Senza un vero federalismo Europa e Italia soffocano. Dialogo tra LUIGI MARCO BASSANI e ALBERTO MARTINELLI a cura di ANTONIO CARIOTI

 

Carlo Cattaneo. Nato a Milano nel 1801, pensatore federalista repubblicano, nel 1848  guidò le Cinque giornate di Milano e fu costretto all’esilio datorno degli austriaci. Critico  verso l’unificazione realizzata sotto i Savoia, morì in Svizzera nel 1869.

 

Carlo Cattaneo                                                                                                                          Giovanni Battista Tuveri

Alberto Martinelli è nato a Milano nel 1940. Sociologo, fiima del «Corriere», dal 1987 al 1999 è stato preside della facoltà-di Scienze politiche dell’Università Statale di Milano.

Nato a Chicago nel 1963, specialista di storia e cultura degli Stati Uniti, Luigi Marco Bassani (a destra) è “professore di Storia delle dottrine politiche all’Università di Milano.

 

A 150 anni dalla morte di  CARLO CATTANEO, due studiosi discutono delle sue idee. L’illustre intellettuale e uomo federalista lombardo. Amico di molti uomini politici sardi, tr ai quali Giorgio Asproni, si interessò della Sardegna e dei suoi problemi,  importanti per capire la  QUESTIONE SARDA: Di varie opere sulla Sardegna, in “Il Politecnico”IV, 1841; Della Sardegna antica e moderna, in Alcuni scritti del dottor Carlo Cattaneo, 1846; Semplice proposta per un miglioramento generale dell’isola di Sardegna, n “Il Politecnico”VIII, 1860; Un primo atto di giustizia verso la Sardegna,  n “Il Politecnico”IV, 1862.

Alberto Martinelli è coordinatore del comitato per le celebrazioni: la storia gli dà ragione, bisogna premiare le Regioni efficienti e proseguire nell’integrazione dell’Ue. Luigi Marco Bassani è stato allievo di Miglio: il nostro Paese si regge su una rapina fiscale ai danni del Nord, Bruxelles sta affondando per le tasse troppo alte e l’eccesso di statalismo

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I 150 anni della morte ricorrevano il 5 febbraio, ma solo adesso partono le iniziative per ricordare Carlo Cattaneo, pensatore federalista e leader delle Cinque giornate di Milano. Questo significativo ritardo offre lo spunto per affrontare il tema del federalismo con due studiosi di tendenze diverse: lo storico delle dottrine politiche Luigi Marco Bassani, allievo di Gianfranco Miglio (per una fase ideologo della Lega), e il sociologo Alberto Martinelli, già membro della Costituente del Pd e ora coordinatore del comitato per il centocinquantesimo di Cattaneo.

LUIGI MARCO BASSANI— Negli anni Settanta di federalismo parlava solo il Partito sardo d’Azione. E ricordo che in tv un giornalista disse a un suo esponente: «Voi vi rifate a un federalismo cattaneano, quindi cattolico». Tanto per capire che cosa si sapeva di Cattaneo, il quale in realtà detestava i preti. Prima che emergesse la Lega, quei temi erano estranei al dibattito pubblico. Ma anche in epoca risorgimentale, dopo il 1849, il federalismo era marginale. In precedenza no: quando i francesi entrarono in Lombardia nel 1796 e bandirono un concorso su quale governo fosse preferibile per l’Italia, vinse Melchiorre Gioia con un’ipotesi unitaria, ma gli altri partecipanti optarono quasi tutti per una soluzione federale. Il dibattito sarà vivace fino al 1848-49: poi vincono i centralisti unitari, con Giuseppe Mazzini sul versante repubblicano e con i Savoia su quello moderato.

ALBERTO MARTINELLI- Cattaneo sosteneva un’Italia federale nella cornice più ampia degli Stati Uniti d’Europa: un’unione continentale di popoli liberi. E nel 1848, dopo le Cinque giornate, si oppone risolutamente all’annessione della Lombardia al Regno dei Savoia. L’unificazione realizzata da Cavour nel 1861 segna la sconfitta di Cattaneo, ma poi si rifanno a lui meridionalisti come Gaetano Salvemini e Guido Dorso. E dopo la caduta del fascismo, alla Costituente, ci sono alcune forze minoritarie che sostengono una soluzione federale, tanto che si arriva a un compromesso con l’istituzione

delle Regioni, anche se poi per vederle sorgere bisognerà aspettare vent’anni. Infine non dimentichiamo la riforma del Titolo Quinto della Costituzione, che nel 2001 compie passi notevoli verso un assetto federale, per la verità molto ostacolati e contestati dalle tendenze centraliste in sede di attuazione. Né bisogna dimenticare che le idee di Cattaneo sono ben vive a livello europeo: il progetto dell’Unione corrisponde alla sua visione di un assetto sovranazionale che rispetti l’autonomia dei singoli Stati, ma che sia una vera federazione.

 

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LUIGI MARCO BASSANI— Senza dubbio Cattaneo era per una soluzione federale nel nostro Paese come a livello europeo. Ma nella storia d’Italia l’integrazione sovranazionale è stata sempre utilizzata dai centralisti contro le istanze federaliste interne. Quando alla Costituente si cominciava a parlare di Regioni, molti personaggi illustri firmarono una lettera in cui si diceva che l’Italia doveva avere un forte assetto unitario per far fronte agli impegni internazionali che avrebbe comportato la costruzione di un’Europa unita. Nel 1953, quando si avviò timidamente la discussione sull’attuazione delle Regioni, venne diffuso un altro appello analogo. Insomma, Cattaneo è uno sconfitto di successo.

ALBERTO MARTINELLI- — Aspettiamo a definirlo sconfitto, secondo me vincerà alla distanza.

LUIGI MARCO BASSANI— — Vedremo. Di certo i due aspetti del suo pensiero vengono usati uno contro l’altro. Guardiamo al caso catalano: l’Unione Europea non fa nulla per l’autodeterminazione dei popoli, perché è diventata un cartello di Stati. Gli europeisti sono i più convinti centralisti a livello nazionale.

ALBERTO MARTINELLI- — Storicamente la Comunità Europea nasce da un accordo tra Stati, che ci tengono ad essere forti per contare a livello continentale. Bisognerebbe promuovere il federalismo nei singoli Paesi in modo da coordinarlo con il processo d’integrazione europea, come immaginava Cattaneo. In realtà sbaglia chi pensa che un Paese federale sia più debole di uno Stato unitario in un contenitore più vasto. È l’esatto contrario.

Ma come mai in Italia anche la Lega sembra aver accantonato l’obiettivo del federalismo?

LUIGI MARCO BASSANI— L’idea che ci sia stata una svolta netta con l’ascesa di Matteo Salvini, a mio parere, è un po’ un mito. Vedo piuttosto un lento mutamento di quella che sembrava essere la ragione sociale della Lega. In epoca berlusconiana Umberto Bossi è stato al governo per anni e la rapina fiscale ai danni delle regioni settentrionali, che versano allo Stato in tasse molto più di quello che ricevono in servizi sul territorio, non è diminuita di un euro. Di fatto l’unica riforma costituzionale autonomista, quella del Titolo Quinto, è stata approvata nel 2001 dall’Ulivo e le uniche privatizzazioni, per quanto insoddisfacenti, le ha realizzate Romano Prodi. Il centrodestra non ha fatto nulla per ridurre il peso dello Stato. Uscito di scena Bossi, era impossibile rilanciare parole d’ordine ormai prive di credibilità. Così Salvini, da politico accorto, ha cercato altre strade: all’inizio campagna contro i campi rom, poi quella sulle frontiere chiuse ai migranti. Quindi si è lanciato sul tema del nazionalismo italiano, che si è dimostrato efficace.

ALBERTO MARTINELLI- — Il guaio è che nessuno ha fatto del federalismo una proposta organica. Anche la Lega lo ha sempre usato come motivo propagandistico, per guadagnare consensi. E il centrosinistra ha varato la riforma del 2001 in modo frettoloso per cercare di limitare i danni alle elezioni imminenti. D’altronde il nuovo Titolo Quinto dà molto spazio alla legislazione concorrente, quindi richiede un forte spirito di collaborazione tra Stato e Regioni, che in Italia manca. Così i due livelli sono entrati in conflitto e ne è scaturito un enorme contenzioso davanti alla Corte costituzionale, con rischi di paralisi. Per di più la Lega, non potendo accettare che la riforma federale l’avessero fatta altri, una volta al governo, invece d’impegnarsi per attuarla, ha preferito ricominciare da capo con la sua proposta, la devolution, bocciata nel referendum del 2006. Tutta la questione è stata ùn:p>ostata male. E adesso si rischia di ricaderci con l’ipotesi dell’autonomia differenziata, che sta diventando un motivo di scontro politico strumentale, con il riemergere delle vecchie recriminazioni reciproche tra settentrionali che si lamentano di pagare troppo e meridionali che temono di essere penalizzati.

LUIGI MARcOBASSANI- La Lega nel 2001 era debolissima, al 3,9 per cento, non aveva la forza per imporre una riforma incisiva. Però nella sua storia ha fatto di tutto per occupare quello spazio politico, agitando ogni fonnula possibile: il federalismo, la secessione, la devolution. Slogan dei quali alla fine non è rimasto molto. II mio maestro Miglio ogni tanto ammoniva: «II federalismo della Lega non deve diventare come la società senza classi per i comunisti». Invece è successo proprio così: il federalismo era la parola d’ordine che scaldava il cuore ai militanti, ma suscitava scetticismo già nei quadri intennedi, mentre i parlamentari -se ne infischiavano bellamente. Detto questo, è vero che la devolution venne respinta nel referendum del 2006 a livello nazionale, ma ad approvarla furono le due Regioni che tengono in piedi l’Italia a livello finanziario: Lombardia e Veneto.

C’è anche l’Emilia-Romagna, che nel 2006 votò contro la «devolution».

LUIGI MARCO BASSANI – In effetti è la Regione meno sensibile al problema, anche se adesso si è unita a Veneto e Lombardia nella richiesta dell’autonomia differenziata. Sono territori che subiscono un’enorme rapina fiscale. Lo stesso ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, in un dibattito con me anni fa, ammise che mantengono l’intero Paese. Non a caso il Veneto nel referendum del 2018 si è espresso nettamente a favore dell’autonomia. E anche in Lombardia (se consideriamo la campagna inesistente ed eccettuiamo il caso particolare di Milano) la partecipazione al voto è stata rilevante.

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Potrebbe essere una svolta?

LUIGI MARCO BASSANI- Ci credo poco. I 5O-6o miliardi che la Lombardia versa ogni anno a fondo perduto nelle casse statali (in Veneto il conto ammonta a 20 miliardi) sono il carburante che fa funzionare l’Italia .. Tenerseli è impensabile nel quadro istiruzionale vigente. Forse è più facile raggiungere l’indipendenza che un’autonomia del genere. Se invece ci si accontenta della gestione di alcune competenze per far valere la maggiore efficienza della Lombardia e del Veneto in questi settori e risparmiare risorse, allora ci posso credere. Ma dei seimila euro in più che ogni lombardo (neonati comprnsi) versa annualmente, senza ricevere nulla in cambio, lo Stato italiano non può fare a meno.

ALBERTO MARTINELLI- -Anche Paesi federali come la Germania e gli Stati Uniti conoscono questo fenomeno del residuo fiscale a svantaggio della zone più ricche.

LUIGI MARCO BASSANI- Ma in una misura ben minore. Tre Land tedeschi hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale contro Berlino perché in un anno riceve sussidi statali per 3 miliardi. II residuo fiscale di un solo mese per la Lombardia è di circa 5 miliardi.

ALBERTO MAR’l'INELLI – Non parlerei di rapina fiscale, anche se ci sono ingenti divari di gettito tra le Regioni. Bisogna tenere conto di servizi che lo Stato presta a tutti i cittadini, per esempio la difesa, i cui costi non si possono ripartire con criteri tenitoriali. Serve a poco la rissa tra chi grida alla Lombardia derubata e chi paventa la disunione d’Italia. La Costituzione prevede che le Regioni possano avere più competenze in alcune materie, se si dimostrano virtuose sotto il profilo fiscale. Peraltro . le Regioni hanno potestà legislativa, mentre i compiti amministrativi in quei settori spetterebbero agli enti locali. Non vedo obiezioni a un meccanismo del genere: una Regione che si dimostra più efficiente in certi campi non toglie niente a nessuno se ne assume la gestione e realizza risparmi da impiegare per i suoi scopi.

Ma allora da dove nasce la polemica?

· ALBERTO MARTlNELLI-”Alcune Regioni difendono il principio della spesa storica, per cuì le quote di ripartizione delle risorse vengono calcolate in base a quanto è avvenuto in passato. Invece il criterio deve essere quello dei livelli essenziali di prestazioni da garantire ai cittadini. Se alcune Regioni riescono ad assicurarli spendendo meno, è ragionevole che ottengano piii competenze, come prevedeva del resto la rifonna costituzionale bocciata dagli elettori nel dicembre 2016. Premiare la buona amministrazione mi. sembra un principio sano. Un’altra cosa però è chiedere, come ha fatto il presidente del Veneto Luca Zaia, di mantenere sul tenitorio il 90 per cento delle tasse che pagano i cittadini della Regione. E chiaro che una pretesa del genere suscita le proteste delle aree più povere del Paese. La Costituzione prevede l’autonomia differenziata, ma anche un fondo perequativo a favore delle Regioni arretrate e interventi dello Stato per combattere gli squilibri sociali e tenitoriali, in particolare tra Nord e Sud, che si sono determinati per ragioni storiche. Non vorrei che nella campagna elettorale permanente della politica attuale si perdessero questi punti di riferimento.

LUIGI MARCO BASSANI – Io temo che, dopo aver passato invano 150 anni a costruire una nazione italiana senza riuscirci, adesso i nostri governanti, cercando di salvare il loro potere, finiscano per distruggere l’apparato produttivo del Nord, schiacciato da tasse troppo alte.

 

Il fatto di essere Parte dell’Unione Europea non dovrebbe aiutarci a evitare un esito così negativo?

LUIGI MARCO BASSANI – L ‘Ue mi sembra il Sacro Romano Impero negli ultimi anni del Settecento, alla vigilia della fine. Ormai l’implosione è alle soglie. Certo, l’integrazione comunitaria è servita a seppellire l’ascia di guerra tra Francia e Gennarua: la pace è un bene preziosissimo. Però oggi l’Unione serve solo a nascondere la forza di Berlino e la debolezza di Parigi nel contesto di un’inquietante decrescita economica. In Europa dopo il 1945 sono stati costruiti i più grandi apparati pubblici della storia umana, grazie al fatto che la difesa era garantita dagli Stati Uniti e si poteva ampliare la protezione sociale con i risparmi realizzati sulle spese militari. Ormai in Italia la pressione fiscale effettiva sfìora il 6o per cento e in. altri Paesi, Germania inclusa, la sìtuazìone non è molto diversa. Per certi versi l’Ue è come il nostro Paese su scala più ampia: il gigantismo del welfare la sta affondando. Non parliamo poi degli squilibri territoriali: la differenza tra la contea più povera e quella più ricca degli Stati Uniti è di gran lunga inferiore a quella tra la provincia più prospera e quella più arretrata dell’Umone Europea. Come può l’euro essere la moneta unica di realtà tanto diverse sotto il psofìlo economico?

 

Si prospetta un distacco tra i Paesi nordici e quelli mediterranei?

LUIGI MARCO BASSANI – La stessa Germania dal 1989 è cresciuta a una media annuale di poco più dell’1 per cento. Al di là dell’Italia, che è crollata, l’Unione è un’area che ha rinunciato all’espansione economica per gestire senza troppi traumi il suo declino. Fra le prime venti imprese del mondo per capitalizzazione, nel 2017 solo due erano europee, una peraltro. svizzera, cioè fuori dall’Ue. L’Europa sta facendo la fine di potenze tramontate nel passato come la Mesopotamia, l’Egitto e l’Impero romano. Le forze trainanti della civiltà si stanno rapidamente spostando altrove.

ALBERTO MARTINELLI – Il dato sulla crescita tedesca mi . sembra sottostimato: non dimentichiamo comunque che nel 2008 c’è stata la più grave crisi economica dal 1929 e che la Germania ha dovuto accollarsi gli oneri dell’unificazione con l’Est comunista. Di certo l’Ue non è una costruzione federale. Dei tre pilastri previsti nel trattato di Maastricht, è stato realizzato solo il mercato unico, la libera circolazione di merci e persone funziona. Gli altri due pilastri – politica estera e difesa, politica interna e giustizia – sono requisiti fondamentali della sovranità nazionale, suì quali gli Stati non vogliono mollare la presa. Qµi prevale il metodo di decisione intergovernativo e l’Unione procede come una confederazione di Stati sovrani. ·

 

Ma Cattaneo come la giudicllerebbe?

ALBERTO MARTINELLI – Constaterebbe di aver visto giusto: l’integrazione europea ha prodotto la pace. Ma anche il cammino percorso negli ultimi settant’anni in fatto di sviluppo e benessere sociale è stato notevolissimo. Senza l’Unione staremmo molto peggio: l’Italia sarebbe una «repubblichetta», per usare un’espressione di Cattaneo, destinata a diventare una colonia di qualche grande potenza. Cerchiamo allora di tenerci stretta l’Europa, nonostante le difficoltà e le disparità crescenti. Ci sono sfide che finora non sono state affrontate, come la pressione migratoria: questo è un grande fallimento per Bruxelles. Ma l’Unione federale è il progetto migliore che abbiamo a disposizione. Il declino geopolitico è un dato di fatto, dovuto alla imponente crescita di altre regioni del mondo, ma sarebbe molto più rapido e irre versibile senza l’Ue. Che alternativa abbiamo al disegno federale? Un ritorno alle pìccole patrie?

 

La vicenda della Catalogna lo fa pensare.

ALBERTO MARTINELLI-È un caso che dimostra come il modo migliore di evitare le secessioni sia proprio il federalismo. Al punto in cui siamo l’indipendentismo catalano si può fermare solo con una riforma istituzionale che trasformi la Spagna in uno Stato federale. Purtroppo sembra che si vada in direzione opposta.

LUIGI MARCO BASSANI- Se Madrid avesse fatto votare i catalani 7-8 anni fa, il Sì alla secessione avrebbe probabilmente perso, come in Scozia nel 2014. Oggi vincerebbe di sicuro, perché il comportamento del governo  centrale è stato degno del peggiore franchismo e ha indignato anche molti abitanti della Catalogna di origine spagnola. Come si possono minacciare condanne gravissime a chi si è lìmìtato a far votare i clttadìnì. Tutto deriva dalla decisione della Corte costituzionale di Madrid, molto politicizzata, che respinse il nuovo statuto di autonomia proposto da Barcellona in quanto dichiarava la Catalogna una nazione. La Spagna è una costruzione che non regge, ma l’Ue, in quanto cartello di Stati nazionali (altro che federalismo), continua a difendere un suo membro che viola il diritto all’autodeterminazione.

ALBERTO MARTINELLI - La posizione dell’Ue mi pare scontata: se andasse incontro all’indipendentismo catalano aprirebbe la strada a tutte le spinte secessioniste che si manifestano nei diversi Paesi. Ripeto che bisognerebbe promuovere la trasformazionè in senso federale di tutti gli Stati membri. D’altronde gli indipendentisti delle piccole patrie contestano gli Stati nazionali, ma poi ripropongono la stessa logica centralista a un livello territoriale più ristretto. C’è da scommettere che se poi un pezzo dell’ipotetica Catalogna indipendente chiedesse di staccarsi, Barcellona si comporterebbe come fa adesso Madrid. Però i. separatisti catalani vogliono . restare nell’Unione, come gli scozzesi, che adesso probabilmente chiederanno la secessione da Londra per sfuggire alle conseguenze della Brexit. D’altronde l’Ue poteva nascere solo dagli Stati così com’erano al momento dell’adesione, cioè quasi tutti accentrati.

 

 

L ALETTURA, 7 APRILE 2019

 

 

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