Sconti e valori morali, di Ernesto Galli della Loggia

L’Italia non può consentire che le ragioni dell’economia divengano così forti da cancellare qualsiasi criterio che non sia quello di fare buoni affari.

Quale sarebbe stata la reazione dell’opinione pubblica italiana, in specie di quella parte consistente che non perde occasione per richiamarsi con forza ai principi della democrazia se, mettiamo, il governo ungherese del primo ministro Orbán dopo aver aperto dei campi di concentramento dove rinchiudere i propri oppositori, dopo aver cancellato ogni libertà politica, fatto sparire nel nulla i dissidenti, messo in cantiere un sistema telematico capillare per il riconoscimento facciale dei cittadini e così poterne seguire i movimenti dappertutto, e compiuto mille altre violazioni dei diritti umani, avesse deciso un giorno di offrire un buon numero di vantaggiosi accordi economici all’Italia? E quale sarebbe stata la reazione della suddetta opinione pubblica se tale offerta avesse poi trovato la più cordiale accoglienza da parte del governo Lega-5 Stelle? Facile immaginare che ci sarebbe stata una risposta a dir poco indignata con cortei e proteste per ogni dove.

Invece, nelle medesime circostanze ma con protagonista la Repubblica popolare cinese — che alle belle azioni sopra riferite è solita aggiungerci pure l’incessante persecuzione dei cristiani —, non è successo assolutamente nulla. Nemmeno un simbolico sit in davanti a un consolato. Bisogna dedurne non solo la persistenza di un certo strabismo nel giudicare dei comportamenti a seconda di chi li pratica, ma forse, più in generale, che se nelle democrazie la ragion di Stato continua a non godere di alcuna simpatia, con le ragioni dell’economia, invece, si è di solito molto più indulgenti. Che la moralità e il rispetto di certi principi che si esige dalla politica non la si chiede quando si tratta di commerci, d’investimenti e di affari.

Il problema è che nelle relazioni internazionali (ma non solo) politica ed economia sono così intrecciate che è difficile stabilire dove finisca l’una e dove cominci l’altra. Sono inevitabilmente due facce della stessa medaglia. Proprio ora che la visita del presidente Xi Jinping in Italia è terminata nel migliore dei modi — e naturalmente non c’è che da esserne contenti — è opportuno tornare a sottolinearlo. Sorvolare su questo aspetto decisivo, nasconderlo o far finta di nulla significherebbe non solo fare un torto al ben noto realismo che caratterizza i governanti cinesi, ma soprattutto porre su una base falsa e quindi alla lunga fragile il rapporto di collaborazione tra i due Paesi che oggi sembra essersi felicemente avviato. E dunque, come ha ricordato assai opportunamente il presidente Mattarella, l’Italia non può far prevalere a nessun costo le ragioni dell’economia su quelle della politica accettando così una sorta di nuova versione del principio della ragion di Stato. L’ Italia non può consentire che le ragioni dell’economia divengano così forti da cancellare qualsiasi criterio della sua politica estera che non sia quello dei buoni affari con questo o quel governo straniero.

Ma ciò detto per quel che riguarda i nostri interlocutori asiatici, c’è da aggiungere qualcosa forse più importante. E cioè che tutta la vicenda della cosiddetta Via della seta culminata negli accordi di venerdì scorso contiene una lezione decisiva per l’opinione pubblica italiana. Non si tratta solo e tanto dell’ovvio invito a smetterla una buona volta con il vecchio vizio dei due pesi e delle due misure di cui dicevo all’inizio, ma della necessità di acquisire un abito assai diverso rispetto al passato nel considerare il posto e il ruolo del Paese nell’arena internazionale.

La scena del mondo sta mutando sempre più velocemente in modi per nulla rassicuranti. La crisi che con caratteri diversi ma egualmente gravi sta corrodendo dall’interno sia la Nato che l’Unione europea — vale a dire i due pilastri su cui si è retto fino ad oggi quel mondo occidentale di cui facevamo parte — simboleggia il complessivo venir meno di tutte le certezze che costituivano il panorama entro il quale l’Italia si è mossa negli ultimi settant’anni. L’attuale leadership americana appare l’ombra di quella di un tempo: estranea agli antichi ideali, incerta sui fini e sulle strategie, troppe volte decisa a fare per conto suo senza ascoltare nessuno. Abbandonata a se stessa l’Europa è ogni giorno più divisa, mentre l’immenso patrimonio delle sue ricchezze e delle sue capacità, il suo ruolo tuttora evidente di centro simbolico del potere mondiale, accendono i desideri delle nuove grandi potenze globali. La Russia preme a oriente usando spregiudicatamente ogni mezzo. Sulla riva sud del Mediterraneo un mondo arabo in preda a mille lacerazioni ma forte di mille risorse non cessa di rappresentare un’incognita allarmante. Da lontano la Cina si prodiga in grandi promesse, in allettamenti che solo uno sciocco può credere disinteressati. Nel frattempo sono cresciuti dappertutto intorno a noi grandi poteri finanziari, reti tecnologiche e piattaforme digitali planetarie, gli uni e le altre in pratica incontrollate e incontrollabili, potenzialmente disponibili agli impieghi più inquietanti.

Ebbene: è in questo scenario che l’Italia dovrà muoversi negli anni a venire. Nella condizione che sappiamo: cioè appesantita da difficoltà economiche non lievi, da una crisi demografica in atto congiunta a un problema d’immigrazione più che probabile, governata da un fragile sistema politico; e per giunta potendo contare sempre meno su amici a tutta prova. Nel nostro futuro insomma si profila una situazione da far tremare le vene ai polsi. In previsione della quale non ci serve un’opinione pubblica di tifosi e di «doppiopesisti», di anime belle pronte a illudersi su tutto o di radicali disposti a giocarsi i destini del Paese per soddisfare le proprie ubbie ideologiche. Abbiamo invece bisogno di un’opinione pubblica capace di sapersi informare da fonti attendibili e diverse, di ragionare con attenzione e con vastità di vedute, di decidere freddamente avendo ben chiari gli obiettivi da perseguire. Ci serve un supremo realismo. Ma al tempo stesso la fedeltà a quei valori di libertà, di eguaglianza e di umana decenza che fino a prova contraria costituiscono ancora oggi la ragione del nostro stare insieme e che ci vengono da una storia che solo in Terra santa, in Europa e negli Stati Uniti ha la sua radice. Non tra le mura della Città Proibita.

 

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