Partigiani d’Italia, ecco i numeri della Resitenza, di Giovanni De Luna

Cifre oscillanti. Gattopardismo di massa.

 

Al 25 aprile 1945, il numero dei partigiani ammontava, secondo alcune ricostruzioni, a circa 250 mila. Pochi rispetto ai milioni di italiani che si erano iscritti al Pnf e che avevano affollato le piazze di Mussolini; molti rispetto alla scelta che furono chiamati ad affrontare dopo 1’8 settembre, rifiutando sia le lusinghe del «tutti a casa», sia l’obbedienza ai bandi di arruolamento nell’esercito di Salò.

Nel primo caso, sarebbero comodamente sprofondati nel ventre delle loro case e delle loro famiglie, limitandosi ad aspettare che passasse «’a nuttata»; nel secondo, si sarebbero messi al sicuro dall’incubo degli arresti, delle deportazione se non si fossero rifugiati sotto l’ombrello protettivo della Wehrmacht e della sua poderosa forza armata. Scelsero invece di impugnare le armi contro i tedeschi e i fascisti, di ritrovare, in quel gesto, la pienezza di una sovranità individuale smarrita in venti anni di dittatura, di obbedienza passiva a un regime claustrofobico e soffocante. Furono comunque una minoranza; nei numeri e nella loro stessa autorappresentazione si percepirono come tali, ed ebbero ben chiaro il compito di riscattare, con il loro coraggio, l’ignavia delle maggioranze che avevano supinamente accettato la cancellazione della libertà e della democrazia.

Cifre oscillanti

È in questo senso significativa una ricerca che si è concentra sulla realtà quantitativa della Resistenza, dedicandosi allo studio di circa 650.00 schede relative alle richieste di riconoscimento delle qualifiche partigiane conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato.

Subito dopo la fine della guerra, per vagliare quelle richieste si insediarono apposite Commissioni regionali e nazionali. Il loro lavoro si presentò subito irto di difficoltà. Si trattava di «normare» una guerra che era stata soprattutto una guerriglia e di stabilire delle regole da applicare in un mondo partigiano che era nato contro le regole, per sua natura fluido, spesso incline più alla spontaneità che all’organizzazione. Anche le cifre erano tutt’altro che certe e risentivano delle varie fasi che avevano scandito le operazioni militari. Così, si può concordare con Guido Quazza che parlò di 9-10.000 combattenti nel dicembre 1943, 20- 30.000 nel febbraio-marzo 1944, 70-80.000uomininell’estate del 1944, 120- 130.000 nei giorni immediatamente precedenti l’insurrezione del 25 aprile, fino ai 250.000 finali, dei quali « 150.000, colorita e non sempre utile retroguardia».

Le Commissioni operarono sulla base di criteri che erano il più vicino possibile alla realtà, che però non riuscivano a intercettare nella sua interezza. Furono introdotte distinzioni che riguardavano chi aveva operato al Sud della Linea Gotica; ci si limitò a riconoscere solo le formazioni indicate dal Cvl (Corpo Volontari della Libertà), penalizzando quelle che avevano operato spontaneamente; si privilegiò l’aspetto militare della Resistenza, così che al Sud si prese in considerazione come titolo di merito solo la partecipazione alle quattro giornate insurrezionali di Napoli. Si stabilirono diverse categorie di partigiani (combattente, patriota, benemerito ecc.) e per ognuna si richiedevano requisiti diversi (a partire dalla presenza continuativa in banda di almeno tre mesi).

Gattopardismo di massa

A sollecitare le richieste di riconoscimento c’era anche un interesse economico, la possibilità di percepire un «premio di solidarietà» che oscillava tra le mille e le cinquemila lire, più o meno lo stipendio mensile di un impiegato. Cifre irrisorie che però, in un’Italia stremata dalla guerra, erano molto appetibili. A questo «opportunismo della miseria» se ne aggiungeva un altro, che trovava le Commissioni particolarmente vigili: in un’Italia perennemente sedotta dalla corsa sul carro dei vincitori, ottenere la qualifica di partigiano fu visto anche come una scorciatoia trasformistica per lavarsi la coscienza e rifarsi una verginità democratica.

Per fronteggiare questo «gattopardismo di massa» i partigiani chiamati a far parte delle Commissioni usarono criteri particolarmente severi. Ad esempio, quella piemontese, presieduta dal generale Trabucchi, «riconosciuto che molte di tali domande si basavano su dichiarazioni di comodo, od addirittura false», decise di procedere con accertamenti a mezzo di testimonianze orali in contraddittorio. Nell’agosto del 1946 risultavano esaminate in questo modo 26. 318 domande. Trabucchi scrisse nella relazione al ministero che prevedeva di riconoscere in Piemonte circa 30.000 partigiani combattenti, «con un risparmio all’erario di circa 500.000.000 rispetto a quanto importerebbe il criterio di “umana comprensione” che qualcuno suggerisce di adottare».

Intransigenza morale

Più che un criterio contabile di risparmio, si poneva come metro di giudizio «un criterio morale», che doveva indurre la Commissione «alla severità». Se si considera che «la lotta fu condotta da una minoranza», sostenevano i piemontesi, «è giusto che soltanto a questa minoranza sia riservato il riconoscimento di un titolo che deve avere particolare valore». Il «partito dei fucili», quello dei partigiani che «avevano fatto» la Resistenza, si schierava così anche contro le ragioni dei «partiti delle tessere», quelli che fondarono la Repubblica e che, senza guardare tanto per il sottile, cercavano un consenso elettorale il più vasto possibile. Alla fine, secondo i dati definitivi, furono 137.344 i partigiani combattenti ufficialmente riconosciuti, una cifra che non si discosta molto da quella indicata da Quazza.

Anche per questa intransigenza, le Commissioni si ritrovarono a operare in condizioni molto difficili: un’organizzazione precaria, la diffidenza delle autorità militari, le impazienze di chi voleva liberarsi al più presto del peso morale della Resistenza. Dal 1948 in poi questo clima si fece particolarmente pesante. A quel punto, il sistema dei partiti si era ormai consolidato e la corsa sul carro dei vincitori cambiò obiettivo. Il flusso delle richieste di riconoscimento della propria militanza partigiana si azzerò, e al Sud, per qualche anno, dichiarare di aver partecipato alla Resistenza divenne addirittura l’anticamera della discriminazione, quasi un demerito.

Oggi, il Portale inaugurato presso l’Archivio centrale dello Stato – che rende accessibili tutte le schede con le richieste avanzate allora – offre la possibilità di confrontarsi con l’operato di quelle Commissioni e di guardare a quella esperienza come a un ultimo lascito di chi tentò di fare del partigianato un magistero di apostolato civile, interprete di uno spirito che la Resistenza riuscì a trasfondere anche nella Costituzione. -

Da  LA STAMPA, 14 marzo 2019

 

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