La politica nella gran pasta della storia, per accompagnarla e guidarla. La lezione (e la testimonianza) di Lello Puddu, il mazziniano sospeso fra l’azionismo lamalfiano e il regionalismo di Mastino, Oggiano e Melis, di Gianfranco Murtas (nella foto qui sotto)

In tempi di pensiero “eventuale”, neppure più di pensiero “debole”, riunirsi nella solenne sala settecentesca dell’Università di Cagliari per celebrare un uomo politico di minoranza estrema poteva essere un’avventura. E tale è stata, purtroppo, per i numeri raccolti – conferma d’una pagina impietosamente voltata –, non certo per la qualità degli interventi, tanto più quelli dei relatori annunciati: Mario di Napoli, dirigente alla Camera dei deputati e presidente nazionale della Associazione Mazziniana Italiana, e Giorgio La Malfa, già parlamentare e ministro ed anche segretario nazionale di un PRI che fu. Essi e gli altri in breve assemblea, lo scorso venerdì 1° febbraio –  per rendere omaggio alla memoria di Lello Puddu, esponente di lunga militanza dei repubblicani sardi, al servizio dell’ideale lungo quasi l’intera durata della “prima repubblica”, fino cioè alla introduzione sciagurata del maggioritario e dell’artificioso bipolarismo che, invece di favorire le convergenze, ha affrettato gli scadimenti democratici della nostra povera Italia, quell’impoverimento etico-civile giunto ora agli scarti del populismo facilone e semplicista di pranzo e di cena.

Se mi riuscisse, vorrei dar conto – per lasciarne traccia nella memoria del tempo, negli appunti di lettura di chi un giorno intendesse occuparsi di questa nostra contemporaneità o della riflessione civica presente in questo nostro tempo – dei contributi recati, con abile e gradevole eloquio, dai relatori e da qualcuno degli altri e così aggiungerli al tanto che, in termini di documentazione d’archivio, è stato già raccolto ed ordinato (così anche nel mio Repertorio del movimento democratico sardo dell’Otto-Novecento: repubblicani, azionisti, sardisti). Questo per dire della partecipazione della cultura repubblicana alla modernità della vita democratica italiana e sarda dopo tanta semina da parte degli apostoli del sec.  XIX e dei primi decenni del nuovo secolo. Dopo Asproni e Tuveri, Siotto Elias e Soro Pirino, dopo i grandi pensatori e teorici del federalismo nazionale, dopo gli iniziatori del mutualismo operaio, dopo i poeti della protesta sociale come Salvatore Rubeddu e Pasquale Dessanay. E ancora: dopo i pubblicisti di quanti fogli sassaresi o arborensi – da Il Credente a La cosa pubblica, da La giovine Sardegna a Il Caprera, da L’Edera a Il Giornale d’Oristano (di Dino Cannas) –  e di quanti altri anche del maggior capoluogo, dal XX Settembre ed A Garibaldi, a La Scure (s’affacciavano alla storia del primo Novecento, promesse della scienza giuridica, Lorenzo Mossa e Giuseppe Lampis!), dopo i fondatori de La Nuova Sardegna e della stampa (d’ideali ed organizzazione) del primo dopoguerra come Il Popolo di Sardegna, dopo quei… tanti pochi che circostanze particolari portarono ad amministrare, alla sveglia del nuovo secolo, Guspini e Lanusei, San Gavino ecc…, introducendo in partita gli ancora adolescenti Cesare Pintus e Silvio Mastio, e quegli altri più maturi finiti sotto spia dal fascismo e magari sotto perquisizioni, confino ed arresti: Deidda e Bardanzellu, Sitzia e Tuveri, Manis e Gaias, Gessa e Meloni, Steri e Gisellu, Taberlet e Cannas, Puggioni caduto in Spagna e Senes…, i Buffa ed i Saba, Stefano e Michele, Michele tre volte galeotto… La semina degli apostoli appunto: direi addirittura, ancor più nobilitando la scena, dopo la testimonianza anche e soprattutto dei primi martiri antisabaudi – come fu Efisio Tola fucilato a Chambery – e dei martiri giovani combattenti a difesa della profetica Repubblica Romana – come fu Goffredo Mameli, nelle cui vene scorreva sangue cagliaritano… (Scrivo il più di questi appunti il 9 febbraio, centosettantesimo anniversario della proclamazione della celebrata e sfortunata Repubblica Romana).

Si può essere minoranza volendo e sapendo essere non figurine “radical chic” del tempo dato e dell’occasione contingente, ma il “sale” saporoso della democrazia. Come fu ancora dei mazziniani gielle ed azionisti, in Sardegna e fuori Sardegna: si ricordi il nome di Armando Businco negli anni della resistenza al nazi-fascismo, come già nella militanza giovanile repubblicana riunita in piazza Yenne e nella ipotizzata capolistura del 1946 alla competizione per la Costituente (il PRI non riuscì poi a formalizzare la sua presenza nella scheda elettorale dell’Isola) ed ancora nella fraternità del sardismo impegnato anch’esso, con spirito patriottico, alla fabbrica della Repubblica e dell’autonomia, nel 1948 e nel 1953.

Una cultura carsica?

Perché, nel corso del suo intervento, Giorgio La Malfa ha fatto riferimento al repubblicanesimo – oggi sconfitto (anche per gli errori di certa sua dirigenza politica, dello stesso La Malfa jr. dolorosamente) sotto le pericolose evanescenze ideali della Lega salviniana e dei grillini, dozzinale rimpiazzo delle grevità disvaloriali dei berlusconiani e degli altri pagani parafascisti e padani associati per tanto tempo – come ad un fiume, o fiumicciatolo, carsico, che risale in superficie ai rapsodici appelli della storia. Chissà. La metafora può avere avuto una sua validità in tempi altri, tanto strutturalmente diversi da questi presenti della società liquida: ché di vero carsico nell’Italia degli ultimi mille anni (e di drammatica piena oggi) – a dirla con Marco Pignotti, presente al dibattito con un intervento lucidissimo e bellissimo – non c’è stato e non c’è forse che il populismo, l’emozione barricadera e sterile dell’interesse figurato ed incapace perfino di rappresentarsi a se stesso.

E d’altra parte, oso riflettere associandomi alla analisi di Pignotti, occorre lucidità per evitare di giustapporre populismo e democrazia. Ché il popolo evocato da Giuseppe Mazzini nel suo celebre motto “Dio e popolo” è tutto il contrario di quello che votò per Barabba contro Gesù di Nazareth in un giorno disgraziato: non è la massa acritica che si fa sospingere dai padroni di un pensiero chiuso ed ostile, ma è il soggetto comunitario che ha coscienza di una missione liberatoria o libertaria affidatagli dalla storia e la realizza con sacrificio e generosità in una logica inclusiva e partecipativa.

Il mazzinianesimo innerva e direi illumina l’idea di popolo con quella di democrazia e perciò di partecipazione. Non è questione di parole, è questione di azione. Mario Berlinguer ed i repubblicani dell’Unione Popolare sassarese, negli anni che anticiparono la grande guerra, non erano forse là ad alfabetizzare gli zappatori che, dopo una giornata pesante di lavoro in campagna, s’imponevano quel supplemento di fatica in vista dell’esame – giusto l’esame di alfabetizzazione – che li avrebbe ammessi all’elettorato attivo? Per essere cittadini in senso proprio bisognava essere elettori, e per essere elettori bisognava essere alfabeti. I mazziniani, anche quelli nostri, quelli sardi, che credevano nella democrazia, servivano la causa nella concretezza della quotidianità, accompagnando l’emancipazione degli zappatori, quando la penna assai più della zappa sembrava pesante a quelle mani gonfie e callose.

E Bastianina Martini non serviva anche lei, prima ancora dell’impegno nell’antifascismo e nella resistenza, la causa democratica che era vera e propria causa popolare, accompagnando nella corrispondenza quei tanti familiari dei soldati richiamati al fronte della grande guerra impediti proprio dalla ignoranza o dalla povertà della scrittura di raggiungere i loro cari – figli e mariti e padri – nei luoghi lontani di battaglia? Non contribuiva a cementare così, Bastianina con le sue collaboratrici, in quello sconfinato dramma sociale della guerra combattuta, affetti e doveri di patria dando sostanza di umanità, insieme e specularmente, ai vuoti domestici ed agli affollamenti di trincea?

Quella scuola democratica che nell’Italia (e nell’Europa) di quasi due secoli era andata per costruzioni sempre nuove, per avanzamenti progressivi di istituti politici, per costituzioni liberali e risorgimenti territoriali nazionali, che aveva saputo cos’era – nel buio della restaurazione postnapoleonica – la luce della Giovine Italia mazziniana (e giusto novant’anni dopo sarebbe nata nell’Isola la Giovane Sardegna degli autonomisti) e la luce poi della Giovine Europa, quella scuola democratica oggi, esauritasi nel liquido sociale ogni spinta ideale, potrebbe rivivere soltanto in qualche coscienza, agganciata proprio al sogno mai infranto europeo od europeista.

Ripenso a quel ricorrente, insistente aggettivo: giovane. Non basta purtroppo l’anagrafe, ad ogni età si può stare da una parte o al suo opposto. Viene da ripensare ad Antonio Megalizzi, giovane sapiente idealista assassinato da un suo coetaneo soldato del terrore. Viene da ripensare a quei soldati trentenni con la divisa sabauda che giustiziarono a Chambery il loro coetaneo Efisio Tola, o a quei giovani soldati francesi di Luigi Napoleone alleato di Pio IX che scaricarono una palla del loro fucile addosso al poeta dell’Inno degli italiani, imponendogli l’agonia di un mese e la morte in quei primi d’estate del 1849. Proclamata il 9 febbraio, la Repubblica ebbe la sua costituzione (suffragio universale, proscritta la pena capitale) il 3 luglio, appena tre giorni prima che Goffredo spirasse, accudito come un fratello minore da Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi.

Il sogno della Repubblica Romana, centosettant’anni fa

Certo meriterebbe qualche approfondimento la relazione della Sardegna con la Repubblica Romana, di cui Lello Puddu, a Cagliari come a Nuoro, da perfetto mazziniano, non mancava mai di dichiararsi un cittadino elettivo, un ammiratore commosso ed esaltato per il carico profetico di quella faticata breve conquista… Da un anno e qualcosa associata, in quanto all’ordinamento giuridico ed istituzionale, alle province di terraferma del Piemonte e della Liguria – valeva la “perfetta fusione” –, la Sardegna del 1849 donò alla Repubblica governata dal famoso triumvirato Mazzini-Saffi-Armellini un quartese, Giovanni Battista Capra – dei Capra da cui sarebbe venuta un giorno la celebrata Vinancool – chiamato poi a soffrire alquanto dai parroci collegiati di Sant’Eulalia, che gli impedirono di battezzare il suo primogenito con il nome di Mazzini e Garibaldi. Doveva essere proprio nel decennale del trionfo ed insieme della sconfitta repubblicana. Garibaldi, invitato ad essere perfino il padrino là al fonte battesimale dell’antica parrocchiale, aveva allora delegato il buon amico Enrico Serpieri, già deputato della effimera Repubblica e suo costituente, riparato e residente nella capitale sarda ove avrebbe presto fondato la locale Camera di Commercio e il Banco di Cagliari, nonché un quotidiano massonicheggiante, Il Corriere di Sardegna. Nomi del battezzando a parte, non favorì la buona conclusione delle trattative neppure lo stesso notorio filantropismo – anche a pro della Chiesa – del Serpieri, prevalendo invece la… cattiva fama che questi si portava dietro, di condannato a morte dal tribunale penale papalino…

E invece, a dir ancora di nomi: secondo una certa tradizione neppure del tutto ignota in Sardegna (si pensi ai Libero riferiti al Libero Pensiero) avrebbe provveduto a tener le posizioni, nel primo Novecento, un altro repubblicano – Edoardo Pissard – battezzando figli e figlie, non saprei se in Chiesa o al masso sepolcrale di Garibaldi a Caprera, secondo il calendario democratico: Mazzini e Disarmo, Repubblica e Italia, e Savoia perfino (non per ideologia però, ma per rimando alle remote ascendenze familiari).

Un altro suddito del papa rivoltatosi alla teocrazia e venutosene poi in Sardegna a prender lavoro e far famiglia qui, dopo l’esperienza della Repubblica Romana fu Bonaventura Ciotti, di Civita Castellana nel Viterbese. Fu imprenditore e studioso della legislazione mineraria, da noi, Ciotti. Scrisse molto e a lungo operò, fra Cagliari e il bacino iglesiente, per lo sviluppo del comparto industriale. Repubblicano e massone, fu il Venerabile fondatore della loggia Libertà e Progresso (la stessa che a lungo ebbe fra i suoi Artieri Enrico Serpieri), e successivamente ne lanciò un’altra, di loggia, intitolandola non a caso Giuseppe Mazzini e valorizzandola come “ponte” fra l’Isola e la Tunisia…

Una minoranza può essere “sale” della democrazia, può accompagnare e anche guidare la storia, innervandola dei propri ideali. Io credo – lo credo fin dalla mia adolescenza – che il repubblicanesimo italiano, patriottico e democratico, sostenitore dell’istanza europeista nel rispetto delle nazionalità (mai nell’omologazione delle culture di radice) così come della cordiale ma netta separazione fra Stato e Chiesa, sia stato fra l’Ottocento e il Novecento il “sale” della nostra democrazia: nel risorgimento e nel postrisorgimento, nell’antifascismo, nella gravosa costruzione dei nuovi ordinamenti dopo la dittatura e la guerra.

Al tempo del referendum istituzionale

A leggerla con gli occhi di sardo-italiano, così come fece Lello Puddu, lui adolescente nel 1946 e nel 1947, quando l’opzione repubblicana sconfisse quella monarchica e legittimista che anche in Sardegna, invece, ebbe allora larga prevalenza, la missione ideale e politica della minoranza mazziniana doveva essere tutta mirata alla fecondità dei nessi fra Sardegna e Italia nel nome della democrazia, anche oltre il patto costituzionale: una democrazia che si faceva partecipativa in progress, nelle autonomie locali, comunali, e in quelle sovracomunali e regionali. La Repubblica si sarebbe chiamata “delle autonomie”, ma nel superiore vincolo delle classi dirigenti territoriali alla “responsabilità” politica nazionale. (Ché non sarebbe bastata, e non basta neppure oggi, godere di ogni potestà legislativa ed amministrativa se mancano cultura e sapienza politica: si veda il caso siciliano, dove una normativa statutaria che vale una vera costituzione statuale ed un autogoverno di ingentissime risorse finanziarie non hanno creato né progresso sociale né sviluppo partecipativo).

Furono Nuoro e il Nuorese in relativa controtendenza a sostenere la causa repubblicana, alzando di oltre quattro punti percentuali il dato regionale: 43,5 contro il 39,1, e quanto di più rispetto alla Sicilia (35,3) ed il meridione continentale (32,6). Appunto nella Nuoro (41,9 per cento in città) in cui il giovane Lello Puddu con qualcuno dei suoi giovani compagni del liceo Asproni stava compiendo il suo primissimo apprendistato alla scuola civile di Giovanni Ciusa Romagna: il professore – titolare della cattedra di storia dell’arte al liceo finalmente restituito al suo compito, dopo l’evacuazione dei militi della Cremona – disegnava a mano (e dovevano essere capolavori in serie) i manifesti da affiggere alle cantonate in favore della Repubblica. Segretario della nuova sezione repubblicana in città, quella intitolata a Carlo Cattaneo, il docente/artista mobilitò i suoi ed egli stesso s’attivò nella propaganda in lungo e in largo per il territorio: in ben 40 comuni della provincia (contro gli otto appena del Sassarese ed i 33 del Cagliaritano) la scelta repubblicana ebbe allora addirittura la maggioranza, disegnando un virtuoso filo rosso ricollegante le Barbagie propriamente dette e la Baronia, il Sarcidano ed il Marghine, il Mandrolisai e, tanto più, l’Ogliastra di Anselmo Contu. Il collegio provinciale consegnò al Partito Sardo d’Azione, verso cui andarono (in assenza di una propria lista) le preferenze repubblicane, oltre il 24 per cento dei consensi, quasi il doppio di quelli raccolti da socialisti e comunisti messi insieme.

Più che dignitoso il risultato di Tonara, in cui – per le ascendenze paterne – il giovanissimo e già laicissimo missionario studente 17-18enne dell’Asproni contava parentele ed amicizie adulte e dove l’anno successivo lo avrebbe incontrato Filippo Canu. Pressoché suo coetaneo (due anni soltanto di differenza), una febbre politica accesa ed alimentata fra Porto Torres, nel mezzo degli epigoni cavallottiani frequentati in famiglia, e Caprera, alla corte civile di donna Clelia Garibaldi, Canu avrebbe affermato allora, con il proprio dinamismo, una leadership gustosa nei modi e nei risultati, generosamente “benedetto” da Michele Saba e dagli anziani repubblicani del Sassarese, fino a prendere la segreteria non soltanto della federazione giovanile ma dello stesso partito regionale (gracile rete di sezioni diffuse come a macchia di leopardo sul territorio). Proprio a lui si sarebbe legato in onesta ed affettuosa amicizia Lello Puddu, mantenendo i contatti anche negli anni in cui, dopo la maturità, a Cagliari avrebbe frequentato il biennio della facoltà di Ingegneria, propedeutico al corso poi seguito – mischiando gli esami a cento altri interessi culturali ed associativi, politici e di studio risorgimentale – a Genova: la città di Mazzini e Mameli, delle prime candidature parlamentari di Giorgio Asproni, della stampa repubblicana (Il Pensiero Italiano, il Giornale delle Associazioni Operaie Italiane…) e anche, nel tempo adesso della Repubblica, di un quotidiano – Il Lavoro nuovo – forte della condirezione di un sardista/azionista (di approdata collocazione socialista, fattosi prossimo a Pertini) come Francesco Fancello…

Siamo noi adesso – febbraio dell’A.D. 2019 – alla vigilia del cinquantesimo della scomparsa di Pietro Mastino, di quel Pietro Mastino del novero dei fondatori, e dei più autorevoli, del Partito Sardo d’Azione e suo deputato eletto nel 1921 e nel 1924 (dopo che nel 1919 con la lista dell’Elmetto), parlamentare aventiniano e perfettamente antifascista, consultore nazionale e sottosegretario al Tesoro con delega per i danni di guerra nei governi Parri e I De Gasperi, deputato costituente e senatore di diritto nella prima legislatura repubblicana, ripetutamente consigliere comunale a Nuoro nonché sindaco dello stesso capoluogo dal 1956 al 1960. E trattando ora di Lello Puddu non potrebbe omettersi almeno di accennare a quella che fu la sua relazione con i sardisti nuoresi, con Mastino ed Oggiano soprattutto, nonché con gli altri che, oltre a Giovanni Battista Melis, abitarono la dirigenza del PSd’A provinciale e regionale nei decenni immediatamente successivi al recupero della democrazia. E d’altra parte, la sua stessa residenza di lavoro in quell’incrocio fra Seuna, Santu Predu e il Corso, provocando la prossimità confidenziale con Francesco Burrai – il repubblicano bittese che aveva combattuto in Spagna con Giacobbe e i compagni del fronte antifalangista a cominciare da Giuseppe Zuddas (che in battaglia vi lasciò la vita, degno di Silvio Mastio, che la sua giovanissima vita aveva perduto in un’azione rivoluzionaria in Venezuela) – e la vicinanza anche, pur con tutte le sue peculiarità, a Gonario Pinna – il grande penalista e patriarca del cattaneismo declinato nelle sue varie e inanellate militanze progressiste, fra repubblicanesimo ed azionismo, sardismo e socialismo –, è certo che favorì i contatti e le collaborazioni. Così, per documentazione nei carteggi personali, con Oggiano professatosi mazziniano – e d’altra parte nella sua prima gioventù, prima cioè di essere chiamato in guerra, egli era di appartenenza esplicitamente repubblicana! – all’inizio degli anni ’50 (1951, 1953).

Quando l’escalation dei nazionalitari di Simon Mossa chiuse in una morsa lo stesso direttore regionale del partito che allora era ancora deputato iscritto al gruppo repubblicano della Camera e non se l’era sentita di contenere (per non dire avversare) la pressione dottrinaria di quell’estremismo per tema di perderlo alla causa politica del PSd’A quale si connotava fra il 1967 ed il 1968 – tempo di giunte contestative, tempo di mobilitazioni antimilitariste a Pratobello, tempo anche di recrudescenza del banditismo e di drammatico malessere delle zone interne (la faccia isolana della contestazione giovanile alle viste o già in atto) – tutto si compì drammaticamente nel sardismo organizzato. Perché furono i nuoresi, o quella parte della militanza nuorese guidata da Pietro Mastino, a pronunciare il “non possumus”, il basta alla coabitazione delle lingue fattesi ormai troppo diverse.

Certo entravano in gioco anche le legittime ed inappagate esigenze di spazio, sia dialettico che elettorale, dei rappresentanti cagliaritani, oristanesi e sassaresi (oltre che nuoresi stessi) – da Corona e Racugno e Tuveri a Ruiu e Mele e Razzu e Merella passando per Uras (e già anche per Addis), ecc. – ma è indubbio che fu nel nucleo nuorese dei Mastino-Puligheddu-Maccioni la maggior sofferenza e si materializzò il centro o il motore della “rivolta” e della rottura. Si candidarono i sardisti dissidenti nella lista repubblicana svincolata dall’alleanza formalizzata nel 1963 per consentire a Giovanni Battista Melis di essere eletto (grazie all’aggiunta dei resti del voto repubblicano di alcune regioni della penisola), e per questo furono – e ben si comprende – espulsi. Da lì prese forma una vera e propria scissione che, attraverso la formazione del Movimento Sardista Autonomista (forte dei consiglieri regionali Puligheddu e Ruiu, e di Salvatore Ghirra già aggregato come indipendente al gruppo del PSd’A), il patto federativo con il PRI e la successiva confluenza in esso, generò le nuove dimensioni elettorali ed organizzative della presenza politica repubblicana nell’Isola.

Il PSd’A e le rivendicazioni depotenziate dalla mancanza di autocritica

In questo senso l’azione di Lello Puddu – segretario regionale repubblicano e relatore al congresso del PRI svoltosi nel febbraio 1968 al Museo del Costume di Nuoro (presente anche l’on. Melis) – fu determinante. Dopo esser stato il “ponte” della relazione PRI-PSd’A (così certamente fin dagli anni ’50), egli divenne allora l’anello di congiunzione fra i frazionisti del MSA e la direzione nazionale del Partito Repubblicano Italiano, con Ugo La Malfa in prima persona: direi con Ugo La Malfa amico da una vita intera ormai di Giovanni Battista Melis, con lui galeotto per antifascismo a San Vittore nel 1928, in stretta prossimità nel corso della prima legislatura repubblicana a Montecitorio…

Puddu da una parte e il vecchio Mastino (oltre a Puligheddu, Maccioni e gli altri del direttivo provinciale sardista) dall’altra confezionarono l’operazione del 1968.

Bisognerebbe ricordare la linea politica che era stata proposta e condivisa da repubblicani e sardisti negli anni della IV legislatura parlamentare (temporalmente giustapposta alla IV e alla V del Consiglio regionale), e poi con apparente fatica subita da diverse aree interne al Partito Sardo: il centro-sinistra, l’apertura cioè ai socialisti nei ruoli di governo (quando Roma anticipò Cagliari di ben due anni!) ed alla politica di programmazione nella doppia (e convergente) modulazione nazionale e regionale, della politica dei redditi cioè e dell’attuazione della Rinascita con trasferimenti aggiuntivi a quelli ordinari. S’intenda: non fu pienamente leale lo Stato centrale con gli impegni assunti verso la Regione circa le aggiuntività di bilancio, ma pure fu connivente la Regione – o lo furono le forze di più larga responsabilità e di maggioranza e di opposizione, e quelle del sindacato – a piegare sulla industria di base petrolchimica l’indirizzo di sviluppo produttivo che neppure si rivelò, invero, occupativo, in controtendenza cioè ai flussi migratori in corso ormai d’un decennio. Per non dire del clientelismo (nei territori così come negli enti strumentali) in quanto dato costante impostosi nella relazione dell’Amministrazione regionale (a larga infeudazione democristiana) con la cittadinanza.

Richiamerei al riguardo alcune rapide proposizioni con cui, in un ancora inedito lavoro sulla storia del PRI isolano, mi era sembrato di poter rappresentare quei passaggi “di vigilia” datati press’a poco 1965-1966:

«Tutto si acuisce con la crisi della giunta Dettori, nella primavera 1967, che comporta l’esclusione del PSd’A dal patto di maggioranza e la destabilizzazione di numerose amministrazioni locali. Ciò proprio quando la Sardegna sembra essere entrata nel suo annus horribilis, nel mezzo del disastro economico così nella agricoltura e pastorizia (denunciato anche dalla “invasione” di Cagliari da duemila pastori) come nell’industria, fra occupazioni di facoltà universitarie nei capoluoghi, grassazioni e sequestri di persone tanto più nel Nuorese, attentati ad amministratori e forze dell’ordine un po’ ovunque, sbarco di centinaia di celerini e baschi blu. Prende ancor più slancio una protesta in termini di alternatività, introducendo nel dibattito sociale le categorie del nazionalitarismo e dell’indipendenza (saranno poi anche quelle delle “lingue tagliate” e di un “mediterraneismo” surclassante ogni slancio europeista/continentale: benché, bisognerebbe ricordare anche questo, fra i primissimi militanti del Movimento Federalista Europeo fossero stati, nell’Isola, con i pochi repubblicani e radicali, e qualche cattolico, proprio i giovani sardisti come Tonino Uras!).

«Nuovamente e in più occasioni i repubblicani evidenziano quello che ritengono costituisca un limite della politica degli alleati: il cedimento progressivo alle istanze del separatismo e la nebulosità circa l’autocritica che la classe politica regionale, quella sardista compresa, dovrebbe compiere per una Regione burocratizzata e incapace sia di programmare che di spendere. O, in altri termini, di cogliere i termini nuovi in cui una politica di piano – quella per la quale è nato il centro-sinistra in Italia – deve potersi realizzare, perdendo invece di autorevolezza nella interlocuzione istituzionale e facendosi causa essa stessa di inadempienze verso la cittadinanza.

«In altre parole, secondo i repubblicani sardi, la programmazione impone il superamento di quella politica binaria (Stato-Regione) che ha distinto finora gli interventi della mano pubblica. Non si tratta ovviamente di relegare l’istituto autonomistico in uno spazio di puro decentramento amministrativo, ma di precisare meglio il concorso di competenze e responsabilità fra l’Amministrazione centrale dello Stato e la Regione (peraltro di rango autonomistico speciale, cioè costituzionale). Ma pare indubbio che la quantità di risorse da destinare alla politica programmata (per la parte corrente e per quella d’investimento) debba essere lo Stato a fissarla, dovendo esso perseguire piani di ridistribuzione territoriale a fini perequativi in ambito nazionale. Alle Regioni – alla Regione – tocca partecipare, con un contributo di conoscenza delle proprie necessità, alla volontà deliberativa e tocca poi applicare, entro il quadro delle sue competenze statutarie, le norme finanziarie, incrociando la propria programmazione con quella globale. Insomma, la dialettica istituzionale vale ad ottenere il risultato, non ad imporre o a contrastare.

«Quel che ai repubblicani sembra manchi nell’alleato sardista è lo sforzo di aggiornamento politico-istituzionale in rapporto alla nuova stagione della programmazione economico-sociale che deve e vuole qualificare il centro-sinistra. E tutto deve nascere da una salutare revisione dei comportamenti non corretti invalsi e ormai radicati nella vita ordinaria della Regione autonoma: con i costi della sua burocrazia in permanente implementazione, con giacenze di tesoreria e residui passivi che superano i livelli di guardia.

«Quel che il Partito Sardo sembra faticare a comprendere, secondo l’opinione dei repubblicani, è la necessità di un ammodernamento ed efficientamento della struttura politico-istituzionale dell’Autonomia speciale e, come seconda fase, il riversamento della sua cultura regionalista ai fini della riforma radicale dello Stato.

«Lello Puddu, come esponente più qualificato del PRI sardo, tutto questo più volte rappresenta agli amici del Partito Sardo. Alle pur evidenti trasformazioni per i nuovi insediamenti industriali e lo sviluppo turistico che investe alcune aree costiere fa da contrappeso la sofferenza di sempre delle Barbagie, del Goceano, della Gallura, di ampie zone della valle del Tirso e dello stesso medio Campidano e del Gerrei così come del Sulcis-Iglesiente; taluni di questi territori presentano il più basso reddito procapite d’Italia e saggi di mortalità infantile e di miseria, così come di mancanza di servizi pubblici, che impongono soluzioni e non astruserie dottrinarie. Le dimensioni del territorio sottosviluppato – quello che presenta il più basso indice di consumi alimentari e di dotazione di servizi igienici, e, per contro, il più alto indice di affezioni tubercolari e di spopolamento, quello anche che è tormentato dai fenomeni dei sequestri di persona e dell’abigeato – sono enormi per poterne concludere, con gli ottimisti, che comunque, al netto delle sue tabelle, l’Isola migliora, né con i pessimisti che soltanto con l’opzione separatista tutto migliorerebbe.

«Di qui anche la volontà della dirigenza repubblicana di convocare il proprio congresso a Nuoro. Per riflettere sullo stato e sulle tendenze sociali ed economiche della Sardegna nella sua interezza, e così sull’adeguatezza o meno delle forze politiche a guidarne la emancipazione, e sulla persistenza o meno delle condizioni che nel 1963 hanno determinato l’alleanza politico-elettorale con i sardisti. Dato anche che ormai è imminente la convocazione dei comizi che giudicheranno il primo quinquennio di esperienza governativa del centro-sinistra».

Tuveri, Massaiu e Pau prima del congresso sardista…

Di un qualche speciale interesse, anche per l’acutezza e innovazione della analisi, è il convergente articolo che Marcello Tuveri, giovane dirigente del PSd’A, pubblicò su La Voce Repubblicana del 29.30 dicembre 1966 (“I due tempi dell’autonomia sarda”). Queste le conclusioni del lungo elaborato: «Sussistono interrelazioni col Mezzogiorno, sia in ordine alle condizioni generali dello sviluppo, sia per quanto concerne il mercato delle produzioni e sia per l’interdipendenza della stessa area con il resto del paese, ma le peculiarità accennate inducono a confermare che il regionalismo sardo ha una validità in termini di politica economica veramente singolare. Questa coincidenza tra Regione amministrativa e dimensione economico spaziale dei fenomeni ci conferma la opportunità che il piano nazionale venga “regionalizzato”.  La convinzione che solo una compiuta integrazione della spesa statale e di quella regionale, dei poteri, nel riconoscimento delle competenze inquadrate in una visione realistica e non formalistica delle diverse sfere di attribuzione, può suggerire un modo muovo di pensare la Regione.

«I contenuti nuovi della Regione come strumenti di programmazione comportano, per tutte le forze politiche, l’accettazione di una difficile sfida in termini di svecchiamento delle strutture statali e regionali, di ripensamento degli enti locali come partecipi della politica di sviluppo, di considerazione moderna dei rapporti tra i cittadini e i poteri pubblici in modo che legalità ed efficienza non si trovino nell’attuale condizione di contrasto che rende tanto difficile l’affermazione della nostra democrazia politica».

Il congresso regionale (poi detto nazionale) sardista modificò l’art. 1 dello statuto e con esso l’obiettivo finale del partito: «l’autonomia statuale della Sardegna, ben precisata costituzionalmente nell’ambito dello Stato italiano concepito come Repubblica Federale […] nella prospettiva della Confederazione Europea e Mediterranea».  Certo è che a leggerlo, o rileggerlo a mezzo secolo ormai di distanza, non si trattò forse di un “golpe” ideologico così grave da determinare la rottura con i repubblicani, o del feeling repubblicano verso l’alleato PSd’A. Anche perché filoni federalisti – del federalismo interno – sempre hanno convissuto con altri “unitari” nello stesso partito richiamantesi a Mazzini e, insieme, a Cattaneo. Basterebbe pensare a Oliviero Zuccarini, già deputato costituente, già fondatore e storico direttore de La Critica Politica.  Vero è che il pur centrale deliberato congressuale in materia statutaria assunse una valenza dirompente essenzialmente per il contesto in cui esso andò a collocarsi, con le presenti divaricazioni di varia natura fra le anime coprotagoniste della vita sardista nella seconda metà degli anni ’60. La rottura della unità del partito si sarebbe formalizzata comunque. E d’altra parte, lo “sfilacciamento” – a voler usare un eufemismo gentile – già aveva cominciato a prender forma con l’allontanamento del gruppo nuorese, o di parte d’esso, del Movimento giovanile. Diversi dei militanti raccoltisi attorno alla testata di Nuovo Azionismo – e fra essi in testa a tutti erano Giannetto Massaiu ed Annico Pau – non attesero neppure il compimento del processo divaricante del 1968-69, ma passarono al PRI per… attrazione lamalfiana in piena autonomia già nel 1967.

In tale quadro certamente merita un richiamo quanto Annico Pau, che un giorno sarebbe stato il sindaco della sua città, scrisse su La Nuova Sardegna del 14 dicembre 1967:  «Il rinnovamento dei partiti non lo si deve attendere dall’interno, ma come è stato rilevato da più parti nell’ultimo congresso della Federazione giovanile repubblicana, devono essere le forze giovanili a mettere in discussione le ideologie e i contenuti politici, risolvere il dissenso fra società politica e società civile con quella spregiudicatezza svincolata da giochi verticistici di potere… Nonostante sia improrogabile e urgente l’ingresso di nuove energie nelle organizzazioni dei partiti e questi ne abbiano profondo bisogno, l’impegno dei giovani va sempre più diminuendo, segno che occorre trovare strumenti nuovi e più idonei, quali ad esempio “un tipo di partecipazione politica prepartitica non ideologizzata…, creare degli organismi intermedi di partecipazione politica precedenti o paralleli all’impegno di partito”.

«D’ora in avanti occorre, a mio avviso, muoversi in questa direzione anche in Sardegna, ove le nuove generazioni iniziano a far sentire la loro voce sui problemi nuovi della società sarda degli anni sessanta. I gremitissimi dibattiti organizzati dal circolo “La Nuova Città” di Nuoro vedono una larga affluenza di giovani che partecipano attivamente alle discussioni; i giovani liceali dell’Azuni di Sassari che si riuniscono intorno al giornale “Iniziativa” portano avanti una dura battaglia di rinnovamento, per non tralasciare gruppi come quello che fa capo al pubblicista B.J. Anedda che impostano in termini nuovi la lotta autonomistica sarda…».

Alla fine degli anni ’60, con Pietro Mastino

Secondo le previsioni, la minoranza del PSd’A cercò nel PRI l’interlocutore e il “compagno di viaggio” che potesse favorire il proprio disegno politico ed il PRI scorse negli scissionisti coloro che, forse, avrebbero potuto un giorno dar corpo alle proprie strutture sul territorio, ancor più materializzando lo slogan del 1963 lanciato da Oronzo Reale – predecessore di La Malfa alla segreteria nazionale –, secondo cui i sardisti erano «i repubblicani della Sardegna».

Le realtà erano speculari. Il sardismo dissidente guardava ormai al PRI come alla casa in cui esso avrebbe potuto esprimere compiutamente i propri valori tradizionali, nel necessario aggiornamento imposto dai tempi. E’ significativa, da questo punto di vista, la lettera datata 28 aprile 1968, dal taglio evidentemente didascalico, che il senatore Mastino, con i suoi «saluti sardisti», diffuse fra la militanza e l’opinione consentanea, soprattutto nuorese.  Eccone il punto centrale: «Il nostro simbolo, quello che bisogna segnare, votando per i Sardisti è quello dell’Edera. Ciò perché, nel Congresso recente di Cagliari, è stato cambiato il vecchio programma; prima eravamo solo autonomisti, adesso, secondo il cosiddetto congresso, dovremmo diventare separatisti. Noi siamo quello che eravamo, sardisti autonomisti ma non separatisti, sia perché italiani, sia perché la Sardegna, separata dal continente italiano, non potrebbe vivere.

«I nuovi sardisti, che hanno modificato il vecchio statuto e che hanno, così, creato un nuovo partito, hanno mantenuto il vecchio simbolo dei quattro mori, per quanto abbiano cambiato le idee.

«I nostri amici, così come cinque anni fa, sono candidati nelle liste dell’Edera, alleati con il Partito Repubblicano Italiano che da decenni conduce al nostro fianco la battaglia per l’affermazione delle idee Autonomiste».

Nell’icona elettorale dei repubblicani c’era la storia e c’erano gli ideali. La storia e gli ideali del federalismo europeo marcato dal sentimento democratico. Perché l’edera – s’è detto – simboleggia l’Europa, il traguardo dell’azione missionaria dei mazziniani dell’Ottocento, contro le autocrazie e contro i nazionalismi egoisti e senza respiro, intimamente imperialisti. L’aggregazione che si compì a Berna nel 1834 fra i rappresentanti della Giovane Italia, della Giovane Germania e della Giovane Polonia – cui poi era sperabile convergesse anche il patriottismo rivoluzionario greco, rumeno, spagnolo ecc. – permaneva nell’orizzonte ideale dei democratici di scuola mazziniana, repubblicani o sardisti non importava nulla. E costituiva l’agenda di un oggi continuativo, che certamente non poteva contemplare una Sardegna agganciata all’Europa saltando l’Italia!

L’edera, l’Edera come rappresentazione dell’idea d’Europa

Nei suoi Ricordi autobiografici ne aveva scritto lo stesso Giuseppe Mazzini: «Il nostro patto d’alleanza doveva stringersi dapprima fra i tre popoli iniziatori. La Grecia, la Svizzera, la Romania, i paesi Slavi del Mezzogiorno Europeo, la Spagna si sarebbero a poco a poco raggruppati intorno al popolo più affine ad essi fra i tre. Da questi pensieri nacque l’Associazione». In diversi territori si era tentato, infatti, di promuovere analoghe organizzazioni, più spesso fallendo l’obiettivo, come in Grecia, Austria, Francia, Spagna, Inghilterra e perfino Russia, riuscendovi invece in Svizzera.

E a proposito della Svizzera, assurta a modello di coabitazione pacifica di popolazioni di etnia e lingua diversa, andrebbe ricordato l’«Appello ai patrioti svizzeri» lanciato ancora da Mazzini, che costituì il primo atto della costituenda Giovine Europa: «Lo sviluppo libero e armonico di tutte le facoltà fisiche, morali e intellettuali del popolo costituito e preso nel suo insieme, è ormai il fine segreto o dichiarato dei lavori politici di ciascuna Nazione. Lo sviluppo “libero e armonico” della missione umanitaria, col concorso di tutti i membri che compongono l’umanità, è il fine riconosciuto dell’Europa attuale: il “progresso dell’Umanità”, per opera della Libertà, è la base della nostra credenza per tutti. Non v’è Libertà senza Eguaglianza; ogni ineguaglianza pone un impedimento alla Libertà…».

E il sardismo? L’idea europeista, ancorché associata alle guarentigie del lavoro sardo (e italiano) all’estero ed al liberismo economico applicato all’import-export, da sempre contraddetto da politiche di protezione studiate apposta per il rinforzo delle zone già ricche, dell’aristocrazia operaia oltreché industriale della Lombardia o del Piemonte, s’affacciò già nel famoso programma di Macomer del 1920 e nel PSd’A alla sua fondazione (al congresso di Oristano dell’aprile 1921). Dopo l’affermazione della scelta istituzionale repubblicana, nella sua carta identitaria ideale e politica, abilmente eloaborata dai giovani liberisti sassaresi (Luigi Battista Puggioni e Camillo Bellieni), così si legge in quanto agli obiettivi: «Inquadramento dell’emigrazione e organizzazione di gruppi d’emigranti in forme sindacali… Protezione degli italiani all’estero, previ reciproci accordi internazionali, per cui possano partecipare alla vita pubblica degli stati in cui risiedono. Rappresentanza al Parlamento Nazionale degli italiani all’estero…»; «completa libertà di commercio e di scambi… s’impone perciò l’abolizione immediata del giogo pesante del protezionismo siderurgico…», «concessione di una immediata libertà di esportazione dei prodotti caseari, agricoli e dell’industria armentizia, principali fonti di ricchezza dell’isola». (Qui il pensiero vola alle visite compiute trent’anni dopo da Ugo La Malfa, ministro del Commercio con l’estero, alle Camere di Commercio di Cagliari, Sassari e Nuoro ed alle amiche sedi sardiste).

Il sardismo maturato, almeno nella sua dirigenza, attraverso le male esperienze della dittatura e della guerra continentale e mondiale, arrivò nel 1948, con Gonario Pinna, ad auspicare una Europa dei popoli, contro la concentrazione dei nazionalismi: un federalismo non di vertice, o soltanto di vertice, ma di società, cultura e lavoro, dunque dei territori, inclusi quelli marginali (o supposti tali) chiamati a realizzare la pienezza dei loro potenziali (il che – se possa esser infilata qui una osservazione extra testo – è cosa che si è tendenzialmente compiuta, ma con mille contraddizioni ed insufficienze, senza esonero di responsabilità, peraltro, da parte dei possibili beneficiari).

Ancora Mastino, alla viglia della scomparsa

Certo è che, a vederla con il sentimento d’umanità prima ancora che con la lente dell’ideologia, l’autunno di vita di Pietro Mastino fu amaro. Mezzo secolo dopo la sua prima elezione parlamentare, sessant’anni dopo i suoi primi cimenti nella municipalità nuorese (come semplice consigliere) e le battaglie antiprotezioniste combattute, con spirito radicale, prima della grande guerra, con uomini come Attilio Deffenu e Michele Saba, venti e più anni dopo l’impegnativo lavoro svolto al ministero del Tesoro con Parri e il primo De Gasperi, così come nell’aula di Montecitorio a sostegno del regionalismo costituzionale, egli dovette considerare la categoria della sconfitta fra quelle chiamate a suggellare, come un martirio, la sua esperienza pubblica, generosa e straordinariamente qualificata. Sconfitta subita per l’urto non degli avversari, però, ma dei suoi stessi sodali – o anche fratelli? – di partito.

Toccante il suo intervento al congresso regionale repubblicano, in svolgimento a Nuoro. Già infermo, soprattutto con il carico dei suoi 86 anni, dettò allora come un testamento politico, donandolo ad una forza che era meglio definibile forse… una debolezza, naturalmente soltanto sotto il profilo dimensionale, dell’uno o magari del 2 per cento ad una conta elettorale: «io sono sempre stato di sensi, di spirito, di convincimento repubblicano; io ho sempre, fin da giovane, ritenuto che uno degli artefici maggiori nel campo del pensiero, il maggiore della unità d’Italia sia stato Giuseppe Mazzini, che apparentemente sconfitto, spesso vilipeso, carcerato, attraverso la sua opera assidua di pensiero e di propaganda svegliò il mondo dei dormienti e trascinò dietro di sé l’Italia fino alla unità. Fu un religioso… Sempre il Partito Sardo è stato unitario e repubblicano: io ricordo uno dei primi comizi, uno dei primi congressi fatti all’insegna dell’idea repubblicana, della forma repubblicana dello Stato. Questo è stato sempre per noi principio vivo, principio vitale…».

Accennò allora all’assenza forzata (data la morte improvvisa di Mario Pannunzio) di Ugo La Malfa, «il capo parlamentare, uno dei capi al parlamento italiano dell’idea repubblicana», e ne lodò «la parola opportuna, prudente ma decisa, illuminata sempre» nei dibattiti parlamentari più complessi e insidiosi, come quello sul SIFAR, concludendo con gli auguri: «maggiori fortune al Partito Repubblicano perché queste coincidono con le fortune d’Italia».

I riverberi postelettorali coinvolsero anche lui, anche Mastino che, per parte sua, sostenne la tesi di esser egli a volersi estraniare da una compagine irriconoscibile idealmente e politicamente con il Partito Sardo del quale era stato per tanto tempo, e attraverso tante vicende storiche, il riconosciuto patriarca. La circostanza si arricchì poi anche dello scambio affettuoso che ne venne, pubblico, con Ugo La Malfa, il quale al vecchio leader aveva espresso la propria solidarietà: «Espulsione partito mi lascia tranquillo perché ingrata e rappresenta confessione sconfitta ex amici. Tua solidarietà affettuosa molto mi onora e ti ringrazio vivamente», recitava il telegramma datato 31 maggio ch’egli indirizzò al segretario repubblicano.

Importa qui rileggere, per l’evidente valore della testimonianza personale, il testo della dichiarazione scritta (pubblicata in prima pagina da La Nuova Sardegna del 1° giugno 1968) con cui il patriarca rispose al deliberato degli organi punitivi che lo compresero fra gli espulsi. Ecco, delle sue riflessioni e dichiarazioni alcuni passaggi centrali che fanno riferimento alla storica lealtà repubblicana del sardismo:

«Io non ho tradito il Partito Sardo e sono rimasto fedele a quel programma autonomista che nel 1963 ci ha consentito di presentare, come candidati alla Camera dei Deputati, esponenti del Partito Sardo, inclusi nella lista repubblicana, sotto il simbolo dell’Edera, e di avere, così, un rappresentante in tale assemblea.

«Non ho mai appartenuto al partito che, mantenendo lo stesso nome e lo stesso emblema, ha, nel congresso del 25 febbraio ’68, modificato il programma precedente.

«Quanto affermo era, ed è, risaputo dai comitati punitivi, fin da quando, nel 27 novembre 1967, abbandonai, con un gruppo di amici, in Oristano, la riunione del direttivo regionale, in quanto uomini responsabili della direzione del partito, in presenza del direttore regionale, che non ebbe a formulare proteste od obiezioni, sostennero la necessità di un nuovo e diverso programma, di contenuto separatista. Non intervenni, poi, al congresso di Cagliari sopra ricordato e, di proposito, non ritirai la tessera del partito, per quanto invitato, per il corrente anno.

«I componenti dei due comitati sanno tutto ciò, ma tacciono in proposito perché, altrimenti, dovrebbero confessare l’impossibilità di espellermi da un partito al quale non ho mai appartenuto.

«Ma più grave è il silenzio dei dirigenti il nuovo partito di fronte all’accusa di separatismo, contenuta anche nella mia lettera incriminata. A questo proposito, sarebbe importante sapere se sia esatto che l’accordo raggiunto nel 1963, per la presentazione di candidati sardisti sotto il simbolo dell’Edera ed assieme ai candidati repubblicani, sia stato riproposto, dal direttore del Partito Sardo, per le recenti elezioni, e sia stato, però, respinto dalla direzione nazionale del Partito Repubblicano e dalla direzione regionale in Sardegna, per le affermazioni separatiste contenute nel programma approvato nel congresso di Cagliari.

«L’interpretazione del programma su questo punto, non è da cercare solo nella sua formulazione, appositamente nebulosa e contorta, ma principalmente in quello che i candidati sotto l’emblema dei Quattro Mori ebbero a sostenere nei comizi ed a dichiarare prima sui giornali. Basta ricordare quanto nel periodico “Tribuna della Sardegna” del 16.30 novembre 1967 n. 19 scrisse uno dei candidati e che trascriviamo: “Sono separatista davvero, cioè con questo obiettivo: repubblica di Sardegna… ripeto sono separatista e propongo e difendo la Sardegna come Stato indipendente”. Queste affermazioni erano ignorate da quelli che, poi, furono candidati assieme a chi bandiva questo credo? E’ assurdo anche il supporlo.

«Il programma ed il proposito di una Sardegna separata dall’Italia non solo non mi sembra politicamente serio, ma non so come ci siano avvocati che tentino di sostenerlo (come è stato fatto in qualche comizio recentemente) in nome dei Sardi “caduti in guerra”.

«Nel concludere, mi permetto ricordare, a taluno degli ex amici, che sono stato sempre vicino a lui ed alla sua famiglia in tutte le occasioni, anche in quelle dolorose e che non mi attendevo di essere qualificato, ingiustamente, traditore e chiamato rinnegato e di ricordargli, allo stesso tempo, che anche i combattenti politici dovrebbero non insuperbire nella vittoria e sapere sopportare con dignità le sconfitte».

Sulla linea anche di Bellieni

In tutta questa laboriosa sistemazione dei rapporti e messa a punto delle posizioni, inserendo la cronaca nella storia, o sforzandosi di dare dignità storica ad una cronaca di impegno e responsabilità, Lello Puddu fu quotidianamente accanto al patriarca ed ai suoi amici più stretti. Nella sensibilità personale di Puddu era la “fraternità” repubblicano-sardista l’elemento che umanizzava, anzi aveva umanizzato da sempre, l’impegno politico volto da dar soggettività matura alla Sardegna, spessore e riconoscimento alla sua interlocuzione con l’Italia nelle sue complessità istituzionali oltre che politiche, dato come fatto naturale l’incontro “di famiglia” con le culture territoriali, con l’arte e la letteratura, la religione e il civismo del continente.

La democrazia era per Puddu la formula che univa la Sardegna al vasto mondo ed in primo luogo a quell’Italia che non era, né poteva essere, “altro” da sé, o non era soltanto “altro” da sé. L’Italia era vissuta da Lello Puddu allo stesso modo che da Pietro Mastino e dagli altri più nobili sostenitori della lealtà costituzionale repubblicana (e fra i quali, certo ultimo della serie, mi iscrivo integralmente anch’io): come una comunità delle comunità particolari, delle comunità territoriali e culturali, operanti nella condivisione conquistata ed acquisita per sempre, consolidata con il cemento della storia. Allo stesso modo che come Bellieni nella famosa lettera del dicembre 1920 agli “amici del movimento cagliaritano”, ma con il raddoppio temporale delle sedimentazioni storiche: «Col 1847, venne l’Italia… Cari amici, sono passati 72 anni. In questo periodo molti fatti nuovi sono avvenuti, che non è possibile annullare, dimenticare. Innanzi tutto noi giovani colti parliamo e pensiamo in italiano. Nel 1847 ancora i vecchi notai redigevano i loro atti in castigliano, nel 1849 i nostri deputati suscitavano l’ilarità della Camera con la loro inverosimile pronuncia e la loro eloquenza libresca, stile trecento o cinquecento.

«Ci siamo imbevuti fino alle midolla di cultura italiana, ed ogni giorno un piroscafo parte da Terranova per andare a fine sui moli di Civitavecchia. In ventiquattro ore siamo a Roma. L’economia sarda si è completamente mutata. I boschi sono scomparsi per la feroce fame dei carbonai e legnaiuoli toscani, i grani duri vengono esportati per introdurre altrettanto grano tenero, buoi, pecore, cavalli, formaggi, a mandrie, a tonnellate, prendono la via del mare; genovesi, romani e napoletani sono accorsi a fare affari, e figlioli sardi.

«Abbiamo combattuto con gli italiani in Crimea, nelle guerre d’indipendenza, in Africa, in questa guerra. C’è molto sangue sparso assieme. Anche di esso occorre tener conto. Ed allora! Consideriamo freddamente la nostra posizione presente nei rapporti con l’Italia. Che l’attuale situazione di cose debba durare indefinitamente, finché piaccia ai signori che stanno tra Montecitorio e Palazzo Braschi, questo è un fatto che nessuno di noi sardi, che ha mente, cuore e dignità, potrà più a lungo sopportare. Non vogliamo essere gli schiavi di nessuno. Ci pensino i signori su menzionati, e provvedano presto, prima che un’ondata di ribellione non crei l’irreparabile. Diciamo questo nell’interesse dell’Italia.

«Ma anche nell’interesse nostro, ci sarebbe possibile separarci dalla penisola? Non vengo a trattare la questione dei tributi, della possibilità di provvedere alla propria esistenza indipendentemente, perché io la do per risolta a nostro favore. Noi abbiamo tante ricchezze, tanta quantità di materie prime, che se ne sapessimo organizzare lo sfruttamento a tutto nostro beneficio, noi potremmo da esse ricavare i mezzi per una sistemazione statale decorosa e fervida d’opere.

«Ma è qui il nodo centrale della questione. Abbiamo noi la forza morale di creare nel nostro organismo, di fare balzare fuori dall’oscura matrice della storia, una nazione sarda, concreta individualità che abbia un suo compito ed una sua funzione nella vita europea? Problema morale che è fondamento di tutti gli altri problemi.

«Se esso non può avere soluzione, vano è tentare di risolvere ogni problema tecnico; qualunque iniziativa fallirebbe irrimediabilmente nella realtà pratica che è prodotto di volontà. Essere stato a sé dovrebbe significare negazione del patrimonio ideale italiano che è nostro patrimonio individuale, creazione di una cultura sarda di là da venire. E’ ciò possibile?… non è possibile perché siamo di razza e di materno linguaggio sardi, irrimediabilmente sardi, e se fummo sentimentalmente ed eticamente spagnuoli, ora non lo siamo più affatto: siamo italiani.

«Noi non possiamo divenire Stato. Dopo artificiose eresie e menzognere negazioni, il giorno in cui la separazione fosse un fatto compiuto, noi sentiremmo balzare nel cuore un sentimento dolorosamente soffocato sino allora, che ci costringerebbe a rialzare sulle nostre case il tricolore abbattuto…

«Noi dobbiamo arricchire la realtà spirituale italiana con il nostro contributo di vita sarda, dobbiamo rappresentare un elemento necessario nel gioco delle forze della economia nazionale. Noi dobbiamo volere l’autonomia, non l’indipendenza, dobbiamo divenire concretamente italiani attraverso la conoscenza della nostra tradizione isolana… Noi non abbiamo intenzione di negare l’Italia. Neghiamo quell’astratta italianità che ci fa schiavi dei burocrati romani, che fa consistere lo Stato nella volontà di tre o quattro città principali, nelle quali sono accentrati tutti i privilegi di un organismo sfruttatore e parassitario. Noi neghiamo un’Italia siffatta perché vogliamo che il significato e il valore di questa parola investa una realtà più profonda che non sia quella delle tabelle di sale e tabacchi. Noi vogliamo riconoscerci sardi per essere veramente italiani…».

Così Bellieni nel 1920. Mastino riprendeva quel discorso quasi mezzo secolo dopo, e quanta più storia aveva intanto cementato la Sardegna all’Italia e viceversa, i migliori dell’una ed i migliori dell’altra sponda del Tirreno, nella lotta sacrificata contro la dittatura, nei faticosi adempimenti costituzionali e politici per la costruzione della Repubblica democratica e delle autonomie riconosciute… E quanto ancora – nelle interlocuzioni degli anni ’80 con Mario Melis presidente della Regione con statura di uomo di stato autentico – Lello Puddu, esponente della cultura repubblicana, anch’essa di minoranza come di minoranza era, pur nel maggior bacino, quella sardista, quelle vibrazioni etico-civili prima ancora che politiche entravano definendo e ridefinendo le coordinate delle alleanze di governo, delle compresenze istituzionali!

Al convegno nella sala settecentesca dell’Università

Ora accennati ora sviluppati questi temi sono entrati negli interventi registrati nella serata dedicata a Lello Puddu – e con lui anche a Peppinello e Giangiorgio Saba, della famiglia mazziniana sarda pure essi, per dna naturale e dna d’educazione ed ideale – all’inizio di questo febbraio.

Introdotti i lavori da Antonello Mascia, sempre ottimo presidente della sezione Salvatore Ghirra della Mazziniana, il quale ben a ragione ha richiamato la nota sentenza crociana secondo cui la biografia di un uomo politico è la sua attività meritevole di rilettura attenta ed approfondita nelle proprie ragioni e modalità, è stato Mario di Napoli a svolgere la prima relazione che si è rivelata una vera e propria lezione di storia del movimento democratico italiano in cui la vicenda di vita e la missione politica di Lello Puddu hanno saputo collocare, in continuità con quanto realizzato fino al 1957 da Michele Saba, il repubblicanesimo sardo con le sue irriducibili proprietà.

L’intero ripasso delle relazioni ora virtuali (di ricerca e studio in archivi e nelle biblioteche) ora anche personali sviluppate da Puddu nel corso della sua militanza – settant’anni e più, dal 1946 al 2018 – con le personalità maggiori e minori della democrazia radicale e repubblicana e con quelle del sardismo storico, si è volto a questa conclusione: che la Sardegna come ha preso ha anche dato allo sforzo patriottico dell’Italia intesa appunto come “comunità delle comunità”, ricca delle sue diversità, e che in tanto scambio essa è entrata anche con l’originalità dei contributi valoriali della minoritaria scuola mazziniana e cattaneana, tutta sospesa fra la visionarietà religiosa dell’Apostolo dell’unità e quella pragmatica od empirica, tutta istituzionale-ed-economica, del fondatore del Politecnico.

Come interprete di quella scuola Puddu s’è rivelato e distinto – ha detto di Napoli – per passione, generosità ed abilità affabulatoria (mai retorica e semmai educativa, spesa a presentare, in termini sempre accessibili a tutti, la complessità della storia e la nobiltà di quella politica che nel contingente sa farsi mattone della storia).

La testimonianza del presidente nazionale dell’AMI

Nel suo contributo al convegno celebrato nel 1985 all’Università di Sassari in onore di Michele Saba, egli presentò l’esperienza ideale e politica della democrazia isolana come animata da un prevalente obiettivo: scongiurare lo scadimento della Sardegna a Vandea dell’Italia, a luogo di resistenza legittimista ed antimoderna. Sotto questo profilo, la gran quantità di studi e di elaborazioni scritte ed orali di Puddu ha avuto il merito di rendere “visibili”, attraverso le opere e la testimonianza di vita, quelle minoranze che nella propria debolezza materiale scorgevano, paradossalmente, una forza etico-civile per l’affermazione di valori in linea con la storia avanzante: il suffragio universale, la repubblica, le autonomie federate. L’antiVandea sostenuta dalle minoranze progressiste nel Risorgimento e dopo, nel passaggio fra Ottocento e Novecento, fino ai primi cimenti, perfino violenti, nell’antifascismo puntò sempre a salvaguardare con i principi liberali e democratici quelli sociali e culturali, dell’identità sarda contro la colonizzazione monarchica e, con essi convergenti, dell’autonomia di governo, nella inalterabile e irrevocabile unità politica della patria (anche in tempo di monarchia e anche in tempo di assedio dark).

Puddu, in quella sua relazione, cercò – e ben riuscì nell’intento – di inquadrare la vicenda, all’apparenza (e forse anche nella realtà) minore, del repubblicanesimo partitico sardo post-1943 e fino alla rottura delle intese con i sardisti – un quarto di secolo dunque – nel solco della storia. Inserì quella cronaca, che i giornali dimensionavano alla dignità occasionale del trafiletto, in un contesto di testimonianza civile viva, come mossa da un senso del dovere assoluto, di radici perfino esistenziali.

Sotto questo profilo egli stesso s’identificò come un continuatore al quale, ancorché nel modesto spazio di una terra vissuta come marginale dai centri degli interessi economici e politici nazionali e internazionali, la sorte aveva affidato un ruolo nel passaggio dell’ideale staffetta dei valori inconsumati: quei valori che da “Dio e Popolo” o “Pensiero e Azione”, passando per le istanze del suffragio universale, della costituzione liberale e della repubblica, si declinavano, nella modernità, nelle attuazioni ed opzioni programmatorie, nelle politiche di bilancio, nelle categorie dello sviluppo e delle perequazioni, ecc.

Se vi fu un grande del repubblicanesimo nazionale cui ispirarsi – l’amato Asproni a parte –, forse egli lo individuò in Napoleone Colajanni, difensore della Sardegna dall’accusa razzista (di razza maledetta e zona delinquente) lanciata dai lombrosiani di fine Ottocento. A lui si ispirò perché “ponte” fra Mazzini e Cattaneo (infine neppure così distanti – comunalista il primo, federalista il secondo –, uniti dal rigore intellettuale e morale che portò entrambi, benché eletti al Parlamento, a rinunciare al seggio, così come nell’Isola avrebbe fatto un giorno Gavino Soro Pirino, per non giurare fedeltà al sovrano). E “ponte” egli stesso – il sardissimo Lello Puddu – si sentì, come tante volte documentato, non soltanto fra il repubblicanesimo regionalista sardo e quello genovese o milanese o romano o siciliano, di respiro nazionale cioè, ma anche e soprattutto fra la cultura repubblicana, di respiro universale, e quella sardista: la teoria e la esperienza politica e, via via, di programma, del Partito Sardo d’Azione (teso al Partito Italiano d’Azione) fin dai primissimi anni ’20, cioè.

Entrarono nelle sue suggestioni, per tradursi nel concreto in motivazioni ideali da spendersi in mille relazioni personali – ha proseguito il presidente nazionale della Mazziniana – , gli azionismi divergenti di Lussu ed Ugo La Malfa, i faticosi innesti del modernismo roosveltiano e keynesiano di quest’ultimo nel patrimonio ideologico, piuttosto strutturato e dogmatico, dei repubblicani storici, la stessa contesa fra i puritani dell’intransigenza (come l’amatissimo e quasi idolatrato, nonostante fosse l’antiretorica fatta persona, Giovanni Conti) e i duttili realisti alla Pacciardi… Quel Pacciardi eroico comandante della guerra di Spagna, ministro della difesa ruvidamente atlantista (e favorevole anche alla Difesa comune europea) negli anni degasperiani, involutosi successivamente nell’intrattabile avversione al centro-sinistra e contro cui, nonostante l’affetto personale, i militanti sardi si schierarono nella conta dei vari congressi: dai Saba sassaresi al Puddu nuorese-cagliaritano appunto.

Ricordata, di quest’ultimo, l’amabile e gustosa capacità di tener banco nelle gare di… affabulazione in cui molti esponenti della politica, o della miglior politica, d’un tempo amavano, con tutta naturalezza, cimentarsi (ricapitolando ogni volta la storia del mondo ed egli puntualmente collocandovi al centro, in alternanza, o Mazzini o Nuoro), il presidente dell’AMI ha concluso auspicando una ordinata raccolta dei molti scritti, editi ed inediti, lasciati da Lello Puddu su temi storiografici ed altri più strettamente politici e d’attualità, così come dei suoi importanti carteggi. Ha anche anticipato la volontà della direzione nazionale dell’AMI di bandire una borsa di studio sulla figura e l’opera politica di Lello Puddu, invitando Gianfranco Murtas a proseguire nel lavoro di catalogazione già avviato nel suo Repertorio documentario.

L’intervento di Giorgio La Malfa

Di indubbio spessore anche l’intervento di Giorgio La Malfa che ha voluto accompagnare la sua riflessione sul contributo recato da Puddu alla storia del Partito Repubblicano Italiano fra gli anni ’50 e tutti gli anni ’80 (meritando l’ultimo ventennio una valutazione a parte) con alcuni ricordi personali di lui, sempre brillante anfitrione, fra le coste spiaggiose, certamente galluresi ma magari anche ogliastrine o baroniesi, e le boscose e pastorali zone interne delle Barbagie…

Questo il centro del suo discorso: dover collocare l’impegno pubblico e di partito di Lello Puddu sul filone stesso di quello che Ugo La Malfa aveva ritagliato per sé nella vicenda politica nazionale, passando dalla militanza antifascista e nella resistenza attiva (politica ed armata) alle ingegnerie costituzionali e istituzionali degli anni ’40, ed alla pratica governativa successiva. Non di formazione repubblicana in senso stretto (veniva infatti dalla cosiddetta Democrazia sociale di Silvio Trentin), il siciliano Ugo La Malfa si batté sempre – fin dalla giovane età, quando con Mario Berlinguer si distinse al primo e ultimo congresso dell’Unione Democratica di Giovanni Amendola – per affermare, in capo alla democrazia liberale, uno spazio di proposta politica avanzata, senza soggiacenze al socialcomunismo: così fu nell’antifascismo dichiarato e già combattivo degli anni ’20, così in quello clandestino e infine in quello bellico degli anni ’40, così ancora nella “fabbrica” della Repubblica e nella attuazione delle politiche di sviluppo generale, sociale ed economico. Per questo ebbe a soffrire dell’adesione al PCI del suo fraterno amico Giorgio Amendola (figlio di Giovanni), per questo combatté nel Partito d’Azione contro la connotazione socialista che Emilio Lussu volle dargli, di fatto svuotandolo di una sua funzione riformatrice autonoma e invece appiattendolo nell’ideologismo classista (e al tempo anche stalinista!) della sinistra.

La confluenza di numerosi azionisti nel PRI, all’indomani delle elezioni per la Costituente – e furono in partita anche Reale, Parri, Visentini, Cifarelli, ecc. (ma tutta la corrente di Democrazia Repubblicana includeva i maggiori nomi di Luigi Salvatorelli, Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Fanuccio Siglienti, ecc.) – comportò evidenti difficoltà nella ricerca della piena armonia con il sentire ideale dei repubblicani storici (di stretta osservanza mazziniana): si trattò allora, infatti, di viaggiare dalle logiche cooperativistiche dell’azionariato operaio o del “capitale e lavoro nelle stesse mani” tipiche del mazzinianesimo dogmatico a quelle del new deal destinate a sfociare nella politica di programmazione e dei redditi (portate in dote dagli azionisti “neoliberali”). Infine però, non senza dolori per la perdita, lungo la via, di alcuni leader di grande carisma, il partito si “lamalfizzò” tutto e le tematiche dello sviluppo economico, senza cui non vi può essere sviluppo sociale e culturale, entrarono nel patrimonio del PRI affiancandosi a quelle tradizionali di carattere tutto istituzionale.

In questo senso all’ex ministro e segretario è sembrato che Puddu – pur nato mazziniano e rigorosamente cresimato tale – avesse recepito, interpretato e promosso a sua volta, tanto più nella sede regionale sarda, l’indirizzo lamalfiano – di La Malfa sr. –, in particolare secondando l’ampliamento e la modernizzazione delle proposte di programma con la crescente affermazione di una sensibilità alle tematiche economiche, quelle stesse che egli padroneggiava per studi, attitudini ed esperienze maturate sul campo, sia come imprenditore sia come esponente dell’associazionismo datoriale: fu infatti tra i fondatori dell’API sarda e presidente provinciale a Nuoro, fu anche vice presidente nazionale della CONFAPI, più volte partecipante ad audizioni parlamentari e consultazioni governative e anche al Quirinale.

Privo di faziosità – ma qualcuno avrebbe potuto dire, rovesciando la formula per arrivare allo stesso risultato, “tanto fazioso nella difesa dei suoi valori da essere comprensivo verso ogni altro fazioso sostenitore dei propri”! – fu uomo di passione e di ragionamento (nonché di leggerezze ironiche), portato al dialogo, consapevole della complessità delle questioni che la politica è chiamata ad affrontare e gestire.

Sono venute qui – garbatamente rievocate, o almeno accennate, dall’ex ministro e segretario – alcune osservazioni sulle “tattiche” di partito che, nei primi anni del nuovo secolo, separarono i due, Puddu e La Malfa jr. cioè: rigorosamente fedele, il primo, alla cultura della sinistra democratica e dunque all’internità al centro-sinistra come alleanza riformatrice, piuttosto manovriero ed anche (sorprendentemente) spregiudicato il secondo. Il quale, resosi conto della radicalità delle rotture intervenute nel seno del PRI a causa della polarizzazione imposta dal maggioritario (vista anche la fuga rapida, solitaria o in cordata, di molti mezzocolonnelli e caporali verso la destra vincente) e contabilizzati amaramente gli sgarbi venuti dalla sinistra (da D’Alema in prima persona), perduta la vigilanza morale delle grandi coscienze in accompagno del partito (da Alessandro Galante Garrone a Leo Valiani), aveva creduto che una “accucciolata” nell’abbraccio di Berlusconi e dei suoi pagani potesse consentire almeno la elezione parlamentare, in limine, di qualche repubblicano, con riserva di riguadagnare in un secondo momento la propria autonomia.

Debbo al riguardo – per testimonianza doverosa e anzi imperiosa di cronista non neutrale – dar conto del “gelo” che è sceso, in quel momento, nella monumentale sala settecentesca dell’Università cagliaritana. I repubblicani amici di Lello Puddu confluiti nella tiepida sera per un estremo simbolico atto di affezione a lui e alla sua memoria avevano tutti infatti, nessuno escluso, ben maturato in loro quello stesso senso del decoro intellettuale e civile che era stato degli intransigenti d’un tempo, dei mazziniani storici come degli azionisti innovatori… Sicché è veramente bastato anche soltanto il nome del grande evasore fiscale tre volte condannato e decaduto dalla rappresentanza parlamentare, del portatore di disonore allo Stato (fra scandali privati ed irrisione perfino dell’inno di Mameli), del cattivo governante in politica economica e dell’inquietante sodale di dittatori o semidittatori di mezzo mondo in politica estera (da Putin a Lukashenko) per concluderne che nulla potevano essi condividere di questa parte (sgradevolissima) del discorso dell’ex segretario. Il quale aveva anche dimenticato, evidentemente, l’insolente padroneria con la quale nel 1994 Forza Italia e il suo capo divorarono le istituzioni, anche quelle parlamentari, impedendo a Giovanni Spadolini la conferma alla presidenza del Senato. (Ciò che è stato opportunamente, ancorché in via indiretta, ricordato poi dall’ing. Gianni Liguori quando – intervenendo a fine serata – ha dato lettura di un breve testo di Giangiorgio Saba, al tempo presidente della locale sezione della Mazziniana, di sarcastica contestazione del deputato ex repubblicano Piergiorgio Massidda: il quale Massidda aveva osato intitolare un circolo forzista a quello stesso Spadolini che il padrone del suo partito aveva offeso tanto platealmente).

Comunque, senza nascondere il dissenso che per svariati anni lo allontanò dai “chiodi arrugginiti” del repubblicanesimo puritano, fra i quali ebbe l’onore ancora e sempre di militare Lello Puddu (che aderì al Movimento dei Repubblicani Europei, confermando in quella progressista l’area del suo riferimento ideale e politico, quando il PRI si obnubilò, facendosi simulacro obbediente alla destra), La Malfa ha concluso rievocando le diverse circostanze che, in anni anche lontani – allorché studiava in America –, lo portarono ripetutamente in Sardegna. Sempre egli trovò in Puddu l’ideale ambasciatore d’accoglienza: non soltanto però la guida ospitale di siti territoriali o l’animatore della convivialità magari a… su Gologone, ma soprattutto colui che aveva l’autorevolezza e la competenza di presentare agli occasionali visitatori il mito e il folclore secolari, e più ancora – fuori dal mito e dal folclore – le complessità isolane, la varietà delle vocazioni sarde fra terra e mare, la sedimentazione millenaria delle culture stanziatesi fra nuraghi e torri costiere, pastorizia ed artigianato di bottega, agricoltura e industria di trasformazione, pesca… ed anche, naturalmente, letteratura ed arte, l’arte figurativa del Delitala o plastica del Ciusa e l’arte della parola dei grandi del foro, dei Mastino, degli Oggiano, dei Pinna, dei Melis…

L’intervento di Marcello Tuveri

Fra gli interventi del presidente dell’AMI e dell’ex segretario nazionale repubblicano ha proposto il suo, tutto a braccio e puntuale nella lucidissima ricostruzione di scenari di vita anche giovanile condivisi in fraternità con Lello Puddu, Marcello Tuveri. Dell’amico di lunghi anni egli ha richiamato le tappe formative in quel di Nuoro, nel tempo che fu quello della guerra e dell’immediato dopoguerra: nella Nuoro che ancora poteva vantare, con uomini come Giovanni Ciusa Romagna (e magari Gavino Pau), le glorie che erano state dell’Atene deleddiana o sattiana, del Chironi o del Ballero magari, dei grandi artisti così come degli studiosi delle discipline giuridiche e mediche…

Trasferitosi a Cagliari per gli studi universitari – erano il 1948 e 1949 e 1950 –, Puddu ventenne si associò da subito ai giovani sardisti, per la stretta parentela ideale che univa l’anima dei quattro mori a quella dei repubblicani e viceversa. Egli portava al bavero della giacca, e se ne gloriava, una bella edera che ostentava come simbolo della grande tradizione mazziniana. E fu in quel contesto che entrò in confidenza anche con coetanei che la sorte avrebbe un giorno nuovamente posto sul suo cammino, come Tito Orrù, allora studente di giurisprudenza e scienze politiche, e un domani studioso, o il maggior studioso, di Giorgio Asproni.

Riferendosi a quella stagione lontana ormai settant’anni, e pur senza richiamarla esplicitamente, Tuveri recuperava, associandola alla propria memoria personale, una testimonianza che Lello Puddu aveva voluto donare, ora non sono più di quattro-cinque anni, al numero speciale In memoria di Tito Orrù del Bollettino Bibliografico. Eccolo allora il Lello che raccontando dell’amico raccontava anche di sé: «… nel 1948 un gruppo di studenti universitari, provenienti dal centro e dal nord della Sardegna, fondò l’Associazione Universitari di Sardegna, allora capitanata da Michelangelo Pira, che si poneva in contrasto con la LAUC, l’organismo che raccoglieva i cagliaritani doc, che utilizzava solo per essa prestigiosi locali in via Università vietandone l’accesso ad altri. Ma vuoi per una certa venatura sardista o per mancanza di locali, l’AUS non fece molti passi avanti e dopo qualche mese si sciolse. E tuttavia da quei giorni i giovani repubblicani come me iniziarono a frequentare il vecchio monastero di corso Vittorio Emanuele, sede del Partito Sardo, e si saldò un’amicizia con Pira, con Orrù, Marco Diliberto, Marcello Tuveri e tanti altri che è durata tutta una vita e per alcuni continua ancora…».

Raggiunta Genova per seguire il corso di ingegneria civile (a Cagliari allora ci si limitava a quella mineraria), egli allargò da subito le sue frequentazioni coinvolgendo nel suo giro anche il giovanissimo, adolescente ancora, Fabrizio De Andrè, figlio del professore Giuseppe, esponente del PRI locale e anche vicesindaco del capoluogo ligure.

Assunse perfino, nel PRI genovese, cariche negli organismi direttivi, Lello Puddu il sardo. Fu assiduo in redazioni di giornali e riviste di varia periodicità, ora politiche ora universitarie, e tanto più lo fu della redazione de Il Lavoro nuovo diretto da Sandro Pertini e condiretto da Francesco Fancello, l’indimenticato Cino d’Oristano del primo Il Solco, o di Volontà del Torraca o di La Critica Politica di Oliviero Zuccarini… Fu poi richiamato in patria – a Nuoro cioè – per lavorare nella impresa di costruzioni stradali dello zio paterno e da allora , meno che trentenne esordiente, unì il lavoro alla prepotente vocazione politica e a quanto l’esprimeva: la predicazione e la scrittura.

Portò nella politica sarda, o in quella porzione minima che viveva però di grandi ideali – e gli stessi sardisti ne erano in certa misura coinvolti – la cultura della “cittadinanza” così come l’aveva predicata Giovanni Conti, associandola alla nozione stessa di “popolo”, la quale nulla aveva, ovviamente, di decadente e irrazionale plebeismo…

Un altro passaggio rilevante è stato, nel discorso di Marcello Tuveri, quello evocativo di un Lello Puddu militante, più che di un “partito politico”, di un “movimento politico”, ché in verità quello repubblicano – ad onta delle ridotte misure della sua organizzazione – è stato, storicamente, ed anche nella fase più matura, moderna e recente della leadership di Ugo La Malfa, una comunità composita e multivocazionale. In essa, accanto al soggetto chiamato alla proposta propriamente politica ed elettorale volta alla rappresentanza nelle istituzioni, si sono collocati gli associazionismi ora nella cooperazione (produttiva più che di consumo) ora nella cultura o negli impieghi del tempo libero, fra sport e teatro…  Sicché, nel sistema sono entrate le cooperative dell’AGCI, le formazioni dell’ENDAS, le sezioni della Mazziniana, i circoli della Federazione Giovanile e quelli del Movimento Femminile… I quali ultimi sono poi una eredità, sempre in rinnovo nel campo dei diritti civili, dell’emancipazionismo e del suffragismo risorgimentale e postrisorgimentale (si pensi anche alla sarda Martini Musu).

Cosicché bene ha fatto Tuveri – riportando la sua prima parte della sua testimonianza ad un osservatorio e coprotagonismo di radice sardista (e proponendo di sé e dell’amico un’immagine speculare: il sardista repubblicano e il repubblicano sardista) – a ricordare di Lello Puddu la partecipazione allo sviluppo delle iniziative di questo o quel corpo del Movimento repubblicano che – ad esempio nell’ENDAS e nell’AGCI – coinvolsero insieme e in fraternità sardisti e repubblicani.

Parimenti meritevole di uno speciale ricordo, ancora da parte di Marcello Tuveri, è stata la presidenza dell’Ente Autonomo del Flumendosa che il ministro Bucalossi affidò, col concerto regionale, a Lello Puddu nel 1976 Si trattò di una presidenza tutta trasparente nella gestione dell’ordinario e tutta propositiva, grazie anche alla leale e competente assistenza del direttore generale ing. Binaghi (futuro assessore tecnico del PRI nella prima giunta Melis), in quanto alla delineazione di una nuova e “rivoluzionaria” politica di raccolta e utilizzo delle acque pubbliche. Da cui è derivato il sistema, ancora ampiamente imperfetto, di Abbanoa.

Accennato alle attività (anche fondative) svolte nell’associazionismo della Piccola Industria ed alle responsabilità affidategli, come vicario del presidente, a livello perfino nazionale, non ha mancato, Tuveri, di richiamare un piccolo ma significativo aneddoto che vide l’esponente della CONFAPI (sardo di nascita e cultura e lavoro) entrare in dialogo con certi imprenditori veneti di religione leghista ed antimeridionale: all’egoismo mostrato come virtù dai nordici rispose soltanto ricordando le migliaia e migliaia di isolani morti per la difesa, proprio in terra veneta, dei confini nazionali.

A concludere la serata hanno portato il loro contributo Marco Pignotti – cui prima s’è fatto riferimento («siamo tornati al proporzionale, ma non abbiamo più i partiti politici che giustificavano il proporzionale, com’era stato nei primi anni ’20, prima della riforma Acerbo, e come è stato dal 1946 al 1994, sicché oggi soffriamo di un sistema politico che obiettivamente è un ibrido e mal si presta ad un sano governo della cosa pubblica», questo press’a poco un altro passaggio del suo magnifico intervento) – e Carlo Dore (già consigliere regionale del Partito Democratico di provenienza dal Patto Segni e dall’Asinello di Prodi); hanno quindi preso la parola anche Gianni Liguori (che ha dato una rapida lettura dell’inserto pubblicato da Gianfranco Murtas per onorare, insieme con quella di Lello Puddu, la memoria di Peppinello e Giangiorgio Saba) e Giovanni Merella, già consigliere comunale a Sassari, consigliere regionale e segretario politico del PRI dopo i mandati di Salvatore Ghirra e Achille Tarquini: l’ultimo segretario prima di Annico Pau, con il quale si è chiusa per sempre una stagione politica animata, talvolta animosa, sempre comunque, anche nelle cadute, presidiata da un senso vigile dei valori ideali di riferimento. Ha concluso la serie Marinella Ferrai Cocco Ortu, già direttrice dell’Archivio di Stato di Cagliari e presidente (dopo la scomparsa dolorosa del prof. Tito Orrù) del locale comitato dell’Istituto per la storia del Risorgimento, confermando l’interesse e il piacere di proseguire nella collaborazione sia con l’AMI che con l’associazione Cesare Pintus nel cui ambito ella ha avuto modo, ormai da molti anni, di interloquire positivamente – così ha ricordato – con Lello Puddu, «generoso nella sua facondia, esito di una mai interrotta passione per lo studio della storia risorgimentale sarda e italiana».

Il saluto di Annico Pau

Prima del congedo è stata data lettura di un breve messaggio fatto pervenire da Annico Pau, già sindaco repubblicano di Nuoro. Eccolo: «Cari amici, per ragioni strettamente personali, non previste e non prevedibili, mio malgrado non potrò essere con voi per ricordare Lello e Giangiorgio, fraterni amici di specchiate virtù morali e civiche.

«Lello Puddu unitamente al mai dimenticato Giannetto Massaiu sono stati per me due punti di riferimenti fondamentali, entrambi dotati di solida cultura e di visione politica, lungimirante e senza tentennamenti, nelle confuse fasi politiche che hanno caratterizzato la politica negli ultimi cinquant’anni.

«Lello sempre coerente all’assunto laico e democratico sin da giovane studente aveva intrapreso l’attività di militante politico in quella Genova fucina della più limpida acqua del repubblicanesimo.

«Nel 1955 lo troviamo citato collaboratore di Giulio Andrea Belloni, allora alla guida dell’ala sinistra del partito repubblicano assieme a Giuseppe Chiostergi, nella sua pubblicazione Dichiarazione di socialismo mazziniano.

«Nelle sue stimolanti conversazioni ricordava sempre le sue frequentazioni genovesi nel mondo laico che ruotavano circoli del libero pensiero di emanazione del Grande Oriente d’Italia.

«Ricordava sempre la sua fattiva e impegnata partecipazione alla campagna per il referendum sulla forma istituzionale dello Stato del 1946, lui giovane militante che attaccava i manifesti dipinti a mano dal pittore nuorese Giovanni Ciusa Romagna, allora prestigioso militante repubblicano. E ogni volta commentava con nostalgia “Magari li avessi conservati…!”.

«Cosa non comune ai dirigenti politici, Lello univa sempre alla militanza politica la curiosità di un intellettuale interessato alla storia risorgimentale che lo portarono alla scoperta dei Diari asproniani, poi valorizzati dai mai dimenticati Bruno Josto Anedda e il professor Tito Orrù.

«Sulla scia di questi studi lo troviamo come attivo promotore del Convegno Nazionale di studi sulla figura del deputato nuorese Giorgio Asproni, che si tenne a Nuoro nel novembre del 1979, alla presenza di Giovanni Spadolini.

«Tante cose e tanti ricordi avrei ancora da comunicarvi e bene avete fatto ad organizzare questa interessante iniziativa che a mio parere dovrà servire come base per ulteriori approfondimenti su una figura di grande rilievo che, senza gesti eclatanti e con modestia, ha partecipato al dibattito politico e culturale di questa isola.

«Augurandovi buon lavoro, mi rattristo molto per la mia mancata partecipazione. Un abbraccio a tutti gli amici, dalla profonda solitudine nuorese».

Le scempiaggini dei rigattieri

P.S. Licenziando questo lungo articolo che è insieme di cronaca e di riflessione e che, guardando alla vicenda di vita di Lello Puddu – e con la sua, alla parallela e non meno virtuosa e fattiva, in campi diversi, di Peppinello e Giangiorgio Saba –, ha voluto come attraversare per tragitti diacronici le esperienze morali e politiche della democrazia repubblicana italiana e sarda, una pur sintetica osservazione critica debbo esprimere ed aggiungere… perché ne resti in futuro traccia di testimonianza, relativamente a qualche notizia comparsa di recente sulla stampa circa le prossime elezioni regionali. In particolare, al consenso offerto da un supposto partito repubblicano italiano, tutto al minuscolo, operante da qualche settimana o mese nell’Isola, al candidato sardista, senatore nazionalitario-indipendentista (come da vigente statuto del PSd’A).

La cosa in sé merita di essere colta perché, pur se soltanto al minuscolo, il nome nobile di un partito storico della democrazia italiana e sarda è scomodato per una operazione miserevole. E’ chiaro che Mazzini e Colajanni, Asproni e Conti, Cattaneo e Pintus, Michele Saba e Silvio Mastio, e direi anche Pietro Mastino e Lello Puddu e quant’altri hanno incrociato la loro vita, anzi la loro missione di vita, ad una storia tanto onorevole, ben difficilmente potrebbero specchiarsi nei frantumi di parole improvvisate e nella estemporaneità di comunicati e dichiarazioni volati più veloci del pensiero e della giusta ponderata riflessione.

Che cosa possa entrarci – mi rifaccio qui ad Ugo La Malfa ed a Giovanni Spadolini, per non tornare ai grandi delle epoche lontane (e pur sempre vicinissime) – un emblema come l’Edera della Giovine Europa, come l’Edera della battaglia istituzionale, come l’Edera della ricostruzione e delle svolte storiche e programmatorie di centro-sinistra a supporto di una effimera figura sardo-leghista, a sostegno di un partito nazionalitario-indipendentista che nel proprio statuto ha scritto:

«Il “Partidu Sardu – Partito Sardo d’Azione” è la libera associazione di coloro che si propongono, attraverso l’azione politica, di affermare la sovranità del popolo sardo sul proprio territorio, e di condurre la Nazione Sarda all’indipendenza.

«Il “Partidu Sardu – Partito Sardo d’Azione”, co-fondatore dell’ALE – Alleanza Libera Europea, sostiene la libera unione federale o confederale in ambito europeo e mediterraneo di nazioni e popoli su basi di sovranità, solidarietà ed interesse reciproco. Rivendica per il popolo sardo la soggettività politica»?

Quando il concetto di responsabilità della cittadinanza viene sostituito od usurpato da quello proprietario che rimanda alle ascendenze ataviche sarebbe forse necessario fermarsi a ragionare immaginando noi isolani esclusi da ogni diritto (e da ogni responsabilità) su Firenze e Trento e Palermo, sulla cultura materiale non soltanto istituzionale del continente… E invece i nostri emigrati lavoratori a Genova e Torino sono italiani nella pienezza di titolarità (e doveri), non ospiti-ospitati d’un leggero calendario! Così, in giusta relazione con quell’invocazione delle politiche parlamentari per «l’unità vera della Patria» lanciata tante volte a Montecitorio da Giovanni Battista Melis appunto «con cuore di sardo e d’italiano»…

Chi ha convinto se stesso di rappresentare nell’A.D. 2019 il repubblicanesimo sardo non sa nulla né del repubblicanesimo né del sardismo… Non conosce nulla dei congressi e dei deliberati sardisti di  Oristano del 1976, di Porto Torres del 1979, di Carbonia del 1981… Non conosce nulla dei recuperi di lealtà istituzionale attribuibili – ovviamente sotto la prospettiva repubblicana – alla presidenza Melis degli anni 1984-1989, e delle contraddizioni di dopo, delle infinite miserie fra cui eccelle l’episodio della bandiera dei quattro mori donata all’evasore fiscale numero uno d’Italia.

I dieci, o cento, o mille repubblicani sardi che conoscono la storia dell’Edera non si scompongono per questa minore usurpazione che durerà il tempo dello sforzo per saltare sul carro del vincitore, o illuso tale, chissà…

Quello che manca è qui perfino il senso di sé, della vita, anche della vita civile, da compiersi come una missione, giusto mazzinianamente: per costruire una società inclusiva e giusta, consapevole dei drammi del mondo sempre attuali e sempre tutti coinvolgenti – altro che le navi imprigionate alla fonda con i carichi umani –, per riconoscere nell’Italia una conquista (anche sarda) di civiltà, dopo che nell’umanitarismo, negli ordinamenti costituzionali, democratici e laici, la patria sognata per viaggiare con essa verso più ampi teatri federali.

Nessun chierichetto al servizio di improbabili canonici potrebbe rubare l’Edera della storia e metterla in vendita, come i rigattieri farebbero, sul mercato dei destri del semplicismo oggi padroni delle contrattazioni.

La storia in certi suoi passaggi, nelle sue (a volte urgenti e impietose) contingenze può allontanare i fratelli, Giovanni Battista Melis da Ugo La Malfa, Oggiano e Mastino da Soggiu o Contu o Pietro Melis – indimenticato Pietro Melis! –, Lello Puddu da Mario Melis, come un tempo magari Gonario Pinna da Michele Saba e Agostino Senes, chissà… Ma la fede dei migliori, la robustezza della loro dottrina, la qualità del loro genio e della loro esperienza sacrificata per il successo dell’ideale e della politica (leggi interesse generale), non ha allontanato gli uomini di virtù, non ha allontanato le coscienze, l’insegnamento dei Maestri ha continuato ad unire e, vorrei dire, imposto agli uni e agli altri di cercarsi reciprocamente. Anche Lussu fattosi socialista e dottrinario (nonché… scandalosamente carrista) rimase nel cuore profondo dei sardisti, nei precordi di Titino e di tutti i Melis, anche nei miei.

Quanta cronaca di questo reciproco cercarsi ho raccolto da Fernando Pilia, amico e maestro mio. Ma che c’entra il sardismo delle gare elettorali d’oggi con il sardismo sapiente d’umanità di Mastino e Melis, di Luigi Oggiano e Anselmo Contu? Che c’entra il sardismo con il leghismo tutto umorale, tutto facilone, tutto slogan, tutto razzista, dei demagoghi che ancora ieri adoravano il dio Po e segnavano i limiti della Padania e dileggiavano il Tricolore? Che c’entra un novello sedicente segretario sardo del PRI con il repubblicanesimo di Efisio Tola campione di Chambery, con Giovanni Battista Tuveri, con Michele Saba e Francesco Burrai e Battista Bardanzellu e Lello Puddu, con la loro purezza e la loro difficile vita di testimonianza?

 

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