Una diversa uguaglianza, di Maurizio Ferrera

Le dirompenti trasformazioni economiche e sociali degli ultimi due decenni ripropongono oggi con forza un antico problema: la distribuzione del reddito è molto più squilibrata, il rischio di povertà ed esclusione sociale è aumentato. La struttura di classe si è riarticolata in cinque segmenti: dagli iperricchi agli esclusi. Le risposte sono almeno di quattro tipi, nessuna convincente. Dunque? Occorre immaginare garanzie sociali a geometria variabile. Ecco come

 

Nel 2000 uscì in Francia un volumetto dal titolo Etica economica e sociale, scritto da Philippe Van Parijs, uno dei più noti filosofi europei. Due anni dopo un editore mi chiese di scrivere un’introduzione per la traduzione italiana. Disse anche che voleva dare al libro un titolo provocatorio: Quanta ingiustizia possiamo accettare? Saltai sulla sedia: la frase non stava in piedi. Almeno in filosofia, l’ingiustizia per definizione non può essere accettabile. Il termine da usare era piuttosto disuguaglianza. Sono le differenze di trattamento fra le persone a sollevare problemi di accettabilità morale e politica. Le teorie della giustizia forniscono le risposte. Ossia ci dicono come distribuire fra gli individui parti uguali in base a quelle caratteristiche che sono, appunto, uguali (ad esempio stessa paga a chi svolge bene lo stesso lavoro, che sia uomo o donna) e in parti diseguali in caso contrario. Il discorso su uguaglianza e disuguaglianza verte sui criteri di distribuzione, diceva Aristotele. Mira a individuare to dikaion: come trattare in modo giusto le differenze fra polítes, fra cittadini.

Le dirompenti trasformazioni socio-economiche degli ultimi due decenni ripropongono oggi con forza questi problemi antichi. La globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, la transizione verso la cosiddetta «economia dei servizi e della conoscenza» hanno reso la distribuzione del reddito molto più squilibrata di un tempo. Dall’inizio degli anni Duemila a oggi la disuguaglianza è aumentata in tutti gli stati dell’Ue. Come negli Stati Uniti, è cresciutala quota di reddito percepita dall ’1% più ricco. L’ aumento è stato particolarmente marcato nel Regno Unito, in Irlanda e in Portogallo, ma ha interessato praticamente tutti i Paesi, compresi quelli nordici. Corrispettivamente, è aumentato il rischio di povertà ed esclusione sociale, che ormai lambisce visibilmente anche la vecchia classe media.

La struttura di classe si è così ri-articolata in cinque segmenti.

In cima si situa una piccola élite di veri plutocrati, gli iper-ricchi con patrimoni globalizzati. A seguire, troviamo il ceto alto-borghese, benestante ma ancorato a ricchezza e attività prevalentemente nazionali.

Al centro della distribuzione vi è la «massa media», a sua volta sempre più differenziata fra nuovi e vecchi ceti. I primi stanno dalla parte giusta della globalizzazione, in termini di competenze e occupazione. I secondi stanno dalla parte sbagliata: gli impiegati, operai, piccoli lavoratori autonomi che operano nei settori più tradizionali dell’economia o in quelli più esposti alle dinamiche di digitalizzazione (pensiamo agli effetti di Amazon sui piccoli negozianti).

Al fondo troviamo gli «esclusi» e soprattutto la maggior parte dei precari. In questo gruppo si sono creati molti «perdenti», che vivono in condizioni di costanze insicurezza.

Le disuguaglianze di reddito sono tradizionalmente giustificate, nelle economie di mercato, come un mezzo per salvaguardare gli incentivi al lavoro, garantire efficienza economica, allocare i talenti, premiare i meriti.

Oltre che dalle politiche di welfare, le disuguaglianze ingiuste (in particolare quelle dovute alla sorte) possono essere compensate da elevate chance di mobilità sociale. Su quest’ultimo punto, tuttavia, i dati segnalano che oggi i livelli di disuguaglianza sono accompagnati da una contrazione e non da un aumento della mobilità. Ad esempio, la probabilità che un bambino nato da genitori nel quinto inferiore della distribuzione del reddito raggiunga il quinto superiore è molto più bassa in Gran Bretagna (9%) e Stati Uniti (7,5%) — due Paesi che sono diventati sempre più diseguali — piuttosto che in Canada (13,5%) e Danimarca (11,7%), due Paesi con una distribuzione del reddito fra le più egalitarie.

Le visioni e i progetti che mirano a contrastare questa indesiderabile e perversa evoluzione sono oggi essenzialmente di quattro tipi.

Il primo — quello più visibile e rumoroso — è «retrotopico», rivolto al passato: fermiamo il cambiamento e ricostruiamo la tribù (chiusura nazionale). Il secondo progetto è quello neoliberista. La sua ricetta è così riassumibile: le posizioni sociali devono essere accessibili a tutti, ma, al di sopra di una rete di sicurezza contro il bisogno estremo, le ricompense devono essere collegate ai meriti individuali.

La visione neoliberista è quella di una meritocrazia «performativa».

C’è poi la sinistra radicale — antiglobalista e un po’ euroscettica — che vuole conservare il più possibile e guarda con nostalgia al sistema di protezione fordista, che però è irreversibilmente tramontato. Nel centrosinistra invece troviamo idee «neo-welfariste», nate sul tronco della cosiddetta Terza Via blairiana. Qui il concetto di giustizia è inteso in senso sostanziale: non solo «libertà da» e «campo da gioco livellato», ma anche «libertà di», sorretta da politiche pubbliche calibrate in base ai bisogni, lungo l’arco della vita. In modo da riconciliare sicurezze e flessibilità nel nome dell’equità.

Il difetto di queste cornici è una visione generica e statica delle opportunità. I retrotopisti hanno in mente le opportunità tradizionali (lavoro, famiglia, comunità, welfare), la proposta forte è di riservarle a «noi». Il progetto neoliberista trascura il legame fra chance di vita e struttura sociale e sopravvaluta le capacità del mercato. Seppure molto aperta sul piano dei diritti individuali, la sinistra radicale è ancorata all’idea di una contrapposizione binaria fra classi. Le idee neo-welfariste sono infine ben consapevoli dell’importanza dei vincoli sociali e sono molto più ambiziose sulla parificazione e sulla redistribuzione delle chance. Ma anch’esse tendono a focalizzarsi troppo sulla mitigazione dei rischi e sulla «capacitazione» — avere le risorse per affrontare i rischi — mentre non problematizzano in maniera adeguata le opportunità: come trasformare il cambiamento in atto da fonte di rischio a moltiplicatore di opportunità? E come ampliarne l’accesso da parte di tutti, in modo equo?

Le risposte a questi interrogativi devono partire da una incisiva ridefinizione dei diritti sociali: non solo la loro gamma, ma anche la loro stessa natura. Nel Novecento dire welfare coincideva con il dire spettanze soggettive di protezione, normate dalla legge. Obblighi formalizzati e «automatici» per lo Stato e legittime pretese da parte dei cittadini (pensioni, indennità di disoccupazione e malattia ecc.). L’enfasi sulla dimensione formale della spettanza, sulla «giustiziabilità» della sua eventuale mancata soddisfazione sta diventando sempre più limitativa. Essa protegge dai rischi, ma non assicura le opportunità. Ad esempio, stabilisce il diritto all’istruzione obbligatoria oppure a politiche attive del lavoro. Ma non ci garantisce scuole o servizi di qualità, né l’accesso equo alle opportunità formative e di impiego. Occorre inserire l’elemento «cogente» dei diritti all’interno di una cornice — e insieme uno strumento — più ampio, articolato ed efficace. Una promettente etichetta per il nuovo strumento è «garanzia sociale», nata dalla confluenza di due tradizioni: quella nordica legata alle «garanzie giovani» introdotte a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso; la tradizione di alcuni Paesi sudamericani, legata all’introduzione di guarantías sociales a partire dai primi anni Duemila. La nozione di «garanzia sociale» definisce non solo la titolarità di una spettanza in astratto, ma precisa le condizioni e i livelli di qualità della sua fruizione e vincola l’attore pubblico ad assicurare sia le prime sia le seconde. Inoltre, la garanzia prevede meccanismi codificati di monitoraggio e valutazione, dei canali (anche extra-giudiziali) per esprimere le esigenze e le lamentele degli utenti, ed eventualmente per sanzionare il mancato adempimento degli obblighi da parte delle varie amministrazioni pubbliche. Rispetto ai diritti sociali novecenteschi, la garanzia è però più flessibile. Il suo contenuto non è fisso, immutabile e inviolabile, ma rivedibile sulla base del monitoraggio e della valutazione. Il dibattito e le sperimentazioni in questa direzione sono aperti e la strada è promettente.

La ricerca del «giusto» pone alla politica sempre nuove sfide. Dal punto di vista logico, dobbiamo evitare le due trappole di Aristotele: «Pensare che se le persone sono eguali in qualcosa, allora devono esserlo in tutto; oppure pensare che se sono diseguali in qualcosa, allora meritano parti diseguali di ogni cosa». Le risposte devono situarsi fra i due estremi. Non c’è tuttavia una soluzione stabile, valida per ogni contesto. Quando cambiano il tipo e l’intensità delle differenze rilevanti, devono cambiare anche i criteri di distribuzione. Per ora sappiamo con certezza che il cambiamento c’è, ma non sappiamo come affrontarlo. Le vecchie e soprattutto le nuove disuguaglianze diventano però sempre più inaccettabili, in quanto ingiuste. Il tempo stringe e dobbiamo perciò metterci a correre, nella teoria come nella pratica.

 

LA LETTURA 26 LUGLIO 2019

 

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    1 Comment to “Una diversa uguaglianza, di Maurizio Ferrera”

    1. By Mario Pudhu, 19 agosto 2019 @ 16:55

      A pàrrere meu bi at una ‘impostatzione’ de fundhamentu a nàrrere pagu irballada e, custa, abberu tot’àteru de zusta, de su tipu “Chi ha dato ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto ha avuto” in d-una visione e ideologia individualista assurda de una umanidade pessada coment’e zenia de “homo homini lupus”, a “immàgine e somiglianza” de sos animales de sa giungla chi si mànigant s’unu no solu su de s’àteru, ma fintzas própriu s’àteru.
      S’Umanidade intrea est una entidade sociale e peruna pessone e perunu pópulu si podet cussiderare un’ísula, puru cun totu sas distintziones de istória, culturas e geografia. E su mundhu, su Pianeta Terra, propriedade de s’Umanidade intrea e no de sos lestros pighendhe, siant custos síngulos imprendhidores, Spa, Multinatzionales, Bancas o Istados.
      E sa richesa totale produida, carculada e chentza carculada, no si podet cussiderare in peruna manera si no richesa sociale fata no solu cun su triballu, sa passione, sos sacrifítzios, s’istúdiu de totu chie at triballadu e triballat e istúdiat e imbentat e industrializat ma fintzas cun sa disocupatzione (industrializada, allevada, coltivada!) de sos disocupados e inderetura cun su fàmine e anémia de sos morindhe e mortos de fàmine curpa no de sa mandronia e pagu capatzidades ma de sos lupos chi si ant manigadu e intanadu/ammuntonadu s’issoro e s’anzenu lassendhe a fortza de gherra àteros meda chentza nudha e inderetura cherent chi sos àteros in sa “competizione” abbarrent perdidores – vinti! – e chentza nudha, a si arranzare (a mòrrere) chentza nudha, fintzas morindhe e mortos de fàmine e de donzi àteru bisonzu umanu pro pòdere èssere zente e no animales.
      Sa propriedade – no de una paja de iscarpas e de duas cutzaras o de una domo inue si partare – ma cussa de totu su chi si narat capitales/mezos de produtzione – est abberu nudh’àteru si no una fura, nàschidos cun sa fura, e fintzas faghindhe sacrifitzios mannos, ma chi no sighint a crèschere in manera ‘miraculosa’ si no cun s’aprofitamentu de chie los tenet a dannu mescamente de chie est cundennadu a abbarrare chentza nudha o fintzas solu a irbandhonare e fuliare pratigamente su pagu chi mancari teniat e ancora tenet.
      Pro no istesiare, leade una bidha de sa Sardigna e abbaidade cantos terrinos sunt irbandhonados deunudotu ca sos mannos chi los triballaiant si che sunt mortos e sos “eredes” che sunt totu emigrados. Propriedades de neune, solu disponíbbiles a s’aprofitamentu si carchi multinatzionale o àteru imbentu a ingannia puru los cheret comporare. Leade cantas domos fintzas noas ma serradas e disabbitadas e derruindhesiche (cun sos ‘proprietàrios’ a donzi modu “tassados” fintzas chentza ndh’àere profetu perunu).
      Tandho, ponimus in discussione su piessignu prus distintivu de s’èssere umanu, sa libbertade e responsabbilidade? NO, e in peruna manera, e mancu pretenindhe de muntènnere solu sa libbertade personale/individuale lassendhe a sos àteros sa responsabbilidade personale/individuale e colletiva puru.
      Libbertade e responsabbilidade sunt una entidade indivisíbbile, pena sa disumanizatzione de unos e de àteros. Sunt sas duas fatzadas de sa matessi “moneda”, namus puru una sinónimu de s’àtera ca no bi podet èssere – e no bi est mai – s’una chentza s’àtera!
      E si no ponimus in discussione libbertade e responsabbilidade, personale e colletiva, no podimus pònnere in discussione mancu sa líbbera initziativa generalmente cussiderada.
      Ma no in d-unu mundhu propriedade personale de chie cheret fàghere totu su chi li paret e piaghet — libbertade no est cussu comente su sensu no est sa libbertade de si che betare in ponte o de s’impicare – ma libbertade e responsabbilidade in d-una sociedade famíllia, bidha, istadu, mundhu chi at bisonzu de binàrios, de régulas, inue a donzi modu nessunu est un’ísula nàschida e créschida dae su nudha e dae neunu e ne indipendhente che unu re abbitadore únicu in d-un’ísula in s’ocèanu e nàschidu dae su nudha e dae neune, ca mancu “re” leone o isciacallu est gai.
      Si nois pessamus a it’est su mundhu – de totu – mescamente oe, a donzi modu mai coment’e oe – est abberu difítzile, cumplicadu (e pro medas cosas mancu male chi est cumplicadu, gai comente est cumplicada sa demogratzia cherindhe e depindhe èssere demogràticos), est difízile a fàghere su zustu e netzessàriu a manera chi totugantos potant èssere e àere unu mínimu umanu dignitosu de rédditu, triballu, istúdiu, sanidade, libbertade e responsabbilidade personale e colletivu in custu mundhu/bidha e in calesisiat istadu siat tzidadinu o fintzas apólide.
      Ma est mai possíbbile chi sos Istados, chi faghent acordos pro sighire sos delincuentes de cada zenia, no fetant acordos pro sighire sos latitantes evasores fiscales miliardàrios in calesisiat furrungone de su mundhu si che cuent a fuidura che bandhidos pro chi de su chi ant ammuntonadu ponzant sa parte issoro a dispositzione de sa colletividade e pòdere èssere prus pagu disuguales?
      Est mai possíbbile chi s’Onu bi siat pro cosighedhas e no pro unu mínimu de órdine e zustesa sotziale fintzas intro de unu síngulu istadu? Est mai possíbbile, cun d-una economia e civiltade chi est batindhe su Pianeta a sa distrutzione, chi no si currezat una economia de gherra – cun totu sos corollàrios de donzi economia de gherra! – tra impresas industriales e finantziàrias, e tra istados sempre pessendhe unu bínchere e a dominare sos àteros e si andhet a una civiltade collabborativa, interdipendhente e prus pagu assurda e dannosa?