Fra Tuvixeddu, il Taloro e di nuovo Sant’Avendrace, nella Cagliari del fiore morto, di Gianfranco Murtas

Non me lo immagino Roberto, il missionario sfortunato di Sant’Avendrace, come sarebbe stato oggi più che sessantenne. L’ho perduto quando di anni ne aveva 36, una moglie dolcissima e delicatissima, una bambina che era un fiore vero, leggero e puro.

Con lui ne ho perduto quattrocento, di quella folla vasta almeno quattro o cinque volte tanto, di amici con i quali avevo stretto un patto di umanità informale, compagno degli ultimi loro tempi di vita, nelle corsie dell’ospedale, talvolta, molte volte, nelle abitazioni operaie, familiare fra familiari, tanto spesso poi, in surreale solitudine, all’obitorio, in attesa dell’arrivo degli altri di casa, e dopo ai funerali in chiesa e nella scorta al campo che io dico “dei santi”.

M’era toccata quella sorte, in anni in cui ancora potevo, di affiancarmi ai miei quattrocento che memorizzavo mai come unità di categoria, ma con nome e cognome, ciascuno unico ed irripetibile, conoscendone travagli e aspettative, talvolta paure e pentimenti, le complessità di un vivere che era stato sviato da un precoce accidente fattosi presto insuperabile, gemello perfido, secondino vizioso e sempre vigile nel suo compito oppressivo.

La droga e le sue infezioni, “la” infezione perfetta e signora di lunghi anni, hanno sbaragliato migliaia di nostri giovani, giovani dei nostri quartieri cagliaritani, del nostro hinterland, della nostra provincia, di tutta l’Isola, un pezzo di generazione, pezzi di due generazioni. Per tremila giorni tutti i giorni, e per altri ancora con modalità diverse, ho convissuto con il maggior dramma cittadino, dramma tragico più della disoccupazione e della povertà, anche degli sfratti e d’altre fragilità e d’altri assedi: le vite si spegnevano per l’impietoso capriccio di un interruttore che pensava di aver diritto di sentenziare il come e il quando.

Mi sento orfano di tanta fraternità. Ed ho ancora con me migliaia di carte personali, lettere e appunti d’ordine e scopo diverso – perfino testamenti –, eredità materiale che sento di natura tutta morale.

Nel mezzo dei mille interessi ancora di studio e ricerca e scrittura intendo la perennità di un attraversamento umanistico fra le vite perdute in questa Cagliari che volgeva allora al cambio di decennio, di secolo e di millennio. Nei rilasci editoriali, tutti di natura civica e sociale, di Partenia in Callari (annate 1996, 1997, 1998-99), avevo presentato qualcosa del molto che mi era stato consegnato con atto fiduciario e che avverto di dovere, ancora oggi, condividere, perché il ricordo non si spenga mai, e nessuno sia assorbito nel nulla.

Roberto, autobiografia di uno “spidolino”

Roberto scriveva, in ospedale, nel 1992, la sua storia perché voleva vedersela pubblicare. Aveva chiesto un vocabolario, ed infatti era sempre lì a consultare il mio Zingarelli. Non ha fatto in tempo a completare il suo «piccolo romanzo di vita», anche se molto comunque è entrato, del suo vissuto spericolato, nel racconto affidato alla carta.

Desiderava essere letto, ovviamente, perché c’era comunque un’ansia “missionaria” nella sua natura, e nella sua coscienza manteneva integra la distinzione fra il bene e il male. Benché, al dunque, alla prova dei fatti, il suo cedimento era scontato, sempre drammaticamente puntuale.

Quella che segue è la prima parte del suo «piccolo romanzo di vita». Tocca gli anni della infanzia – quelli vissuti dapprima in vico IV Sant’Avendrace, proprio ai piedi della necropoli cagliaritana di Tuvixeddu, e quindi nei boschi barbaricini di Olzai – e arriva all’adolescenza, nuovamente in città, sempre in area di Santa Gilla. Essa costituisce una anticipazione, logica e non solo cronologica, di quel che verrà: il tempo dell’inquietudine, il tempo della schiavitù imposta dal quinto moro, padrone sempre più assoluto, già della metà degli anni ’70, e ogni anno di più, ogni giorno di ogni anno di più, di Sant’Avendrace e degli altri quartieri, tutti bollenti, di Cagliari.

Mi accingo a scrivere questo piccolo romanzo di vita senza alcuna ambizione e tutto quello che vi racconterò è pura e semplice verità. È la storia di una famiglia proletaria, di un figlio che nasce bene, incomincia a vivere benino e finisce male.

Siamo nel lontano 1956. Nasco in una giornata afosa. Sono un marmocchiello bruttino (per dirla con mio padre), non ho gli occhi azzurri come quelli di papà…

Vado per ricordi, la mia casa era abbastanza modesta, dovevamo convivere anche con la buonanima di mia nonna e con mia zia.

Mio padre faceva tanti sacrifici per poter mandare avanti la famiglia. Oltre al lavoro che svolgeva in miniera, nelle ore serali andava da un suo parente che possedeva una falegnameria e là riusciva a raggranellare qualche altro soldo. Così dopo due anni poté nascere la secondogenita, Cenza, una bellissima bambina con tante lentiggini.

Con qualche risparmio mio padre acquistò un televisore in bianco e nero con lo schermo grandissimo. Spesso quelli del vicinato venivano in casa a guardare questo o quel programma. Per moltissimi la TV era un lusso che non si potevano permettere.

Crescevo stizzito dal comportamento di mia zia che, essendo una maniaca dell’igiene, mi faceva fare delle doccione che io odiavo, ma che forse erano necessarie. Ero un “piscia-letto”: una disfunzione renale mi faceva bagnare spesso e (mal)volentieri il letto.

Avevo all’incirca cinque anni e come tutti i bambini mi piaceva moltissimo allegronare, in compagnia, all’aperto, soprattutto a Pizz’e monti, una collinetta che stava ad una trentina di metri dalla mia abitazione.

Giocare lì comportava seri pericoli per la nostra incolumità, perché vi erano moltissime tombe a cielo aperto dell’epoca romana ed ogni tanto qualcuno ci finiva dentro.

Appena sentivo gli strilli di richiamo della solita zia, correvo a casa e mi nascondevo in una soffitta sopra la cucina per ripulirmi. Ormai però conoscevano le mie abitudini e, oltretutto, sentivano i passi del mio affannato ritorno, in quanto la pavimentazione era di tavola. Venivo preso per i fondelli da mamma e zie che, dopo avermi sonoramente rimproverato per come avevo rovinato scarpe e vestiti, mi scaricavano giù nella vasca per lavarmi e “stirarmi” a lucido.

Gli anni passavano e anche la famiglia continuava a crescere: era infatti arrivata anche Maria Laura. E pochi mesi più tardi – siamo ormai nel 1962— iniziò per me il periodo della scuola.

Ero vivace ma anche bravino nel profitto. Il “solito problema” – il fatto cioè di farmi la pipì addosso – mi creava grossi complessi nei confronti dei compagnetti e tantissime volte inventavo le cause più inverosimili per non andare a scuola.

Comunque, proprio in quegli anni l’avvenimento sicuramente più importante che diede una svolta alla nostra modesta famiglia fu l’assunzione di mio padre come elettricista in una ditta, l’OREM, che aveva molti lavori nel centro della Sardegna, e specialmente nel Nuorese.

Il lavoro più grosso era quello della costruzione di una centrale elettrica, nota come del Taloro. Il cantiere sorgeva in mezzo a questa vallata circondata da montagne e da tantissimo verde.

In quei piccoli ma suggestivi paesini del cuore dell’Isola, avevi l’impressione che il tempo si fosse fermato, che tutto fosse ancora inalterato, non intaccato dalla mano distruttrice del progresso.

Questo lavoro credo che gratificasse mio padre, anche se non bastò a fargli cambiare quel caratterino lunatico che aveva, poco socievole e pochissimo loquace nei confronti dei figli. E sono convinto che la mancanza di dialogo abbia fatto sì che io non potessi ricevere, crescendo, quella sicurezza di cui avevo bisogno.

Per anni, tanto nell’infanzia quanto nell’adolescenza, mi sono trascinato questo senso di insicurezza, divenuto successivamente il perno delle mie disavventure future.

Intendiamoci, lui alla famiglia era legatissimo. Mi ricordo i lunghissimi viaggi con la sua Lambretta Innocenti, anche tre volte alla settimana. Per tornare a casa anche un solo giorno, non lo fermavano certo né temporali di vento né la neve.

Col tempo, però, la cosa divenne talmente stressante che decidemmo (anzi, decise lui) di trasferire la famiglia in un paesino – Olzai – distante all’incirca otto chilometri dalla centrale in costruzione, in attesa di sistemarci proprio al Taloro.

Non passò molto che ci fu assegnata una bella casa nuova e spaziosa. La mia gioia era immensa per un insieme di fattori ed innanzitutto per il fatto di avere una cameretta tutta mia, anche se l’arredamento lasciava alquanto a desiderare (ma ovviamente i sacrifici finanziari che dovevano affrontare i miei, oberati anche dai debiti, erano tali che, per qualche tempo, non si poteva proprio affrontarne altri).

La mia felicità era indescrivibile. Il fatto di stare a contatto con questa natura vergine, di poter osservare l’evolversi naturale dei fiumi, magari con piccole cascate, o la formazione di nidi di vari tipi d’uccelli, di vedere le uova schiudersi o l’imbeccatura dei piccoli, ecc. per me era un sogno.

Rimanevo ore ed ore a guardare e ad immaginare quanto mi succedeva intorno, mi sentivo un piccolo ornitologo, ma anche un selvaggio un po’ misantropo, sembrava che soltanto lontano dalla città, dal caos e dal solito tran-tran stessi bene interiormente o anche fisicamente perché le lunghe camminate in mezzo ai boschi mi davano vitalità, grazie alla benefica ossigenazione.

Imparai a costruire trappole per animali, a pescare le trote nel fiume ed a riconoscere le bacche e la frutta selvatica commestibile. Poi, il non sentire più gli strilli di mia zia mi dava un certo sollievo anche se essi erano stati sostituiti dal fischio di mio padre che sollecitava il ritorno a casa. Infatti spesso mi assopivo ascoltando il cinguettare degli uccelli e il fruscio della vegetazione, che era una dolce musica per le mie orecchie. Talvolta sembrava (o per lo meno io lo immaginavo) che la natura con lo spartito mettesse in scena un’opera musicale.

Ormai frequentavo la quarta elementare, ed in casa avevo nel frattempo acquisito anche un fratellino: eravamo adesso quattro figli. Nella nostra famiglia di (quasi) veraci cagliaritani ci voleva pure un nuorese, e Salvatore era un bellissimo bambino. Crescendo avrebbe avuto i capelli a caschetto, lisci castani chiari; con qualche lentiggine sul viso sarebbe sembrato uno di quei bimbetti americani dei telefilm, ma di un argento vivo che toccava l’eccesso: il classico monello.

C’eravamo integrati così bene in quella dimensione che si era anche riusciti a diventare una sorta di contadini con tanto di orto, alberi da frutta e persino voliere e gabbie con conigli e galline, una piccola fattoria che papà accudiva nei momenti di riposo dal lavoro. Tutto questo, però, con il mio aiuto… dato malvolentieri, perché preferivo più camminare per i boschi che zappare o raccogliere gli escrementi di conigli e galline. Mi piaceva moltissimo scendere al lago e alcune volte ne approfittavo per farmi una rinfrescante nuotata, anche se questo era molto pericoloso: infatti nuotare nell’acqua dolce comportava più fatica, ma la vera insidia era il fondale melmoso e pieno d’ogni genere di detriti.

A dieci anni finii la quinta elementare, con buon profitto. Ed a quel punto c’era da prendere una decisione: dove avrei frequentato la prima media. Mio padre era del parere di farmi viaggiare ogni giorno ad Olzai, ma io non fui d’accordo. Gli dissi che avrei preferito fare le medie a Cagliari. Riuscii a convincerlo e mi mandò a Cagliari sotto la tutela della solita zia (quindi solita casa e solite abitudini).

La scuola distava da casa appena venti metri. Pensavo che la lontananza dalla famiglia non mi creasse problemi, ma tutto sommato la nostalgia sia dei miei che di quel meraviglioso posto si faceva sentire.

Col tempo divenni meno nostalgico ma mi riusciva difficile abituarmi alla città anche perché la ricordavo in un certo modo e la ritrovai cambiata, caotica e insignificante. Tutto questo insieme di cose incominciò a comportarmi dei conflitti a livello interiore, mi sentivo una specie di camaleonte che muta atteggiamento secondo le situazioni. Alle volte un’allegria addirittura eccessiva, oppure triste musone e anche violento. Infatti divenni uno degli attaccabrighe più conosciuti del quartiere.

Avevo tredici anni, e siccome anche mia sorella Cenza avrebbe dovuto iniziare le medie, la famiglia decise di cercare un appartamento a Cagliari. Oltretutto mio padre, con grande soddisfazione, acquistò la sua prima macchina, una “Simca 1000″.

Quindi ci trasferimmo tutti in questo appartamento, nella via Santa Gilla, e lui per qualche anno ancora continuò a viaggiare (ma stavolta in macchina).

Io finii le medie e nei giudizio finale mi si consigliava un indirizzo più tecnico che scientifico. Alla fine però optai per il liceo scientifico.

Quell’anno mi sa che fu l’ultima volta che passammo le vacanze al Taloro, in quanto avevamo ancora la casa. Io, del resto come tutta la famiglia, ne fui molto felice. Soprattutto ebbi modo di rivivere emozioni che parevano sopite.

Quella vacanza mi ritemprò sia nel fisico che nel morale. Ormai ero già un ragazzetto che si apprestava ad intraprendere una scelta importante per il suo futuro. Ma forse per immaturità e poca razionalità non riuscivo, come avrei voluto, ad applicarmi allo studio con costanza.

Poi mi sentivo addosso questa timidezza soprattutto nei confronti delle compagne di classe. Sopperivo a questa situazione combinando infinite cavolate con altri tre o quattro compagni, i soli con cui l’affiatamento aveva raggiunto una solidale amicizia.

Il primo anno fui rimandato in due materie: latino (che trovavo antipatico) e matematica. Dopo una mezza estate rovinata dalle ripetizioni, a settembre negli esami di riparazione riuscii a passare.

L’anno successivo mi riscrissi sempre al “Pacinotti”, ritrovando gli stessi compagni e ritornando a far cricca con gli stessi cattivelli. Nello studio ci misi ancora meno impegno di prima ed incominciai a marinare le lezioni.

Alcuni marinavano facendo coppia con qualche ragazza, io il più delle volte preferivo andarmene a Marina Piccola, porticciolo di rimessaggio per piccole imbarcazioni.

Mi piaceva moltissimo guardare il mare e soprattutto fare pesca subacquea, poi aspettavo il rientro dei pescherecci e dei piccoli “cius”, che sono delle imbarcazioni in legno, per vedere il loro pescato e chiedere spiegazione su alcuni tipi di pesce.

Comunque anch’io avevo la mia fidanzatina, che abitava proprio davanti a casa mia; bastava affacciarsi per potersi vedere e mandarsi qualche innocente bacio a distanza. Fu una cosa molto platonica.

Intanto era nato Marcello, seguito, alcuni anni dopo, da Gianluca e infine da Marco. Nel 1971-72 presi una sonora bocciatura dovuta soprattutto alle mie ripetute assenze. L’anno successivo – dovevo rifrequentare la seconda liceo – ci trasferirono in una succursale, al “Leon Battista Alberti”, in zona di Su Siccu. Secondo me trasferirono i più turbolenti.

Era il periodo in cui cominciavano le contestazioni giovanili soprattutto dell’estrema sinistra ma anche l’estrema destra non stava a guardare.

Io non è che ne capissi tanto di politica, quindi mi lasciai trascinare e condizionare dai compagni di quarta e quinta. Iniziavano i primi scioperi, ma soprattutto si viveva di riflesso a quanto succedeva nelle grosse città del continente.

Così incominciavo a diventare un casinista e mi trovavo a mio agio con i giovani della sinistra.

Ormai della didattica non mi importava più nulla, ma frequentavo l’istituto esclusivamente per stare in compagnia e fare casino. Avevo diciassette anni e mi affascinava il modo di vestire di alcuni giovani, con quell’abbigliamento un po’ trasandato, i capelli lunghi, anche se tutto questo comportava in me una certa contraddizione: la mattina pseudopoliticante di sinistra, la sera bravo ragazzo di parrocchia, bravo ma non troppo, in quanto venivo spesso rimproverato dal parroco per la mia vivacità: non voleva che si giocasse a pallone nel piazzale della chiesa, né pestassimo il biliardino o facessimo gavettoni, voleva che trattassimo con cura il ping-pong…

Anche lo scientifico mi prese alle balle e Io mollai definitivamente. La cosa fece incavolare notevolmente mio padre, che sognava un figlio ingegnere o qualcosa del genere. Io con lui fui però molto esplicito: mi ero rotto dell’istituto, del latino, dei professori rompiballe. I miei capelli continuavano a crescere e mio padre incominciava ad assillarmi perché andassi dal barbiere. Poi mise delle condizioni: o ti metti a studiare (era propenso anche a fare sacrifici pur di iscrivermi in un istituto privato) o… Per farlo contento (o fesso) mi misi a studiare per corrispondenza “accademia”, ma scelsi un indirizzo tecnico invece che scientifico. Infatti sarei voluto… e il condizionale mi accompagnerà per buona parte della mia vita anche se conoscevo l’imperativo: ma certi miei propositi, per un motivo o per un altro, andavano a finir male…

Ben presto anche i libri e gli opuscoli della “accademia” finirono inesorabilmente in un cassettone proprio così come mi venivano consegnati dal postino, non mi prendevo neanche più la briga di sfogliarli.

Papà, a quel punto accortosi del mio totale menefreghismo, mi ingiunse di cercarmi un lavoro, in quanto scansafatiche in casa non ne voleva. Così incominciarono i conflitti, e i bisticci erano ormai all’ordine del giorno. Mi resi conto delle difficoltà nel comunicare con mio padre, mi trovavo a disagio. Indubbiamente tra me e lui vi era un muro insormontabile fatto di incomprensioni, di opinioni completamente contrastanti.

Poi mi faceva incavolare il fatto che mamma, che cercava di mettere pace nelle liti (ed era una cosa più che ovvia), doveva poi sorbirsi i rimproveri di mio padre.

Però anche a me non andava poi tanto stare senza far niente, quindi andai a lavorare nella falegnameria della, adesso, buonanima di zio Ciccio.

Questo lavoro non mi soddisfaceva per niente anche perché come paga prendevo una miseria.

Raggiunta la maggiore età, incominciarono a balenarmi in mente certe idee di “rottura”, per aumentare le distanze e i “no” verso mio padre.

Istintivamente avrei voluto lasciare Cagliari per una destinazione ignota; con più calma, però, e razionalità, optai infine per un corso di saldatore elettrico. In questo modo avrei potuto unire l’utile al dilettevole.

Per quanto riguarda l’utile, una qualifica mi sarebbe potuta servire in un futuro. Il dilettevole era dato dal fatto che – poiché il corso si svolgeva all’ANAP di Santa Giusta, un paesino dell’Oristanese – avevo messo una certa distanza anche materiale con Cagliari, la mia famiglia e soprattutto mio padre.

Ricordo che molti giovani il fine settimana erano felicissimi di rientrare nei loro paesi, io invece rimanevo anche un mese senza farmi sentire dalla famiglia. Preferivo stare lì e con i compagni che rimanevano organizzavamo partite di calcio, pallavolo e gare d’atletica.

Lo sport in genere diventò molto importante per me: il fatto di muovermi, correre, sudare e vincere mi gratificava in una maniera quasi maniacale, morbosa. Sicuramente quell’indole, quei temperamento vivace e “spidolino” faceva da molla a questa voglia.

Divenni uno studente modello, infatti in teoria e in pratica conseguivo dei profitti notevoli. Ma soprattutto nello sport raggiunsi, a livello dilettantistico e scolastico, una certa “notorietà”.

Il direttore dell’istituto organizzò una sorta di piccola olimpiade coinvolgendo moltissimi atleti dei paesi vicini. Le specialità erano numerose, dal calcio alla corsa campestre, ai 100-200-400 piani, alla pallavolo, ecc.

Per farla breve, fui premiato come uno dei migliori atleti per impegno e capacità. Oltre ad alcune medaglie, fui uno dei pochi a ricevere una targa-ricordo. Alla cerimonia, il direttore disse parole toccanti e quando mi consegnò la targa mi emozionai ai punto che non riuscii più a fare il discorso che mi ero preparato.

Siamo ormai nel 1975 e in quell’anno conseguii il diploma di qualifica professionale. Mi venne offerto anche un lavoro ad Alessandria d’Egitto. Ma dissi al direttore che avrei voluto valutare la questione con calma, avendo il tempo di poter inquadrare meglio la situazione.

L’idea di intraprendere un lungo viaggio mi attirava alquanto, ma sicuramente mi attirava molto di più (e questo ormai da alcuni mesi) l’essermi iscritto, con tanto di cartellino FGCI (Federazione Gioco Calcio Italiano), nella squadra del mio quartiere che militava in seconda categoria. Quindi lasciai Alessandria d’Egitto ad altri e mi dedicai esclusivamente al mio sport preferito.

Non eccedevo in tecnica, anzi ero alquanto grezzetto, tanto che gli amici mi chiamavano con il soprannome (simpatico ma alle volte mi dava ai nervi) di “attrupeliu”, perché facevo le cose con troppa disinvoltura e un po’ incasinato.

Quasi a compensare questo, comunque, mi appiopparono pure un altro nomignolo – quello di Johan Cruyff – soprattutto quando calcavo i campi di calcio. Ero molto veloce, e giocando come mezz’ala esprimevo meglio il mio potenziale, e tutto questo, unito al mio fisico asciutto e longilineo, ai capelli lisci e lunghi dietro, col naso alquanto pronunciato, mi assomigliava all’asso olandese Johan Cruyff (almeno fosse stato vero!). E molte volte, dagli spalti, gli amici e qualche tifoso mi incitavano con un “forza Johan”, ma spesso riuscivo a mandarli sonoramente a quel… paese.

L’avvenimento che mi diede una certa soddisfazione fu il fatto di vedere pubblicata la mia foto con quella di altri calciatori in un giornale sportivo isolano, che testualmente titolava: “Le giovani promesse del calcio regionale”.

Incominciai con una partita notturna al campo del Ferroviario, un’amichevole contro una squadra di serie superiore alla nostra, il Santos, allenato da un bravo tecnico che si chiama Paladino.

Perdemmo tre a due, mi ricordo ancora oggi con soddisfazione che misi a segno un bellissimo goal, spettacolare sia per la potenza che per la velocità d’esecuzione. Senza nessuna presunzione, fu un goal veramente bello e questo me lo fece intuire il lungo applauso della tifoseria.

Terminata la partita, l’allenatore della squadra avversaria venne nei nostri spogliatoi per conoscermi personalmente e complimentarsi. (Sinceramente, se riprovassi mille volte a fare quel goal son sicuro che non mi riuscirebbe più).

Dopo un breve colloquio tra il mio presidente ed il mister del Santos, mi fu proposto un provino con questa squadra di serie superiore, cosa che feci anche più di una volta, ma poi non si concluse niente, non so se per incapacità mia, o perché il mio presidente per cedere il mio cartellino pretese di più di quanto realmente valessi.

Feci altri provini, ma senza grande entusiasmo, con l’Atletico Cagliari (squadra di promozione degli Orrù, attuali presidenti del Cagliari calcio). Rimediai una sonora figuraccia, sia perché lo feci controvoglia, sia, e soprattutto, perché mi marcò un certo Roberto Sequi che in seguito divenne uno dei migliori stopper a livello regionale e non solo…. Non riuscivo a liberarmi della sua asfissiante marcatura e la mia velocità in confronto alla sua esperienza andava a farsi benedire.

Nel mese di marzo o aprile del 1975 conobbi la persona che è stata la delizia, la gioia, la perla, la felicità, l’essenza della mia vita e tuttora lo è. Ma è stata anche il mio tormento, la mia sofferenza, la mia angoscia… ma tutto questo esclusivamente per colpa mia. Tutto quello che è accaduto negli anni che sono seguiti a me è sembrato fosse stabilito dal destino, da una potenza sovrumana e che certi fatti erano inevitabili.

Attrupeliu, cullato e soffocato dalle storiacce

Roberto continua nel suo racconto, scrivendo ancora tutti i giorni, nell’estate 1992, là nell’ospedale dove a dicembre dello stesso anno sarebbe morto. (Non sembrava, quell’ultimo giorno, che stesse cedendo, non c’era dramma visibile attorno a lui. Teneva chiusi gli occhi, Cenza gli parlava, le sorelle e la madre e gli altri lo assistevano, io gli premevo con delicatezza – nel punto in cui decideva lui – la pancia dove aveva male, e “spidolino” sembrava così ricevere un qualche sollievo).

Ha già detto dell’infanzia, spesa tra l’ormai scomparso vico IV Sant’Avendrace e la casa nel bel mezzo degli spazi aperti di Olzai, e poi dell’adolescenza nuovamente in città, tormentata sulle rive di Santa Gilla. Gli anni delle difficoltà crescenti negli studi, dopo le medie, nel passaggio, all’insegna dei tentativi, dal “Pacinotti” all’ “Alberti”, ed era venuto dopo un corso tecnico per corrispondenza e dopo ancora l’ANAP di Santa Giusta… Come condimento c’erano, naturalmente, le cotte dell’età e lo sport, molto sport con poca disciplina, e lui, divertito ed infogato, era tutto preso a collezionare i nomignoli che costituivano un gentile omaggio dei compagni e del suo pubblico, da “Attrupeliu” a “Johan Cruyff”…

Nella primavera del 1975, infine, l’incontro con «la persona che è stata la delizia, la gioia, la perla, la felicità, l’essenza della mia vita e tuttora io è…».

Ma non c’è solo quell’incontro. Iniziano adesso anche le “storiacce”. Un ventenne dentro le storiacce, cullato e soffocato dalle storiacce.

Il fatto di saperla con un altro mi faceva star male. Soffrivo moltissimo, anche perché mi ero messo in testa delle stupidaggini assurde, inverosimili, dovute soprattutto alle malelingue. Comunque il conflitto consisteva in complessi che mi ero creato nei suoi confronti. Mi sentivo un ragazzino immaturo e senza alcuna esperienza sessuale (anche se qualche ragazza l’avevo avuta ma erano stati sempre rapporti molto “formali” senza significato né materiale né, tanto meno, spirituale). Il mio amore – in quei momento irrealizzabile – era il tormento delle mie notti insonni: non riuscivo ad allontanare dai miei pensieri la sua immagine.

Tutta questa situazione, il fatto di vedere in lei una ragazza con le idee più aperte, con certe esperienze – io mi sentivo nei suoi confronti un ragazzo bambino, lei che andava a ballare, io invece preferivo farmi una partita a pallone, mi sentivo bullo, il rompiscatole con gli amici e impacciato e titubante con lei – tutto questo mi comportava grossi complessi, inibizioni, persino risentimenti assurdi e irrazionali. E ciò in seguito si manifestò in comportamenti e in atteggiamenti illogici e poco rispettosi nei suoi confronti: infatti, alcuni mesi dopo presi certe decisioni assurde, frutto soltanto della mia immaturità. Comunque, dopo tentennamenti e varie indecisioni, arrivò il 31 maggio 1975 quando il mio cuore si spaccò in due per accogliere una parte di lei e tuttora – anche se sotto il ponte acqua ne è passata molta, né limpida anzi direi alquanto torbida – lei è sempre il propulsore dei mio cuore, dopo alcuni anni il mio cuore prova la gioia d’aprirsi nuovamente, stavolta per accogliere la tenerezza, la gioia dei miei occhi, il mio tesoro Francy. In quel bellissimo giorno del 1975 i nostri corpi si toccarono, le nostre bocche si unirono assaporando con delizia il sapore della saliva, ma era tutto l’insieme; per la prima volta provai certe sensazioni, una forte emozione, vibrazioni, un fremito piacevole in tutto il corpo. Lei nella sua nudità era così bella, statuaria, un corpo piacevole da vedersi e non solo. L’emozione mi giocò brutti scherzi, non riuscendo ad arrivare ad un amplesso completo e più ci pensavo e più grande era il blocco psicologico che si creava in me.

Tutto questo mi creava stati d’animo di grande sofferenza e la mia acerbità, la mia irrazionalità mi portava a pensare le cose più assurde, che lei mi potesse lasciare. E poi, perché non le confidavo le mie paure, il perché di questo blocco? Sicuramente una certa cultura maschilista prendeva il sopravvento facendomi assumere certi atteggiamenti poco consoni al mio carattere.

Comunque, anche questo particolare nel giro di una settimana si risolse soprattutto per suo merito che mi diede sicurezza e tranquillità. Raggiunsi delle affinità notevoli nel fare all’amore e questo mi dava una gioia immensa indescrivibile. L’amore che provavo per lei era qualcosa di così bello e forte che andava ai di là anche della logica. Passammo alcuni mesi molto belli nel senso che ci piacevamo moltissimo, e facevamo di tutto per poterci piacere sempre di più.

Ma la mia testa matta e alcune decisioni poco ponderate, l’incompatibilità con mio padre si faceva sentire e come! crearono problemi. Decisi di partire per Viareggio, dove mio cugino Giorgio mi trovò un lavoro alla OVAM, uno dei più grandi cantieri navali di rimessaggio per grosse imbarcazioni. Ma non era tanto il lavoro che mi faceva allontanare da Cagliari, quanto quest’indole un po’ bizzarra che lasciava anche poco spazio ai sentimenti altrui. Fu infatti una decisione poco rispettosa nei confronti di Carmen. Forse ero alla ricerca di qualcosa che neanche io riuscivo a capire cosa realmente fosse. Lo capii dopo alcuni mesi che mi trovavo in continente. Ero un grandissimo coglione, rincoglionito e condizionato da stupidità. Chissà quanto avrò fatto soffrire lei nel scriverle certe sciocchezze atteggiandomi a uomo vissuto. Altro che uomo, ragazzetto sciocco e forse persino presuntuoso.

Le mie giornate le passavo dalla mattina presto sino alla sera inoltrata nel cantiere, anche perché facevo qualche lavoretto extra (mettendo a punto qualche fuoribordo) con un mio collega molto più esperto di me, che oltretutto era un espertissimo pilota di motoscafi e di off-shore. Essendogli simpatico ed oltretutto aiutandolo molto spesso e volentieri nei suoi lavori di motorista, ogni qualvolta vi era da provare qualche scafo da competizione chiamava sempre me. Io mi mettevo a sedere dentro quei bolidi, mentre i motori facevano ribollire l’acqua del mare, talmente era potente la propulsione di scarico. Quando gli strumenti di bordo davano il segnale che la temperatura era quella giusta, pian piano e con grande maestria del pilota, nello sfiorare le altre imbarcazioni, si usciva dal porticciolo e, quindi, arrivati a mare aperto, mi dava l’Ok per mantenermi con forza. E via ad alta velocità, spezzando il mare con la prua (come un coltello affilato che spezza in due il burro). Era molto bello sentirsi questi spruzzi sul viso, assaporando l’acqua salmastra, ma era la velocità incredibile di questi scafi che mi dava quella ebbrezza, mi esaltava il fatto di vincere la forza del mare.

Anch’io col tempo imparai a pilotare i motoscafi, anche se di velocità inferiore. Infatti il direttore della OVAM mi propose, conoscendo la mia passione per il mare, di prendere la patente nautica. L’idea mi andava a genio (ma poi optai per la patente B, più sicura, nel senso che guidare la macchina nella terra ferma comportava meno pericoli). La patente B la presi sul serio, ma tralasciai quella nautica, l’OVAM, Viareggio e tutto il resto. Volevo ritornare a Cagliari e poter riabbracciare il mio amore.

Il pensiero di Carmen mi ossessionava. Non facevo altro – mattina, sera e notte – che pensare a lei. Quante volte mi stringevo al petto la sua foto e nel silenzio della notte, quando i pensieri più profondi vengono alla mente, le sussurravo: amore, spero che tu non mi abbia lasciato, ma se questo fosse successo la colpa è esclusivamente mia, e riuscirò con tutta la forza dell’amore che provo per te a riconquistarti.

L’indomani diedi le dimissioni, con grande dispiacere del direttore e dei colleghi. Così dopo alcuni giorni (si era quasi la fine del 1975), salutati zii, zie e cugini vari, presi il primo volo che mi capitò sulla linea Bologna-Pisa-Cagliari.

Non si può immaginare la mia euforia nel vedere Cagliari dall’aereo, e non solo perché vedevo per la prima volta la mia città, il bellissimo golfo che si allungava verso il litorale per Villasimius, per la prima volta dall’alto delle nuvole. Ero sulle spine perché avrei voluto essere già a casa mia. Infatti dopo qualche ora mi ritrovai fresco tirato e lucido. Quella doccia mi ritemprò dallo stress degli ultimi giorni. Mio padre, dopo i convenevoli, riprese le raccomandazioni di sempre, soprattutto per quanto riguardava i miei capelli che continuavano a crescere più lunghi e come io volevo. Quindi uscii di casa, sapendo già dove sarei dovuto andare per trovare Carmen.

Ero tormentato dall’idea di poterla trovare assieme a qualche altro ragazzo. E se così fosse stato? Chissà come mi sarei comportato: con indifferenza, con discrezione, o sarei andato su tutte le furie (comportandomi da maschilista represso frustrato)? Comunque tutto si risolse per il meglio. Incontrai il mio amore e leggendoci negli occhi che rispecchiavano il nostro animo, capimmo che ci amavamo più di prima, anzi forse la lontananza aveva rafforzato questo sentimento. Le portai alcuni maglioni del tipo “norvegese” e delle camicie a quadretti che a lei piacevano tanto e non soltanto a lei (infatti il nostro guardaroba cambiò stile: jeans sbiaditi, camicie a quadretti e, freddo permettendo, maglione “norvegese” e quindi ci si poteva atteggiare a freack, a fricchettoni). Sentivamo l’esigenza di cambiare abitudini ed allontanarci dal quartiere di Sant’ Avendrace che cominciava a diventare per noi monotono. Così iniziammo a frequentare ambienti della sinistra extraparlamentare (linea dura della sinistra), era una sorta di anarchici e di autonomia operaia (marxista – leninista con tanto di sede). Si partecipava a manifestazioni e assemblee le quali il più delle volte finivano in scontri verbali (e non solo verbali) fra le opposte fazioni e, talvolta, con le forze dell’ordine.

Nel 1976 Carmen rimase in stato interessante, ma il bambino lo perse in un modo anche non molto civile e di tutta questa situazione ne subì un trauma che ancora oggi si ripercuote in certi suoi comportamenti. Certo che, potendo tornare indietro, avrei fatto di tutto per potercelo tenere, oggi avrebbe sedici anni, sarebbe stato qualcosa di meraviglioso. Invece purtroppo certi errori del passato inconsciamente vengono fuori mettendo in risalto situazioni che non si vorrebbero più ricordare.

Il nostro rapportò non era dei più idilliaci, ma neanche tanto burrascosi: tra di noi vi era una attrazione fisica notevole, ci piaceva moltissimo fare all’amore e ogni posto appartato fuori dalla portata degli occhi indiscreti diventava la nostra alcova. Eravamo molto gelosi e possessivi l’uno dell’altro, anche se cercavamo in tutti i modi di assumere atteggiamenti fittizi tanto per nascondere certi stati d’animo. Molte volte, non sempre, non riuscivamo però a nascondere sentimenti o risentimenti che, quindi, esplodevano in furiosi litigi.

L’estate del 1977 lavorai in fabbrica, esattamente alla SANAC, una società di produzione di mattoni refrattari (resistenti al calore) e di cementi specifici. Guadagnavo anche discretamente, tanto che – anche perché continuavano ad essere frequenti i litigi con mio padre – decisi di andarmene di casa con Pier Paolo (marxista all’eccesso, che credeva ciecamente alla rivoluzione). Anche lui, con tutti i suoi begli ideali, sarebbe rimasto intrappolato, come me, dalla droga. Col tempo quegli ideali si assopirono, causa quel veleno chiamato eroina, in cui pian piano stava finendo tutta la sinistra extraparlamentare.

Io con il compagno Pier Paolo trovammo casa (anzi fu Carmen che, tramite un’amica, trovò questo appartamento), nel quartiere di San Michele. Era abbastanza spazioso: tre grandi camere bagno e cucina. Io e lei fummo molto felici di avere una camera tutta per noi e spesso e volentieri – quando il lavoro in fabbrica e soprattutto i turni me lo consentivano – si rimaneva serate intere rinchiusi nella nostra intimità. In quell’appartamento diedi inizio ai miei numerosi guai con la cosidetta “giustizia”. Innanzitutto perché esso stava diventando una sorta di covo pseudo-brigatista, con opuscoli e libri inneggianti alla lotta armata. Ricordo una manifestazione della sinistra in onore di Giuliano Marras, un ragazzetto ucciso da uno “sbirro” (e fratello di un mio caro amico morto ammazzato a pistolettate lo scorso anno, nel 1991, per mano ignobile vigliacca e infame). A questa manifestazione non venne concessa l’autorizzazione, il che portò ad uno scontro violento con la polizia, con lanci di biglie con fionde, lanci di pietre e bottiglie molotov (queste le nostre armi), mentre la polizia con caschi, scudi, manganellate e lanci di lacrimogeni e qualche pistolettata aveva la meglio.

Il giorno mi risvegliai in un lettino del pronto soccorso del “SS. Trinità”, tutto acciaccato e con il polso destro fasciato e sanguinante, mentre alcuni poliziotti mi tempestavano di domande alle quali non rispondevo essendo un po’ frastornato (anche se fingevo di esserlo più di quanto realmente lo fossi, volevo riordinare un po’ le idee su quanto mi era successo per raccontare quanto mi avrebbe fatto comodo). Quindi rispondevo con «Non ricordo niente» e perdevo (fingevo) conoscenza. A quel punto, incavolati neri, chiamarono una volante, mi ci buttarono dentro (nel senso più crudo della frase) e con stupidità a sirene spiegate e velocità forsennata fui portato nella questura centrale.

Lì, stipati in calde stanze, riconobbi alcuni compagni e bastò uno sguardo per capirsi. Quando arrivò il mio turno, mi fecero entrare in una stanza, zeppa di poliziotti che mi giravano intorno (come le mosche che ronzano intorno al miele) e con ironia e con modi non proprio piacevoli mi domandavano: «Allora rotto in culo, rivoluzionario del cazzo, ricordi quanto ti è successo o te lo faccio ricordare io a modo mio?».  Io li guardai con odio e avrei voluto dire che per il momento il mio culo era ancora integro, ma non ci avrei giurato per il suo. Comunque era una provocazione continua, sino a quando riuscii a riferire la mia storiella.

Premettendo di essere uno studente-lavoratore e che con il mio motorino mi ero trovato, mio malgrado, coinvolto in un fuggi fuggi generale, mentre rientravo nella mia abitazione che si trovava nei pressi della manifestazione, dissi che ero stato investito da alcune persone, perdendo l’equilibrio e, patatrac, ero finito giù nell’asfalto privo di sensi. Mi sentivo venti o forse trenta occhi che mi scrutavano, poi – penso fosse il commissario – mi disse: «Senti un po’, coglione: come mai la tua camicia puzza così tanto di benzina ed hai tutti questi tagli nel polso? Non dirmi che stavi lanciando qualche bottiglia incendiaria!». E tutti lì a fare sarcasmo e a ridere.

Io (ormai ero lì da qualche ora, mi ero già abituato alla situazione) assunsi un atteggiamento sicuro, quasi spavaldo, e gli raccontai il perché la mia camicia puzzava di benzina: essendo caduto dal motorino, mi ero impregnato de] carburante fuori uscito dal serbatoio (anche se poi il motorino andava a miscela, ma gli odori erano gli stessi). E meno male che la residenza l’avevo sempre dai miei, perché avessi fatto lo sbaglio di cambiarla dove effettivamente abitavo, un’eventuale perquisizione avrebbe fatto scoprire qualche tanica di benzina e opuscoli o cose varie.

Dopo la verbalizzazione a macchina di quanto avevo detto, e dopo essermi letto e riletto il testo, firmai ed il commissario mi diede il benservito dicendomi «Vai pure e aspettati la chiamata dal magistrato (che mai arrivò).

Il giorno comunque arrestarono alcuni compagni che furono trovati in possesso di fionde ed i altri arnesi atti ad offendere. Tra questi PierLeone ed Adamo. Comunque ormai il pomeriggio lasciava spazio alla sera e mi ritrovai in Piazza Giovanni, dove incontrai Carmen che per tutto il giorno disperatamente mi cercava, e vedendomi con la mano fasciata si mostrò preoccupata. La rassicurai dandole le dovute spiegazioni.

Non passò molto tempo che ebbi la sgradita sorpresa, al rientro dalla fabbrica, di trovarmi la casa sottosopra. La prima stanza aveva il vetro smerigliato della porta completamente a pezzetti e la stanza era piena di sangue; le altre stanze – quella mia e quella di Pier Paolo – sembrava ci fosse passato un uragano. Tutto si trovava riverso nel pavimento e anche in cucina e nel bagno c’era un caos incredibile. Non riuscivo a capire, o tentavo di non capire quanto era così evidente. Una voce, anzi delle urla di Bobo fratello di Pier Paolo, mi riportarono alla realtà, e seppi quanto era accaduto.

Efisio e Lucia con il loro bambino Emiliano da un po’ di tempo erano nostri ospiti. Rientrando a casa e trovando Efisio chiuso nella stanza, Lucia gli rimproverava di non essersi preoccupato del figlio, quindi il battibecco assunse toni violenti e lei in un momento di rabbia sfoderò un pugno al vetro della porta mandandolo in frantumi, ma procurandosi delle brutte ferite alla mano e al braccio. A quel punto svenne e fu portata d’urgenza al pronto soccorso deve combinò il patratac perché interrogata dalla polizia disse d’abitare nel nostro appartamento e, per accertarsi di come erano avvenute le cose, fu mandata una pattuglia di agenti che, con loro sorpresa (e in seguito soprattutto la mia), trovarono nella camera di Efisio alcuni mozziconi di “johint”, sigarette fatte di un certo modo per fumare l’hashish, la marijuana.

L’indomani fummo interrogati io e Pier Paolo che era molto incavolato per il rompimento di balle della polizia, ma soprattutto era molto risentito con Efisio in quanto Pier Paolo allora odiava ogni tipo di droga e non voleva assolutamente che in casa se ne facesse uso. Facemmo notare alla polizia che ognuno di noi aveva una sua stanza (in comune c’erano solo il bagno e la cucina) ed era responsabile per quanto riguardava quello che si faceva o si trovava nella propria stanza.

Il giorno seguente fummo completamente infamati e calunniati dall’articolo dell’Unione Sarda che riportava testualmente questo titolo: “Scoperta fumeria in un appartamento del quartiere di San Michele dove si riunivano molti giovani per poter fumare I’hashish (grandissima infamia in quanto l’abitazione era frequentata da alcuni giovani della sinistra che, fino a quel momento, non avevano preso uno spinello tra le mani).

Efisio venne denunciato all’autorità giudiziaria a piede libero, ma quando rientrò nell’appartamento trovò le sue cose già raccolte e vicino alla porta d’uscita. Dopo una breve discussione prese il tutto e se ne andò. Rimanemmo però amici, e anzi in seguito ci trovammo a fare le stesse cose, sicché ogni tanto ci si vedeva. Purtroppo erano sempre cose deleterie e lasciò questa valle di lacrime una decina d’anni dopo stroncato da quella morsa, quel morbo maledetto chiamato AIDS.

Quanto successe nell’appartamento fece incavolare il padrone di casa che ci diede un po’ di tempo per lasciare quella casa. Si era la fine del 1977. Così appena smisi di lavorare alla SANAC, con un amico (frequentato in fabbrica) decisi di partire in Olanda perché avevo l’intenzione di acquistare una macchina usata al mercatino settimanale di Tilburk [Tilburg], dove costava pochissimo e dove pure era semplicissimo fare il passaggio di proprietà. Quindi ci armammo di tutto l’occorrente (sacchi a pelo ed altro) e si partì alla volta dell’Olanda. Anche stavolta Carmen rimase di stucco per questa mia decisione così improvvisa, e che comunque anche volendo portarla con me non c’erano i soldi sufficienti, a parte che ci sarebbero stati dei problemi con la madre (che già non vedeva di buon occhio la nostra relazione).

A Tilburk incontrai alcuni amici di Cagliari che si erano sistemati lì da un pezzo. Infatti, in quel periodo l’Olanda era la meta preferita dai giovani cagliaritani attirati dalla sua grande libertà nel modo di concepire la vita di ogni giorno, lontana anni luce dalla Cagliari provinciale e alienante che conoscevamo.

Incontrai Paolo che anzi mi ospitò a casa sua, il quale mi fece acquistare un Maggiolino dalla Wolksvagen di colore azzurro, ma così simpatica che era un piacere guidarla. La pagai, nel cambio italiano, ottantamila lire e ventimila le diedi a Paolo che, parlando l’olandese, fece da intermediario. Quindi con Roberto, il mio compagno di viaggio (che si chiamava proprio come me) intrapresi il viaggio di ritorno. Dovevo passare in Belgio per trovare mio zio Luciano (fratello di mia madre), che ormai si era stabilito definitivamente a Bruxelles.

Passammo alcuni giorni da lui, in una via chiamata ‘Rue Verte”, presso una delle zone più malfamate di tutta la città, frequentata da turchi, marocchini, italiani e spagnoli. Anche lì, non ascoltando le giuste raccomandazioni di mio zio, combinai una delle mie tante cazzate (ero una testa matta piena di vitalità e voglia di vivere). Mi “pizzicarono” assieme a Roberto in un grande supermercato mentre rubacchiavo – non avendo soldi per pagare – delle belle bistecche di manzo, prosciutto crudo ed altre cose. Dovevo fare così se volevo zittire il brontolio dello stomaco.

Fermati da agenti in borghese, fummo consegnati alla polizia e al commissariato. Fummo interrogati, ci venne preso il numero delle scarpe, controllati i denti, ecc. Fra me pensavo: «Stavolta ci sbattono in galera», ed infatti ci fecero entrare in una stanza con porta in ferro e sbarre alla finestra, piena di gente di ogni nazionalità. C’era chi parlava il sudamericano, chi l’inglese, o il belga, ecc. Sembrava di essere ad un simposio poliglotta. Gli unici italiani, io e Roberto, il quale essendo un giovane abbastanza assennato, viveva questa situazione come un problema e non faceva altro che ripetermi (con tono ossessionante): «Chissà cosa ci faranno? Sicuramente ci arrestano» e io lì che lo tranquillizzavo: «Macché! Vedrai che andrà tutto bene».

Comunque, dopo un’intera giornata passata in questura, la sera ci “invitarono” con tanto di foglio di via a lasciare il Belgio. Ci accompagnarono a casa di mio zio il quale, soltanto a sentire i passi nelle scale, intuì cosa era successo, dato che non eravamo soli a salire le scale. Infatti il suo passato di malandrino – negli anni sessanta era conosciuto nella malavita con il nomignolo di Luciano “Leone” – non lasciava spazio a nessun dubbio. A quel punto aprì la porta e imprecando in sardo disse: «Candu mai non depiasta fai de is tuas». Poi si mise ad interloquire, stavolta in belga, con i poliziotti chiedendo cosa era successo. Io guardavo zio e gli dicevo «Ma ita sta narendi?» e lui, soltanto con lo sguardo, cercava di farmi zittire, riuscendo con i suoi modi e dopo una sonora bevuta di “stella Artois” la buonissima birra belga, a ridimensionare l’episodio. Però il foglio di via era ormai eseguito e fummo costretti a lasciare il Belgio.

Andammo in Francia, girando prima la parte di Lillà e Robeux (qualcosa del genere), poi si decise di fare una puntatina a Parigi ma per una serie di circostanze negative non ci arrivammo (Parigi è una delle poche città metropoli che non ho ancora visitato). Conservo ancora la foto di questa piccola grande avventura. Di Paolo C. mi è rimasta soltanto la foto del suo Citroen 2CV (Diane) e dei suoi due nipotini. Lui morì, cinque anni fa, in un incidente stradale.

Rientrammo a Cagliari. Eravamo alla fine del 1977 e stava per cominciare il mio calvario: guai con Carmen, con la giustizia e con mio padre.

Infatti mio padre, vedendomi con un aspetto trasandato – capelli lunghi, barba incolta –, mi disse chiaramente che in quelle condizioni in casa non mi voleva, ma io non avevo nessuna intenzione di cambiare il mio look e chissà a quanti posti di lavoro sono stato costretto a rinunciare per questo motivo, ma sarei andato contro la mia volontà e avrei avuto conflitti interiori. Quindi, perché rinunciare a qualcosa che in quel momento mi dava gioia e mi faceva sentire me stesso? Quindi me ne andai di casa, e le notti le passai coricando nel mio Maggiolino. Frequentavo la Piazza Giovanni e per sbarcare il lunario, e anche perché incominciai a fumare spinelli, iniziai a vendere stecche di hashish.

Conobbi alcuni giovani universitari di Iglesias: Francesco, Roberto, Max, Pietrino, Lucia, i quali studiavano a Cagliari e sapendo che ero fuori casa mi invitarono a stare con loro in un villino al Poetto. Così dormivo nella mansarda e gli altri nelle camere che stavano giù.

Il fatto di abitare con altre ragazze non andava molto a genio a Carmen, anche perché si era messa in testa che Mary ed io filassimo assieme, cosa assolutamente non vera, in quanto Mary stava con Pietrino. Il rapporto con Carmen si stava pian piano deteriorando. Io poi cominciai allora a fare “storie” sempre più consistenti di hashish e la casa era sempre più spesso frequentata da “fumatori” e anche da qualche eroinomane.

Uno di questi abitava vicino alla nostra villetta, assieme a due ragazze: una molto bella, l’altra di meno, che aveva già una certa età, più grande di me a alla quale forse piacevo. Quindi la notte andavo da loro e notai che questi si bucavano, io invece continuavo a spinellare, in quanto mi dava una certa impressione vedere la siringa.

Comunque Tino stava con la bella Lorena, ed io venni raggirato con lusinghe che poi diventarono insidiose dalla meno bella ma decisamente più esperta e furba (Gisa, da cui venni letteralmente soggiogato). Lei mi diceva che avevo un modo e una vitalità nel fare all’amore che le piaceva tanto.

Comunque tutto questo mi fece rompere i ponti con Carmen che era la persona che amavo veramente. Mi vedeva in piazza con questa tipa, mentre cercavo di assumere un atteggiamento distaccato e indifferente. Gisa batteva il marciapiede. Mi abbracciava in piazza e questo mi dava un po’ fastidio anche perché era un po’ troppo possessiva. Quindi Carmen, indispettita e risentita per questi miei comportamenti poco corretti, anche lei si trovò un nuovo boy friend. Questo mi faceva inviperire e la odiavo soprattutto quando la vedevo con lui, ma la colpa era soltanto la mia e se c’era qualcuno da prendere a cazzotti ero io, che qualcuno definiva «un bravo ragazzo ma non troppo».

Comunque scoglionato e deluso, all’ennesima proposta della mia “amica” di farmi una “pera”, stavolta non opposi resistenza, nel senso che non mi importava niente anche perché mai e poi mai avrei potuto immaginare (anche nei miei peggiori incubi) che quel `buco” d’eroina fosse la spinta verso tante ma tante sofferenze, umiliazioni, degrado fisico e psicologico, anni di carcere, rapporti affettivi distrutti e poi…

Incominciavo ad avere la nausea di Gisa, ma purtroppo non dell’eroina. Ormai avevo raggiunto un grado di assuefazione, e anche se ci mettevo un bel po’ di volontà non riuscivo a farne a meno. La casa era diventata maledetta meta dei molti tossicodipendenti cagliaritani e dell’hinterland. Io in quel periodo non vendevo bustine, a questo pensava Tino molto più esperto di me. Io continuavo a vendere “spinelli”.

Conobbi in quella casa un siciliano trapiantato a Milano (ma poi, secondo me a Milano non c’era mai passato: forse intendeva Milazzo!). Partii con questo individuo per una storia di fumo. Arrivati a Milano, lui non sapeva più da che parte girarsi, quindi dovetti aggiustarmi alla meglio. A parco Sempione conobbi dei giovani che del “fumo” avevano fatto l’unica ragione di vita. Provai dell’hashish molto buono, quindi concordammo il prezzo e più tardi, fra intermediari e qualche “avvoltoio” che voleva fare il furbo, si concluse l’affare.

Il viaggio di ritorno fu stressante e pieno di imprevisti. Infatti perdemmo la coincidenza con il treno, ma soprattutto nel volo Alitalia della Malpensa fummo inseriti nella lista d’attesa e passai quasi tutta la notte nella sala d’aspetto con i panetti di hashish infilati sotto la cintura, con la finanza che ronzava intorno. Che notte! Da un momento all’altro mi vedevo a San Vittore.

Arrivai a Cagliari. Non vedevo l’ora di liberarmi dell’ingombrante pacco, cosa che feci subito dopo arrivato a casa di Gisa. L’affare si dimostrò però un enorme bidone, in quanto il fumo faceva letteralmente schifo. Figuriamoci il mio incazzo nel sentirmi preso per il culo e averci perso tutti i soldi che ero riuscito ad accumulare in mesi e mesi vendendo hashish.

Gisa mi rincuorò (a modo suo) dicendomi che sarebbe riuscita a piazzarlo ugualmente e così fece recuperando qualche soldo. Ma purtroppo a qualcuno non andò giù il fatto di essersi preso il bidone e per vendicarsi incendiarono il mio caro e simpatico Maggiolino, con tutto quello che si trovava dentro. Questa fu la classica goccia che fece traboccare il vaso, ne avevo le palle piene di Gisa e della sua cricca. Fu anche una fortuna lasciare quella casa. Infatti tempo dopo, Tino, Lorena e Gisa furono arrestati perché la Narcotici trovò, in una perquisizione, un bel po’ di roba.

Io e Gisa, alcuni anni dopo, ci ritrovammo per puro caso coinvolti in una vicenda di droga proveniente dalla Thailandia. Tino non l’ho più visto e non mi interesserebbe neanche più vederlo, in quanto diventò un delatore della polizia (nel gergo, una “carogna” e io odio questo genere di vermi, perché prima fanno il bello e cattivo tempo atteggiandosi a “puscher” ma quando gli capitano i guai con la “pula” scaricano le loro responsabilità e infamità sugli altri). Ed io per colpa di questi vermi ho fatto tanta di quella galera che se non ci fossero stati loro, oggi forse non saprei cosa vuoi dire Buoncammino, carcere e disperazione. Lorena, poverina, morì nei carcere di Sassari, San Sebastiano. La trovarono riversa nella doccia con una siringa nel braccio. Overdose.

I giovani universitari della villetta a fianco pian piano li persi di vista. Seppi soltanto, anni fa, che Roberto il migliore del gruppo, un giovane di carattere bonario, molto socievole e amico degli amici, con cui andavo molto d’accordo, fu arrestato in Marocco, alla frontiera, con un bel po’ di chili di hashish.

Comunque mi ritrovai per strada, senza soldi, senza macchina e un macigno sulla schiena che in gergo si chiama “scimmia”. Però non mi persi d’animo, anzi, nacque in me una sorta di stoicismo che mi aiutava moltissimo ad adattarmi alle avversità.

A quel punto optai per ritornare a casa dai miei genitori, sempre che… Mio padre – era lui il problema – non oppose alcuna resistenza, anzi era felice di aver ritrovato un figlio, ma sempre dell’idea che in casa ci dovevo stare con i capelli molto corti. Io inventavo le scuse più assurde pur di non andare dal barbiere, e così nel frattempo la mia permanenza in casa s’allungava e avevo così l’opportunità di riposarmi fisicamente e psicologicamente e di riordinare le idee ed abbozzare qualche programma, anche perché sapevo con certezza che la mia permanenza in casa dei miei non poteva durare troppo.

Anche Tore diventava già un ragazzetto, avendo già compiuto i quattordici anni ed aveva un carattere così turbolento che si ficcava sempre nei guai. Secondo me era affetto da cleptomania, infatti questo impulso morboso lo induceva a rubare. In Sant’ Avendrace era conosciuto come un ragazzino terribile e a vederlo non sembrava affatto, così gracilino, quei capelli sul biondiccio che scendevano a caschetto su un visino dalla carnagione chiara e lentigginosa. Sembrava un boy nordico. Comunque ogni qualvolta nel quartiere spariva qualcosa, qualche stereo (soprattutto quello del parroco di Sant’ Avendrace in quanto si abitava dietro la chiesa), la nostra casa era sempre un via e vai di gente in cerca di Tore e di qualche oggetto che stranamente aveva preso il volo.

Mi ricordo che faceva coppia con Sandrino “riccioli d’oro”, chiamato così per la sua folta chioma ricciuta e bionda. Erano una coppia di pesti. Anche il professore delle medie decise per un loro allontanamento in quanto riteneva la loro presenza più deleteria che altro. Oltretutto, così piccoli e già fumavano gli spinelli ed ebbi già sentore di qualcosa di più grande.

Anche la mia permanenza in casa ebbe fine. Infatti mio padre, ormai accortosi che i capelli non avevo nessuna intenzione di tagliarmeli, mi cacciò. Così mi ritrovai per la strada. I primi tempi, di nascosto da mio padre mi facevo dare dalla mamma qualche coperta e dormivo nel sottoscala di casa o in uno spazio ricavato dopo gli ultimi piani. Poi Tore mi avvisava quando papà usciva, così ne approfittavo per fare una rinfrescante doccia e cambiarmi.

In seguito trovai ospitalità in casa di Mario, in un appartamento della zona della Marina, umido e vecchio. Quindi per poter vivere e dare da mangiare alla “scimmia” – ormai l’assuefazione aveva raggiunto certi livelli – fui costretto a spacciare eroina. Ma come procurarsela?

Conobbi Davide che aveva dei cugini a Genova, con certe conoscenze nella malavita locale. Così dopo essermi procurato qualche soldo, indirizzo, ecc. partii alla volta della Liguria. Arrivato a Genova non mi fu difficile trovare la via anche perché era molto vicino al porto. Trovata l’abitazione che cercavo, un pochino titubante bussai alla porta e mi rispose a voce roca e malaticcia di una donna anziana che mi chiedeva: «Chi sei? E chi cerchi?». Riposi: «Sono Roberto un amico di Davide, vengo da Cagliari e cerco Giorgio e Sandro».

A quel punto la porta si aprì. Già il fetore che si respirava nelle scale era qualcosa di vomitevole, ma una volta dentro mi resi conto del degrado di questa casa, ma che dico? di questa grotta. La donna si chiamava Vincenza ed era di Cagliari ma da tantissimi anni viveva a Genova, sposata e separata con un genovese. Poverina, mi faceva una pena, un po’ alcolizzata e con grossi problemi alla vista. Le portai dalla Sardegna alcuni nostri prodotti, della salsiccia secca e del pecorino.

Nel frattempo arrivò Giorgio. Mi presentai spiegandogli da chi ero stato mandato e il motivo. A quel punto esclamò: «Belin su che ci si muove!». Quindi andammo in alcuni quartieri: Via Prè e altre vie del centro storico, sino a un bar di Piazza De Ferraris, dove incontrammo il “marsigliese” che ci fece avere quanto ci serviva.

La notte la passai a casa di Giorgio e l’indomani, dopo aver lasciato un po’ di roba all’amico, ripartii dicendogli che ci saremmo visti il sabato successivo. Infatti la roba che portavo giù, non essendo tanta, mi durava all’incirca cinque-sei giorni. Tutto questo durò per alcuni mesi, sempre allo stesso modo. Il sabato mattina prendevo l’aereo, concludevo la storia e la domenica sera prendevo la nave, e lunedì mattina ero a Cagliari. Vincenzina si affezionò molto a me e ogni volta che partivo mi riempiva di raccomandazioni. Be’, era evidente che le faceva piacere quanto le portavo ogni settimana dalla Sardegna… mi voleva bene come a un figlio.

Certo c’era una bella differenza fra Cagliari, dove certe cose si facevano con una certa discrezione e con un po’ di vergogna, e Genova, dove la perversione, l’indiscrezione e la prostituzione femminile e maschile raggiungevano livelli altissimi e il perno, il nocciolo di tanto degrado era la ricerca di soldi soprattutto per potersi drogare. Ho visto persino una vecchietta che poteva dimostrare settanta e più anni, sfatta nel fisico e nel morale, come veniva utilizzata dai tossici della zona per bucarsi, ma dovevi contraccambiare lasciandole alcune linee di roba che le mettevano nella prima siringa che trovavano in terra…

Io ero allibito nel vedere queste cose, e soprattutto quella vecchietta a cui porgevano la siringa. A volte la fregavano dandole soltanto acqua, ma lei non si accorgeva subito dell’imbroglio, si iniettava per intramuscolo o sottocute perché non aveva più vene, erano atrofizzate e bruciate da anni e anni di tossicodipendenza.

Rimasi sconvolto da quella esperienza e incominciai a sentire nausea di eroina e di tutto quello che girava intorno ad essa: ma purtroppo i miei buoni propositi davanti ad una bella “pera” andavano a farsi benedire. Comunque anche l’avventura genovese stava per finire. Dopo una lunga serie di arresti non riuscivamo più a trovare le persone giuste. Quindi la fretta di concludere era tanta. Giorgio intanto era finito a “Marassi carcere” per una rapina conclusasi con un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Quindi, come altre volte m’era capitato di non trovare Giorgio e “chiudevo” con il fratello, stavolta presi, con Sandro, appuntamento con due persone che lui conosceva. Ci si doveva vedere nelle scale di una chiesetta con l’avvertimento che, in ogni caso, «Belin Sandrino se fa un passamano veloce perché è pieno di madama, Ok?». Mi rivolsi a Sandrino e gli dissi: «Sento puzza di bruciato», e lui con aria serafica: «Ma va, belin! Nessuno qui si permette di fare uno sgarro ai figli della Vincenza». Ciò mi tranquillizzò, anche se il mio intuito non lo era del tutto.

All’ora stabilita andammo nel posto prestabilito, ed appena ci videro salire le scale loro incominciarono a scenderle e come si fu vicini uno di loro esclamò: «Dai belin! fuori i soldi e te la roba». Ci fu questo scambio velocissimo e ognuno per la propria strada. Ma dentro di me sentivo che c’era qualcosa che non andava. Dissi a Sandrino di fermarci un momento. Mi guardava con perplessità. Aprii il pacchettino e assaggiandone il contenuto mi resi conto del bidone che ci avevano appioppato. Ci guardammo e come una bomba pronta ad esplodere, ripercorremmo a ritroso quelle maledette scale ritrovandoci in viuzze e bar. Chiedemmo in giro se avessero visto passare quelle due persone. Io ero molto agitato e non so, incontrandole, cosa sarebbe potuto accadere.

Dopo ore e ore di appostamenti e lunghe camminate, vinti dalla stanchezza rientrammo a casa, dove raccontai tutto alla Vincenza, la quale uscì completamente dai gangheri, dicendo che era un’offesa, un insulto alla sua persona sì, dal passato burrascoso ma sempre coerente fra il modo di pensare e di agire. Era già tardi ma questo a lei non importava. Mandò il figlio a cercare una persona che dopo un po’ arrivò e, lasciati da parte i convenevoli, arrivò subito al sodo. Chiese a Sandrino i nomi di queste persone e si congedò da noi assicurando alla sua madrina (appunto Vincenza) che avrebbe risolto la questione. Lei ribadì che ne aveva fatto una questione personale e che «fillu miu» (così mi chiamava) non si sarebbe mosso da casa fino a che quegli individui non fossero comparsi davanti a noi.

Il figlioccio di Vincenza mise in subbuglio la mala genovese e venne a sapere che i due si erano dati “uccel di bosco” verso la Svizzera. A quel punto, e passata quasi una settimana dal fatto, decisi di rientrare a Cagliari, anche perché Sandrino cominciava ad assillarmi perché facessi qualche “lavoretto” per poter guadagnare un po’ di soldi dicendomi che la “dritta” che aveva era sicura e redditizia.

Tra me pensai che sarebbe stato meglio rientrare a Cagliari; non avrei voluto, con la “sfiga” che ultimamente mi ritrovavo, fare la sgradita conoscenza del “carcere di Marassi”. Così, salutai affettuosamente Vincenza che, veramente commossa, mi augurava tutto quello che il suo animo poteva esprimere e, come mamma premurosa, mi riempì di consigli e di piccole metafore di vita che tuttora la mia mente non ha cancellato, e l’indomani mi imbarcai alla volta di Cagliari, senza rimpianti.

Anni dopo seppi della morte di Vincenza. Sandrino, malato di AIDS, fu rinchiuso in un manicomio criminale, in quanto ferì due guardie giurate che piantonavano un istituto di credito. Di Giorgio le ultime notizie lo davano malato e scontando una condanna a undici anni per una serie di rapine a mano armata. Sono finiti tutti male; che destino crudele il loro!

Rientrai a Cagliari e lasciai anche la casa di Mario e con qualche “trassa alla Roberto” riuscii ad essere nuovamente ospite dei miei. E come al solito queste sporadiche apparizioni mi aiutarono a riposare la mente e il fisico dalle mie stressanti avventure. E poi avevo voglia di Carmen, oltretutto sapevo che con il suo boy non andava tanto bene. È certo che si era messa con lui per vendicarsi degli affronti e delle umiliazioni subiti. Comunque niente e nessuno poteva ostacolare il nostro amore, c’era qualcosa di sovranaturale che ci univa.

Spesso ci vedevamo e io più spesso cercavo di incontrarla anche se facevo di tutto per far sembrare l’incontro puramente casuale. Tante volte, senza che lei se ne accorgesse, la pedinavo e sapevo tutti i movimenti, quindi non mi era difficile apparirle davanti. «Oh, chi si rivede, come mai da queste parti? Posso accompagnarti?». Comunque ci si rimise insieme. L’amore che provavo era troppo forte per finire in un modo così banale. Eravamo gelosi l’uno dell’altro. Lei mi accusava di essere stato con alcune ragazze: Lucia, una sua amica che a me non è mai piaciuta. Agnese ancora meno e verso cui, semmai, provavo disprezzo, non potevo soffrirla soprattutto per i suoi modi di fare quando aveva un po’ di roba. Francesca, questa forse è la storia più assurda in quanto era una ragazza che io intravidi un paio di volte. Lei lavorava nello stesso negozio di abbigliamento dove era anche mia sorella. Una serie di coincidenze e delle strane associazioni non facevano altro che accrescere i dubbi, anzi la certezza assoluta… Dimenticavo Mari, la ragazza di Iglesias, un’altra love story appioppatami. Ho avuto qualche altra avventura senza significato e di breve durata: il tempo di fumare qualche sigaretta. Ma accusarmi di essere stato con delle ragazze non era giusto, mi faceva incavolare moltissimo anche se capivo lo stato d’animo di Carmen che tuttora mi recrimina queste pseudo avventure.

Non sono mai stato uno stinco di santo, ma quando qualcosa so di non averla fatta e mi si accusa del contrario mi fa perdere il lume della ragione, tanto che molte volte meditavo stupide vendette del tipo: già che mi si accusa di questo tanto vale che lo faccia.

I giorni e i mesi passavano. Ormai ero diventato uno dei “puscher” più conosciuti e la mia zona era Piazza Giovanni, mi comprai una vecchia Diane di colore marrone.

I miei intanto cominciavano a sentire (o a captare) qualche cosa di strano nei miei comportamenti e questo umore mutevole che era condizionato dal fatto di trovarmi in crisi d’astinenza oppure di essermi già “bucato” e perciò – a seconda dei casi – fisicamente strano con qualsiasi linea di febbre, sudorazioni strane, caldo e freddo e tante altre piccole cose (così per le crisi d’astinenza), oppure in completo benessere, quando invece mi bucavo.

Comunque questo alternarsi di umori incominciava a insospettire i miei genitori, senza però che trovassero una completa spiegazione. Ciò un po’ per ignoranza, anche perché in quel periodo l’argomento “pianeta droga” era poco approfondito dai mass-media e non si riusciva a dare al problema la giusta dimensione. E chissà, se già da allora ci fosse stata una grossa campagna di prevenzione per quanto riguarda l’uso di certe droghe e le patologie che ne seguivano, forse oggi la realtà sarebbe meno drammatica.

Il cruccio maggiore era allora, in casa, Tore “s’olzaesu”, a parte il fatto che rubava come un forsennato insieme all’amico Chicco e ad un altro amico del cuore, Sandrino “casco d’oro”, l’unico oggi ancora in vita ma in carcere a scontare una condanna a nove anni per spaccio di stupefacenti. Avevo capito che, oltre allo spinello, ogni tanto si bucavano, ed erano dei ragazzini di neanche sedici anni. Addirittura Tore mi fregava la roba, dato che sapeva dove la nascondevo. In seguito mi comprai anche la moto, un “enduro” Cagiva 350, con la quale scorrazzavo in lungo e in largo per poter accudire ai miei “impegni”. Ebbi però la sfortuna d’usarla appena, e forse neanche, un mese: poi un brutto incidente mi rovinò la gamba destra, soprattutto il calcagno subì una bruttissima frattura (la mia moto rimase completamente distrutta). Dulcis in fundo mi beccai anche l’epatite del tipo B (virale), quindi mesi e mesi d’ospedale, operazioni alla gamba, trasferimento in ospedali più idonei a un certo tipo di operazioni chirurgiche (ad Iglesias).

Purtroppo anche Sant’Avendrace cominciava a contare un numero crescente di tossicodipendenti: mio fratello Tore, Chicco, Sandrino, Antonello, Roberto, Sandro o tanti altri.

Avessi dato ascolto un po’ più a quanto mi proponeva Sandro e anche suo padre che mi vedeva sempre disperato ed indaffarato alla ricerca di soldi ed altro… Sandro era stato sempre un bravo ragazzo che si era messo d’impegno ad uscire da quella merda che ogni giorno ci stava sommergendo. Suo padre, Tonio, era una persona così umana e in gamba che se tanti tossici lo avessero avuto come padre sicuramente non avrebbero fatto la fine che hanno fatto. Ora Sandro fa una sorta di educatore ed aiuta chi ne ha bisogno. Io, quando lo vedo, mi sento molto felice e orgoglioso di avere un amico come lui. Ma andiamo con ordine: di lui parlerò più avanti.

Carmen, (anche perché c’è tantissima gente che proprio non riusciva a farsi i cazzi suoi!) ebbe sentore di un mio ennesimo viaggio in Olanda assieme ad Aldo, che avrebbe dovuto comprarsi la macchina al solito mercatino di Tilburk, e a Mariano, un mio amico che ha lasciato questa vita terrena circa due mesi fa stroncato dall’AIDS.

Ognuno di noi aveva qualche soldo, quindi si decise di portare anche giù un po’ di roba. Chiesi a Carmen se le sarebbe piaciuto venire con me, non aspettava altro e poi non trovavo giusto che ogni qualvolta mi allontanavo da Cagliari lei dovesse stare qui ad aspettare il mio ritorno. Quindi stavolta il mio amore l’avevo al mio fianco ed era molto bello poter viaggiare assieme.

Con l’aereo si raggiunse Amsterdam e ci ospitò un mio vecchio amico cagliaritano che da alcuni anni abitava ad Amsterdam, in un vecchio palazzone occupato da giovani break. I primi giorni li passammo girando la città. Mi ricordo di certe scivolate a causa delle strade ghiacciate mentre vagliavamo alcune possibilità di acquistare della roba buona. Si partì anche a Tilburk il giorno del mercato dell’usato e Aldo acquistò una Citroen GS abbastanza nuova e funzionante, sicché si ritornò ad Amsterdam in macchina.

La notte con Aldo, Roberto ed io, che mi presi la responsabilità di custodire tutti i soldi, si andò nelle casa dei Surinami, un ritrovo per questa gente di colore dove l’accesso era consentito solo a loro. Era tutta gente altissima, con un fisico possente e massiccio. Ne trovammo uno (che era assieme alla sua donna). Ci presentammo a modo loro, sbattendo il palmo della mano di entrambi poi stringendocele unendo i pollici. Secondo me avevamo trovato il Suriname più figlio di puttana di tutta Amsterdam (o forse ce n’erano di peggio). Capì subito il perché della nostra presenza in quel posto e non si perse in preamboli chiedendoci quanti soldi avevamo.

Io ormai di bidoni mi ero fatto una certa esperienza sia nel subirli che nel farli, infatti notando la mia titubanza cercava con alcune battute di mantenere su il morale e aveva dei modi di fare delle trasse del tutto spontanei. A me diceva: «Wonderfool Amsterdam, What is name?» ed io: «Me name is Roberto Ok». «Me nome is Robert you name Roberto Ok Ok», mi riempiva di pacche sulle spalle. Nel frattempo mi faceva odorare e assaggiare della roba che aveva lui ed effettivamente doveva essere di buona qualità e riuscimmo a metterci d’accordo per la quantità, ma c’era qualcosa che mi puzzava in quanto eccedeva in piccole “trasse” non convincenti. Anche perché, come suoi dirsi, tutto il mondo è paese.

Così, saliti sul Citroen GS di Aldo ci recammo nella “slat” di Roberto per concludere l’affare, ma una volta arrivati sotto casa mi disse che si era in troppi e lui avrebbe avuto paura di qualcosa di losco nei suoi confronti. Perciò avrebbe lasciato la moglie, come una sorta di garanzia, giù in macchina con noi e con lui salì Roberto (l’amico olandese). Sapendo che su vi era anche Mariano non mi preoccupai più di tanto, quindi diedi la “mazzetta” a Roberto e salirono. Ma passati una decina di minuti, non stavo più nella pelle e decisi di salire anch’io. Trovai difficoltà nell’aprire lo sportello della macchina e venni letteralmente trattenuto dalla donna che mi diceva che i miei amici ormai stavano scendendo e, una volta accompagnati loro da dove li avevamo presi, avremmo potuto sballarci come ci pareva. Non finì la frase che vidi Roberto e il giovane di colore scendere da casa per salire in macchina. Chiesi subito a Roberto: «Allora, tutto a posto? L’hai provata?», «Sì, e anche buona, Ok!».

Accompagnammo queste due persone dove le avevamo prese e, dopo averle salutate, il Suriname mi chiamò in disparte e mi regalò un piccolo involucro con un po’ di roba in quanto vedeva che ero già in crisi d’astinenza. Questo mi fece subito dubitare che qualcosa era andato storto, altrimenti non mi avrebbe regalato niente. Salì in macchina con un brutto presentimento. Dissi ad Aldo di pigiare sull’acceleratore e continuavo a chiedere a Roberto: «Ma la roba l’hai provata?», «Sì, ed era buona, Ok!». Non vedevo l’ora di raggiungere l’abitazione.

Arrivammo a casa, feci le scale a quattro a quattro, non feci in tempo a bussare che Mariano era già sulla porta con le lacrime agli occhi e singhiozzando mi ripeteva in continuazione: «Non è roba, s’hanti fattu unu paccu!». Io gli chiesi se lui era presente in cucina, mentre Roberto e il negro pesavano la roba. Mi rispose che Roberto lo invitò a stare nella camera. Gli dissi: «Sei un coglione, i soldi erano nostri e avevi tutti i diritti di stare in cucina a controllare la situazione». Ero molto nervoso, pensavo che il negro si sarebbe potuto mettere d’accordo con Roberto per farci il bidone, ed infatti come Roberto arrivò su lo aggredii dicendogli di tirare fuori i soldi, altrimenti lo avrei picchiato. E sapeva che lo avrei fatto, in quanto mi conosceva dai tempi di Sant’Avendrace e non avevo paura nel muovere mani e piedi. Gli perquisii tutta la casa ma di soldi niente. Carmen, con la quale coricavo nella stanza adiacente alla cucina, mi disse che sentiva contare dei soldi e parlare l’olandese come se stessero dividendo il gruzzolo, ma purtroppo non c’era la certezza assoluta, quindi alle cinque del mattino dovevamo sloggiare – avevamo le mani legate e tuttora – passati più di dieci anni – questa storia non mi è scesa giù. Roberto è una vita – da allora – che non lo vedo e non so che fine abbia fatto.

Con la macchina di Aldo si prese la strada del ritorno con grande delusione. Chiesi ad Aldo di fare una capatina a Bruxelles per poter recuperare qualche soldo da mio zio Luciano. Infatti con grande sorpresa da parte di zio ci presentammo a lui. Mi rimproverò, dato che, l’estate precedente, quando venne in vacanza in Sardegna, aveva saputo che non facevo altro che combinare guai, e facendo perno sulla sua passata esperienza, mi disse: «Se vuoi salvarti devi mollare tutte queste amicizie del cazzo, le quali ti faranno conoscere un unico brutto posto».

Quindi mi propose l’apertura a Bruxelles di un piccolo ristorante. Lui avrebbe continuato a fare il suo lavoro che è quello di camionista. Io gli risposi che ero innamorato di Carmen e non mi sentivo di lasciare Cagliari. E lui: «Tanto meglio, porta anche la tua compagna perché c’è da lavorare ma guadagnerai anche bene».

Promisi a zio che avrei sistemato alcune cose a Cagliari e sarei andato su da lui. Infatti prendendomi in parola opzionammo con un bel po’ di soldi questo ristorante che in quel periodo era gestito da un napoletano. Ma purtroppo l’eroina era come una zavorra, una palla al piede e non riuscivo a mollare quel maledetto giro. Fui molto rimproverato da zio Luciano sia per la mancata parola sia perché ci perse un bel po’ di franchi belgi. Gli chiesi se era possibile passare la notte da lui, mi disse che non c’erano problemi, ma alle cinque del mattino dovevamo sloggiare in quanto anche lui doveva andare al lavoro. Eravamo tutti molto stanchi e stavamo anche male fisicamente (a parte Carmen) in quanto la crisi di astinenza cominciava a farsi sentire.

La mattina presto ci preparammo per partire e notai sopra un mobile la mia fotografia – un primo piano- abbastanza grande veramente molto bella: un mezzo profilo con i capelli lunghissimi e con il fumo che dalla sigaretta mandavo in alto. La presi in mano, la guardai e, rivolto a mio zio, gli dissi: «Ma questa la tieni sempre in mostra?». Si mise a sorridere e mi rispose: «Ero molto io, ma tu non sei da meno, e per l’ennesima volta e per una volta almeno dai ascolto a chi ne sa più di te e ne ha passato di cotte e di crude: molla finché sei in tempo. Ricordati che questa vita che hai scelto è come una morsa che, giorno dopo giorno, ti stritola e ad un certo punto non potrai più uscirne».

Caricati i bagagli nella Citroen GS di Aldo si intraprese il viaggio di ritorno. Anche se eravamo a corto di soldi per la benzina avevamo deciso di fare come solitamente fa chi vuol viaggiare a spese altrui, con il bidone in mezzo alla strada fermando le macchine di passaggio e dicendo che si era rimasti a secco. Comunque il viaggio andò abbastanza bene.

Un po’ prima del traforo del Monte Bianco vi era un distributore con self service e decidemmo di fermarci a mangiare qualcosina. Fatto questo, togliendo la macchina dal parcheggio Aldo prese in pieno un fosso che, ricoperto dalla neve, non aveva visto. A quel punto la macchina si fermò e non volle sentirne di rimettersi in moto. Controllammo tutto quello che era nelle nostre possibilità, ma non ci fu niente da fare. Quindi mettemmo la macchina in una specie di parcheggio e ci organizzammo per poter passare la notte, anche perché la temperatura scendeva notevolmente ed eravamo in mezzo ad una bufera di neve.

Passammo la notte, io e Carmen, dietro, avvinghiati l’uno a l’altra cercando calore con i nostri corpi, invece Mariano e Aldo davanti coprendosi con tutto quello che avevano a portata di mano: giubbotti, maglioni, ecc. Arrivata la mattina ci mancava poco che ci trovassero semiassiderati.

Trovammo il distributore e il self service già in funzione e decidemmo di fare una abbondante e calda colazione, anche se eravamo a corto di soldi. Ma non sfuggì all’occhio clinico di Mariano la cassa del chioschetto mezzo aperta. Con aria furtiva allungò le mani, portando via un bel mazzetto di franchi svizzeri.

Ritentammo per l’ennesima volta di mettere in moto la macchina, ma inutilmente. Quindi si tolse tutto quanto ci poteva servire, facendo tutto con una certa fretta, soprattutto per allontanarci dal self service all’incirca tre-quattrocento metri ed incominciammo a chiedere passaggi soprattutto ai moltissimi TIR che transitavano frequentemente. Arrivammo in un grandissimo self service strapieno di TIR. Quindi chiedemmo all’autista se poteva darci uno strappo. Il problema era che ognuno di noi doveva salire da solo nel TIR. Quattro persone, quattro TIR…

 

Roberto: a Santu Tenneru, simbolo e patrono di una generazione

È stato nei tardo novembre del 1992 che Roberto se ne è andato. Alla messa di congedo, a Sant’Avendrace – sfidando il paradosso delle apparenze – fu scelto quale patrono dei giovani del quartiere: uno dei quartieri che, nella storia recente della città, è stato maggiormente esposto agli assalti dei trafficanti senza scrupoli ed ha pagato, coi suoi ragazzi, i prezzi più alti ed amari.

Dopo Tore se n’è andato lui, e l’anno successivo Carmen, dolcissima Carmen. Rimane la loro bambina, ed è amata come una “principina” da chi, nella più grande famiglia, l’ha accolta.

Propizio era stato l’incoraggiamento a Roberto – che soprattutto nei mesi di ricovero nella mansarda, agli “infettivi”, si faceva trovare spesso intento a scrivere cose… misteriose nel suo bloc-notes – a buttar giù il racconto della sua storia di emarginato, testimonianza di un’epoca, di una generazione. «Così la pubblichiamo», era stata la promessa, ed a lui l’idea era piaciuta.

In capo alla “autobiografia”, una lunga serie di aforismi, proverbi e massime, di preghiere e poesie, di spiegazioni di vocabolario, secondo la buona abitudine che è dei ragazzi i quali, soprattutto nelle esperienze carcerarie, passano li loro tempo leggendo, ricopiando, immaginando, fissando sulla carta pensieri e sentimenti. Cosicché, qui, qualcosa è sua, qualcos’altro è di altri autori che l’hanno interessato, i più vari, da Alziator a Catullo, da James W. Angell a Zucchero… Eccone un breve stralcio.

Fumi lo spino come un ribelle / fai l’amore sotto le stelle / ma non bucarti mai la pelle.

Quando una situazione si deteriora, è più facile trovare i colpevoli che le cause e i cospiratori piuttosto che i rimedi.

Una nazione senza libere elezioni è una nazione senza voce, occhi e braccia.

Proverbio rurale: «acqua passata non macina più».

 

Frustrare è molto usato in psicologia nei senso di causare uno stato di insoddisfazione.

Se il tuo avversario è migliore di te, perché combattere? / Se tu sei migliore di lui, perché combattere? / Se è pari a te, capirà ciò che capisci tu / e non ci sarà bisogno di combattere.

Toccare il viso di un bimbo, il pelo liscio di un cane, i petali di un fiore, la superficie aspra di una roccia mette in moto nuove onde cerebrali. Toccare è comunicare. (James. W. Angell “Yes is a world”)

Ogni frammento di canzone è per qualcuno lo specchio di un attimo passato.

Non c’è rumore più forte di quello che cerchi di non sentire.

A volte, per sfuggire alla noia, ci si ficca in noie molto più fastidiose.

L’arte è come l’amore: un piccolo investimento per un grande profitto.

L’amore e l’arte sono dentro di noi. Impossibile sfuggirli.

Continua pure a cuocerti nel tuo brodo. Libertà è anche camminare sotto la pioggia.

Parca: ciascuna delle tre dee che, secondo la mitologia antica, tenevano il filo della vita di ogni uomo, e una di esse lo tagliava. “La morte personificata”.

Caro Gianfranco mi hai lasciato questo libro, ma tu nel frattempo hai lasciato questa vita terrena che giorno dopo giorno t’ha distrutto. Ora sei nelle mani del Signore sicuramente contento di esserci. Ed io oltre a qualche preghiera conserverò questo libro nel ricordo della nostra amicizia. Ti dico ciao Gianfranco perché un giorno ci ritroveremo.

Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io.

Diafano = trasparente.

Irremissibile = che non si può perdonare. Con reverenza = ossequio, rispetto.

Scende il crepuscolo, le ombre della sera sembrerebbero prendersi giuoco di me.

Dalla bocca del lupo… la luna ancora pallida nascosta dietro un alone di nuvole. Vorrebbe e riesce ad essere il regista di questi giochi che riflette nei muri: a volte assume atteggiamenti raffigurandosi in figura ed immagini piacevoli a vedersi, altre volte mi fa rivivere cose poco piacevoli del mio tormentato passato. Alcune volte mi concentro e rimango quasi ipnotizzato nel vedere le meraviglie di un cielo stellato di quel puzzle di nuvole rischiarate dalla luna. Come è bello il cielo, la libertà, l’amore e come dolce toccare anzi sfiorare con leggerezza il viso della mia dolce Francy.

O mio Signore, ascolta questa preghiera. Signore aiuta Carmen e Francesca in questo difficile momento, Signore fai pur continuare a soffrire me! ma dà a loro tranquillità e salute. Grazie mio Signore.

Ho realmente vissuto, il tempo trascorso, come ricordo? Come ho potuto percorrere una strada così difficile e solitaria, trascurando quei immensi tesori che avevo vicino, come ho potuto? Ricurvo, triste e solo (con le mie illusioni) sono stanco… Perché non mi fermo? Forse, nutro ancora qualche speranza. Ne scaturisce una forza nuova, tanto maggiore quanto più lungo e duro è il cammino già percorso!

Follia di esistere. Solo la morte porrà fine alle vicissitudini che mi angosciano! Lo so… È così! Nel vuoto senza tempo? Chi può rispondere con certezza a queste mie domande, risponda! Ascolterò e valuterò anche le cose più minute. Questo non è un segreto… Sperare, credere, confidare sempre, amare, soffrire, patire in silenzio…

Qui, la misura del tempo è dura! Sto meglio, fidando nella bellezza del futuro; “che illusione”. Sarebbe un lento suicidio, se mi spaventassi ora: tutto è ormai già accaduto! Finalmente amo la vita come conviene, ponderando i pro e i contro.

Scrivo come penso, o penso come scrivo? Non me ne rendo conto, ma chi dà origine a pensieri e parole me li suggerisce. Forse il mio io!

Ti ho baciato col soffio dell’amore e un dolce tepore ha pervaso il tuo corpo. Lì per lì, non t’accorgerai, ma il calore ti scalderà finché vorrai e ne sentirai bisogno. Tienilo in serbo per non estinguere, preservalo col fervore dell’amore.

Qui mi occorrono energie se voglio sopravvivere all’ombrosa esperienza ormai vissuta. Come un cieco, brancolando qua e là senza domani. Quante contraddizioni ho vissuto nel tempo ormai andato. Ma quel che è fatto è fatto.

Ti amo anche perché questo sentimento è più potente dell’odio.

Mi dai gioie e dolori: questo è il patto che ci avvince per stare insieme.

Che sofferenza. Questo peso che mi hanno imposto al mio debole corpo, è enorme!

A Carmen con amore. Non può essere che una pena, ma qual è, la mia colpa? Chi sono? Perché soffro? Non c’è niente che possa rallegrarmi. La sofferenza l’ho ereditata, né io invento le lacrime. Penso con nostalgia e colpa alla mia donna e alla mia bambina. Anche se ci doliamo a causa d’altri, per amore, ci accresciamo di continuo, sperando nel futuro migliore.

Il dolore che arde nel mio cuore, a volte sboccia come una rosa tra erbacce e tempesta. Ma talvolta la rosa, per non soffocare, si difende irrobustendo le spine. E mi auguro che per qualcuno siano fatali…

Forse non so più amare? Talvolta mi arreco malessere da solo? Il mio cuore soffre e pretende amore: altrimenti il male mi annienterebbe. Sarà vero che il grande amore nasce dal dolore? Carmen, sei stupenda, ora so che soffri ed ami insieme a me. Appresso, potrò goderti veramente appieno? Nel mio cuore c’è il desiderio di averti sempre con me. Amami e ti amerò!

Per quell’infame “Ciuffo”. Vigliaccamente: mi hai accusato, mi hai tolto la libertà; ma sappi che lo “schiavo” sei tu, incatenato ben saldamente alla tua falsità.

È notte, sto lì, nella mia branda, avvolto dai miei malinconici pensieri. Sento il sapore salmastro delle lacrime, ma una vocina mi dice: «papà, non spanderle inutilmente ma riponile dentro, per usarle al più presto quando mi riabbraccerai. Sappi che io ti voglio sempre bene».

Al mio “tesorino”. Quel tempo non è più! Restano tenui ricordi che vestono l’esile immagine di un amore forse vissuto male.

Forse! Ma no! senz’altro nella vita ho scelto sempre scorciatoie! Farà parte del mio carattere un po’ irrequieto. Nessuno me lo ha imposto. Per me non c’è tranquillità, l’insoddisfazione è mia consorte… mi attraeva abbastanza per decidermi a star meglio. E tutto il suo amore mi è stato offerto. La colpa è solo mia, Dio come ho fatto a non apprezzare qualcosa di così grande e bello.

La mia mente è stanca, sento che ruota, lenta come se qualcosa mancasse. Sarà meglio pensare niente di niente.

O mamma! la tua immagine è vita per me. Il tuo amore è senza confini e senza macchia. Tu stessa sei luce e io non conosco l’oscuro. Mamma non soffrire per me. Ma sorridi perché io ti riabbraccio.

Io scrivo per te queste poche righe affinché il tuo ricordo non abbia mai fine. Cercavi qualcosa di speciale che ti portasse via da questo mondo dove regna solo la monotonia e quando quella notte scese con le sue fredde mani ti accorgesti che tutti i tuoi tentativi erano stati vani. Ti chiedesti che senso avesse la tua vita, e avevi voglia di farla finita. Eri come un albero che foglie non ha più, e s’alza un vento freddo che come le foglie, le speranze butta giù. Eri un ragazzo intelligente ma forse per colpa di ciò che potesse pensare la gente, ti sei lasciato trasportare, in un profondo abisso solo per scordare.

Forse per non dare altri dispiaceri, dalla tua mente hai voluto eliminare tutti i pensieri e con quel tuo ultimo gesto disperato, il dono della vita hai cancellato. E senza dire una parola, ti sei stretto quel nodo alla gola. Io ora posso solo pregare, che il sole le mie lacrime possa asciugare.

Tu, per sempre tu: con amore a Carmen. / Come vorrei amarti meno e invece no / niente oltre te, sei padrona n me. / Come vorrei volerti meno, come si fa? / Bella come sei come si fa? / Con quel cuore, che hai sempre sempre tu. / Nella mia mente insistente tu. / Che lo voglia o no, / ho voglia sempre voglia di te.

Franceschina, mi guardi ma non mi conosci ancora e un modo di volermi c’è, l’hai già. Ti prenderò per mano e nella vita ti accompagnerò. Sei piccola non mi conosci ancora, ma ii mio amore ti porterà lontano e che per niente tutto ti darà. Sei bella come il sole di settembre. Dipingi d’oro questa verde età, sei nata in un giorno di gennaio, nel giorno in cui si nasce per amore. Bambina tu sei scesa dalle stelle. Noi, io cercavo te.

Alla mia piccola Francesca. Piccolo amore mio, che dolce stai nel cuore mio, vorrei starti vicino anche per poche ore, vorrei starti vicino per darti il mio calore. Però te lo prometto questa è l’ultima volta che ti lascio sola. Tranquilla vita mia, che non prenderò mai più la vecchia via. Ciao principina mia, il tuo papà.

È il giorno di San Valentino e io non t’ho vicino. Questo giorno dell’amore è dedicato e io con te vorrei averlo passato ma una cruda realtà ci divide e sono qua!

Con sommo pudore celi il conforto donando al tuo cuore la veste d’un volto.

Contagi la tua spensieratezza e desidero di starti accanto per godere la freschezza del tuo viso e la meravigliosa purezza che traspare dagli occhi.

Qui mi necessita continuamente pazienza. Da mattino a mattino, in attesa di sopportare la successione monotona degli avvenimenti. Consapevole o ignaro in questo grigiore. Unica immagine valida e degna nei miei momenti sei tu, Carmen.

In questi attimi di felicità bisogna allontanare con fermezza il pensiero di aver assistito al suo magistrale canto del cigno.

Se il mio cuore cesserà di battere mai, mai e poi mai cesserà di pensare a te piccolo tesoro.

Aerosol, con pentamidina.

Ho finito di leggere con molto entusiasmo questo bellissimo libro “Ecco i Blues”. Mi è piaciuto moltissimo, è la storia di come sorsero il blues e il jazz: è la storia della prima rivoluzione nel campo della musica, quando i ritmi negri divennero popolari in America. Una storia strana, affatto semplice, popolata di avanzi di galera, di banditi, di viziosi e di angelici suonatori da sassofono. Poiché il jazz ha i suoi maggiori aficionados fra i giovani, c’è un nuovo strato da pubblico cui esso riuscirà nuovo e affascinante. Del resto in questi anni la passione e la conoscenza della musica jazz hanno messo radici più profonde.

Milton Mezzrow, autore di questo libro, uno fra i più famosi “jazzisti”, fu uno dei creatori della moderna musica americana, e la sua vita è la vita del jazz e del blues, nati nelle carceri e nei bassifondi e nei campi di cotone della Virginia.

Compagno di Louis Armstrong, Mezzrow fu amico o nemico dichiarato di tutti i grandi nomi del mondo dei jazz. Un mondo tutto particolare, diverso da ogni altro, i cui membri formano una specie di “clan internazionale” potente ed esclusivo. Vi sono sostenitori e denigratori di Mezzrow, per il suo stile musicale e per quanto ha raccontato in questo libro, assistito nella sua stesura dal giornalista Bernard Wolfe.

È un racconto autobiografico, si svolge lungo il filo conduttore della musica, la passione che salva Mezzrow da un fallimento completo negli ambienti più squallidi. Imparò a suonare in un riformatorio e in carcere finì più volte per la sregolatezza della sua vita. Suonò persino alle dipendenze di Al Capone, ma di tante avventure non rimpiange nulla. Una sola cosa gli pesa: non essere negro. Egli ama i negri più dei bianchi, e si trova a suo agio in loro compagnia, più che con ogni altro; soprattutto perché solo i negri, afferma, sanno veramente suonare, per istinto, la musica jazz.

Un libro molto vivace, espressivo, l’originalità degli episodi sconcertanti e imprevedibili, rendono il racconto affascinante anche per i lettori più smaliziati (tantissime cose che Mezzrow fece le ho vissute anch’io) e non particolarmente attenti al jazz, per i quali sarà nuova la descrizione dei locali notturni di New York, di bische, fumerie d’oppio, postriboli, popolati da personaggi famosi o immaginari, attraverso la storia del blues, l’espressione più tipica del nostro tempo.

Chi dice Palabanda oggi, suscita almeno nei più vecchi cagliaritani l’idea di un luogo malfamato in cui nelle “osterieddas” che vi si allineavano numerosissime regnavano scurrilità, violenza, vendita del sesso. E quando qualcosa usciva dalle regole della morale più accorta e dal comune senso del pudore, la si liquidava dicendo: “cosas de Palabanda”.

Basta un attimo per spezzare una vita ma non basterà una vita per dimenticare, perché ogni minuto del giorno è un pensiero per te. A Tore con tutto il bene che t’ho sempre voluto. Riposa in pace e veglia su di noi, Roby.

Varcati tanti mari e tante genti giungo ora alla tua tomba amore a portarti l’ultimo dono di morte. A parlare alla tua muta cenere perché il destino ha preso te, proprio te che non meritavi ed io, come sempre fecero i padri, ti reco le stesse offerte. Tu accettale, grondanti di pianto fraterno e addio fratello amato, addio per sempre. (Catullo)

La giustizia degli uomini ha ucciso, la giustizia di Dio ti salverà.

Di fronte ai morti non c’è gerarchia, il dolore non ha colore, sono tragedie dell’uomo e basta.

Un’altra notte è giunta, un’altra giornata vissuta a sprazzi nel tormento e in forzata allegria. Appoggio la testa sul cuscino catino dei pianti e delle mie sofferenze. Quante volte sommerso nei miei pensieri che pilotavo verso di te amore, sei stata la gioia della mia vita, sei stata la luce dei miei occhi, amore non farmi vivere nel tormento e che i miei occhi possano sempre vedere la tua immagine, e i nostri cuori fremere d’amore. Non lasciarmi in questa solitudine, ma fai in modo che si possa gioire ancora insieme. Ti amo dolce tesoro.

Cara dolce mamma, o dolce immagine, quante volte ho visto il tuo vivo sguardo segnato dalla tristezza, dalla sofferenza, dalla disperazione nel pensare a quel tuo figliolo che dalla vita niente ha ricevuto solo carcere, disperazione, solitudine.

O dolce mamma forse avresti voluto un figlio diverso, forse più responsabile, ma alle volte il destino è crudele. O mamma ho fatto tanti sbagli nella vita ma ho tanto amore nel cuore, e questo amore è solo per te.

Scende la notte, l’ultima con te oramai è passata e così spero di non sentire sino all’alba il tintinnio delle chiavi del secondino.

Spero di non sentire portoni e cancelli che sbattono, spero di non sentire i lamenti, le sofferenze dei compagni di sventura che mi stanno vicino. Attraverso quelle fredde sbarre guardo la luna, sembra che pian piano s’avvicini e mi voglia parlare, vorrebbe forse entrare nella bocca di lupo e così illuminare la mia fredda cella o forse anche la mia coscienza. Sembra quasi voglia comunicarmi qualche cosa, e mentre si allontana, gli sento sussurrare l’alba sta per spuntare e un’altra vita sta per incominciare. E spero così sia. Roby.

Il marito che non capisce come la moglie non trovi nulla da mettersi in quel suo armadio strapieno è lo stesso uomo che non trova niente da mangiare in un frigorifero strapieno.

Nostra Signora del Santo Rosario di Fontanellato, prega per noi.

O Maria, Regina del Santo Rosario di Fontanellato, che da secoli eleggesti il Santuario di Fontanello quale sede regale della tua misericordia, volgi il tuo materno sguardo e ascolta l’umile supplica che innalzo a te in questo momento! O dolce Madre, abbi pietà di me!

Guarda la mia sofferenza e soccorrimi tu, che hai tanta potenza d’intercessione presso il cuore del tuo Divin Figlio.

E poiché tu promettesti specialissima protezione, grandi grazie e infine la salvezza dell’anima ai devoti del Santo Rosario, confortato dall’esempio e dai meriti di San Domenico, eccomi ai tuoi piedi con la Corona benedetta nelle mani, pieno di fiducia e di amore.

O Maria Regina del Santo Rosario di Fontanellato confido in te, aiutatemi! Così sia.

Nel mondo io camminerò tanto che poi i piedi mi faranno male, io camminerò un’altra volta e a tutti domanderò finché risposte non ce ne saranno più. Io domanderò un’altra volta, amerò il mondo che il mio cuore mi farà tanto male che come il sole all’improvviso scoppierà, scoppierà. / Nel mondo io lavorerò tanto che poi le mani mi faranno male, io lavorerò un’altra volta, amerò in modo che il cuore mi farà tanto male che, tanto che come il sole all’improvviso scoppierà, scoppierà. / E nel mondo tutti io guarderò tanto che poi gli occhi mi faranno male. E ancora guarderò un’altra volta e amerò in modo che il cuore mi farà tanto male che, come il sole all’improvviso scoppierà, scoppierà. / Nel mondo io non amerò tanto che poi il cuore non mi farà male.

«Non dire al sole di sorgere due volte non può c’è la luna. / Non dire ad una rosa di sbocciare a gennaio non può fa freddo. / Non dire ad un filo d’erba di non muoversi non può c’è il vento. / Non dirmi di dimenticarti non posso ti amo. / Ho tanto bisogno di stare con te!

«Penso che carcerazione più pesante dei dieci [anni] passati in mezzo / all’eroina non possa esistere.

«Mi hai deluso, mi hai rattristato, / sento che non posso più stare / ti lascio, sto solo, forse saprò intendermi meglio. / L’amore un’utopia: contrastando con impeto / e menzogne non tenti l’accordo, / mi trascini alla desolazione.

«Nelle notti d’inverno – non sono solo (nella mia solitudine) / – non sono solo: la dolce presenza / di tiepidi ricordi familiari ed amorevoli. /               Il mio amore e senza confini, / È il mio piccolo regno (io) costruito con sofferenza / costruito con sofferenza / che s’eleva alla conquista dell’amore.

«Non darti pena, ma vivi, l’importante è esserci. / È il segreto imposto dalle regole dell’ordine: / l’eternità si fissa nella propria luce / ed il tempo è l’espressione che si confonde / nell’alone misterioso per soggiacere al punto più luminoso».

La libertà è come legare un anarchico a un poliziotto da una parte e un prete dall’altra, e poi dirgli di stare allegro perché era un uomo libero.

Un musicante (jazz o blues) che abbia l’istinto creativo è un anarchico con una tromba e non potete imprigionarlo in nessun modo. / La musica sinfonica per qualsiasi suonatore di jazz vuol dire schiavitù, mentre jazz e libertà sono sinonimi.

«A Carmen per capirti… e amarti.

«O essere meraviglioso (o tu meravigliosa) (o amore) / mi ami veramente… / Ho tanto bisogno di stare con te! / Ti cerco invano e soffro molto / non riuscendoti a trovare.

«So che esisti ma non ti intendo, / sei lontana non mi accorgo di te / e mi angoscio sperando di poterti provare (trovare). / Ora voglio cominciare a testare la tua presenza / e nell’incertezza di avvertirti vorrei amarti / se sei te, in attesa di me. Forse… / Io credo che ci sei, lo sento mi stai aspettando. / Non è solo un momento che mi porta da te. / Ti cerco! e spero di trovarti.

«Ho creduto e ti ho amato. / Il mio amore è senza confini, / io lo so e tu pure insieme a me. / Resta ancora sogno reale ed irreale, / io sto bene con te. Ma un dolore mi perseguita… / Soffrire e soffrire… Così ti darò di più! / È tutto. S’è poco… oltre non posso! ti amo…».

A volte si è costretti a capirsi per uscire dal buio tunnel che momenti d’incomprensione disegnano davanti al tuo sguardo. Capita che ci si senta isolati quando più abbiamo bisogno di complicità nello svelare le immagini soffocate di pensieri nati attorno a un tempo nemico disposto a cancellare attimi eterni per dar vita alla malinconia. A volte si è costretti a confonderci con la realtà dimenticando ciò che più ci appartiene, e senza rendercene conto naufragare in un mondo sconosciuto dove ogni contatto diventa visibilmente amorfo con chi più ci cerca. Sono giorni dispersi nel tempo, capaci di esistere, dove ogni litigio dà inizio ad un pianto che svanisce con l’ultima lacrima, quando il sorriso trova spazio a nuove parole. Sono giorni di attesa e di silenzio. La mente scioglie i pensieri tra le incertezze, mentre ascolto i rumori del vento lontani e isolati come i tuoi ricordi. Anche il buio della notte sembra che prenda forma, assumendo la sembianza del nulla che circonda ogni tuo gesto. È tempo di scoprire nuovi orizzonti al nascere di questo nuovo giorno per continuare a credere in un’altra vita. È tempo di volgere gli occhi verso il tramonto, mi chiedo se tu ci sarai per contemplarlo insieme, intanto attendo la libertà che l’alba saprà regalarci.

Avevo un’altra scelta quando scoprii che il vuoto che i nostri errori e le nostre pause avevano portato nelle nostre anime. Credi che potrò mai trovare ciò che da sempre cerco dentro la tua anima? Non hai paura che tutto scompaia nel nulla così come accadde quando si spense in noi l’ultima illusione? Avrei potuto arrendermi se solo non avessi scoperto, guardandoti, che anche tu stavi ancora lottando.

Donare un sorriso rende felice il cuore. / Arricchisce chi lo riceve senza impoverire chi lo dona. / Non dura che un istante ma il suo ricordo rimane a lungo. / Nessuno è così ricco da poterne fare a meno, / né così povero da non poterlo donare. / Il sorriso crea gioia in famiglia dà sostegno nel lavoro / ed è segno tangibile di amicizia. / Un sorriso dona sollievo a chi è stanco / rinnova il coraggio nelle prove / e nella tristezza è medicina. / E se poi incontri chi non te lo offre / sii generoso e porgigli il tuo: / nessuno ha tanto bisogno di un sorriso / come colui che non sa darlo.

Sorridi sempre anche se il tuo potrà essere un sorriso triste. Perché più triste di un sorriso triste, c’è la tristezza di non saper sorridere. A Cenza con affetto.

Questa notte ho fatto un sogno / ho sognato che ho camminato sulla sabbia accompagnato dal Signore / e sullo schermo della notte erano proiettati / tutti i giorni della mia vita.

Ho guardato indietro e ho visto / che ad ogni giorno della mia vita, proiettato nel film, / apparivano orme sulla sabbia: / una mia e una del Signore. / Così sono andato avanti, / finché tutti i miei giorni si esaurirono.

Allora mi fermai guardando indietro, / notando che in certi posti c’era solo un’orma… / Questi posti coincidevano con i giorni / più difficili della mia vita, / i giorni di maggior angustia, / di maggiore paura e di maggior dolore…

Ho domandato allora: / Signore, tu avevi detto che saresti stato con me / in tutti i giorni della mia vita, / ed io ho accettato di vivere con te, / ma perché mi hai lasciato solo proprio / nei momenti peggiori della mia vita?

Ed il Signore rispose: / «Figlio mio, io ti amo e ti dissi che sarei stato / con te durante tutta la camminata / e che non ti avrei lasciato solo / neppure per un attimo e non ti ho lasciato… / i giorni in cui tu hai visto solo un’orma sulla sabbia sono stati i giorni in cui ti ho portato in braccio».

 

 

 

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