Matteo Salvini come Masaniello? Marcello Fois tra genericità e qualunquismo di Federico Francioni

Comente istèrrida (in limba sarda) – Premessa (in italiano) – Masaniello non era un volgare arruffapopoli – Una rottura politico-istituzionale nella Sardegna del Seicento – Per concludere – Pro l’agabbare (in sardu).

Nota della Direzione: il sito è disponibile per chi volesse intervenire sulla domanda finale posta dall’Autore.


Comente istèrrida. In un’àteru artìculu (Marcello Fois attacca Gianni Marilotti ma rimane sulla superficie, publicadu in custu giassu matessi), amus chircadu de pònnere in craru chi tzertas crìticas de Fois non agiuant a fàghere un’analìgiu in profundidade. Su senadore Marilotti (M5S) non fiat assolutamente de acordu, ma a s’agabbu at votadu su Decreto Sicurezza bis: bene meda, Fois at iscritu, “oh, Marilò, tue tenes timòria de perdere sa cadrea, sa lògica tua est cudda de tengo famiglia!”. Ma custu podet andare bene pro ciarrare: pro una crìtica sèria a su M5S bi cheret àteru. Su matessi si podet nàrrere pro su chi tocat Matteo Salvini, cunsideradu dae Fois che arruffapopoli, comente Masaniello. Fois est galu genèricu: cun sos artìculos suos non faghimis mancu unu progressu minoreddu pro bìnchere sa Lega, pro fraigare un’alternativa de liberatzione econòmica, polìtica e culturale pro su pòpulu sardu, pro cuddos de totu su mundu, iscraos de sa globalitzatzione malaita.

Premessa. Matteo Salvini accostato a Masaniello, a Meo Patacca ed al Capitan Fracassa: ancora una volta Marcello Fois (si veda il suo articolo I Masaniello destinati a perdere, sulla prima pagina de “La Nuova Sardegna” del 30 agosto 2019, con rinvio all’interno) perde una buona occasione per proporre, se non altro, qualche spunto di critica e di analisi (da approfondire, s’intende). Scrive Fois:  “(…) l’appoggio popolare è caduco perché si basa su istanze personali e non su progetti comuni (…) la forza motrice con cui i Masaniello, i Fracassa e i Patacca, i gradassi di tutti i tempi si sono fatti forti è costituita per lo più da smemorati”.

 

Masaniello non era un volgare arruffapopoli. Ebbene, nella sua generalizzazione, di stampo pressoché qualunquistico, Fois sbaglia nell’accomunare personaggi della letteratura – come il Meo Patacca dei versi seicenteschi in dialetto romanesco di Giuseppe Berneri, il Capitan Fracassa del romanzo ottocentesco del francese Théophile Gautier – con un capo popolare, Tommaso Aniello (Masaniello) che nel 1647 guidò una rivolta in grado di scuotere profondamente il potere spagnolo nel Regno di Napoli.

Contrariamente a quanto Fois scrive, Masaniello non fu eliminato da coloro che egli stesso aveva “incitato”, perché la realtà storica è più complessa: la sua eliminazione avvenne in seguito ad un complotto del governo spagnolo che utilizzò alcuni capi popolari ed anche segmenti della plebe.

Alla sua morte fece seguito la peraltro breve esperienza di una Repubblica partenopea, ancora viva nella memoria e nella coscienza dei rivoluzionari napoletani del 1799 come Eleonora de Fonseca Pimentel, Francesco Caracciolo, Domenico Cirillo, Mario Pagano ed altri martiri dell’oscurantismo borbonico (alleato dell’ammiraglio inglese Horatio Nelson) che possiamo avvicinare, senza forzature, ai veri, ai giusti del triennio rivoluzionario sardo del 1793-96: il docente universitario, magistrato ed imprenditore Giovanni Maria Angioy, il notaio Francesco Cilloco (o Cilocco), l’avvocato sassarese Gioachino Mundula, i parroci Francesco Murroni (o Muroni), Francesco Sanna Corda ed altri ecclesiastici coraggiosi, il medico Gaspare Sini, l’avvocato Gavino Fadda, con tanti altri uomini – e donne – fra cui vanno ricordati anche esponenti del mondo del lavoro, in particolare dei Gremi, le antiche corporazioni di arti e mestieri, quali Cosimo Auleri, Antonio Maria Carta ed i Petretto (si vedano al riguardo le recenti indagini archivistiche di cui ha reso conto in questo stesso sito l’amico e collega Piero Atzori). Peraltro, contrariamente all’esperienza di Napoli nel 1799, quella isolana – come va doverosamente riconosciuto – non ebbe ricadute di respiro geopolitico e storico più ampio.

Nell’Europa del Seicento – scossa da fermenti e da profonde fratture rivoluzionarie – e più precisamente in Olanda – Masaniello venne raffigurato in una medaglia che, da un lato, presentava Oliver Cromwell, capo della rivoluzione inglese e Lord Protector del Commonwealth, dall’altro verso proprio il leader popolare napoletano. Un Masaniello che viene accostato a Cromwell non può essere di sicuro degradato al livello di un generico gradasso. Bisogna dunque confermare la rilevanza europea del moto napoletano del 1647 contro l’esasperato fiscalismo iberico: dello stesso anno, non dimentichiamolo, è anche la sommossa di Palermo, derivante dalla crisi economica, ma certamente non priva di valenza politica.

A parziale scusante di quanto viene sostenuto da Fois, si può ricordare il giudizio sprezzante che su Masaniello espressero lo storico Michelangelo Schipa ed un conservatore come Benedetto Croce, le cui indagini sono state tuttavia ben decostruite dai testi di Giuseppe Galasso e di Rosario Villari (di quest’ultimo mi limito a richiamare il volume Ribelli e riformatori). Se si dovessero seguire le conclusioni della più recente ed aggiornata ricerca e del relativo dibattito storico-storiografico, l’equazione Salvini-Masaniello condurrebbe – paradossalmente e contrariamente a quanto voluto da Fois – ad una promozione, ad una nobilitazione del leader leghista.

Ad eventi di portata continentale, come quelli di Napoli e Palermo, seguì la rivolta di Messina, divampata nel 1674-70, che si avvalse, in chiave antispagnola, dell’alleanza con i francesi, ma venne infine repressa.

 

Una rottura politico-istituzionale nella Sardegna del Seicento. A questo punto – rispetto alla più ampia portata della rivolte di Napoli, Palermo e Messina – sarebbe in ogni caso errato sottovalutare la gravissima crisi politico-istituzionale del 1668 quando, a breve distanza di tempo, avvennero nell’isola due clamorosi omicidi politici. Nel mese di giugno venne assassinato don Agostino di Castelvì Lanza, marchese di Laconi, “prima voce” in uno dei tre rami dell’antico Parlamento isolano – lo Stamento militare – che riuniva cavalieri, nobili ed esponenti della feudalità. Dal suo canto, lo Stamento ecclesiastico metteva insieme arcivescovi, vescovi, procuratori dei Capitoli delle Cattedrali ed abati mitrati; nello Stamento reale avevano seggio i sindaci o procuratori delle sette città regie: Sassari, Alghero, Castelsardo, Bosa, Oristano, Iglesias e Cagliari, fornite di propri statuti, sottoposte alla giurisdizione regia e non a quella feudale. Il marchese di Laconi, reduce da una missione a Madrid, dove aveva perorato la causa delle cariche pubbliche ai sardi presso la regina reggente Marianna d’Austria, era stato denominato “Padre della patria”. Venne ucciso, quasi certamente, da ambienti vicini – più che al viceré spagnolo Manuel Gomez de los Cobos, marchese di Camarassa (o Camarasa), peraltro non esente da gravi responsabilità – alla viceregina Isabella di Portocarrero, sua moglie. Ciò risulta dai fascicoli processuali e dalla documentazione esistente nell’Archivio di Stato di Cagliari, presa in esame da Dionigi Scano nella sua importante opera Donna Francesca Zatrillas, marchesa di Laconi e di Sietefuentes; avvincente nella ricostruzione e nella narrazione, essa tuttavia presenta nelle tesi e nelle pagine finali il consistente difetto di sminuire la valenza politica di quella svolta, ridotta, per alcuni aspetti, al livello di ambizioni e scontri personali, a beghe e ad amorazzi (si vedano comunque i saggi più recenti di Bruno Anatra e Francesco Manconi).

Dopo la tragica fine del marchese di Laconi, si scatenò la pronta vendetta del baronaggio sardo che, d’altra parte, era privo di un serio, realistico ed incisivo progetto politico, fatta forse eccezione per don Bernardino Mattia Cervellon il quale sollecitava gli altri feudatari e nobili a puntare su un’autonomia effettiva del Regno di Sardegna fino a rendere in gran parte formale il dominio degli Asburgo di Spagna. Nel luglio di quello stesso anno, dopo una riunione tenuta dai nobili sardi nel Castello di Cagliari, il viceré Camarassa venne trucidato. Il suo successore, don Francisco Tuttavilla, duca di San Germano, attuò un durissimo, articolato ed inesorabile piano di repressione che colpì fra gli altri, con la condanna alla pena capitale, don Jacopo Artal di Castelvì, marchese di Cea, uomo di punta del baronaggio isolano (Acta Curiarum Regni Sardiniae, Il Parlamento del viceré Nicola Pignatelli duca di Monteleone 1688-89, a cura di F. Francioni, 3 voll., Consiglio regionale della Sardegna, Cagliari, 2015, leggibile on line).

Si rende indispensabile ripeterlo: Napoli, Palermo, Messina, la Sardegna – col fatto inaudito dell’assassinio di un viceré, non riscontrabile nelle altre due aree – sono realtà diverse che insieme configurano il quadro di scosse e lacerazioni, capaci di mettere a dura prova l’assetto socioeconomico e politico-istituzionale sottoposto al regime iberico.

 

Per concludere. In definitiva, la superficialità dell’articolo di Fois non permette di fare un solo passo avanti in una critica seria ed incalzante alla Lega: innanzitutto, alla logica di esclusione e discriminazione, propria di questa formazione politica, ben salda e costante negli anni, dai tempi di Umberto Bossi, prima contro i “terroni”, in seguito contro gli immigrati che tentano di sfuggire a devastazioni ambientali, a desertificazioni, a mancanza d’acqua, a guerre civili, alle ripercussioni di secoli di colonialismo, compreso quello italiano. In secondo luogo, alle istanze dei governatori leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia che rivendicano maggiori  poteri ed attribuzioni per la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna. A queste Regioni potrebbero unirsi anche Piemonte e Liguria. In una regione a Statuto speciale come la Sardegna, ben poche e, purtroppo, abbastanza isolate sono state le voci che si sono levate per criticare questa prospettiva “nordista”. Non risulta che, all’interno e fuori del Partito sardo d’azione, alleato della Lega, abbia finora preso piede al riguardo un dibattito politico degno di questo nome.

 

Pro l’agabbare. Sa rebellia de Napoli, ghiada dae Masaniello – connotu in s’Europa intrea – cudda de Palermo (de s’annu matessi 1647), cudda de Messina (in su 1674-78); su visurrei marchesu de Camarassa, bochìdu in Sardigna dae sos nobiles sardos, pro vindicare s’eliminatzione fìsica de su marchesu de Laconi, capu issoro (1668): totus custos sunt istados avolotos graes meda chi ant postu de aberu in crisi su podere ispagnolu. Sa crìtica de Fois, su cunfrontu suo intre Masaniello e Salvini non tenet profundidade istòrica peruna, non permitit de fàghere progressos pro fraigare un’alternativa sèria a sa Lega.

 

 

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