La qualità perduta del lavoro, di Tito Boeri

 

Ci sono voluti undici anni, un’infinità, per riportare il lavoro ai livelli pre-crìsì. I dati mensili provvisori rilasciati ieri dall’Istat confermano che il tasso di occupazione, il rapporto fra lavoratori e popolazione in età Javorativa, sta tornando nel 2019 sopra ai livelli del 2008. Non è così per il reddito nazionale che è ancora sotto di più del 5% e, anche questo c’è nei dati pubblicati ieri, non accenna a risalire.

Cerchiamo innanzitutto di capire perché questo accade. Un Paese in calo demografico ha una tendenza inerziale a far crescere i tassi di occupazione, anche se la domanda di lavoro ristagna assieme all’economia nel suo complesso.

Diminuisoono infatti i potenziali lavoratorì, il denominatore del tasso di occupazione che perciò aumenta anche se il numero di occupati non aumenta. Da noi la popolazione in età lavorativa è dimi nuita di quasi un milione negli ultimi dieci anni, mentre gli occupatì in età lavorativa sono più o meno gli stessi che nel 2008.

Sono invece aumentati gli occupati al di sopra dei 65 anni di età grazie alla riforma delle pensioni varata nel 2011. Chi oggi usa toni trionfali nel commentare i dati sul lavoro sta tessendo le lodi alla riforma Fornero.

La seconda ragione per cui l’occupazione sembra andare meglio del Pil è che sono aumentate le persone che lavorano molto di più delle ore lavorate, perché è sempre maggiore il ricorso al part-time e a lavori temporanei che hanno durate brevi lasciando molte persone con poche ore lavorate in un anno. Il part·tlme è passato dal 14 al 18% dell’oc:cupazione dipendente ed è largamente involontario. La quota di contratti a tempo determinato è aumentata del quaranta percento (dal 12 al 17 per cento).

La terza ragione è che la creazione di posti di lavoro è stata forte mente incentivata negli ultimi anni. Come ci ha ricordato l’ultimo rapporto annualeell’Inps,nel quadriennio 2O15-18 sono stati spesi 71 miliardi per agevolazioni contributive. La parte del leone l’ha giocata l’esonero triennale dal pagamento del contributi sociali per i neo-assunti con contratti a tempo indeterminato varato nel 2015 contestualemnte al Jobs Act, che ha beneficiato un milione e mezzo di lavoratori e mezzo milione di imprese.

In sintesi, aumenta la percentuale di chi lavora nonostante l’economia ristagni soprattutto perché siamo in meno a poter lavorare, c’è più lavoro di bassa qualità e c’è molto sostegno pubblico. Cosa si può fare allora perché aumenti contemporaneamente sia la quantità che la qualità del lavoro, dunque il suo contributo alla erescìta economica del Paese?

Le agevolazioni contributive sono diventate forse il principale strumento di politica industriale in Italla, Introdotte per lo più come strumenti congiunturali, finiscono per venirci riproposte. Magari con qualche modìfìca, ogni qualvolta si manifestano disponibilità di bilancio. Queste agevolazioni costano (l’esonero triennale valeva circa 4.000 euro all’anno per posto di lavoro incentivato) e avvantaggìano alcune imprese pìù di altre. Si tratta, innanzitutto, delle aziende pìù piccole perché c’è un tetto alla  decontribuzione  e auindi ne bneficiano soprattutto le imprese minori e con loro tutte le aziende che pagano salari (quindi contributo) più bassi. Essendo agevolazioni per lo pìù circoscritte alle nuove assunzini, sono, inoltre, particolarmente favorevoli ai settori con molto turnover come lecostruzioni, gli alberghi e i ristoranti.

Il nostro Paese soffre di cattiva allocazione del suo capitale umano, con una disoccupazione intellettuale molto alta, scarsa formazione in azienda che completi l’istruzione formale e lavoro in eccesso in imprese che hanno scarse prospettive (come confermato dalla crescita del ricorso alla Cassa integrazione straordinaria negli ultimi mesi). Bene perciò evitare che agevolazioni di fatto selettive accentuino queste caratteristiche del nostro mercato del lavoro. Importante, inoltre, contrastare in modo più efficace il nostro persistente dualismo contrartuale. Sia il Jobs Act che il Decreto dignità non sono riusciti ad aumentare in modo permanente la percentuale di assunzioni direttamente con contratti a tempo indeterminato: è tornata attorno al 10% dopo un balzo al 15% nel 2015. L’unico effetto permanente di queste rìforme, che servivano a migliorare laqualità del lavoro più che a creare lavoro,  è stato quello di aumentare le trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato. È un fatto positivo, ma se aumentano sia le trasformazioni che i contratti a termine vuol dire che moìtìssìmr lavoratori a tempo determinato non vengono né prolungati né trasfor mati in contratti a tempo indeterminato, con molte imprese timorose di affrontare l’alea del causalone e non intenzionate a stabilizzare il rapporto di lavoro. Ln questo turnover esasperato si disperde molto capitale umano: né il lavoratore né il datore di lavoro hanno incentivi a investire nell’imparare meglio il proprio mestiere e contribuire alla crescita dell’azienda.

Il problema è che gli effetti delJobs Act sugli ingressi a tempo indeterminato sono stati in gran parte vanificati dal decreto (Potetti) che pochi mesi prima dell’introduzione del contratto a tutele crescenti aveva reso molto vantaggioso per le imprese le assunzioni a tempo determinato (diventate di fatto un periodo di prova lungo tre anni). E il decreto Diginità ha reso più costosi i rinnovi dei contratti a tempo determinato, ma anche i contratti a tempo indeterminato riportando, anche a seguito del pronunciamento della Corte Costituzionale, il costo dei licenziamenti a 36 mesi anche per chi ha basse anzianità aziendali. Il governo in carica ha anche fortemente incentivato fiscalmente le partite IVA che nascondono spesso rapporti di lavoro dipendente.

Se la volontà è quella di aumentare le assunzioni a tempo indeterminato, bisognerebbe riformulare il contratto a tutele crescenti in vigore, recependo le indicazionl della Corte Costituzionale. In particolare, si potrebbe lasciare ai giudici più voce in capitolo nel fissare i costi di licenziamento ponendoli però in rapporto all’anzianità aziendale. La Corte di Cassazione francese ha recentemente stabilito che questo principio è conforme alle convenzioni ILO). Si potrebbe poi associare a questa operazione una ricalibratura delle agevolazioni contributive che le renda permanenti. Per riassorbire la disoccupazione giovanile, rimasta molto al di sopra dei livelli pre-crìsì, potrebbero essere concentrate sulla fase iniziale di carriere rette su contratti a tempo indeterminato.

Ad esempio la fiscalizzazione dei contributi potrebbe attenuarsi gradualmente fino al raggiungimento dei 30 anni di età ed essere garantìta solo a chi ha un contratto a tempo indeterminato. Le imprese che preferissero continuare ad assumere con contratti a tempo determinato vedrebbero assottigliarsi il periodo in cui possono beneficiare delle agevolazione perché il lavoratore, invecchiando, ottiene agevolazioni più basse. E in un quadro di stabilità normativa non ci sarebbe più alcun vantaggio ad assumere con contratti a tempo determinato confidando di poter poi contare su qualche nuova agevolazione per la conversione del contratto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato. Avere una parte dei propri contributi finanziati dalla fiscalità generale e per chi deve finanziare un debito pensionistico appesantito dalla cosiddetta quota 100 e avrà trattamentì molto meno generosi di chi va oggi in pensione darebbe un piccolo, ma significativo segnale di equità intergenenerazionale.

LA REPUBBLICA 1 AGOSTO 2019

 

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