A Villacidro, alla presentazione di “Viaggiando Chiesa” di don Angelo Pittau, di Gianfranco Murtas

 

Nella sala convegni dell’antico seminario/palazzo vescovile di Villacidro, nel quartiere di Seddanus che dal centro abitato del “paese d’ombre” conduce alla pineta, almeno centocinquanta sono stati gli intervenuti per salutare don Angelo Pittau e la sua fatica letteraria, o morale-letteraria ultima, rifluita nelle circa duecento pagine di Viaggiando Chiesa: un libro-intervista che ho curato insieme con il giovane e brillante editore Andrea Giulio Pirastu (il quale ha poi moderato la serata).

E’ stato lo scorso sabato 23 marzo, e dopo i saluti di benvenuto del sindaco e dell’assessore alla Cultura e alcune parole d’introduzione del direttore del Centro di Alta Formazione, l’ente che ha patrocinato e ospitato la manifestazione, ha svolto per primo il suo intervento don Tonino Cabizzosu.

La lettura storica del professor Cabizzosu

Da competente, perché storico della Chiesa (e professore ordinario della disciplina in facoltà Teologica a Cagliari), egli ha analizzato l’opera appena pubblicata rilevandone le caratteristiche proprie, a partire dal profilo alto che ne risalta dell’autore: quel don Angelo Pittau, cidrese classe 1939, prete dal 1965, viceparroco a Tuili per due anni e poi per mille giorni professore-giornalista-missionario – soprattutto missionario fidei donum – nel Vietnam della guerra; quel don Angelo Pittau poi prete-operaio a Lione in Francia e ancora per qualche anno nella periferia di Torino, stimato e sostenuto dal cardinale Michele Pellegrino – meraviglioso coprotagonista del Concilio, tanto più dell’ultima sessione paolina –, amico e in vario modo collaboratore, nello stesso enorme perimetro sociale missionario, di don Luigi Ciotti e altri preti portatori della stessa vocazione umanitaria e sociale; quel don Angelo Pittau ancora che s’inventa il mestiere di parroco nel suo paese, dal 1974 e per quarto di secolo, prima di darne una replica non meno creativa (santamente anticonvenzionale), per un decennio, a Guspini, apprezzato e ammirato dai vescovi Tedde, Gibertini, Orrù e Dettori; quel don Angelo Pittau direttore della Caritas diocesana, promotore e motore di un numero impressionante di centri di ascolto, case famiglia, comunità terapeutiche e di avviamento al lavoro, case alloggio per anziani e malati psichici… Ogni villacidrese, ogni diocesano di Ales potrebbe essere il biografo di don Pittau.

Tonino Cabizzosu però, proprio perché storico della Chiesa impegnato, tanto più in questi anni, in uno studio originale dei paradigmi (per usare una parola difficile!) formativi del clero sardo del Novecento e specificamente della storia del seminario regionale di Cuglieri – autore anche di una trilogia di quasi milleduecento pagine complessive e di cui sono già usciti i primi due volumi –, ha orientato i suoi approfondimenti sui processi di maturazione culturale ed ecclesiale (per spiritualità e disciplina), più che su quelli sociali, di don Pittau. Anche di questi ultimi ha trattato, naturalmente, ma è stato interessato soprattutto a cogliere di essi il tratto ispirativo, ed ha fatto benissimo ad individuarlo nella frequentazione, fin dall’adolescenza, della spiritualità dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld.

Del pari elementi metodologicamente forti ha scoperto, nella sua lettura critica del libro-intervista ora alla presentazione al pubblico, nell’approccio “aperturista” – al di là di frange caduche ma resistenti – della pedagogia gesuitica in campo proprio a Cuglieri. E’ stata, peraltro, la stessa testimonianza rilasciata dall’autore a dichiararlo e a dirne i perché: la possibilità di “pensare in grande”, di pensare universale, cui abilita la pratica del discernimento tipica della Compagnia di Gesù, che inchioda alla responsabilità della mente e della coscienza e consente di volare, per libertà conquistata, verso ogni realtà dell’umano…

Ancora Cabizzosu è stato bravissimo a collocare, con rapide pennellate di rimando storico, il protagonista (fatto prete, come detto, nel 1965) nel suo tempo, che è stato tempo di Concilio e postConcilio: così per la tensione riformatrice, in mille modi rivelata e declinata già negli anni degli studi teologici, portata e sviluppata poi nei diversi parrocati di paese (e di periferia urbana o di metropoli), oltre che sui teatri estremi della guerra e della condizione operaia fra porti e fabbriche, sirene di turno e speranze sindacali. Quel cercare di portare la sua Chiesa a saldarsi con la società, a farsi non dominatrice ideologica della società, come nel preConcilio, buona sostituta del fascismo e in recupero di un ruolo ricoperto tradizionalmente in Italia e nei paesi latini, ma lievito nella pasta magari riottosa, con azioni di testimonianza, con senso partecipativo e non oppositivo a chiunque potesse aver conquistato, in democrazia, centralità, maggioranza e potere.

Questo senso partecipativo, espressosi plasticamente anche nel voluto pieno coinvolgimento di responsabilità operativa, progettuale e gestionale delle comunità parrocchiali (e non solo), del laicato, ha consentito a don Pittau di potersi fare, con la misura sua propria e anche l’originalità delle forme espressive di cui è naturaliter maestro, uomo della “parresia”, della franchezza evangelica, che non teme di scorgere e denunciare, se non gli è dato di correggere, anomalie e storture, perfino rovesciamenti valoriali, quel clericalismo insopportabile che anche da molto clero giovane lefebvrianizzato, anche in Sardegna!, monta signorino sugli altari e che i vescovi incompetenti – è mia l’interpretazione estensiva, sia chiaro! – subiscono passivamente, impauriti da tanta spavalda aggressività tridentina.

Un addendum (estemporaneo) di Gianfranco Murtas

Aggiungerei – e la responsabilità di questa espansione critica è ancora mia – che da parte dell’episcopato a cui don Pittau suona educatamente ma fermamente la sveglia, c’è anche, oggi, un vero e proprio… tradimento degli impegni formalmente assunti. Può essere vero – e qui sia Cabizzosu che Pittau convergono per certo nel giudizio – che il Concilio Plenario Sardo non abbia pienamente rivisto il modello ecclesiale così da creare spazi nuovi e impegnati di corresponsabilità, con soltanto di collaborazione, al laicato preparato, intelligentemente critico e non di meno però obbligatosi a fare in logica di servizio, ma è altrettanto vero che anche il meno non si fa. Il Concilio ha stabilito, ad esempio, che ogni conferenza vescovile – e se ne tengono, di conferenze, almeno dieci all’anno – sia preceduta da una opportuna e larga consultazione comunitaria e sia seguita da una altrettanto opportuna e larga informativa comunitaria… Non c’è niente, perfino i verbali (se mai siano stati stesi dal segretario) di quei sei anni tristi, dal 2006 al 2012, sono secretati. Il laicato era ed è rimasto un soprammobile per i vescovi, che infatti sono sempre più soli nel governo dei numeri negativi delle chiese vuote, dei sacramenti dimenticati, dell’associazionismo negato o disperso…

V’era anche un altro impegno solennemente assunto in quel Concilio che giustamente Pittau e Cabizzosu hanno individuato carente, almeno in parte, di una progettualità più ardita e del tutto declericalizzata: quello di fare un consuntivo periodico degli adempimenti, dell’attuazione pratica, nei territori e nelle comunità, delle delibere conciliari. La prima avrebbe dovuto esserci nel 2011, a scadenza del primo decennio dalla firma solenne degli Atti in Bonaria. Non s’è fatto nulla. Vi ha provveduto – ma è evidente lo scarto quantomeno di responsabilità istituzionale – Fondazione Sardinia con qualche associazione amica, con una mia relazione e il contributo generoso e qualificato (ma soltanto personale) di monsignor Tiddia, del compianto padre Turtas, dell’indimenticato e carissimo don Efisio Spettu già rettore (appunto rimosso dalla prepotenza di taluno e dalla pavidità dei vescovi-massa) del seminario regionale ormai radicato a Cagliari… e di Bachisio Bandinu, e di don Antonio Pinna…

Un vescovo – quello di Oristano – ha perfino censurato, d’intesa con il (laico!) direttore del giornale diocesano, la locandina informativa della manifestazione, condendo con qualche penoso lazzo la credibilità di un presbitero invece di grande autorevolezza e fuori dalle obbedienze sceme. Il presidente della CES aveva a più riprese detto di non essere interessato al Concilio celebratosi prima del suo arrivo in Sardegna, cartastraccia la fatica di Ottorino Pietro Alberti, Pier Giuliano Tiddia, Sebastiano Mosso… Tutti gli altri vescovi della CES, anche quelli che avevano firmato gli Atti, hanno chinato la schiena, non hanno saputo difendere, con santo orgoglio di sardi e non soltanto con il santo orgoglio di presuli – neppure la dignità della loro firma, degli impegni assunti…

La parola “parresia” ritorna spesso, tanto più nella seconda parte del libro-intervista di don Angelo Pittau. Si sa però che non basta più denunciare; bisognerà rivolgere faccia a faccia ai responsabili gli addebiti, bisognerà esigere risposte chiare, assunzioni di responsabilità, senza evasioni dialettiche tipiche clericali. E’ la partita d’oggi, una delle partite d’oggi, drammatica per la Chiesa, anche per la Chiesa sarda. Il processo di “scisma silenzioso” che si è avviato, assolutamente tremendo (e che personalmente mi coinvolge, protestantizzandomi), segnerà negli annali della storia ecclesiale le omissioni fattesi ragione o causa di nuove stagioni nella vita della Chiesa, impoverite di tanti tesori trasmessici dalle generazioni, seppure forse, chissà, speriamolo, felici per altri aspetti che oggi non saprei individuare.

Le domande di Andrea Giulio Pirastu

La serata si è conclusa con le risposte date da don Pittau alle domande postegli dal moderatore ed editore del libro: sul rapporto suo personale con Giuseppe Dessì (che in gioventù lo accompagnò nella predisposizione della sua prima tesi di laurea alla Pro Deo), sulla dubbia… congruità dell’appellativo che tanto spesso ha accompagnato il creativo industrioso (e mistico! dico io) presbitero villacidrese, vale a dire quello di “manager”, di operatore sociale competente di bilanci ed organizzazione aziendale; infine sul tratto unitivo, nella suggestione morale forse, di Villacidro “centro dell’universo” con l’universo mondo frequentato per le mille iniziative della Caritas alerese e dei Piccoli Progetti Possibili, fra Asia e Africa ed Americhe…

Nel mezzo della serata ho detto anche io qualche parola. Ecco qui di seguito il testo del mio intervento (letto, era inevitabile, con qualche tono commosso, data anche la quarantennale, quasi cinquantennale intima conoscenza e frequentazione dell’amico e maestro biografato).

 

Operaio mistico, professore mistico, educatore mistico, giornalista mistico…

…sono pellegrino / ho camminato tutta una vita / porto la polvere / dell’errare per continenti / il logorio delle battaglie combattute / vinte e perse / le cicatrici sono aperte / io sono stanco / anche se desidero altre albe / altre strade / altre lotte / altri fremiti passione”

“la sera salgo lento le scale / della casa / grande, vuota, fredda / affranto e stanco Signore / dal peso delle ore / mi ritiro nel deserto / e nella notte vigile aspetto l’alba / e la Tua venuta / Sentinella / a che punto è la notte? Vieni Signore Gesù”.

Quando penso ad Angelo Pittau lo penso così: non officiante all’altare, o ad ascoltare e consigliare al confessionale, neppure a presiedere riunioni in comunità o in parrocchia o in redazione, né in giro per case e scuole e laboratori o campagne o in colonia al mare con i ragazzini della diocesi, né ancora a colloquio con Giuseppe Dessì (a Roma, anziano malato e confidente l’uno, giovane e allievo l’altro)…

Lo penso solo alla fine di tutto questo, un po’ stanco, anzi molto stanco, ma con un cervello lucido che corrisponde alla buona coscienza. Anche se potesse egli non mancherebbe ai suoi giri, perché i suoi giri sociali, sulle strade del vangelo materiale, io laico li chiamerei “il dovere che chiama”, lui uomo della Sequela e mistico – operaio mistico, manovale mistico, professore mistico, educatore mistico, giornalista mistico, poeta mistico – li chiama, li ha sempre chiamati, quei giri, “la mia vocazione: la vocazione dell’incontro”. Non vocazione sociale o vocazione cristiana – aggettivi pertinenti ma d’aggiunta –, la sua è soltanto “vocazione umana”: è quella che gli ha dettato sempre le coordinate e gli ha dato il senso del tutto, quella che lo ha spiegato a se stesso.

“Chi sono io, nel profondo della mia persona?”. Se lo domanda specchiandosi nella sua vita. Si è risposto e si risponde così: “Ho un povero corpo dalle ossa indolenzite / i muscoli stirati / il ventre semivuoto / la pelle intirizzita / e una tosse, una tosse, oh Dio che tosse! /… Porto paioli d’impasto, tutte le qualità d’impasto / preparati da me / ogni paiolo almeno quindici colpi di pala / sei paioli di sabbia vogliono un sacco di cemento / porto a giorni anche cento paioli d’impasto / sulla spalla salendo una ripida e lunga scala / tirando una fune sempre troppo ruvida / non porto guanti, non ne ho / i paioli sono troppo pesanti per me / e fa freddo / soffia il vento del nord e porta la pioggia / noi lavoriamo sotto la pioggia / soffia il vento del sud e gela / la terra è dura come roccia / l’aria come acciaio / tutto triste come la testa canuta di una vecchia sporca / noi lavoriamo anche se gela – / c’è antigelo per l’impasto, per noi niente – / piccoli uomini dalla pelle troppo fine…”.

E’ cosa facile, o relativamente facile, monumentare i grandi che dalla esperienza della vita sono passati al non tempo – chiamalo pure Paradiso –, a quello che umanamente chiamiamo il secondo tempo e definitivo.

Ma i vivi? I vivi che ammiriamo, che ammiriamo e non soltanto amiamo: quelli che vorremmo monumentare in vita fatichiamo a trovare il modo per proporli alla attenzione di chi ci ascolta.

Per i condizionamenti, i rischi delle enfasi che sono sempre un artificio e il rischio anche dei fraintendimenti, di trasmettere sentimenti mozzi, fra la piaggeria acritica e la provocazione anche risentita di chi, non condividendo, farebbe al contrario rigetto semplicistico di tutto.

Forse un modo per raggiungere l’obiettivo superando le difficoltà è intanto quello di confessare se stessi, il proprio angolo visuale, le proprie prospettive e categorie di giudizio.

Fatta la premessa, forse tutto quel che viene dopo trova allora una sistematizzazione, una comprensione più profonda ed anche più serena, seppure possa non del tutto condividersi.

Angelo Pittau è una delle dieci persone che, fuori della mia famiglia, di più hanno inciso nella mia vita, nei miei alambicchi esistenziali, quelli che materializzano il senso delle cose, il perché sto al mondo, per quale missione, con quali ricadute.

Nel mio laboratorio le cose le raccolgo e interpreto dando valore alla emozione, prendendo energia mentale dalla emozione dell’esistere e dalla emozione della relazione.

Poeta mistico dentro la quotidianità

E la poetica di Angelo Pittau uomo e prete, così tanto presente anche in Viaggiando Chiesa, io la capisco perché, con la leggerezza di parole e versi che sono soltanto un soffio, l’autore mi porta sempre, come nelle sculture di Franco d’Aspro, all’essenziale, mi porta nel suo mondo. Che è anche il mio, meno nobile, meno dotto, meno ardito, meno progettuale, ma pure orientato come il suo.

La sua poetica, mistica sempre – racconto della sua vita, dei suoi stupori di scoperta e dei suoi consuntivi d’esperienza – per me vale un Nobel, dovrebbero darglielo il premio, il riconoscimento, a don Pittau, Norbio e San Silvano, Ruinalta e Pontario – li dico tutti –, Seddanus e Lacuneddas o Frontera, Sant’Antonio e Castangias, Cuadu ed Olaspri e Ordena, Cannamenda perfino, non capisco perché nessuna amministrazione né nessuna porzione di comunità cidrese glielo abbia ancora dato, saldando un debito che è nelle cose…

L’interesse attrattivo alla sua poetica, cioè al suo racconto di vita di uomo e di prete e di cento altre cose, mi porta come un missile, dolce ed educato però, alla immedesimazione. So che quel mondo valoriale e sentimentale è il suo, ma so che ove avessi più nobiltà, più dottrina, più ardimento e ingegno progettuale, lo potrei presentare come il mio anche.

Ne viene che, per me, parlare di questo o di quello, di minuzie oppure dell’universo mondo, con Angelo Pittau uomo e prete e cento altre cose, è come parlare con un altro me stesso: il che quieta certe tensioni che forse non si vedono ma ci sono, e vengono tutte dai conti che si fanno e forse non tornano sugli adempimenti, perché il calendario scorre e sai che ti sarà chiesto, nell’ultimo momento, di giustificarti per gli scarti, per i differenziali fra il dovere e il compiuto. Libero arbitrio e responsabilità.

Se fossi chiamato a raccontare, al popolo di Norbio e dei suoi quartieri, chi sia quel suo figlio diventato vecchio faticando tutti i giorni, faticando anche quando si riposa, perché sogna di faticare, dovrei richiamare la categoria del “sistema”, delle varietà mosse dalla stessa matrice ed messe in pista con la doppia responsabilità dell’autonomia e della comune appartenenza: al territorio, alla Chiesa, a quel set di idealità etiche, umanistiche, in cui trovi il senso e anche il gusto di fare le cose, per alleggerire il peso materiale e immateriale che grava sugli altri, per tessere trama e ordito della fraternità qui e in ogni posto, anche fra qui e ogni posto.

Angelo Pittau è l’uomo dei ponti, delle relazioni: i ponti che costruisce li collauda lui stesso, perché la missione vuole che sopra ci passi lui per primo, lui “verso” l’altro, poi vuole che ci ripassino “insieme”, verso un luogo liberatorio, lui “con” l’altro.

Il luogo liberatorio è una volta una casa-alloggio, una comunità, un ospedale, un lavoro, una università agricola, una a Guspini, un’altra a Villacidro, un’altra ancora in Africa o in America latina.

E’ chiaro che ciascuno di noi per l’approccio che ne ha avuto, e che, a sua volta, in buona misura deriva dalla generazione di appartenenza – fra vecchi, mezzi vecchi, giovani o bambini – dà consistenza, luce e tratteggio, forma e spessore, a questo prete con la cravatta più spesso che col collarino, il quale, spezzettato, si è dato già da piccolo, ragazzo e adolescente, ad essere mangiato.

A me piace vederlo nella metafora della fabbrica ideale-materiale dei “ponti”.

Poteva essere dato o ispirato, questo mestiere in divenire, dalla campagna di famiglia frequentata tutti i giorni: perché la campagna coltivata è quanto di meno fisso e immobile esista, dato che consegna al contadino e alla società tutto quello che la natura e il lavoro le concedono di produrre, e può essere molto, se il tempo è leale: il grano e l’orzo, le fave, il latte di capre e vacche, il tanto della compagnia fra maiali e vitellini e della vigna… Per le necessità della famiglia, per il commercio, per il dono…

Lui un giorno l’avrebbe anche scritto:portate l’uva / della vigna del Signore / l’uva della terra promessa / danzate pigiando gli acini / il mosto si fa vino / mentre ribolle nella cantina segreta / e nel segreto delle vene di suo figlio ribolle / per diventare sangue / versato per noi”.

E’ la prova provata di una permanente preparazione al colloquio con Domineddio, faccia a faccia. I suoi versi valgono un Te Deum.

La relazione, e il mix che entra nella relazione, il mix di cosa e di umanità, sono stati l’addestramento formativo di un ragazzo di tredici-quindici anni, salito da Sant’Antonio a Seddanus, spiato chissà, dalle anime dei Brondo e degli Aymerich, dei vescovi antichi mezzo sardi e mezzo spagnoli, fino agli ultimi tutti nostri, clericali e sociali ciascuno a suo modo: perché consumare di nascosto l’indigesto baccalà della POA rifiutato da un compagno salvava questi dal giudizio e dalla punizione e arricchiva sé di sane proteine, facendo per di più gustare quel tanto di avventuroso che la competizione fra guardie e ladri sembrava di possedere nel vivo non meno che nel copione d’una commedia: guardie i superiori del seminario diocesano, il regolamento sul cuore, ladri i ragazzi allo studio e alle svirgolate d’indisciplina.

Così appunto per le punizioni – a letto senza cena – contraddette dai rifornimenti clandestini – la salsiccia di casa divorata sotto le coperte ma poi corpo di reato e fonte di nuove punizioni e minaccia d’allontanamento… E, ciò nonostante, il pensare positivo, l’insistere per avanzare, guadagnare posizioni in vista dell’obiettivo: farsi prete.

Anche a Cuglieri chi c’era dice che la sua personalità e, chissà, forse anche quel nome del fratello gesuita che sapeva già da giovane farsi apprezzare e incombeva come un’autorità prossima ventura nella Compagnia dei padri, aprisse al seminarista liceale, poi al chierico teologo, ogni porta che invece restava chiusa ad altri. Chissà. Intuitivamente credo sia andata così: l’originalità della sua presenza confermava l’imprinting di famiglia e diventava merito in proprio, e abilitava l’accesso alla biblioteca sbarrata ad altri.

L’interesse missionario rivelato da Angelo Pittau nel quadriennio degli studi teologici a Cuglieri era lo sviluppo di premesse villacidresi, del seminario di Seddanus – dell’incontro adolescenziale con Carlo Carretto accompagnato da SalvatorAngelo Spano, dell’incontro cioè con la spiritualità sociale dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, uomo d’Africa, del deserto: un incontro corroborato poi dagli altri ripetuti incontri a Bindua, dove un manipolo di Piccoli Fratelli erano arrivati nel 1957 per lavorare con e come i minatori: i passaggi successivi di alcuni Piccoli Fratelli, in specie di Arturo Paoli, in SudAmerica – dopo tutte le crocifissioni da lui avute dal Vaticano e dai vertici (pagani e democristiani) della Chiesa italiana, episcopato e Azione cattolica incluse – hanno affacciato anche altre sponde collaborative ad Angelo Pittau che, anche in anni recenti, come Caritas ha allacciato ponti con l’Argentina dopo che con l’Honduras.

D’altra parte, proprio negli anni della sua formazione e/o dell’esordio presbiterale, preti diocesani di Ales mandati da monsignor Tedde fidei donum in SudAmerica avevano preparato il terreno: don Modesto Floris in Messico, don Eliseo Corona in Brasile…

Per lui i continenti come per noi, più piccoli e senza visionarietà o coraggio, i quartieri o i vicinati di paese o di città. Lui s’è giocato la vita con l’Africa e l’America latina, come e ancor più o prima se l’è giocata con l’Asia ed il Vietnam: professore e giornalista e missionario, prete battezzatore, inventore di liturgie sacre e sanificanti, sanificanti e santificanti.

E’ forse la pagina più suggestiva della vita avventurosa, tutta di testimonianza, di prete Pittau nostro cidrese. E a chi avesse poi voluto, o volesse oggi affrontarlo con un “pensare ai lontani è come fuggire, è sfuggire ai bisogni di qui”, prete Pittau nostro cidrese potrebbe, ma forse non lo fa e non lo farebbe – limitandosi, nel caso, ad una smorfia chissà se di sorriso o di fastidio –, ricordare e rielencare l’Europa e l’Italia, prima di arrivare alla Sardegna e al paese, arrivando alla Sardegna e al paese: Lione dopo Marsiglia, prete operaio al porto, prete operaio, anzi operaio e basta per prendere – dice lui (lo dice in una delle cinquanta pagine di una memoria che mi ha regalato l’altro ieri e scritta quand’era meno che trentenne, per il tema da situare idealmente nel passaggio fra pagina 56 e pagina 57 di Viaggiando Chiesa – per prendere la giusta misura dell’umanità alla prova feriale del lavoro, e da lì balzare al sacerdozio; Torino periferica, prete ed operaio nell’impero Fiat, e infine nelle casermette di Villacidro, ormai a otto-nove anni dalla esperienza di Tuili, prima di quella più duratura di San Nicolò a Guspini. A casa quindi, con tutti e due i piedi, senza fuggire e senza sfuggire. Ma sempre con uno sguardo largo.

Dire manager, dire glocalista…

Ne sono venute fuori molte di definizioni, di don Angelo Pittau, rappresentato forse come egli è percepito, a torto o a ragione, da chi così si esprime. Anch’io ci ho messo del mio e qualche volta forse lui non ha gradito, forse è stato un attimo, perché poi ha capito benissimo che potevo chiamarlo manager così come avrei potuto chiamare manager – per volare alto e per intenderci – madre Teresa, o don Bosco. Angelo Pittau nostro è di quella stessa pasta, di quella stessa quercia. E deve tradursi in un orgoglio chiaro per Villacidro l’averne piena consapevolezza. Con la sua misura – che è una misura grande – e la sua capacità visionaria e progettuale, Angelo Pittau ha attraversato le strade di molti, di qui e di altrove: nessuno è uscito impoverito, nessuno è uscito impoverito dall’incontro con lui. Al contrario!

In quelle trasposizioni che sovente si fanno delle figure contemporanee nelle scene della letteratura classica – come se dialogassimo noi con l’Innominato dei Promessi sposi – , o del vangelo scritto – di Matteo e di Luca soprattutto –, oppure del presepio o della via crucis – quante volte ci abbiamo messo anche i sardi delle nostre campagne, e perché no gli impiegati delle amministrazioni o gli infermieri degli ospedali –, c’è sempre un bisogno di inveramento, di umanizzare con carne e sangue conosciuti, non teorizzati, il foglio scritto o il disegno, perché avvertiamo che quello è un modo di attualizzare, meglio: di spiegare cosa voglia dire la parola “sempre”. Perché la storia passata diventa, o diventi, esperienza presente e anche futura.

E un manager di Ruinalta e Norbio nel gruppo degli apostoli di prima e di dopo del Calvario, fra Andrea e Filippo e Bartolomeo, o Giuda Taddeo e anche Giuda Iscariota pensoso prima e pentito dopo, secondo me, ci starebbe bene.

Molti anni fa portai – anche se era soltanto un copione teatrale – gli apostoli, senza Pietro però, nella comunità di San Mauro, dai ragazzi di padre Morittu. Ogni ragazzo si presentò per quello che era – sono Cristian di Guspini e sono tossico da tot anni… – e ogni apostolo lo stesso – sono Andrea e vengo da Tiberiade e faccio il pescatore…  Per dire che ci è lecito essere creativi.

Sicché dire manager non è un’offesa, fu manager Antonio Rossi che quanto prezioso si rivelò a Villacidro nella nuova parrocchia del 1974 e di dopo, don Pittau lo sa e lo sappiamo in molti.

Manager ma anche glocalista dell’immaginato pluriverso: l’uomo dei “ponti” è glocalista, tanto radicato alla sua terra da potersi permettere di faticare ovunque. Giusto come i mazziniani e i garibaldini che faticarono per il nostro risorgimento unitario, mentre il papa Pio IX, fatto beato pochi anni fa, autorizzava a più non posso la mannaia del boia, a Roma. Essi – i mazziniani e i garibaldini, con il nostro Goffredo Mameli, sacrificatosi 22enne per la repubblica romana che aveva abolito la pena di morte poi ripristinata dal papa vicario – cosiddetto vicario, io lo contesto radicalmente – di Gesù Cristo, teorizzarono che “ogni patria è la mia patria”. Da mazziniano potrei dare anch’io questa medaglia a don Angelo Pittau. “Ogni patria è la mia patria”, l’Honduras e la Tanzania come Norbio, il Ciad e il Vietnam come Ruinalta, l’Argentina e la Patagonia terra del fuoco come Cuadu e Olaspri, la Caritas della diocesi di Ales, quella dei Piccoli Progetti Possibili arriva ovunque… Tropici ed equatore, emisferi e latitudini e longitudini, la Sardegna e Villacidro, ogni punto dell’universo è il centro dell’universo, secondo la lezione di Leibniz di quattro secoli fa e che indirizzò la mente di Giuseppe Dessì adolescente.

Dovevo chiudere con Dessì. Sarà un omaggio ideale a don Angelo Pittau una mostra che vorrei allestire – mostra povera, francescana, già quasi pronta – magari in questi stessi locali dell’antico seminario minore, delle pagine di giornale, de L’Unione Sarda e de La Nuova Sardegna, soprattutto degli anni ’50, in cui compaiono decine e decine di racconti di Giuseppe Dessì, comprese quelle prime elaborazioni di Paese d’ombre che potrebbero spiegarci molto del romanzo venuto poi. Se gli amici miei di Villacidro, i Sardu-Fadda e Cadoni, Contu e Curatti, Steri, Vacca ed Erbì, Loi e gli altri, con Giuseppe Marras magari volessero collaborare, accompagneremmo così e festeggeremmo insieme i prossimi 80 – a dicembre – del nostro indistruttibile don Angelo Pittau.

 

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