Dall’invasione francese alla congiura di Palabanda. Storia, valori, aspirazioni, di Nicola Gabriele

Pubblichiamo il testo dell’intervento che l’Autore ha svolto in Consiglio Regionale nello scorso 28 aprile 2019 a nome del Comitato per sa Die de sa Sardigna.

La celebrazione di Sa die de Sardigna (nota come la Giornata del Popolo sardo) è stata istituita dal Consiglio regionale il 14 settembre del 1993 (L. n. 44). L’art 1 recita: Il 28 aprile è dichiarata giornata del popolo sardo “Sa Die de sa Sardinia”.

Una prima riflessione riguarda il fatto che nella legge si parli di festa del Popolo e non di una ricorrenza istituzionale o che faccia riferimento alla nascita di una qualche istituzione particolare. In Italia festeggiamo il 2 giugno, festa della Repubblica, un’istituzione, e potremmo celebrare, anche se non è stata considerata festa nazionale, il 17 marzo, data dell’unificazione italiana, altra ricorrenza di carattere istituzionale. In Sardegna invece si festeggia un Popolo, una nazione, e non un’istituzione. Questo credo che sia importante perché in realtà quando parliamo di quel periodo, il triennio rivoluzionario sardo (1793-1796), o più in generale delle condizioni della Sardegna a cavallo tra Settecento e Ottocento, la storia indugia in particolare su una struttura istituzionale di cui ben poco il popolo di allora sapeva, peraltro poco nota anche oggi ai non addetti ai lavori.

Credo che valga la pena fermarsi un attimo a chiedersi se quello che si festeggia e si celebra sia la specifica giornata in quanto ricorrenza di un evento significativo o se questa sia una data simbolica di un periodo, o addirittura di tutto un percorso; se sia cioè lo snodo attorno al quale ruota un concetto, quello della plurisecolare rivendicazione autonomistica dei sardi.

Ciò che venne sensibilizzato in quelle giornate di aprile del 1794, la corda sensibile che venne toccata fu l’orgoglio patriottico dei sardi. Ampliando il raggio di riflessione quell’orgoglio patriottico è stato più volte evocato e utilizzato anche in modo strumentale nella storia sarda. Forse la circostanza più nota fu l’impiego della Brigata Sassari nella Prima Guerra mondiale; ma per certi versi anche nella seconda guerra mondiale molti soldati e ufficiali sardi di stanza nel resto del paese vennero richiamati nell’isola per la difesa patriottica della propria terra quando si pensava che lo sbarco americano sarebbe avvenuto in Sardegna e non in Sicilia.

Ecco, quello stesso sentimento patriottico venne saputo evocare tra la fine del 1792 e l’inizio del 1793 nella difesa delle coste sarde dallo sbarco francese. Eppure la propaganda francese in quel periodo veniva a proporre «aiuto e fratellanza» a «tutti i popoli contro tutti i re». E per di più in quel periodo esisteva in Sardegna un humus intellettuale su cui la propaganda francese avrebbe potuto anche fare presa formato da personaggi come i Fratelli Simon ad Alghero, l’abate Carboni e i fratelli Cadeddu a Cagliari, Mundula e Fadda a Sassari, lo stesso Angioy. Basti qui, a titolo esemplificativo fare riferimento a pubblicazioni e pamphlet come «l’Achille della Sarda liberazione» che in quei mesi tentò di divulgare nell’isola la propaganda libertaria francese e napoleonica. Ma in quel momento tra i sardi prevalse un sentimento di fierezza e di esaltazione di identità nazionale.

I fatti che seguono, l’espulsione dei Piemontesi (lo scommiato), la decisione di riunirsi per elaborare documenti programmatici e successivamente di autoconvocarsi da parte degli Stamenti, il fatto soprattutto di farlo in seduta permanente, rappresenta una svolta nella politica sarda; si assiste in questo modo ad una vera e propria riforma costituzionale di fatto, perché all’interno della prassi legislativa vengono introdotti elementi nuovi rispetto al passato. L’elemento nuovo, che assume valore di novità assoluta fu che la Reale Udienza, in assenza del Vicerè, avrebbe potuto legittimamente governare con l’apporto degli Stamenti, ma in quella circostanza lo avrebbe fatto anche con il «voto del Popolo». Il voto del Popolo presuppone dunque l’inserimento nel Parlamento riunito in seduta permanente di elementi della borghesia cittadina, una rappresentanza di sindaci e di probi-uomini della città. La riunione in seduta permanente degli Stamenti e dunque del parlamento sardo determina a Cagliari la nascita di uno spazio politico nuovo, all’interno del quale far convergere l’azione politica; spazio che mancava alla Sardegna da circa un secolo e che sarebbe mancato anche in futuro per tutta la prima metà dell’Ottocento, surrogato solo da altri contesti di sociabilità come le università, le accademie e i caffè.

In quel contesto nasce quella che alcuni hanno definito la «Carta dei diritti della Sardegna», ovvero il documento delle «Cinque domande» che gli Stamenti avrebbero dovuto presentare alla Corte sabauda. Quel documento rappresenta una vera e propria piattaforma programmatica che non rappresentava solo la sintesi delle problematiche di quella fase storica, ma che era il punto d’arrivo di quasi tre secoli di rivendicazioni autonomistiche e di vita istituzionale dell’antico Regnum Sardiniae. Dietro l’elaborazione di quelle istanze ci fu sicuramente la spinta popolare, perché è in quel clima di entusiasmo che gli Stamenti elaborano il documento. È come se in quel particolare momento storico siano riusciti a convergere più valori che fino ad un certo momento erano stati divergenti e contrapposti, uno di carattere sociale, l’esigenza di uscire da una condizione di subalternità e di servitù, e l’altro di carattere istituzionale, l’aspirazione autonomistica.

Intendiamoci, quelle «Cinque domande» non rappresentavano nulla di eversivo. È utile fermarsi a riflettere su questo aspetto, anche da un punto di vista semantico. Esiste una parola corretta per ogni cosa. E dire che quell’atto fu eversivo è falso. E questo ci porterebbe addirittura fuori dall’idea che gli eventi di quei giorni possano essere etichettati come una «rivoluzione». Per certi versi durante l’età spagnola giunsero al governo di Madrid richieste e istanze ben più radicali, come per esempio la richiesta di convocare i Parlamenti ogni 3 anni anziché ogni 10, la possibilità per gli Stamenti di autoconvocarsi in Parlamento o la possibilità del Tribunale della Reale Udienza di estendere i propri poteri oltre al campo giudiziario. Qui, al contrario il problema era che ad essere stato eversivo era stato il governo sabaudo che per tutto il Settecento non aveva mai convocato il Parlamento, quasi a voler celare alle diplomazie europee l’esistenza all’interno della propria intelaiatura istituzionale di un organismo che limitava il potere assoluto del sovrano.

Per cui quella che si sviluppa tra il 1793-94 è una vasta sollevazione o se vogliamo più propriamente una «sensibilizzazione» popolare che ha un duplice carattere: di rivendicazione autonomistica sul piano politico e di emancipazione dal feudalesimo su quello sociale. Quello che succede nelle giornate di fine aprile del 1794 è proprio questo: muovendo da vari sobborghi di Stampace, Villanova e La Marina il popolo invade Castello e occupa il palazzo viceregio arrestando e imbarcando i Piemontesi, Viceré Balbiano compreso, risparmiando solo l’arcivescovo di Cagliari Monsignor Melano.

È in quel momento che si diffonde un po’ in tutta l’isola, sia tra le classi più elevate che tra quelle popolari, la coscienza che senza una riforma delle strutture economico-sociali che erano antiquate e anacronistiche, non avesse senso condurre una lotta o una qualsivoglia rivendicazione di tipo autonomistico. Era questo il germe della sconfitta già insito nelle «Cinque domande». In quel documento programmatico che gli Stamenti chiedevano fosse approvato dal sovrano esisteva la riaffermazione di diritti acquisti da secoli, in primis la richiesta di celebrazione decennale dei Parlamenti e l’esclusività ai sardi degli impieghi civili e militari; mancava tuttavia la sesta domanda, che avrebbe dovuto essere la prima: l’abolizione del feudalesimo.

In sintesi dunque le condizioni della frattura all’interno del fronte rivoluzionario era già contenuta nelle sue fondamenta, le «Cinque domande». E questa lacerazione che segue le giornate di fine aprile del 1794 che oggi celebriamo, venne in gran parte alimentata dal governo e dalla corte sabauda, a cominciare dalle nomine a ruoli burocratici di Pitzolo e della Planargia, personaggi discussi all’interno dell’apparato istituzionale, e proseguì con un’abile e sottile trama tessuta dal Viceré Vivalda nei mesi successivi. Ma una spinta alla rottura del fronte unitario autonomistico e antipiemontese giunse anche dal rafforzarsi del movimento popolare di matrice antifeudale partito in particolare dal Logudoro e dall’Anglona. Ad essere messi in discussione erano i privilegi di aristocrazia e clero e questo indusse l’ala moderata rappresentata da Cabras, Pintor e Sulis a riallacciare i contatti con la Corte di Torino e Vivalda, oltre che con gli stessi esponenti della feudalità.

È vero, non c’era stata eversione nell’autoconvocazione del Parlamento, ma con la svolta angioyana l’eversione si era manifestata nel momento in cui si era passati dalla resistenza alle pretese baronali illegittime alla proposta di riscatto dei feudi, appunto illegittima.

Ed è qui che quasi in una sorta di regia cinematografica che viene fuori la figura di Angioy, insignito del titolo di alternos e incaricato di riportare l’ordine nel nord Sardegna. È qui che emerge il bieco gioco del Viceré Vivalda, da un lato inviare il magistrato più aperto alle istanze di rinnovamento a sedare il moto popolare e dall’altro aumentare il peso specifico della rappresentanza stamentaria contrapponendola alla Reale Udienza che invece era appannaggio dell’Angioy (divide et impera) anche perché in questa fase già da alcuni mesi Cabras, Musso Pintor e lo stesso Sulis avevano già ripiegato verso una sottomissione al potere regio e feudale. Il trionfo di Vivalda probabilmente fu proprio quello di riuscire ad attirare a sé anche il Sulis che aveva avuto un ruolo fondamentale come cardine tra la rappresentanza stamentaria e il movimento popolare durante l’invasione francese e nelle giornate di fine aprile del 1794.

Quella rivoluzione borghese dunque fallì per essere stata incapace di andare in profondità e intaccare i privilegi. Angioy si era reso conto di questo, aveva individuato la precarietà di un movimento autonomistico che poggiasse solo sulla borghesia urbana e sul popolo lavoratore delle città; e aveva cercato di legare in modo organico l’obbiettivo dell’autonomia e dell’autogoverno con l’obbiettivo della liquidazione del feudalesimo per soppiantarlo, in modo legalitario e graduale con uno sviluppo economico di matrice capitalistica, ma basato su forze endogene e promosso dall’interno.

Anche per questi motivi non possiamo definire Angioy un giacobino, né tantomeno un agente della repubblica francese, almeno non per tutta la fase del triennio rivoluzionario. Non era né un giacobino, né un repubblicano, come venne poi dipinto, ma un autonomista di idee «democratiche», mettendo questo aggettivo tra le necessarie virgolette e assumendo tutte le cautele dei limiti consentiti per quei tempi. Simpatizzante per la Francia Angioy lo divenne dopo, tanto che fu condannato e proscritto dal governo di Torino. E se ci è possibile dire che Angioy non era giacobino è perché esisteva chi, come Mundula, pur facendo parte del fronte Angioyano, se ne discostava, affermando addirittura che la rivolta autonomistica e antifeudale sarda non aveva un leader, ma due.

Ad ogni modo quella sconfitta ricondusse la borghesia sarda in una condizione di subalternità; di autonomismo e abolizione del feudalesimo non se ne parlò più per alcuni decenni. Ed è questo ritardo che la Sardegna pagò allora e paga tutt’ora, il ritardo nello sviluppo di un capitalismo industriale borghese e nella formazione di una classe dirigente capace di guidare quel tipo di azione politica. È un ritardo nelle cose ed è un ritardo nelle coscienze. È il ritardo di una classe dirigente.

Dove stava la modernità dell’Angioy? Nel capire che senza abolizione del feudalesimo, cioè senza un’adeguata trasformazione del tessuto socio-economico, che era l’elemento su cui poggiava il dominio piemontese, non aveva senso parlare di autonomia o autogoverno e la sardizzazione degli impieghi si sarebbe trasformata in un’operazione di corruzione e sottomissione.

Vale la pena di ricordare, in chiusura, che tutte quelle vicende si svolsero con uno sfondo e in una cornice che inevitabilmente la condizionarono. Se la campagna di Napoleone in Italia contro l’Austria e la monarchia sabauda avesse avuto un esito differente, gli sforzi di Angioy avrebbero avuto forse un esito differente. Se i Francesi fossero entrati a Torino nel 1796 invece che qualche anno più tardi, il sistema feudale sarebbe cessato anche in Sardegna, come nel resto d’Europa. Ma è noto che l’armistizio di Cherasco e la Pace di Parigi mantennero in piedi la dinastia sabauda, la quale per altro durante i negoziati di pace aveva cercato di liberarsi della Sardegna scambiandola con qualche altro possesso in terraferma. In quel momento tuttavia il quadro geopolitico in cui l’Inghilterra controllava già la Corsica, fece propendere i francesi per far mantenere la Sardegna ai Savoia e acquisire invece la Savoia e Nizza.

Seguì un lungo periodo di esecuzioni, incarcerazioni torture proscrizioni che si concluse sedici anni dopo con le condanne connesse a quella che è ricordata come la Congiura di Palabanda. Quella congiura dimostra una volta di più che una rivoluzione in stile giacobino non era replicabile in Sardegna. Basti pensare agli esiti della rivoluzione napoletana che misero in luce l’impossibilità di usare la Rivoluzione francese come un modello ripetibile. La vera alternativa consisteva in Sardegna nell’optare tra una rivoluzione passiva dall’alto, sorretta da un movimento che provenisse dal basso o la reazione dei baroni e dell’aristocrazia feudale. E prevalse la seconda.

La Sardegna divenne l’estremo rifugio di una monarchia sabauda che i francesi non volevano distruggere, ma solo separare dall’asse austro-anglo-russo. Altrimenti non si capisce perché dopo essere entrati a Torino abbiano lasciato la Sardegna ai Savoia e abbiano gestito con freddezza i tentativi di sbarco di Sanna-Corda e Cillocco nel 1802.

Angioy morì in miseria nel 1808, ma la sua morte non aveva messo fine alla lotta degli angioyani in Sardegna, come mostrano i fatti di Thiesi, Bessude e Santu Lussurgiu nel 1797, la velleitaria spedizione di Sanna-Corda e Cillocco nel 1802 e la Congiura di Palabanda del 1812, ricordata come l’ultimo tentativo di sollevazioni di un manipolo di angioyani. Era come se l’utopia rivoluzionaria di quegli ultimi angioyani avesse messo a confronto due epoche, il nuovo secolo rappresentato dai rivoluzionari e il vecchio secolo rappresentato da una classe dirigente sempre più reazionaria e assolutista. Ma erano cambiate le condizioni, ora e fino al 1812 la Sardegna era la terra dei Savoia.

All’epurazione o, in altri casi, allo spontaneo esilio della classe dirigente che si era resa protagonista degli eventi rivoluzionari, seguì un lungo ed intenso processo di occultamento e di manipolazione storiografica di ogni traccia di quei fermenti democratici che avevano prodotto ed alimentato sia gli avvenimenti di fine secolo, sia gli strascichi insurrezionali connessi con quelle vicende.

Gli anni della sarda rivoluzione e più diffusamente tutta l’epoca tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento rappresentano un periodo ricco di contraddizioni e di contrapposizioni (contrapposizione tra ceti, tra istituzioni, tra città e campagna, tra Cagliari e Sassari, etc.). e per cercare di fare chiarezza di fronte a queste contraddizioni serve la storia. Questo dimostra che sempre più nella cultura popolare c’è fame di storia. E se è vero che la forma più alta e più compiuta di cultura popolare è proprio la cultura storica, questa è anche propedeutica e condizione necessaria all’azione politica. È nel presente che dobbiamo agire e la conoscenza e la coscienza storica aiutano a capire come le esperienze di uomini del passato possano guidare le nostre azioni nell’oggi. C’è fame di storia, perché la storia è il cemento dell’identità; e la storia deve avere una funzione di radicamento identitario e non un campo di invenzione funzionale al successo del mercato locale.

 

 

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