolina, le Pie Suore intendono essere strumento nelle mani di Dio per assecondare il disegno di redenzione dell’umanità dal peccato, che trova compimento e piena attuazione nel sacrificio di Gesù. Egli, come dice San Paolo, “pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (30).

Giuseppina Carboni ha efficacemente delineato il carisma della Congregazione:

“L’incarnazione di Gesù, ma soprattutto la sua morte e risurrezione, svelano il disegno di Dio come disegno d’amore, che è universale, diretto a tutti e in modo particolare a coloro che sono più bisognosi, cioè i peccatori, le ‘pecorelle smarrite’.

Leggendo il Vangelo vediamo che l’amore di Dio, resosi manifesto attraverso il Figlio, raggiunge ogni creatura per riportarla alla comunione col Padre. L’amore di Dio, in Gesù, verso gli uomini è quindi incondizionato, non ha confini né distinzione di razza o condizione sociale. E’ un amore che salva, perdona, pervade le fibre più profonde dell’uomo e lo rende capace di novità di vita nel recupero della propria identità filiale. E’ amore che non perde mai la speranza, che perdona infinite volte, un amore che si dona e che si sacrifica per la salvezza degli uomini.

Nel Vangelo troviamo la proclamazione di questo amore, […] il Vangelo è la parola d’amore del Padre attraverso Gesù. Noi però non siamo solo dei destinatari passivi di questo amore: Gesù ci invita a seguirlo, ci salva e ci incorpora a Sé perché anche noi possiamo divenire, in Lui, strumenti d salvezza. La Redenzione che Gesù ha operato morendo sulla croce, sottomettendosi umilmente alla volontà del Padre per la nostra salvezza, ci coinvolge in prima persona.

La ‘sete’ di Gesù sulla croce è sete di anime che vogliono donare la propria vita per continuare la sua opera di salvezza, come anche è sete di anime perdute nel peccato che aspettano il Buon Samaritano.

Nate sotto la croce, le Pie Suore della Redenzione si fanno carico di questa ‘sete’ di Gesù e, prendendo come unico modello il Salvatore, a loro volta si fanno dono, vivendo una vita a servizio delle donne emarginate nella ‘ricerca’ e nel ‘recupero’ di esse.

Come Gesù infatti ha privilegiato i peccatori più bisognosi perché più lontani e feriti, così anche le Pie Suore si adoperano per la donna più ferita ed emarginata, forti della certezza che solo in Lui c’è salvezza” (31).

 

La contemplazione del mistero della croce, che costituisce il fondamento del carisma delle Pie Suore della Redenzione e si esplica nell’attenzione verso il dolore e la sofferenza che attanaglia l’umanità, ha suggerito a Madre Giuseppina dell’Amore Infinito, al secolo Ica (Giuseppina) Macciotta, una delle figure più significative della Congregazione, una riflessione filosofico-teologica degna di studio e di attenzione, una pagina di critica storico-filosofica di grande spessore che può a giusto titolo trovare posto nel panorama dell’esistenzialismo cristiano del Novecento.

In un saggio inedito del 1987 dal titolo Il valore del dolore nella vita sociale (32), Madre Giuseppina compie una finissima analisi sul significato del dolore nella vita dell’uomo. Il dolore, secondo l’autrice, è connaturato allo spirito umano; una coessenzialità che non sono riusciti né a mitigare né a superare la tradizione filosofica occidentale di ascendenza stoica né quella orientale caratteristica soprattutto del buddismo. Come attestano unanimemente tutte le tradizioni culturali, l’esperienza individuale vive inizialmente il dolore “come un peso d’angoscia” (33). Nel mondo greco come nella tradizione giudaico-cristiana, nella storia di Giacobbe come nelle tragedie di Euripide, nel libro di Giobbe come nella lirica di Leopardi, l’individuo conosce il dolore come contrasto, come lotta: l’uomo nasce avvinghiato dal dolore e suo unico desiderio è quello di liberarsi da tale abbraccio. L’esperienza della vita e della storia umana rendono però l’individuo gradualmente cosciente dell’impossibilità di evadere dal dolore, per cui si ingenera nel soggetto un “adattamento forzato” (34), che può trasformarsi negli individui più riflessivi in “accettazione consapevole e fattiva” (35). Nelle tragedie di Eschilo, ad esempio, il dolore diviene fonte di conoscenza e quindi strumento di progresso per l’umanità.

L’accettazione consapevole è però fondamentalmente riconoscimento della propria impotenza di fronte al dolore. Un sentimento di impotenza che può schiacciare l’uomo, ma può anche spingerlo a riconoscere che vi è qualcuno più potente di lui che egli non può in alcun modo dominare. “Vi è sempre il momento in cui, dai flutti della sofferenza, l’animo stanco approda senza neanche rendersene conto alle rive di Dio” (36).  Il dolore, nella sua devastante potenza, rimanda ad “una più alta giustificazione” (37). E’ l’esperienza di Giacobbe, il quale, al culmine della sofferenza, riconosce: “Sono cose sopra la mia capacità ed io non posso comprenderle”; donde l’accettazione e l’abbandono nelle mani di Dio: “Io Ti farò delle domande e Tu insegnami” (38). E’ attraverso questo emblematico itinerario interiore che il dolore diviene, secondo Madre Giuseppina, “legge vitale” (39), la via maestra dell’itinerario dell’uomo verso Dio. Per mezzo di essa l’uomo è capace di  operare un capovolgimento radicale di prospettiva, il dolore diviene “artefice della beatitudine” (40) dell’uomo che ritrova Dio. Il dolore diventa, in questa prospettiva, la “legge di armonia cosmica”, la “vera segreta essenza della vita” (41). Dall’angoscia alla riscoperta del senso della vita, dal non senso della realtà alla riscoperta dell’armonia del mondo: è questo un itinerario possibile della riflessione sul dolore e sulla sua accettazione.

“Occorre che il dolore, dopo aver portato [l’uomo] giù giù, a contatto con la profondità della vita, lo risospinga in alto, verso la comprensione del divino. […] Se il dolore non riuscisse ad altro che a far sentire agli uomini il bisogno di cercare più in alto di sé, anche senza portarli a toccare la meta, sarebbe già da benedire” (42).

 

Su questo presupposto squisitamente filosofico può trovare una giustificazione la teologia della croce. L’approdo dell’itinerario filosofico di Madre Giuseppina, che sintetizza con forte originalità movenze dell’esistenzialismo filosofico contemporaneo con modelli concettuali della tradizione filosofica cristiana, in cui si fondono tomismo e misticismo, è dunque Dio. La sua “filosofia del dolore” non vuole però essere un itinerario razionale su cui far poggiare la conoscenza e l’esperienza di Dio. La via razionale presuppone la fede. Fides quaerens intellectum: l’itinerario filosofico rafforza la fede, non ne costituisce il fondamento. L’itinerario filosofico è strumento attraverso cui il credente corrobora la fede, rende il credente più determinato e più cosciente nell’attività che esplica in seno alla società. “Quando, arrivati all’approdo divino, lo si riconosce e ci si mette un piede ben saldo, allora si può ritornare al proprio dolore per farne forza attiva, allora finalmente si può collaborare con Lui” (43).

Attraverso questa nuova consapevolezza il credente “si china a raccogliere la Croce” (44); il dolore “diventa da nemico, compagno” (45); attraverso quell’itinerario l’uomo, consapevole della propria condizione, considera il dolore come elemento costitutivo dell’umanità intera. Quando l’uomo impara a conoscersi “finisce col ritrovare oltre la propria individualità, le caratteristiche universali della sua umanità” (46). Da ciò discende la funzione sociale del dolore; l’universalità del dolore è l’elemento fondante della solidarietà umana anche per sistemi filosofici portatori di visioni del mondo contrapposte a quella cristiana.

“ La solidarietà fra chi soffre è istintiva. Tanto naturale è questo approdo, che perfino spiriti non arrisi da confortante speranza come quelli dello Schopenhauer e del Leopardi hanno visto qui, nel fraterno abbraccio degli uomini tutti ugualmente indifesi e miseri e soli, il logico sbocco dell’individuale dolore” (47).

 

Per il credente il dolore, oltre che sprone di solidarietà, è vincolo di carità, è lo strumento privilegiato attraverso cui è possibile realizzare il più grande dei comandamenti cristiani: l’amore del prossimo.

“Assecondiamo la capacità, che il dolore dà a ciascuno, di avvertire l’altrui tormento, di percepire fin le sfumature della comune pena di esistere.

Ci stringa esso con vincolo di reciproca carità, perché su tutti i dolenti spargiamo la nostra pietà e traduciamo in fattivo sforzo di conforto e d’aiuto l’ardente aspirazione di san Paolo flere cum flentibus, piangere con chi piange.

Far cadere le barriere innalzate dall’egoismo a tutela del nostro individuale dolore per accogliere in esso quello di tutti i fratelli, è farci capaci di comprendere e di amare. Il dolore è vincolo di carità. Ed è questa la sua più importante funzione sociale, la giustificazione essenziale della sua necessità; ed è questa anche la sua beatitudine terrena, che se avrà il suo pieno compimento nei cieli, già quaggiù gonfia il cuore e tramuta la pena in amore”. (48).

 

Non può sfuggire l’acutezza e la pregnanza della riflessione storica, filosofica e teologica  di Madre Giuseppina. Il breve saggio fortunosamente rinvenuto, testimonianza che anche la riflessione filosofica e la finezza letteraria abitano tra le Pie Suore della Redenzione, ci spinge a manifestare un certo rammarico per non aver potuto più compiutamente conoscere e meglio illustrare il pensiero e l’opera delle Pie Suore della Redenzione. La Chiesa sarda possiede tesori ancora troppo gelosamente custoditi, che la comunità civile dovrebbe poter conoscere. Chi scrive auspica una maggiore disponibilità a rendere consultabili da parte degli studiosi le fonti archivistiche ecclesiastiche. Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio.

 

NOTE

 

(1)   Desumo la testimonianza anonima da G. CARBONI, La Congregazione delle Pie Suore della Redenzione: esperienze di recupero femminile, tesi di laurea discussa presso l’Università Cattolica di Milano nell’anno accademico 1994-95, relatore prof. Cesare Scurati, p. 160. A questa accurata e documentata tesi di laurea questo breve lavoro è largamente debitore.  Un particolare ringraziamento devo, oltre che all’autrice della tesi di laurea, a suor Anna Pisu, superiora della Casa cagliaritana delle Pie Suore della Redenzione, e all’amico Tonino Cabizzosu, per la cortesia e la disponibilità dimostrate nella fase di ricerca e di acquisizione della documentazione.

(2)   Per una bibliografia aggiornata sulla storia religiosa della Sardegna si rimanda a R. TURTAS, Breve storia della Chiesa in Sardegna, in La Sardegna. Enciclopedia a cura di Manlio Brigaglia, vol. 1, Sez. 2, La Storia, Cagliari 1982, pp. 223-224; F. ATZENI, Il movimento cattolico a Cagliari dal 1870 al 1915, Cagliari 1984; T. CABIZZOSU, Chiesa e società in Sardegna centro-settentrionale (1850-1900), Ozieri 1986; Chiesa e società sarde tra due Concili regionali 1924-1990, a cura di Franco Puddu, Cagliari 1990.

(3)   Sul sacerdote di origine lucana Giuseppe De Luca e sulla sua metodologia storiografica cfr. R. Guarnieri, Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, vol. II, Casale Monferrato 1992, sub voce. Si ispirano alla metodologia storiografica di questo autore M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, introduzione di Piero Borzomati, Torino 1996; P. Borzomati, Chiesa e società meridionale. Dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Roma 1991; Idem, Esperienze meridionali di santità tra ‘800 e ‘900, Reggio Calabria 1990; Idem, La spiritualità di Padre Pio da Pietrelcina, in F. Atzeni, T. Cabizzosu, Studi in onore di Ottorino Pietro Alberti, Cagliari 1998, pp. 587-593.

(4)   Cfr. T. Cabizzosu, Spiritualità e santità sociale in Sardegna tra ‘800 e ‘900, in “Archivio Storico Sardo”, vol. XXXIX (1998), pp. 571,588; Idem, Padre Manzella nella storia sociale e religiosa della Sardegna, Roma 1991; Idem, Un contemplativo in azione nella Sardegna del primo Novecento, Nuoro 1993; Idem, Contemplazione e azione in Felice Prinetti, Soveria Mannelli 1997; Idem, Virgilio Angioni, una Chiesa per gli ultimi, Cagliari 1996. 

(5)        Sulla Congregazione delle Pie Suore della Redenzione, oltre la citata tesi di laurea di Giuseppina Carboni, cfr. M. Maxia, Madre Anna di Gesù: un amore infinito per i “piccoli” e gli “ultimi”, In “NuovOrientamenti”, 9 luglio 1995; T. Tagliaferri, I santi se ne vano in punta di piedi, ivi, 9 luglio 1995; T. Cabizzosu, Le Pie Suore della Redenzione, In “L’Osservatore Romano”, 13 dicembre 1985; M. Maxia, Un prezioso servizio d’amore alle “emarginate”, in “NuovOrientamenti”, 28 aprile 1984 e 5 magio 1985; F. Birocchi, Una mano per chi soffre, in “Almanacco di Cagliari”, 1986; R. Alessandrini, “Madre ammirabile”. Il coraggio di dire “sì”, in “Or-Domenica”, 5 febbraio 1996; La Casa di accoglienza per le madri in difficoltà a Cagliari, in “Sardegna Magazine”, febbraio 1989; M. Fioretti, La Casa del Bambino Gesù”, in “L’Eco di Bonaria”, gennaio 1990; L. Simeoni, Da “serva” degli emarginati a superiora generale dell’Ordine, in “La vita del popolo/Treviso”, 10 gennaio 1988; A. Eretta, Il recupero sociale nel segno dell’amore”, in “La Voce serafica della Sardegna”, dicembre 1992; F. Saldi, Non bastano le mimose, in “Amici dei lebbrosi”, marzo 1998; G. Moccia, L’altruismo come regola di vita, in “Almanacco di Cagliari”, 1996; M. Mulas, Una vita al servizio degli emarginati, in “Inner Wheel”, febbraio 1995; M. TacciProfeti del nostro tempo, in “Il messaggio del Cuore di Gesù”, febbraio 1992, pp. 81-84.

(6)   Su Madre Anna di Gesù, oltre alla bibliografia citata nella precedente nota, cfr. Celebrazione della vita di Madre Anna di Gesù fondatrice delle Suore della Redenzione, numero unico del “Bollettino” della Congregazione, pubblicato nell’estate del 1996, in occasione del primo anniversari9 della morte della fondatrice, ricco di contributi e di testimonianze. Segnaliamo, tra gli altri, le omelia del padre Miguel Patino Hormanza e di don Antonio Madeddu, l’intervento del padre Elio Gambari e di monsignor Natalino Zagotto, le testimonianze di Oscar Luigi Scalfaro, mons.Pergiuliano Tiddia, mons. Antioco Piseddu, mons. Paolo Carta, madre Ines Lanzanova, prof. Aniello Macciotta.

(7)   Per un’analisi degli aspetti culturali e religiosi dei pontificati di Leone XIII e di Pio X, visti da angolazioni ideologiche diverse, cfr. G. CANDELORO, Il movimento cattolico in Italia, Milano 1974; G. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari 1972; P. SCOPPOLA, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1975.

(8)   F. ATZENI, Il movimento cattolico a Cagliari dal 1870 al 1915

(9)   Cfr. ivi, p. 84 ss., nonché la voce Sanjust Enrico, in Dizionario del movimento cattolico, cit.

(10)                  Cfr. L. DEL PIANO, Il giornale “Il Lavoratore” e il movimento democratico-cristiano a Cagliari (1904-1905), in Politici, prefetti e giornalisti fra Ottocento e Novecento in Sardegna, Cagliari 1975, pp. 151-230; T. Cabizzosu, Virgilio Angioni. Una chiesa per gli ultimi, cit., pp. 125-163.

(11)                  Cfr. Archivio Storico dell’Istituto Magistrale “E. D’Arborea” di Cagliari, Registro degli esami di Licenza Normale Femminile (1917-18), sub voce Figus Anna di Eugenio, n. Cagliari 18/04/1900. La Figus risulta “licenziata e abilitata” alla prima sessione del luglio 1918 con la votazione complessiva di 123/150. La votazione riportata nelle discipline dell’esame di Licenza fu la seguente (nelle discipline dove sono indicati due voti il primo si riferisce allo scritto e il secondo all’orale): Pedagogia 8/9, Morale 9, Italiano 7/8, Storia 7, Geografia 7, Matematica e computisteria 8, Scienze fisiche e naturali 7, Agraria 9, Disegno 8, Calligrafia 9, Ginnastica 8, Canto 10, Lavoro femminile 9, Lavoro manuale 9, Lezione pratica 8. Le ultime due discipline non  facevano media ai fini della votazione di licenza e di abilitazione.

(12)                  Su monsignor Piovella (1861-1949), oltre la voce del Dizionario Storico del movimento cattolico, cit., curata da P. De Magistris, cfr. E. LOBINA, Vita di S. E. Rev.ma Mons. Ernesto Maria Piovella, Cagliari 1967; O. P. ALBERTI, Monsignor Ernesto Maria Piovella, in Cagliaritani illustri, Cagliari 1993, pp. 107-129; P. CARBONI, S. E. Mons. Ernesto Maria Piovella. Azione pastorale e sociale in Sardegna, Cagliari 1984.

(13)                  Su monsignor Virgilio Angioni (1878-1947) cfr. T. CABIZZOSU, Virgilio Angioni. Una Chiesa per gli ultimi, cit.

(14)                  Cfr. G. CARBONI, La Congregazione delle Pie Suore della Redenzione, cit., p. 55.

(15)                  M. A. CHENU, voce  Dottrina sociale della Chiesa, in Enciclopedia Europea, vol. 4, Milano 1977.

(16)                  G. MARTINA, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, vol. 4, L’età contemporanea, Brescia 1995, p. 147.

(17)                  Ivi, p. 167.

(18)                  Ivi, p. 168.

(19)                  W. ONANO, Contemplazione e azione  in mons. Ernesto Maria Piovella arcivescovo di Cagliari negli anni 1920-1934, lavoro seminariale guidato dal prof. T. Cabizzosu, Pontificio Facoltà Teologica della Sardegna, anno accademico 1995-96, p. 8 del dattiloscritto.

(20)                  F. MASALA, La formazione della città borghese, in AA. VV., Cagliari, Roma-Bari 1996, pp. 277-78.

(21)                  G. TORE, Elites, progetti di sviluppo ed egemonia urbana, ivi, pp. 371-72. Si vedano inoltre V. SCANU, Off limits, in “Almanacco di Cagliari”, 1992; A. PIBIRI, Bologna è libera. La prostituzione a Cagliari nel Novecento, ivi, 1990;  C. PILLAI, Il miraggio di via dei biscottai, ivi, 1987; D. SANNA, L’era del “Cafforzo”. Come eravamo: Cagliari tra il 1935 e il 1939, ivi, 1990.

(22)                  G. CARBONI, La Congregazione delle Pie Suore della Redenzione, cit., p. 63 nota.

(23)                  Statuto delle Case di rieducazione, in G. CARBONI, La Congregazione delle Pie Suore della Redenzione, cit., p. 87.

(24)                  Ivi, p. 83.

(25)                  Ivi, p. 84.

(26)                  Ivi, pp. 84-85.

(27)                  Ivi, p. 91.

(28)                  Cfr. ivi, p. 92.

(29)                  Ivi, p. 91.

(30)                  SAN PAOLO, Lettera ai Filippesi, 2, 6-8.

(31)                  G. CARBONI, La Congregazione delle Pie Suore della Redenzione, cit., pp. 77-79.

(32)                  ICA MACCIOTTA, Il valore del dolore nella vita sociale, dattiloscritto di 9n pagine. La datazione, manoscritta nel bordo superiore della prima pagina, è di Tonino Cabizzosu, che mi ha fornito il documento.

(33)                  ICA MACCIOTTA, Il valore del dolore nella vita sociale, cit., p. 1.

(34)                  Ivi, p. 2.

(35)                  Ibidem.

(36)                  Ibidem.

(37)                 Ibidem.

(38)                 Ibidem.

(39)                 Ivi, p. 3.

(40)                  Ivi, p. 4.

(41)                  Cfr. ibidem.

(42)                  Ivi, pp. 5-6, passim.

(43)                  Ivi, p. 6.

(44)                  Ibidem.

(45)                  Ibidem.

(46)                  Ivi, p. 7.

(47)                  Ivi, p. 8.

(48)                  Ibidem.

 

 

 

 

 


[1] Desumo la testimonianza anonima da G. Carboni, La Congregazione delle Pie Suore della Redenzione: esperienze di recupero femminile, tesi di laurea discussa presso l’Università Cattolica di Milano nell’anno accademico 1994-95, relatore prof. Cesare Scurati, p. 160. A questa accurata e documentata tesi di laurea questo breve lavoro è largamente debitore.  Un particolare ringraziamento devo, oltre che all’autrice della tesi di laurea, a suor Anna Pisu, superiora della Casa cagliaritana delle Pie Suore della Redenzione, e all’amico Tonino Cabizzosu, per la cortesia e la disponibilità dimostrate nella fase di ricerca e di acquisizione della documentazione.

 

[2] Per una bibliografia aggiornata sulla storia religiosa della Sardegna si rimanda a R. Turtas, Breve storia della Chiesa in Sardegna, in La Sardegna. Enciclopedia a cura di Manlio Brigaglia, vol. 1, Sez. 2, La Storia, Cagliari 1982, pp. 223-224; F. Atzen, Il movimento cattolico a Cagliari dal 1870 al 1915, Cagliari 1984; T. Cabizzosu, Chiesa e società in Sardegna centro-settentrionale (1850-1900), Ozieri 1986; Chiesa e società sarde tra due Concili regionali 1924-1990, a cura di Franco Puddu, Cagliari 1990.

 

[3] Sul sacerdote di origine lucana Giuseppe De Luca e sulla sua metodologia storiografica cfr. R. Guarnieri, Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, vol. II, Casale Monferrato 1992, sub voce. Si ispirano alla metodologia storiografica di questo autore M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, introduzione di Piero Borzomati, Torino 1996; P. Borzomati, Chiesa e società meridionale. Dalla Restaurazione al secondo dopoguerra, Roma 1991; Idem, Esperienze meridionali di santità tra ‘800 e ‘900, Reggio Calabria 1990; Idem, La spiritualità di Padre Pio da Pietrelcina, in F. Atzeni, T. Cabizzosu, Studi in onore di Ottorino Pietro Alberti, Cagliari 1998, pp. 587-593.

 

[4] Cfr. T. Cabizzosu, Spiritualità e santità sociale in Sardegna tra ‘800 e ‘900, in “Archivio Storico Sardo”, vol. XXXIX (1998), pp. 571,588; Idem, Padre Manzella nella storia sociale e religiosa della Sardegna, Roma 1991; Idem, Un contemplativo in azione nella Sardegna del primo Novecento, Nuoro 1993; Idem, Contemplazione e azione in Felice Prinetti, Soveria Mannelli 1997; Idem, Virgilio Angioni, una Chiesa per gli ultimi, Cagliari 1996.

 

[5] Sulla Congregazione delle Pie Suore della Redenzione, oltre la citata tesi di laurea di Giuseppina Carboni, cfr. M. Maxia, Madre Anna di Gesù: un amore infinito per i “piccoli” e gli “ultimi”, In “NuovOrientamenti”, 9 luglio 1995; T. Tagliaferri, I santi se ne vano in punta di piedi, ivi, 9 luglio 1995; T. Cabizzosu, Le Pie Suore della Redenzione, In “L’Osservatore Romano”, 13 dicembre 1985; M. Maxia, Un prezioso servizio d’amore alle “emarginate”, in “NuovOrientamenti”, 28 aprile 1984 e 5 magio 1985; F. Birocchi, Una mano per chi soffre, in “Almanacco di Cagliari”, 1986; R. Alessandrini, “Madre ammirabile”. Il coraggio di dire “sì”, in “Or-Domenica”, 5 febbraio 1996; La Casa di accoglienza per le madri in difficoltà a Cagliari, in “Sardegna Magazine”, febbraio 1989; M. Fioretti, La Casa del Bambino Gesù”, in “L’Eco di Bonaria”, gennaio 1990; L. Simeoni, Da “serva” degli emarginati a superiora generale dell’Ordine, in “La vita del popolo/Treviso”, 10 gennaio 1988; A. Eretta, Il recupero sociale nel segno dell’amore”, in “La Voce serafica della Sardegna”, dicembre 1992; F. Saldi, Non bastano le mimose, in “Amici dei lebbrosi”, marzo 1998; G. Moccia, L’altruismo come regola di vita, in “Almanacco di Cagliari”, 1996; M. Mulas, Una vita al servizio degli emarginati, in “Inner Wheel”, febbraio 1995; M. Tacci,. Profeti del nostro tempo, in “Il messaggio del Cuore di Gesù”, febbraio 1992, pp. 81-84.

 

[6] Su Madre Anna di Gesù, oltre alla bibliografia citata nella precedente nota, cfr. Celebrazione della vita di Madre Anna di Gesù fondatrice delle Suore della Redenzione, numero unico del “Bollettino” della Congregazione, pubblicato nell’estate del 1996, in occasione del primo anniversari9 della morte della fondatrice, ricco di contributi e di testimonianze. Segnaliamo, tra gli altri, le omelia del padre Miguel Patino Hormanza e di don Antonio Madeddu, l’intervento del padre Elio Gambari e di monsignor Natalino Zagotto, le testimonianze di Oscar Luigi Scalfaro, mons. Pergiuliano Tiddia, mons. Antioco Piseddu, mons. Paolo Carta, madre Ines Lanzanova, prof. Aniello Macciotta.

 

[7] Per un’analisi degli aspetti culturali e religiosi dei pontificati di Leone XIII e di Pio X, visti da angolazioni ideologiche diverse, cfr. G. CANDELORO, Il movimento cattolico in Italia, Milano 1974; G. DE ROSA, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari 1972; P. SCOPPOLA, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Bologna 1975.

[8] F. Atzeni, Il movimento cattolico a Cagliari dal 1870 al 1915

[9] Cfr. ivi, p. 84 ss., nonché la voce Sanjust Enrico, in Dizionario del movimento cattolico, cit.

 

[10] Cfr. L. DEL PIANO, Il giornale “Il Lavoratore” e il movimento democratico-cristiano a Cagliari (1904-1905), in Politici, prefetti e giornalisti fra Ottocento e Novecento in Sardegna, Cagliari 1975, pp. 151-230; T. Cabizzosu, Virgilio Angioni. Una chiesa per gli ultimi, cit., pp. 125-163.

[11] Cfr. Archivio Storico dell’Istituto Magistrale “E. D’Arborea” di Cagliari, Registro degli esami di Licenza Normale Femminile (1917-18), sub voce Figus Anna di Eugenio, n. Cagliari 18/04/1900. La Figus risulta “licenziata e abilitata” alla prima sessione del luglio 1918 con la votazione complessiva di 123/150. La votazione riportata nelle discipline dell’esame di Licenza fu la seguente (nelle discipline dove sono indicati due voti il primo si riferisce allo scritto e il secondo all’orale): Pedagogia 8/9, Morale 9, Italiano 7/8, Storia 7, Geografia 7, Matematica e computisteria 8, Scienze fisiche e naturali 7, Agraria 9, Disegno 8, Calligrafia 9, Ginnastica 8, Canto 10, Lavoro femminile 9, Lavoro manuale 9, Lezione pratica 8. Le ultime due discipline non  facevano media ai fini della votazione di licenza e di abilitazione.

[12] Su monsignor Piovella (1861-1949), oltre la voce del Dizionario Storico del movimento cattolico, cit., curata da P. De Magistris, cfr. E. LOBINA, Vita di S. E. Rev.ma Mons. Ernesto Maria Piovella, Cagliari 1967; O. P. ALBERTI, Monsignor Ernesto Maria Piovella, in Cagliaritani illustri, Cagliari 1993, pp. 107-129; P. CARBONI, S. E. Mons. Ernesto Maria Piovella. Azione pastorale e sociale in Sardegna, Cagliari 1984.

[13] Su monsignor Virgilio Angioni (1878-1947) cfr. T. CABIZZOSU, Virgilio Angioni. Una Chiesa per gli ultimi, cit.

 

[14] Cfr. G. CARBONI, La Congregazione delle Pie Suore della Redenzione, cit., p. 55

[15] M. A. CHENU, voce Dottrina sociale della Chiesa, in Enciclopedia Europea, vol. 4, Milano 1977.

[16] G. MARTINA, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni, vol. 4, L’età contemporanea, Brescia 1995, p. 147.

[17] Ivi, p. 167.

[18] Ivi, p. 168.

 

 

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