Freud ci serve ma senza dogmi, di GIANCARLO DIMAGGIO

 

Eredità Ottant’anni fa moriva il padre della psicoanalisi. La sua opera è superata per alcuni aspetti, ma continua a dare frutti. Ci ha insegnato a considerare la centralità dei processi inconsci, l’importanza delle esperienze infantili, i meccanismi d’interazione tra paziente e terapeuta, il potere dell’angoscia e dei modi in cui cerchiamo di placarla

Se di questi tempi chiedete agli psicoterapeuti su che cosa discutono, vi risponderanno: «Sull’efficacia del nostro lavoro». I colleghi aggiornati diranno senza mezzi termini: la psicoterapia funziona. Non sempre, non per tutti e non praticata da chiunque, ma uno psicoterapeuta moderno vi darà con buona probabilità un beneficio. Meno depressione e ansia, relazioni interpersonali migliori. Se poi domandate: «Quale psicoterapia funziona meglio?», inizieranno a dibattere. Si può dire per certo che le terapie cognitive hanno più studi a supporto, ma non è provato che ottengano risultati superiori e più stabili.

In questo quadro, vent’anni fa la disciplina inventata da Sigmund Freud era all’angolo. La psicoanalisi era stata travolta dall’incapacità di rispondere alla domanda: «Questa roba che fate funziona davvero?». Era caduta in disgrazia agli occhi dei praticanti, le scuole di formazione si svuotavano, e i pazienti la cercavano meno, indirizzati verso le terapie cognitive. Oggi, a ottant’anni dalla scomparsa dell’inventore della psicoanalisi, la situazione è meno drammatica. Seguaci illuminati hanno trovato la strategia che li ha salvati da un mero sopravvivere negli stessi studi scrostati e ammuffiti nei quali si stavano rinchiudendo da soli.

Molti psicoanalisti si sono aperti alla ricerca: cercano prove su che cosa generi la sofferenza psichica, come la si cura e quanto è benefica la terapia. Discepoli di Freud dell’ultima generazione ritrovano un territorio nell’era della psicoterapia scientifica.

Chi segue il dibattito pubblico sarà sorpreso, si era figurato un panorama diverso. Ha ascoltato nell’agorà cultori di una psicoanalisi esoterica e sapienziale reclamare il primato di una disciplina che, unica, permetterebbe all’analizzando di accedere ai misteri dell’animo e di uscirne con nuova consapevolezza. Noi che abitiamo l’era scientifica non li prendiamo sul serio. Ostacolano la fruttificazione dell’eredità di Freud.

Questa è la notizia: nell’ottantennio della morte del suo inventore, la psicoanalisi è viva e, possiamo dirlo dati alla mano, in molte forme utile. Attenzione però. Ho detto: in molte forme, spesso meglio rubricate come psicoterapie psicodinamiche. Se invece qualcuno vi dice: «Si stenda sul lettino, sogni, associ, negli anni vedremo che verrà fuori, il nostro è un viaggio imprevedibile», ecco, come dire, buona fortuna.

Che cosa resta dell’impalcatura alzata da Freud? Ne parlo con amici psicoanalisti. Francesco Gazzillo, professore associato di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma, mi suggerisce: «La centralità dei contenuti e dei processi mentali inconsci». Vero. È un inconscio che ormai non ha niente delle proprietà che gli attribuiva Freud, non è la sede di fantasie erotiche e mortifere primordiali, che la persona non può ammettere alla coscienza. L’inconscio oggi è il luogo dove dimorano gli automatismi di pensiero e soprattutto i nostri modi di stare in relazione dei quali non abbiamo imparato a essere consapevoli. Io ribatto sempre a Gazzillo che l’inconscio di oggi è quello che ha descritto Pierre Janet, lui ribadisce che il lavoro di Freud è più importante, e non ne verremo mai a capo. Per noi cognitivisti infatti è Janet il precursore della psicoterapia moderna, per gli psicoanalisti Freud resta il faro. È il bello del potersi scegliere gli antenati.

Il punto è che più di un secolo fa Freud contribuì a demolire gli autoinganni nella coscienza di una società borghese, repressiva e sessuofoba. Oggi il campo dell’inammissibile si è ristretto, resta che siamo consapevoli solo di una minima parte dei nostri processi di pensiero, specie di quelli che ci intossicano la vita sociale.

Ancora un elemento cruciale: quello che accade al bambino nei primi anni di vita lo plasma per il resto dell’esistenza, psicologica e fisica. Se oggi noi psicoterapeuti siamo così attenti a raccogliere episodi della fanciullezza, lo dobbiamo a Freud. Che però nella sua opera cambiò spesso punto di vista. Aveva ragione agli inizi: gli eventi traumatici reali generano i sintomi di quella che una volta si chiamava isteria. Poi si corresse. Non conta il trauma reale, ma la fantasia del bambino. È rimasto poco da dibattere: è il trauma reale, violenza, abuso, trascuratezza estrema, che spacca la mente. I successori hanno dovuto emendare l’errore del fondatore.

Altro lascito: l’importanza dell’angoscia e il danno che fa la protezione dall’angoscia stessa. Che il mondo ci spaventi è normale, giusto ed evolutivamente utile. In assenza di una ben dosata paura, si muore molto giovani. Tra predatori, cibi velenosi e catastrofi naturali, l’Ho

mo sapiens ha dovuto passarne delle brutte. Ma la paura a volte prende forme estreme, catastrofiche, accende circuiti che si autoalimentano. Reazioni a catena come quelle che hanno portato Chernobyl a esplodere. L’unico isotopo radioattivo che rilasciano è la paura stessa.

La mente umana fabbrica allora scudi per proteggersi dal dolore psicologico. Sigmund Freud e sua figlia Anna li chiamano meccanismi di difesa. Hanno effetto paradosso: se da un lato riducono l’angoscia, generano più sofferenza e problemi da un’altra parte. Come tappare una piccola falla nella diga con un dito. Se ne apre un’altra. Finite le dieci dita, iniziano i guai. Oggi tutti, psicoanalisti e cognitivisti, al danno generato dai meccanismi di riduzione del dolore prestano attenzione. Ma attenzione. Freud parlava della protezione da impulsi inaccettabili che la persona covava dentro. Esempio classico: la fantasia edipica. Il bambino vuole sostituire il padre nel letto della madre. Il sintomo psichico, in questa eziologia sghemba, nasceva dallo sforzo di tenere lontana dalla coscienza tale fantasia proibita e, appunto, angosciante. Meccanismo di difesa: rimozione. Che ne ha fatto la scienza di questa idea? Fa giurisprudenza l’obiezione di Robert De Niro a Billy Crystal nel film Terapia e pallottole: «Ma tu l’hai vista a mia madre?»

A parte Edipo, l’idea di meccanismi a un tempo protettivi e nocivi tiene. I cognitivisti li chiamano coping maladattivo. Mi sento imperfetto? Lavoro come un dannato fino a tarda sera. Un fastidioso senso di vuoto? Alcol e sesso. Leniscono il dolore, accentuano il danno.

Giuseppe Magistrale, psicoanalista intersoggettivo, mi passa un bigliettino sotto il banco: «Freud ci ha lasciato in eredità i concetti di transfert e controtransfert». Vengo dritto a come li intendiamo oggi, pur in assenza di consenso sulla definizione. Il paziente costruisce il terapeuta secondo schemi elaborati durante lo sviluppo. Mio padre mi derideva, il terapeuta farà lo stesso. A fronte di quello che combinavo, mia madre ululava: «Mi fai morire», quindi la terapeuta sarà sopraffatta dai miei problemi. Controtransfert: il terapeuta reagisce quasi guidato da un riflesso. Mi attribuisce un potere di cura superiore, io ci credo. Diffida di me, io ho paura di sbagliare. In realtà il terapeuta porta in seduta anche il proprio passato, il paziente gli evoca fantasmi che risiedevano da tempo nelle periferie della mente.

Io lavoro in un mondo ispirato da Janet, ma a utilizzare me stesso come strumento risuonante nello scambio relazionale l’ho imparato dagli eredi di Freud.

La lettura 22 settembre 2019

 

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