SANGUE E MISTERI A BADU ‘E CARROS, di Piero Mannironi

Perfino il cielo sembrava soffrire. Faticava a respirare, prigioniero dell’abbraccio di un’aria immobile e gonfia di umidità. In quel torrido pomeriggio del 17 agosto 1981, a Nuoro non si avvertiva neppure la lontana promessa di qualche lacrima di pioggia o di una brezza leggera, che potessero regalare almeno una speranza di liberazione dall’afa opprimente. A Badu ‘e carros, la fortezza grigia alla periferia della città, là dove Nuoro si perdeva in una disordinata fungaia di case verso “Sa Terra Mala”, il tempo era un’attesa estenuante e immobile e la vita l’infinito ripetersi di giorni sempre uguali. Ma in quel carcere, entrato nella geografia dell’emergenza con un decreto interministeriale il 4 maggio 1977, da un anno si respirava anche un’aria pesante di morte. Il 27 ottobre del 1980, durante una rivolta, erano stati infatti uccisi Biagio Iaquinta, 28 anni, cosentino, e Francesco Zarrillo, 34 anni di Caserta. Per quel delitto saranno condannati Pasquale Barra (detto ‘O Animale), il boia delle carceri Cesare Chiti e il cutoliano Marco Medda. Una delle due vittime era stata addirittura decapitata. Si era parlato di una terribile vendetta della camorra. Poi era stata la volta di Claudio Olivati, strangolato durante l’ora d’aria da Vincenzo Andraous e Cesare Chiti. Anche qui si era parlato di un regolamento di conti all’interno della camorra.”L’ideologo della complessamacchina, che in quegli anni furenti avrebbe dovuto arginare e piegare il terrorismo, era il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. La sua strategia era ispirata a un freddo pragmatismo: creare un circuito speciale destinato a ospitare, e isolare, i militanti della lotta armata e i detenuti comuni più pericolosi. Ma, come disse lo scrittore Salvatore Verde, la nozione di “emergenza”, «concepita inizialmente come esigenza economica, diventò successivamente una categoria dello spirito, per poi estendersi al campo giuridico, sociale e politico». La spinta dell’emergenza era fatalmente prigioniera di un presente impaurito, nel quale emergeva una forte richiesta di sicurezza e di speranza. Ma quella era una scelta senza prospettiva: la politica dell’emergenza ignorava infatti complessità ed evoluzioni, nelle quali non era poi così difficile leggere possibili sismi culturali, nuove elaborazioni criminali e inquinamenti pervasivi in tessuti sociali fragili e permeabili. Come quello barbaricino. Quel torrido pomeriggio del 17 agosto 1981 il detenuto Francesco Turatello uscì in uno dei cortili blindati di Badu ‘e carros alle 13,30. Era l’ora d’aria. L’unica occasione per fuggire dall’odore greve di verdure bollite e di umanità compressa che si respirava nelle celle e nei corridoi grigi del carcere. E poi il cortile era l’unico luogo nel quale veniva smascherata la falsa illusione esistenziale che anche il cielo fosse chiuso dalle sbarre. Turatello era uno dei boss più temuti e rispettati della malavita milanese. La sua scalata era stata rapida e irresistibile. Lui, ragazzo di provincia arrivato da Asiago, era giunto al vertice della scala criminale con i sequestri di persona, le rapine, le bische e la prostituzione. Ma soprattutto con la sua determinazione feroce e la sua arroganza. Il salto di qualità lo aveva fatto partecipando a una serie di clamorose rapine insieme alla “gang dei marsigliesi”: Jacki Berenguer, Albert Bergamelli e Maffeo Bollicini.”Il suo nome era statoamericanizzato in Francis, per ricordare sempre di chi era figlio: il suo padre naturale era infatti il terribile Frank Coppola, detto “Tre dita”. Partito ai primi del Novecento da Partinico, vicino a Palermo, Frank Coppola era diventato uno dei padrini più temuti di Cosa Nostra a Detroit e a Saint Louis. Il suo soprannome derivava dal fatto che gli mancavano il mignolo e l’anulare della mano sinistra. Durante una rapina in banca, la mano gli era rimasta incastrata nello sportello di una cassaforte e lui aveva mozzato con un coltello a serramanico le due dita per poter fuggire, prima dell’arrivo della polizia.Ma Turatello era conosciuto anche come “Faccia d’Angelo” perché, come ricordò Angelino Epaminonda, detto il “Tebano” – prima suo complice e poi suo nemico giurato -, si rassomigliava in modo impressionante al gangster “Baby Face Nelson”, della banda del famigerato rapinatore americano John Dillinger. “Faccia d’angelo” quel pomeriggio di agosto del 1981 era tranquillo. Dal bunker di cemento in Barbagia continuava a dirigere i suoi affari sporchi a Milano e in prigione si sentiva sicuro e protetto dal suo carisma e dalla sua presunzione. Turatello amava il suo ruolo di capo, la sua capacità di incutere timore e il suo prestigio di “principe nero” della nebbiosa Milano. E mostrava a tutti con orgoglio quel tatuaggio sulla coscia: «Dio dei ladri, uccidimi prima che io canti». Come dire: non sarò mai un infame, fino alla morte. Il viatico di un vero capo. E poi ormai non aveva più nulla da temere da Renato Vallanzasca, l’irriverente “boss della Comasina”, che per anni aveva cercato di mettere in dubbio il suo primato nella mala milanese. Con lui aveva infatti siglato la pace dopo anni di guerra. Antonella D’Agostino, amica d’infanzia dei due fuorilegge e moglie di Vallanzasca per dieci anni, così ricorda i retroscena di quell’inimicizia che diventò poi un patto di desistenza tra i due boss: «Nel ’79 Renato sposò in carcere un’ “ammiratrice”, come scrissero i giornali, che in realtà era poi una sua cugina. Testimone del matrimonio fu Francis Turatello. Le nozze erano state organizzate con l’unico scopo di far sapere ai detenuti interessati e rinchiusi nelle prigioni di tutt’Italia che Renato e Francis erano legati da reciproca stima. Quel “sì” tra le sbarre, quindi, fu soltanto un messaggio e chi doveva capire lo capì».Turatello passeggiava nel cortile blindato di Badu ‘e carros insieme al suo compagno di cella Pierluigi Concutelli, il terrorista nero diventato uno dei leader di Ordine Nuovo e condannato all’ergastolo per l’omicidio del magistrato romano Vittorio Occorsio. Gli era simpatico Concutelli, che anche lui chiamava, come tutti i “camerati”, “Comandante”. D’altra parte “Faccia d’Angelo” non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie per la destra e mostrava a tutti con orgoglio la grossa svastica d’oro tempestata di diamanti che portava appesa al collo. Non sospettò nulla, quando vide avvicinarsi Salvatore Maltese sorridente. Una stretta di mano, qualche battuta. D’altra parte Maltese era di Catania e quasi tutto l’esercito di Turatello a Milano era composto da catanesi: come i fratelli Miano o come il gruppo degli “indiani”, gestito da Epaminonda, il Tebano. Dietro Maltese però, si erano avvicinati silenziosi come ombre altri tre uomini: Antonino Faro, Vincenzo Andraous e Pasquale Barra. Il primo catanese come Maltese e gli altri due napoletani fedelissimi di don Raffale Cutolo.Maltese racconterà in corte d’assise il 12 dicembre 1985: «Il pomeriggio del 17 agosto 1981 sono sceso in cortile per il passeggio e sono andato nel gabinetto. Avevo addosso due coltelli, uno l’ho tenuto con me, l’altro l’ho lasciato nella latrina. Poi feci un segnale a Faro, per dirgli del coltello che avevo nascosto per lui. In quel momento, nel cortile della prigione c’era Turatello e io mi sono messo al suo fianco per passeggiare. Andraous si è avvicinato e mi ha detto: “Puoi cominciare”. Io ho preso il coltello e ho cominciato a colpire». Gli assassini sapevano benissimo che Turatello era un uomo di una forza eccezionale. Pugile di talento in gioventù, aveva un fisico massiccio e per ucciderlo dovevano sorprenderlo, bloccandolo alle spalle. Altrimenti erano morti. Franco Califano, il cantante romano amico di Turatello racconterà infatti: «Era molto forte fisicamente e tirava fuori la pistola raramente. Preferiva risolvere i problemi con le mani. Sì, con le mani: mi ricordo che una volta aprì la faccia di uno semplicemente con le dita».Quello che accade alle 13,45 del 17 agosto 1981 nel cortile blindato di Badu ‘e carros è una cronaca di pura follia, un delirio selvaggio. Agghiacciante e disumano. Concutelli viene spinto via bruscamente. Turatello è sorpreso, non reagisce. Sente le lame che entrano sussurrando nel suo corpo e capisce subito che per lui è finita: non più Dom Perignon e aragosta in cella, non più il sogno di tornare nelle sue bische milanesi circondato da belle donne. Abbassa lo sguardo e vede sbocciare sul suo ventre un immenso fiore vermiglio di carne: sono le sue viscere. Non cerca di ripararsi, di difendersi da quei fendenti terribili. Dieci, venti, trenta quaranta. Riesce solo a mormorare “Dio mio no, Dio mio no”, mentre cerca disperatamente di rimettersi l’intestino dentro il ventre. Come se quel gesto goffo e disperato possa fermare la morte.Se l’agonia, come dice l’origine della parola, è l’ultima estrema lotta per la vita, per lui è solo il breve istante della consapevolezza di morire, sventrato e scannato come un maiale. Poi, Turatello vede come un lampo davanti agli occhi e sente la lama di un coltello penetrargli nel collo, cercando la giugulare. La vista si annebbia e cade, mentre sente l’odore caldo e rugginoso del suo sangue e la puzza acre del sudore dei suoi boia e della sua merda.Non è finita. Pasquale Barra, ‘O animale, strappa il cuore di “Faccia d’angelo” e lo morde. È il messaggio per tutti: Turatello non deve essere solo ucciso, ma anche umiliato. Perché con lui muoia perfino il suo mito. Dopo due giorni il corpo di “Faccia d’angelo” partirà per Milano dentro una lussuosa bara intarsiata dell’agenzia funebre Duomo. La stessa che aveva curato in gran segreto il trasporto della salma di Evita Peron. Ma chi aveva voluto la morte di “Faccia d’angelo”? Chi aveva preteso quello scempio? Al processo che si svolgerà a Nuoro nel 1985, Salvatore Maltese si presentò come “pentito” e confessò che l’ordine di uccidere Turatello era arrivato da ‘O Professore, da don Raffaele Cutolo, il capo indiscusso della Nuova camorra organizzata. Ma sembrò strano che dalla sua gabbia Vincenzo Andraous, il braccio destro di Cutolo, avallasse le accuse di Maltese. In sintesi i due killer dicevano: «Turatello doveva morire perché i catanesi e i cutoliani volevano spartirsi Milano». Ma il teorema non reggeva. Prima di tutto perché la camorra non si mosse sulla piazza lombarda e i catanesi, con Epaminonda, erano già di fatto i padroni assoluti della città. Uccidere Turatello non aveva perciò alcun senso. Epaminonda poi negò con decisione di essere coinvolto nella mattanza di Badu ‘e carros. «Anche se le cose della vita ci hanno fatto diventare nemici – disse – nutrivo un profondo rispetto nei confronti di Francis. E sono sinceramente dispiaciuto per il malinconico epilogo della sua esistenza. Era il migliore di tutti noi. E poi, se lo avessi ammazzato io gli avrei riservato un trattamento diverso. Lo avrei fatto morire come un uomo».”Poi comparve sui giornaliuno strano telegramma partito dal carcere di Ascoli Piceno per il camorrista Pasquale Barra, a Badu ‘e carros. Un telex che sfuggì incredibilmente all’ufficio censura e che diceva: «Il Sommo ha deciso che lo zio del nord si sposi al più presto con Maranca». Nel linguaggio camorristico il Sommo era Cutolo, lo “zio del nord” Turatello e Maranca il pregiudicato Antonino Cuomo, assassinato un paio di mesi prima a Poggioreale. Come dire: fate sposare Turatello con la morte.’O Professore commentò laconicamente: «Io non ho mai mandato quel telegramma». E a scagionare Cutolo scese in campo perfino don Masino Buscetta. «Il mandante dell’omicidio Turatello – disse infatti – è Luciano Leggio, il boss di Corleone». A Badu ‘e carros c’era anche Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Interessante l’episodio che riferisce, riportato poi dal giornalista Marco Ciriello: «Non avevo mai avuto rapporti con Turatello. Ci limitavamo a osservarci e controllarci reciprocamente, a distanza… Era inquieto, turbato, mi girava intorno con l’aria di chi voleva fare amicizia. E un giorno mi disse: “Io vi ho salvato la vita”. E mi raccontò che il suo avvocato, tale Formisano, un esponente del Msi a suo dire legato ai servizi segreti, era andato da lui e gli aveva proposto di organizzare in carcere dei nuclei di picciotti per assassinare quei brigatisti rossi che erano nella lista dei detenuti da liberare in cambio di Moro… mi sono rifiutato, perché, anche se sono di destra, voi siete dei bravi ragazzi e non farò mai una cosa del genere. All’inizio pensai che quella di Turatello fosse una smargiassata, che volesse farmi sentire in debito per creare un rapporto di dipendenza… Ma alcuni anni dopo la storia è venuta fuori attraverso i racconti dei pentiti di mafia».Resta infine da ricordare un episodio misterioso che lega Turatello a uno dei grandi misteri italiani: il sequestro e l’omicidio del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Ne parlò davanti ai giudici di Palermo che processavano Giulio Andreotti per l’omicidio Pecorelli, il capo delle guardie nel carcere speciale di Cuneo, il maresciallo Angelo Incandela. Nel gennaio del 1979, Incandela ricevette una telefonata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che gli dava appuntamento nel parcheggio di un ristorante alla periferia della città.Il maresciallo era uno degli uomini di fiducia del generale. Dalla Chiesa si presentò insieme a uno sconosciuto e chiese a Incandela di recuperare un plico destinato al bandito Francis Turatello, che non era riuscito ad entrarne in possesso, perché era stato trasferito da poco nel carcere di Pianosa. «In quel plico – disse il generale – ci sono gli scritti di Aldo Moro elaborati nella prigione delle Brigate rosse». Grazie alle indicazioni fornite dal misterioso accompagnatore di Dalla Chiesa, che poi risulterà essere il giornalista Mino Pecorelli, Incandela recuperò il plico e lo consegnò a Dalla Chiesa.Domanda rimasta finora senza risposta e nella quale c’è forse la vera chiave della morte di Turatello: chi spedì quei documenti in carcere a “Faccia d’Angelo”? E soprattutto: perché?

da  LA NUOVA SARDEGNA 7 OTTOBRE 2019

 

 

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