Le beatitudini di un Dio fragile, di *** Chiara

RIFLESSIONI SUL VANGELO DI DOMANI

Questa domenica ci viene proposto il vangelo delle beatitudini, che per noi cristiani dovrebbero avere lo stesso peso che hanno per gli ebrei i dieci comandamenti. Il condizionale in questo caso é d’obbligo perché a mio parere è una delle pagine più fraintese e più fraintendibili dei vangeli, quella in cui forse il rischio di capire ciò che vorremmo noi anziché quello che vuole dirci Gesù é altissimo. Allo stesso tempo é una di quelle pagine che, se capite pienamente, possono cambiare la vita, possono dare a ciò che ci circonda un gusto nuovo. È un po’ come quando si legge una poesia d’amore mentre si é innamorati: quelle parole descrivono appieno cosa proviamo, le sentiamo nostre, vorremmo addirittura averle scritte noi per la persona amata per farci belli ai suoi occhi. Questo perché quelle parole ci cambiano, interrogano la nostra vita, ci fanno entrare in profonda empatia con un altro essere umano che nemmeno conosciamo, ma che come noi ha amato e ha ricevuto il talento di trasformare quelle parole in dono per il lettore.

Perché siamo circondati continuamente da parole, che ci scivolano addosso e ci lasciano uguali a prima, ma ci sono invece quelle che ci entrano dentro e ci cambiano per sempre: l’incoraggiamento di nostra madre quando ci sbucciavamo le ginocchia da piccoli, il ‘ti amo’ del nostro compagno, la prima volta che tuo figlio ti chiama mamma. Nello stesso modo dovremmo disporci davanti alle parole di questo umile falegname di Nazaret: come parole che interrogano la nostra vita, che ci mettono in crisi, che ci scandalizzano persino, ma che non ci dovrebbero lasciare indifferenti.

Papa Francesco ci ha più volte invitato a rifuggire questo cristianesimo placido e inoffensivo, questa visione della fede come di una tiepida consolazione alla nostre piccole o grandi sofferenze senza nessuna reale adesione alla sofferenza di chi ci sta vicino, questo buonismo edulcorato da pubblicità natalizia che niente ha a che vedere con la radicale e sofferta ricerca del regno di Dio. E l’unica ricetta che ho trovato per scongiurare questo pericolo è di tentare di resettare tutte le mie idee preconcette su chi è Dio (e soprattutto su come vorrei che Dio fosse), per ascoltarlo in maniera inedita, come se stesse parlando alla Chiara dei 2019 anziché alla folla e ai discepoli di 2000 anni fa.

E percorrendo questa strada mi appare subito chiaro quello che diceva Pascal: o questo uomo era veramente il figlio di Dio, è risorto il terzo giorno e le sue parole sono in grado di leggere e trasfigurare la mia vita, oppure è un mitomane morto nella maniera più infamante e che millantava di essere il Cristo, tertium non datur.

In questo brano Gesù fa una cosa che si diverte a fare spesso nel Nuovo Testamento: vuole provocarci, vuole sradicare totalmente alla base quei valori che diamo per scontati, vuole mostrarci un volto di Dio scomodo per la nostre attese e totalmente inedito. Dichiara beato (dal greco kairòs=felice, fortunato) il poveri, gli affamati, gli afflitti e i perseguitati a causa sua. Giusto per non essere frainteso descrive negativamente gli opposti: i ricchi, coloro che hanno la pancia piena, coloro che ridono, coloro che ricevono la stima e il plauso degli uomini, come i falsi profeti. E nemmeno possiamo supporre che ci sia chissà che metafora dotta e simbolica dietro queste parole, perché erano rivolte a pescatori, pastori, contadini, gente che é già tanto se sapeva scrivere e leggere!

Queste parole a distanza di duemila anni non smettono di essere un pugno allo stomaco, non smettono di sembrare una provocazione bella e buona: chi sei tu per dire che é più fortunato il povero del ricco? Chi piange di chi ride? Sei Dio o sei un folle? Non solo nelle nostra società edonistica, ma mai è poi mai, l’essere umano ha preferito la povertà alla ricchezza, lo stomaco vuoto a quello pieno, le lacrime alle risate, l infamia alla gloria???

Secondo alcuni Gesù ci invita al distacco dalle cose materiali, al fine di una ricompensa futura. In pratica il senso sarebbe soffrire ora per poi essere ricompensati in paradiso. Questo é in piena contraddizione con lo spirito di Gesù, che non era un asceta come Giovanni Battista, ma un uomo come noi (vero Dio, ma anche vero uomo) che andava alle feste e amava il buon vino. Tra l altro lui, a differenza nostra, sapeva ottenerlo dalla semplice acqua, con un risparmio non indifferente!!!

Al di là dell’ironia, Gesù non era il figlio di Dio che recitava la parte dell’uomo, era l’incarnazione di Dio, per dimostrarci che l’umanità è fatta per la fusione con la divinità. È non vi è nessuna contraddizione tra le due!

Gesù amava ridere e mangiare coi discepoli e quindi ci sta sicuramente tentando di dire qualcosa di diverso. Tra l altro il regno di Dio non è il paradiso con gli angioletti della pubblicità della Lavazza. Il regno di Dio sarebbe il mondo come l’ha concepito Lui, dove regna la Sua visione del mondo così come lo aveva pensato in origine. Qualsiasi cristiano, che scopre come Dio vorrebbe il mondo, vorrebbe il mondo come lo vuole Dio. Con lo stesso entusiasmo dell’uomo che trova nel campo la pietra preziosa, vende tutto e compra il campo. Non a caso la radice greca di entusiasmo significa avere Dio dentro. Ed é, se ci pensiamo un attimo, lo stesso entusiasmo che spinge Matteo il pubblicano (un esattore delle tasse, dunque non il capo dei catechisti della nostra parrocchia o il presidente dell’azione cattolica) a mollare tutto per seguire Gesù. L’entusiasmo di quando si è innamorati e si segue come spinti da una forza magnetica l’oggetto del nostro amore. L’entusiasmo di questi uomini che erano dei disgraziati, non certo dei bigotti o dei ligi osservanti, che mollavano tutto per seguire questo umile falegname di un paesino sperduto (diremmo in sardo: ‘a casin‘e Pompu’) che non si filava nessuno perché questo qui gli proponeva una vita nuova, un amore totalizzante, una felicità esplosiva. E tuttora la propone a noi.

La chiave di lettura che poi ci illumina sul senso, non solo del brano ma di chi sia Gesù per me (figlio di Dio o folle???) e di chi sono veramente io, é la prima frase: beati i poveri perché di essi è il regno dei Cieli.

Il termine greco si potrebbe meglio tradurre con pitocchi (da cui pidocchi), coloro che erano in tale stato di indigenza che per vivere avevano bisogno dell’elemosina altrui. Quello che ci sta dicendo Gesù, è che spiega magistralmente Don Fabio Rosini, è che la fortuna non sta nell’essere mendicanti, ma che l essere mendicanti è la condizione necessaria per prendersi il Regno di Dio. Dentro di noi siamo tutti abitati da un infinita indigenza, da un estrema sete di qualcosa a cui non sappiamo dare un nome, un senso generico di insoddisfazione e incompiutezza.

differenza sta tra chi placa tutto questo col denaro, la fama, il potere, il cibo, le risate vuote. (E noi potremmo aggiungere altre anestesie come alcol, le droghe, l’abuso di farmaci..). E che chi questa povertà la accetta e cerca in Dio le risposte. E la risposta di Gesù è sconvolgente: alle nostra povertà, alle nostre fragilità, alle nostre interruzioni di senso non ci mostra un Dio forte, che ci toglie dai pasticci, che ci promette una vita senza ostacoli. Ci mostra un Dio fragile, che nasce da una famiglia umile, che per 33 anni si spacca la schiena e che era spesso incompreso dai suoi familiari e dai suoi discepoli. Un Dio che ha pianto amaramente per la morte dell’amico Lazzaro , che perdeva la pazienza davanti ai mercanti del Tempio, che piangeva di paura prima di essere arrestato. Non il super eroe che ci toglie dai problemi insomma, ma il volto di un Dio che ci ama sempre, anche mentre lo rinneghiamo, gli sputiamo in faccia e lo crocifiggiamo. E Dio é fragile perché ci ama, e chiunque ama non è completo senza essersi ricongiunto all’oggetto del suo amore. Dio ha sete di noi come noi abbiamo questo senso di insoddisfazione sinché non abbiamo trovato Lui, unico vero senso.

Chi questa sete di Dio la ascolta e finalmente la placa come Matteo, chi la rifugge in miseri surrogati.

Scrive Dostoevskij che l’alcolizzato quando cerca l’alcool cerca Te, nostra unica e vera fonte di pace. Ma come fa un Dio fragile a sopperire alle nostre fragilità? Dio ha bisogno di noi ed é venuto per servirci. Il servizio è la più alta forma di amore, nel senso più assoluto del termine. Dio nel suo cuore materno non ha pace sinché tutti i suoi figli non sono con lui e quindi ci cerca, ci brama, ci serve. La risposta alla nostra fragilità non é in una super Divinità, ma in questo Dio che si fa piccolo per accoglierci poveri e farci ricchi. .Un Dio venuto per insegnarci a farci piccoli davanti alle miserie dagli altri, per farli ricchi e mostrargli la sua infinita tenerezza . La misericordia verso gli altri parte sempre dall’aver sperimentato la misericordia di Dio. Misericordia significa cuore povero, cuore che si fa piccolo per non giudicare le miserie, per accoglierle ed amarle. Perché l’unico antidoto alla fragilità é la misericordia. Beati i poveri che sanno di esserlo, perché apriranno il cuore alla misericordia del Padre. Buona domenica a tutti.

 

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