Leggendo il Pisurzi di Giancarlo Porcu, di Luciano Carta

Rubrica: ISTORIAS DE SARDIGNA contada dae Luciano Carta. Sa de treighe.

Due anni orsono il filologo nuorese Giancarlo Porcu ha pubblicato una ponderosa edizione critica dell’opera poetica del poeta logudorese Pisurzi: Le canzoni di Pisurzi. Edizione critica, Nuoro, Il Maestrale, 2017.

Pietro Pisurzi, insieme a Padre Luca, nome d’arte del padre scolopio Gian Luca Cubeddu, costituisce il maggior vanto della musa poetica del Logudoro tra il Settecento e la prima metà dell’Ottocento.

Giovanni Maria Demela Pesucciu o Pisutzu, poi universalmente noto come “Pietro Pisurzi”, era nato a Bantine, frazione di Pattada (SS), nel 1707. Sacerdote, ha vissuto per gran parte della vita nel paesello natale, di cui è stato Parroco e qui è morto nel 1796. È il più noto poeta logudorese del Settecento e sono celeberrime alcune sue composizioni poetiche come S’abe, (L’ape), S’anzone (L’agnella).

L’opera di Giancarlo Porcu, Le canzoni di Pisurzi. Edizione critica, Nuoro, Il Maestrale, 2017, è prefata da Paolo Cherchi, filologo di chiara fama, già docente di Letteratura italiana e spagnola presso l’Università di Chicago. Nella ponderosa edizione critica di Giancarlo Porcu sono presenti 19 cantones del poeta di Bantine, ossia le nove già pubblicate a partire dal 1863 dal canonico Giovanni Spano, e altre dieci di nuova attribuzione.

 

Finalmente la “filologia” applicata alla poesia sarda

Credo di poter dire che questo libro per l’opera di Pietro Pisurzi sia, anzitutto, un’opera importante e fondamentale nell’ambito degli studi condotti con rigore scientifico sulla poesia sarda, cosa non consueta. Un’opera “di peso”, dunque! Certo, a “digerirlo” tutto ci vuole costanza e passione. Ma devo dire che queste due “virtù” a me personalmente non sono mancate nell’affrontare la lettura di questo solido libro di critica testuale e di autentico “intelletto d’amore” per la poesia sarda. Ecco le mie più immediate impressioni e alcune riflessioni sul libro. Tre gli aspetti che mi hanno maggiormente colpito.

La prima riflessione riguarda proprio la caratteristica strutturale del libro, da cui discende la sua importanza. Finalmente, grazie a Giancarlo Porcu, che si muove sulle orme di valenti studiosi come il compianto Antonio Sanna e i proff. Paulis e Virdis, gli autori sardi vengono considerati degni di essere trattati con gli strumenti scientifici propri della disciplina filologica, la quale rende così un grande servizio alla comunità dei parlanti in lingua sarda, non solo sotto il profilo strettamente disciplinare, ma direi anche “civile”. Non è un grande atto di civiltà quello di ricercare e restituire l’autenticità della poesia, riportandola nella sua giusta dimensione espressiva, purgandola dalle mille superfetazioni della tradizione orale, attribuendo a ciascun autore quel che è veramente suo?

Questa “funzione civile” dell’approccio filologico la si coglie subito in questo libro, anche se, come nel mio caso, chi legge non è un filologo. Basta leggere, per fare un esempio, tra i tanti, di immediata comprensione per chiunque, il primo verso della più nota “cantòne” di Pietro Pisurzi, S’Abe. Nessuno di noi io credo, nel corso della sua vita, è stato del tutto digiuno delle composizioni del poeta di Bantine. Iniziavamo la lettura o la recita di quella lirica in questo modo: «Cantendhe in sa furrazza m’istaia / unu sero chi andât aeresitta», ecc. ecc. Così leggiamo anche nel pur benemerito lavoro su Pisurzi a cura di Salvatore Tola, pubblicato nel 1990 (cfr. Pietro Pisurzi, Cantones. S’Abe, S’Anzone, Su Cabaddareddu e gli altri versi ritrovati, cura e con introduzione di Salvatore Tola, Cagliari, Edizioni Della Torre, 1990, p. 75). E invece, grazie all’accurata analisi filologica e di critica testuale di Giancarlo Porcu, il primo verso di questa famosa “canzone” ci riserva una grande sorpresa. Il testo originale è ben diverso rispetto a quello tramandato dalla tradizione e costantemente dato alle stampe. Esso, infatti, recita: «Caentendhe in sa furrazza m’istaio / unu sero chi andàat aeresitta». A pensarci bene – ma almeno io non ci avevo mai fatto caso – era abbastanza strano pensare a un sacerdote quale era Giovanni Maria Demela, noto Pisurzi, che se ne sta una sera accanto al focolare, in casa sua, dopo aver tolto dal treppiede la caldaia della sappa, a cantare. Nel contesto che la poesia descrive è una stranezza, anzi, un’autentica sciocchezza. In una sera piuttosto fredda, in quel di Monteacuto, nel paesello di Bantine, a 700/800 metri s.l.m., chi sta davanti al fuoco non canta, semmai si scalda! Caentendhe in sa furrazza m’istaio … Eppuru, eppuru … quanto fa la tradizione, il sentito dire, l’adeguarsi a “su connottu”, la mancanza di senso critico!

In questa circostanza, nel rendermi conto grazie all’analisi di Giancarlo, della goffaggine del verso così come è stato tramandato dalla tradizione, ho provato lo stesso senso di autentica scoperta, come una “illuminazione” improvvisa, che avevo provato una quindicina d’anni fa, quando riflettevo su un altro non meno famoso poeta logudorese, l’ozierese Francesco Ignazio Mannu. D’accordo con il filologo romanzo prof. Paolo Maninchedda avevamo deciso di fare, come ha fatto Giancarlo Porcu per Pisurzi, l’edizione critica della cosiddetta “Marsigliese sarda”, l’inno antifeudale Procurade ’e moderare / barones sa tiranìa. Quando, dopo settant’anni di ostracismo, il buon canonico Spano nel 1865 pubblicò per la prima volta, dopo l’edizione clandestina uscita presumibilmente nel tardo autunno 1795, l’inno antifeudale, così riportava la strofa 4, consacrata dalla tradizione orale e manoscritta:

 

«Su pobulu ch’in profundu / letargu fit sepultadu / finalmente disperadu / s’abbizat ch’est in cadena, / ch’istat suffrende sa pena / de s’indolenzia antiga: / Feudu legge inimiga, / a bona filosofia».

 

Ad una lettura superficiale di quel terzo verso, che ci presenta «unu populu [sardu] … finalmente disperadu», in quel contesto poteva anche apparire congruo. Il sardo, che ancora oggi non ha del tutto perso il vizio del piagnisteo sulle dominazioni dei secoli passati, pensarlo “disperadu” non era poi così fuori luogo. Comente podet essere su sardu, pensandhe a sas disgrassias de s’istoria sua, si non disisperadu? Quale fu la sorpresa quando, avendo avuto la fortuna di poter consultare l’editio princeps della stampa clandestina dell’inno di fine Settecento, che è conservata presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari, lessi la versione originale della quartina, che non parlava affatto di un popolo disperato, ma di ben altro! Il testo originale dice:

«Su Populu, ch’in profundu / letargu fit sepultadu / finalmente despertadu / s’abbizat ch’est in cadena, / ch’istat sufrende sa pena / de s’indolenzia antiga, Feudum legge inimiga / a bona Filosofia!».

Finalmente “despertadu”, non “disperadu”; ossia finalmente “risvegliato”, e risvegliato proprio da quella “bona Filosofia” dell’ultimo verso, che è capace, attraverso il lume della ragione, di combattere un sistema iniquo, anacronistico, qual è il sistema feudale in piena epoca moderna, contro cui combattono i sardi seguaci di Giommaria Angioy. Un verbo, cioè, ossia la lezione filologicamente corretta, apre uno scenario incredibile, perché quel verbo significa che in Sardegna, checché ne abbiano detto certi storici, circolava, con tutti i limiti e i condizionamenti del caso, la “bona Filosofia” di quel secolo, la filosofia dei lumi, l’illuminismo. Una volta acquisito questo concetto, la prospettiva interpretativa di quel carme cambia enormemente, situa la Sardegna in Europa, la rende partecipe, attraverso i suoi uomini più avvertiti, delle aspirazioni alle riforme propria di quel secolo, che non a caso terminerà con un avvenimento così epocale qual è la Rivoluzione francese. E quel “Populu … finalmente despertadu”, cui la filosofia dei lumi fa prendere coscienza che è in catene (”s’abbizat ch’est in cadena”), ci costringe a uscire da tutta quella storiografia autoreferenziale che vorrebbe la Sardegna costantemente avulsa dal ritmo e dalle conquiste della storia europea. Non è così. La nostra “specificità”, la nostra “identità” non va assolutamente declinata in quel senso, nel senso cioè della separatezza.

Per non dire, ancora, di quella importante tradizione religiosa di carattere paraliturgico, costituita dal canto dei Gosos nei santuari campestri e nelle nostre chiese. Quanti strafalcioni sono presenti in essi, molto simili a quella “donna Bisodia” del “panem nostrum cotidianum da nobis hodie del Padre nostro del noto e gustoso ricordo di Gramsci; e quanta pazienza deve avere il buon Dio a sentire simili strafalcioni. Recentemente mi è capitato di osservare ai miei compaesani in quel di Bolotana che in una sestina dei Gosos de su gloriosu martire Santu Bachis, nel descrivere il supplizio della flagellazione, a seguito del quale il santo martire muore e l’anima vola in cielo, la tradizione e gli opuscoli più recenti nella strofa 6 recitano:

«Cherféndhesi dispedire / s’anima cum milli festas / in tantas portas abbertas / no ischit inue essire, / ma innantis de partire / Cristos sa manu t’hat dadu».

Osservavo io: ma che “c’azzecca” in un contesto in cui si parla dell’anima di un corpo flagellato, cosparso di ferite, e che muore in conseguenza esse, l’anima che abbandona il corpo e ne esce “cun milli festas”? Come fa l’anima di una persona flagellata a far festa? Eppuru, eppuru … questa era la tradizione e qualche “devoto”, se avesse potuto, forse mi avrebbe denunciato per eresia. E dire che il testimone più antico di quei Gosos, risalente al 1884, riporta, correttamente, la strofa così:

«Cherfendhesi dispedire / s’anima cum milli fertas / in tantas portas abbertas / no ischit inue essire, / ma innantis de partire / Cristos sa manu t’hat dadu».

 

Lo “specifico”, come direbbe G. B. Tuveri, ossia la medicina, contro tali aberrazioni è esclusivamente l’atteggiamento filologico, che è sinonimo, più in generale, della capacità di vedere le cose nella prospettiva storica, nel genuino significato testale.

Ecco, dunque, il senso del mio messaggio in questa prima riflessione sull’opera di Giancarlo Porcu: occorre essere grati a chi utilizza – finalmente! – gli agguerriti strumenti della filologia e della critica ai nostri prodotti letterari. Questo atteggiamento “filologico”, questo atteggiamento sanamente critico ci ricollega alla più genuina tradizione degli studia humanitatis e al lascito metodologico più sostanzioso del Rinascimento. Come ha scritto un grande maestro qual è stato Eugenio Garin «quell’atteggiamento ‘filologico’ … costituisce la nuova “filosofia”, ossia il nuovo metodo di prospettarsi i problemi, che non va considerato quindi, come taluno crede, accanto alla filosofia tradizionale, come un aspetto secondario della cultura rinascimentale, ma proprio effettivo filosofare» (E. Garin, L’umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1964, pp. 8-11). La filologia è quella disciplina che ci aiuta a scoprire la vera prospettiva storica, che ci fornisce il vero metodo di approccio ai testi e alla realtà in generale, che ci aiuta a capire l’alterità del passato rispetto allo schiacciamento del passato nel presente, come fa spesso la cosiddetta “tradizione”. Insomma, la prospettiva filologica ha, in relazione al tempo, alla storia, la stessa funzione che la prospettiva ottica ha rispetto allo spazio, alla pittura: ci dà la possibilità di realizzare la distanza, di situare nel punto giusto gli oggetti e i testi letterari; ci rende capaci, in sintesi di intendere le cose nella loro posizione e nel loro significato effettivi, nello spazio come nel tempo, di comprenderle nella loro individualità autentica. Non possiamo, dunque, che essere grati per questo a Giancarlo Porcu.

 

Pietro Pisurzi nel Settecento sardo

 

La seconda riflessione è di carattere più squisitamente storico e può essere formulata all’incirca così: come si presenta oggi sul piano storiografico la conoscenza del Settecento sardo?

I contributi sugli aspetti letterari del Settecento sardo, se prescindiamo dagli studi di Giovanni Pirodda e di Peppino Marci, non sono stati, negli trenta/quarant’anni, particolarmente abbondanti. Al contrario, sono apparsi numerosi e qualificati studi sul versante della storia politica (pensiamo a Carlino Sole, Girolamo Sotgiu, Tito Orrù, Lorenzo Del Piano, Antonello Mattone e Piero Sanna, Italo Birocchi e numerosi altri). Questo rinnovato fervore di studi riguarda però il periodo del cosiddetto riformismo boginiano e della “Sarda rivoluzione”, l’arco temporale, cioè, compreso tra gli anni Sessanta e gli anni Novante di quel secolo. Dopo i fondamentali contributi di Franco Venturi e di Luigi Bulferetti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, gli studi più recenti di solido impianto critico rispetto al “contesto culturale” della Sardegna del Settecento sono rappresentati dai saggi di Antonello Mattone e Piero Sanna, di Italo Birocchi e di Peppino Marci. Soprattutto i “sassaresi” Mattone e Sanna hanno offerto un quadro esauriente e convincente della “cultura” sarda del periodo nel bel saggio intitolato La “rivoluzione delle idee”: riforme delle due università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790) (in A. Mattone, P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea. Lumi, società, istituzioni nella crisi dell’Antico Regime, Milano, Franco Angeli editore, pp. 13-106).

Questo saggio è importante almeno per tre motivi: 1) perché sfata l’idea di una Sardegna settecentesca del tutto avulsa dalla cultura dei Lumi; 2) perché offre un quadro esauriente della cultura nuova che circola anche in Sardegna a partire dal periodo boginiano; 3) perché questa nuova “temperie culturale” costituisce “l’incubazione” della “Sarda Rivoluzione” degli anni Novanta, allo stesso modo in cui l’Illuminismo è stato “l’incubazione” della Grande Rivoluzione.

In ambito letterario, l’aspetto più rilevante di questa cultura rinnovata è rappresentata dalla cosiddetta “letteratura didascalica”, una letteratura, declinata in senso “civile”, che persegue, cioè, come obiettivo di fondo, una finalità politica di riforma sociale ed economica, di educazione del popolo alla pratica di nuove colture in campo agricolo, di conoscenza delle moderne conquiste scientifiche, botaniche, mediche, matematiche, tecnologiche. Si realizzerebbe in Sardegna in questo trentennio un’autentica “rivoluzione delle idee”, come recita il titolo del citato saggio di Mattone e Sanna. Va affermandosi anche in Sardegna, in questo fervore di acquisizione di idee nuove, lo spirito più squisitamente baconiano del Settecento illuministico e della grande intrapresa dell’Encyclpédie di Diderot e D’Alembert, che era conosciuta anche in Sardegna e la cui pubblicazione era iniziata a Parigi nel 1751.

Veicolatori di questa nuova temperie culturale furono i «professori forestieri», in gran parte piemontesi, che insegnarono nelle due Università di Cagliari e di Sassari riformate da Carlo Emanuele III e formarono l’intellettualità isolana del secondo Settecento, che da essi aveva ricevuto quella formazione e quell’apertura di idee che costituisce «come la fase di ‘incubazione’ del ‘patriottismo’ sardo e del movimento rivoluzionario 1793-96». Intendiamo riferirci a Giommaria Angioy (n. 1751), Domenico Alberto Azuni (n. 1749), Gerolamo Pitzolo (n. 1748), i fratelli Domenico, Matteo Luigi e Gianfrancesco Simon di Alghero (nati rispettivamente nel 1758, nel 1761 e nel 1762), Ignazio Musso (n. 1756), Nicolò Guiso, Efiso Luigi Pintor (n. 1765), Francesco Ignazio Mannu (1758) – tutti protagonisti, se si eccettua l’Azuni, della “Sarda Rivoluzione” – formatisi nelle Università sarde riformate dal ministro Bogino nel 1764-65, forniti di una cultura umanistica e politico-giuridica solida e, soprattutto, partecipi delle problematiche e delle aspirazioni proprie dell’intellettualità europea del secolo dei Lumi.

Nelle due Università riformate questa generazione di intellettuali era stata allieva di valenti insegnanti come Giambattista Vasco, Francesco Cetti e Francesco Gemelli, che avevano profuso nell’insegnamento universitario sardo una ventata di cultura rinnovata, improntata allo spirito del secolo, l’esprit sytématique, per riprendere l’espressione di Condillac, ossia il metodo sperimentale che predilige l’osservazione diretta della natura, della realtà sociale, dei fenomeni economici. Così Giambattista Vasco, uno tra i più rappresentativi illuministi italiani, docente di Teologia dogmatica nell’Università di Cagliari negli anni 1764-67, nelle sue lezioni utilizzava alcune voci dell’Encyclopédie, come ha documentato Franco Venturi in un suo importante saggio; rientrato in Piemonte Vasco pubblicherà nel 1769 l’opera ispirata alle teorie fisiocratiche del Quesnay, La felicità pubblica considerata nei coltivatori delle terre proprie. Nel 1776, un docente dell’Università di Sassari, l’ex gesuita novarese Francesco Gemelli, offriva una trattazione del problema della riforma fondiaria in Sardegna secondo coordinate ispirate alle teorie fisiocratiche, sinonimo di liberismo economico, nell’opera Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura; l’opera sull’assetto fondiario in Sardegna era stata espressamente commissionata al Gemelli dal governo piemontese in vista di una riforma del sistema feudale e della creazione della proprietà perfetta onde incoraggiare l’intraprendenza di una nascente seppur timida borghesia terriera sarda. Tra il 1774 e il 1777 l’abate Francesco Cetti, anch’egli docente dell’Università di Sassari e seguace del celebre naturalista francese Buffon, autore dell’Histoire naturelle, pubblicava in tre volumi la splendida Storia naturale della Sardegna, impreziosita da pregevoli tavole a colori.

La nuova cultura universitaria era inoltre permeata da una rinnovata sensibilità per la storia patria e da una particolare attenzione in ambito giuridico ai fondamenti e ai fini della società, che traevano ispirazione, oltre che dalla tradizione giusnaturalistica e contrattualistica, dalla grande lezione di Ludovico Antonio Muratori sia sul versante della ricerca storica che su quello della filosofia civile, espressa questa nell’ultima opera del grande intellettuale modenese, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni prìncipi, pubblicata un anno prima della morte nel 1749. Rifacendosi espressamente all’opera Rerum italicarum scriptores del Muratori, Domenico Simon aveva iniziato, tra il 1785 e il 1788, la pubblicazione della collana intitolata Scriptores rerum sardoarum, di cui uscirono due volumi, tra cui, significativamente, il breve compendio di Sigismondo Arquer, vittima dell’Inquisizione, Sardiniae brevis historia et descriptio.

Un aspetto significativo del rinnovato impegno civile dell’intellettualità isolana è la letteratura didascalica del secondo Settecento sardo, spesso redatta sia in lingua sarda che italiana. Gli esempi più noti di tale letteratura didascalica sono: il poema De su tesoru de sa Sardigna, di Antonio Purqueddu, tre canti in sardo campidanese con testo poetico italiano a fronte, che insegna ai contadini e alle contadine, come dice il titolo in italiano, il «coltivo de’ bachi e gelsi»; il poema giovanile di Domenico Simon intitolato Le piante, opere entrambe pubblicate nel 1779 (Marci, 1999 e 2002). Tra le opere didascaliche in prosa dello stesso argomento ricordiamo in particolare Agricoltura in Sardegna, di Andrea Manca dell’Arca (1780; Marci 2000) e i contributi del Censore generale Giuseppe Cossu, in particolare Moriografia sarda ossia Catechismo gelsario (1788; Marci, La coltivazione de’ gelsi e propagazione de’ filugelli in Sardegna, 2002).

Questa nuove temperie culturale interagiva, com’è ovvio, con il contesto locale e con le condizioni politiche ed economiche della Sardegna del Settecento: i principi della fisiocrazia e del liberismo economico, applicati alla situazione sarda, comportavano uno scontro decisivo col sistema feudale che costituiva il principale ostacolo per la loro concreta affermazione; l’impegno civile per il riconoscimento della specificità della costituzione del Regno sardo era ostacolato dal sistema coloniale di governo del Piemonte sabaudo, che oltre a vanificare le prerogative costituzionali della nazione sarda,  impediva alla nuova intellettualità la concreta partecipazione al governo dello Stato interamente affidato ad una burocrazia esterna famelica e incapace; il rinnovato interesse per la storia consentiva di individuare in un passato lontano una sorta di età dell’oro o di stato di natura in cui la Sardegna viveva arbitra del proprio destino e libera dalle catene del giogo feudale.

La linfa nuova immessa nella cultura compenetratasi con le condizioni oggettive della realtà politica e sociale dell’isola costituì l’elemento motore della “sarda rivoluzione”, della letteratura e della poesia ”patriottica” nata nel cuore stesso degli avvenimenti di fine secolo.

 

Quale Settecento è quello di Pietro Pisurzi?

 

Questo è, in estrema sintesi, il quadro del Settecento sardo delineato dalla più recente storiografia. Ci chiediamo: è possibile stabilire un nesso tra l’opera poetica del Pisurzi e il quadro che abbiamo delineato?

La domanda è legittima, perché, come testimonia Giancarlo Porcu nell’ultima sezione del suo libro, Dubbie attribuzioni (pp. 549-660), certa tradizione attribuisce al poeta di Bantine una composizione poetica di carattere politico-ideologico contro la Rivoluzione francese, il libertinismo, la frammassoneria (come si diceva allora), “sa libertade franzesa” chi “bochit sos res, e permittit sa fura” ed è dichiaratamente “atteista”.  Si tratta di una Sezione per me molto allettante, ma sulla quale non posso soffermarmi in questa sede. Basti dire che mi pare del tutto corretta l’analisi dell’Autore, che esclude in modo perentorio l’attribuzione all’ultraottantenne Pisurzi, anche se è doveroso segnalare che anche questa composizione, attribuibile a Luca Cubeddu, proviene dallo stesso contesto culturale di Pattada.

Infatti, se è vero che Gian Maria Demela, alias Pisurci o Pisurzi, ha attraversato, nei suoi 89 anni di vita, quasi per intero il secolo XVIII (1707-1796), è altrettanto certo, come rivelano le meticolose indagini di Giancarlo Porcu, che al poeta di Bantine non può essere attribuita la paternità di quella o di simili canzoni, in quanto, tra l’altro, dal contesto interno si desume che esse appartengono chiaramente al periodo napoleonico, quando la massoneria, per volontà dello stesso Napoleone, tornò in auge nel primo decennio dell’Ottocento.

Il nostro poeta di Bantine, ordinato sacerdote nel 1732 dal vescovo di Alghero Gioacchino Carniers, all’età di 25 anni, si era formato, nel primo decennio della dominazione sabauda, ad una scuola ancora del tutto ispanizzata, probabilmente nel collegio gesuitico di Ozieri; una scuola, quindi, che adottava la Ratio studiorum gesuitica, quasi esclusivamente, nelle classi inferiori d’istruzione, sull’apprendimento del latino e sullo studio dei classici latini, denominata appunto Scuole di Latinità. Un insegnamento, per giunta, impartito da religiosi di lingua spagnola. Occorrerà attendere il 1761 prima che si possa parlare di timidissimo inizio di introduzione della lingua italiana nelle scuole sarde.

Dopo un quindicennio di attività pastorale nei villaggi di Tissi e Usini, nell’archidiocesi di Sassari (1734-1750), nel 1751 il sacerdote Gian Maria Demela rientra nel villaggio natale di Bantine, dove funge da “vicario” perpetuo della chiesa di Santu Giagu (San Giacomo), e dove vivrà sino alla morte, avvenuta il 3 dicembre 1796.

Al suo rientro a Bantine Pisurzi è ormai un uomo maturo e qui eserciterà il ministero dall’età di 44 anni all’età di 70 anni; nel 1776 cesserà dalle funzioni di “Vicario” della chiesa di Santu Giagu, già allora dipendente dalla pievania di Pattada. Quando ha inizio, negli Sessanta, l’attività di riforma del ministro Bogino, egli è ormai ultracinquantenne, per cui appare difficile ipotizzare un suo diretto coinvolgimento nel progetto riformatore, di cui poterono beneficiare i giovani nati tra gli anni Quaranta e Sessanta. Non s’intravvede, nelle 19 composizioni poetiche che Giancarlo Porcu attribuisce con certezza al Pisurzi (9 in più rispetto al corpus pisurziano delineato nell’Ottocento dal canonico Giovanni Spano), una cosciente e voluta partecipazione del nostro poeta al progetto riformatore sabaudo.

Non si può però, sotto questo profilo, escludere del tutto che egli sia stato in qualche modo lambito da quella temperie riformatrice, soprattutto se si tiene conto che egli fu in rapporti di stretta amicizia con un personaggio eminente delle vicende politiche della seconda metà del Settecento. Quale fu il magistrato ozierese Gavino Cocco (1724-1803), elevato nel luglio 1794 alla suprema carica di Reggente la Real Cancelleria nel cuore della contrapposizione rivendicazionista dei Sardi di carattere autonomista dopo il fallimento della missione stamentaria per la richiesta delle “cinque domande”. Personalità di grande intelligenza e politicamente molto duttile (questa sua ‘duttilità’ spingerà il Manno a affibbiargli la qualifica di ”ambidestro”), Gavino Cocco aveva contribuito notevolmente, come funzionario regio, prima come Assessore della Reale Governazione di Sassari e poi come Giudice della Reale Udienza, alle realizzazione del nell’isola delle riforme boginiane. Di questa amicizia e di questo possibile influsso sulla personalità del Pisurzi di un uomo aperto alle riforme, quale fu Gavino Cocco, è chiara testimonianza la gustosa satira delle due composizioni poetiche complementari Lu cabaddu polta a Antoni [Cantone de su cabaddareddu] e  Tremende nde so che canna.

Ho detto “lambito” forse dal riformismo boginiano nella sua produzione poetica perché, sen il poeta di Bantine non si è cimentato ex professo, come il Purqueddu e il Simon (ed anche, è opportuno aggiungere, il “poeta in latino” Francesco Carboni e il canonico Raimondo Valle) in opere di argomento didascalico, tuttavia, avverte Giancarlo Porcu, è possibile individuare competenze agronomiche di viticoltore nella satira del «vignaiolo inetto e sbruffone, con esibizione  di nozioni tecniche nella finora inedita canzone  XII (Accond’a isse ’e madèrria)» (Porcu, p. 41 e pp. 488-491), ossia “Che razza di superbia ha questo qui”, che è l’incipit della satira contro il vignaiolo inetto.

Non rientra, dunque, e non può rientrare in alcun modo, nel filone della poesia didascalica della fase del riformismo boginiano l’opera poetica del Pisurzi. Tuttavia quest’opera poetica non può non essere inserita nell’ambito della poesia didascalica, che si rifà però ad un altro importante e longevo filone poetico, che affonda le sue radici nell’antichità classica greca e latina, che in Occidente ha trovato la sua reviviscenza nell’umanesimo italiano tra la fine del Trecento e il Quattrocento, filone poi irradiatosi nell’umanesimo europeo dopo il Cinquecento. Si tratta, come mette adeguatamente in luce Giancarlo Porcu nel commento alla lirica S’Abe (ma il discorso vale anche per S’Anzone), della tradizione precettistica retorica della fabula mixta, nella quale «interagiscono uomini e animali, incrocio di fabula rationalis (dove agiscono gli umani) e fabula moralis (dove agiscono animali con comportamenti umani: l’apologo» (Porcu, p. 258).  Un filone che trova la sua fonte primaria d’ispirazione nelle favole di Esopo (e conseguentemente della versione latina di Fedro), riscoperte appunto dagli umanisti, che vanta nella letteratura europea del Grand Siècle nomi illustri come Jean de la Fontaine.

Mi sia consentito a questo punto ricordare, en passant, una valente studiosa troppo prematuramente scomparsa, un’altra filologa, al pari dei Giancarlo Porcu, che pur non avendo indossato il laticlavio accademico, ha dedicato la vita interamente all’insegnamento e alla ricerca scientifica: la prof.ssa del Liceo “Siotto” Pasqualina Pillolla, autrice del IV volume della collana “Favolisti latini medioevali e umanistici”, l’edizione critica dell’opera dell’umanista toscano Rinuccio Aretino, Fabulae Aesopicae (D.AR.FI.CL.ET. «F. Della Corte», 1993).

Il Pisurzi si rifà, dunque, a questa tradizione umanistica, declinando però «in chiave spirituale, in linea col proprio ministero sacerdotale e in prospettiva omiletica» la tradizione della poesia moralistico-didascalica. Questa è, ovviamente, la tradizione più illustre, ma più lontana nel tempo. L’ispirazione più recente, scrive Giancarlo Porcu, si rifà alla canzone amorosa spagnola del Siglo de Oro e come aveva già notato lo storico gesuita Raimondo Turtas, alle canzonette spirituali del gesuita Innocenzo Innocenzi, da cui deriva anche la traduzione in sardo della notissima Deus ti salvet Maria (Cfr. Porcu, p. 260).

Così, per tornare alle due composizioni moralistico-didattiche più celebri, nella canzone S’Abe, l’exemplum, chiaramente modellato sull’apologo esopiano della mosca che cade nella pentola della carne (cfr. Pillolla, De musca, pp. 278-279), è utilizzato come «monito contro la sregolata soddisfazione dei sensi, raccomandando moderazione nel mondo delle passioni» (Porcu, p. 259); nella canzone S’Anzone, che sfrutta la corposissima presenza del lupo e della volpe nella favolistica esopiana, il Pisurzi, scrive Giancarlo Porcu, «si cimenta nell’amplificazione versificata di un motivo favolistico, moralizzato in chiave religiosa» (Porcu, p. 303), che fonde insieme quella tradizione con i nuclei narrativi scritturali della ‘pecora smarrita’ dei Vangeli di Luca e di Matteo, e del ‘buon pastore’ del Vangelo di Giovanni. Giancarlo Porcu è, dunque, piuttosto scettico sull’ambivalenza della canzone dell’Agnella, sul considerarla cioè, come una «allegoria amatoria», riconducendo questa composizione, come l’intera produzione del Pisurzi, all’Arcadia, come ha fatto Francesco Alziator.  «Arcadia, Arcadia ed ancora Arcadia – scriveva Francesco Alziator nella Storia letteraria nel 1954 – gentile, leggiadra, piena di felici spunti e di cattive soluzioni, di aliti che non sanno divenire né brezza, né tempesta: ecco in sintesi quello che si può dire del Pisurzi e non del Pisurzi soltanto» (F. Alziator, Storia della letteratura di Sardegna, Cagliari, Edizioni “La Zattera”, 1954, p. 207).

Questo noto giudizio, che inquadra la poesia del Pisurzi nell’Arcadia – peraltro già fortemente ridimensionato nel 1984 da Girolamo Sotgiu nella sua Storia della Sardegna sabauda[1]– non è affatto condiviso da Giancarlo Porcu. Si tratta, egli scrive, di una «ascrizione sbrigativa e figlia di una visione fondata su categorie storiografiche italiane improponibili per Pisurzi» (Porcu, p. 305). S’Anzone, egli rileva, sulla scorta di Michelangelo Pira, si colloca non nelle pastorellerie dell’Arcadia, ma nell’orizzonte della più autentica cultura pastorale barbaricina, che vede in s’anzone la metafora zoomorfa della donna, ben radicata nella cultura sarda, in particolare nel tema tradizionale de sa chirca, ossia nel rituale tradizionale della richiesta della mano della donna presso i suoi familiari.

È al contesto contadino e pastorale della Sardegna dell’interno che va, dunque, ricondotta l’opera poetica del Pisurzi, spesso improntata all’insegnamento morale e religioso, ma al tempo stesso al costume e alla società nella quale vive, espressa in una lingua logudorese tersa e armoniosa che non ha l’uguale e che lo situa tra “Sos Mannos” dell’Olimpo poetica sardo. Pisurzi è un fine e arguto uomo di cultura, sicuramente non ingenuo e naïf, come gli “Arcadisti” hanno voluto rappresentarlo, forbito nella lingua e abilissimo nella versificazione, profondo conoscitore della società e della cultura del mondo agricolo e pastorale della nostra isola, che è capace di rappresentare in tutte le sue manifestazioni e sfumature, sia che voglia trasmettere un insegnamento morale, con simbologie adatte al contesto cui sono dirette, sia che voglia bonariamente fustigare la vanità femminile (Si naras ch’has s’imbustu), sia che voglia discretamente spiare il pentimento di una peccatrice moribonda che raccomanda alla figlia di non fare i suoi stessi errori (Intro ‘idda rundende), oppure voglia ricordare con rimpianto il sentimento amoroso tradito (Cando nos semus amados),  o si proponga di vendicare con linguaggio mordace e pungente l’offesa fatta al poeta (A tie, edducas a chie si no a tie), o ancora marchiare a fuoco la taccagneria di un padrone cattivo pagatore (A su coro appas toroja) o ironizzare sui molteplici aspetti del microcosmo della vita paesana, dallo sfacciato sfottitore agli abituali compagni di Bacco in zilleri o in cantina (Appena t’appo connoschidu e Ita ch’at? custa baruffa), dall’improvvido ladro di fichi nel suo stesso cortile, che risulta poi essere il nipote (Tue naras chi so cultzu), alla spassosa elencazione delle donne “erranti”, catalogate con gustosissimi epiteti di sapore strapaesano (Unu sero po gustu): comare Mesumilcia, comare Mesufalza, comare Loroddosa, comare Tzumbea, comare Suffri e Caglia, comare Tenta-accurzu, comare Fattagai, comare Faghediona, comare Istinsussegu e infine comare Neguscera:

Andeit a fenuju

comare Neguscera, pro isfaùra

intrat in unu cuju

ìnnidu chi fit a messadura

e l’intrat unu sazu

che cando che lu colpan cun su mazu.

 

(Andò a raccogliere finocchietti Comare Neguscera, per disgrazia entra in un chiuso intatto coltivato a frumento e le s’infilza un baffo di spiga con la stessa forza di quando si percuote il grano col maglio).

 

Le considerazioni sulla simbologia e sui traslati le lascio ovviamente a ciascuno di voi, non senza raccomandare, anche a chi non è parlante logudorese, di leggere questa e le altre composizioni con l’aiuto delle belle traduzioni di Giancarlo Porcu.

Io devo confessare che la “scoperta” più importante che ho fatto nel leggere questa importante fatica filologico-letteraria di Giancarlo Porcu, e che ho maggiormente gustato, è stata quella che si riferisce al Pisurzi finissimo poeta dell’ironia; che è poi in gran parte quel Pisurzi che l’Autore ci “restituisce” in gran parte delle “nuove attribuzioni”. Se il viaggiatore tedesco von Maltzan negli anni Sessanta dell’Ottocento avesse conosciuto il vero autore di queste “cantones” satiriche, avrebbe quantomeno attribuito la palma di ”maggior poeta satirico sardo” ex aequo a Pisurzi e a Diego Mele.

Pisurzi, po la narrer a sa sarda, fit unu poeta ch’ischiat deabberu “ponner contone”, una figura di poeta, cioè, ben noto a chi ha vissuto nell’ambiente dei nostri paesi, che quando decide di motteggiare i difetti o le presunte virtù delle persone del piccolo ma ricco universo locale, nessuno è più in grado di togliere da esse quel marchio impresso a fuoco.

Altro che «Arcadia, Arcadia ed ancora», dunque! È stata questa, per me, la vera “sorpresa” di questo libro: avere scoperto nel poeta di Bantine “restituitoci” da Giancarlo Porcu, un fine poeta oraziano che “castigat ridendo mores”!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] Scrive G. Sotgiu riferendosi al giudizio di F. Alziator: «Il richiamo all’Arcadia, allo Zappi, al Rolli, al Guarino, al Tasso sono, possiamo dire, scontati, così come per il Mannu è scontato il richiamo al Parini. Ma l’Arcadia era il mondo entro il quale su muoveva la poesia italiana del ‘700 ed era attraverso quel messaggio che la società italiana del tempo riusciva a esprimere delusioni e desideri di novità; e così la poesia in lingua sarda, nel ricollegarsi alla cultura italiana per attingere alla modernità, non poteva esprimersi che entro quegli schemi e quelle formule.

Ma, a un’esplorazione più profonda la poesia in lingua sarda non è “Arcadia, Arcadia e ancora Arcadia”, come è stato scritto in tono spregiativo, me espressione di una sensibilità profonda che nella contemplazione lirica della natura o nel dolce perdersi della passione d’amore traduceva il senso di una realtà spesso angosciosa, ed era capace di dare di questa realtà il senso amaro delle cose.

Quale altra strada di riscatto era aperta a un’aspra e primitiva società di pastori, se non quella di mitizzare il mondo pieno di dolori e contrasti delle campagne della Sardegna? Le Filli, le Amarilli aprivano le vie alla speranza.

Certamente per S’Anzone (L’agnello) del Pisurzi, la favola dell’agnella bianca come la neve “Tota aneddada ’e lana compartida”, rapita dal lupo e liberata infine dal pastore tenacemente ostinato, è possibile individuare derivazioni arcadiche, ma il senso della favola, in una società nella quale i lupi avevano sempre il sopravvento sugli agnelli, usciva fuori dagli schemi dell’Arcadia, tanto più se la pensiamo non letta come oggi per noi, ma tramandata oralmente, probabilmente cantata di piazza in piazza nei dolorosi paesi di Sardegna. E acquista perciò un’altra significazione l’ottava che conclude l’inseguimento e l’uccisione del lupo:

Enide a dare cumplimentos / a chie ha’ mortu su lupu chi est inie: / pastoriu, lassade sos armentos, / non tenzedas paura, creide a mie. / Enide, enide a bider tres portentos,/  e de sos tres no hazis a ischire chie / siat pius dignu de ammirassione: / su lupu mortu, pastore o anzone» (G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda 1720-1847, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 110-111).

 

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    1 Comment to “Leggendo il Pisurzi di Giancarlo Porcu, di Luciano Carta”

    1. By Michele Podda, 23 ottobre 2019 @ 22:04

      Bella presentada Luciane’, po custu bellu libru de Giancarlo Porcu. Sa gana de lu legher che la tenzo totu intrea e ando deretu a mi buscare su libru.
      Apo leghiu carchi canthone de Pisurzi in “Il meglio della grande poesia sarda” ed ’84 manizà dae Mialinu Pira. Ti nao chi de sos poetas forzis est su chi m’aggradat de prus e “S’anzone” est sa canthone preferia. Tropu zustu su chi nas tue de sa balia de custu poeta, issu tenet cuddu limbazu sincheru cumente chi siat abberu unu pastore anticu, ma dilicu e de bonos sensos.

      Triballos che a custu de Porcu azunghen cussideru po sa leteratura in limba sarda, semper carculà robba po zentichedda de pacu importu. Grassias a tue, chi l’as atu custa bella presentada.