Congresso dei Sardi. Riunione di Bauladu, 21-2-1998. DOPO I PRIMI CINQUANT’ ANNI, di Salvatore Cubeddu

Capita di ritrovare nei ‘cassetti’ dei testi che non sapevi di avere conservato. E’ il caso di questo testo letto dall’A.  nell’assemblea presieduta da prof. Giovanni Lilliu. Potrebbe contribuire a ri-cominciare.


(di questa relazione viene presentata una sintesi in limba)

Siamo qui a parlare  di noi. Non può un popolo parlare delle proprie istituzioni senza  fare i conti con se stesso. Le leggi, le sedi, i ruoli stabilizzati in comportamenti, gli  uomini che il popolo ha eletto: queste sono le istituzioni.

Noi, oggi, viviamo il compiersi delle istituzioni di questi cinquant’anni. Sappiamo che esse sono alla fine. Queste leggi, quelle sedi, i ruoli che abbiamo conosciuto, non bastano più. Noi, che abbiamo trascorso parte importante della nostra vita con essi, noi siamo gli uomini che dobbiamo riformarle.

Un peuple a toujours le droit de reformer et changer sa costitution. Une generation ne peut assujetter a ses lois generations futures ( art.28 della dichiarazione dei diritti dell’uomo, 1793, Parigi ).

Incombe una fine, non dobbiamo aver paura di affermarlo. Tagliamo il nodo, decidiamo. Costruiamo un nuovo inizio.

Siamo venuti qui per ri-iniziare.

Non è, quindi, per compiacimento che svolgiamo il compito di ricordare gli  ultimi 50 anni. Non abbiamo preparato medaglie per i protagonisti di allora,. Ma, neppure, cerchiamo imputati per quello che è stato. L’unico dovere, il problema che ci rimane del passato, è tenerlo costantemente presente, capire. E imparare. Niente, o molto poco, deve restare, per noi, come prima.

L’autonomia limitata

 

L’autonomia che, in quel 31 Gennaio 1948, si esprimeva nello Statuto è molto lontana da noi. Più dei cinquant’anni del calendario.

Anche nelle colline qui vicine i nostri padri seminavano le fave con l’antico aratro. Al bestiame  non veniva  ancora raccolto il fieno. Gran parte dei trasporti delle campagne  viaggiavano con il carro, sugli asini e, al meglio, con il cavallo. I pastori lavoravano negli ovili di frasche e abitavano le pinnete di pietra. Questo era l’ambiente prevalente nelle campagne.

C’erano le città: dei pubblici funzionari, dei redditieri della terra, degli avvocati, degli insegnanti (nelle poche scuole superiori e nelle due università ). Le gerarchie sociali separavano più nettamente di oggi i paesi dalle città: nella lingua, nel vestire, nel modo di vivere. Come ora il paese sottostava, ma le forme erano differenti.

In questo, per tanti versi arcaico, mondo produttivo; in una separazione culturale che annunciava, ma senza prevederne la potenza, l’accrescersi dell’importanza della cultura urbana; dopo una guerra che aveva danneggiato i Sardi nelle cose e negli uomini, ed anche loro aveva lasciato disorientati nel nascere come nel suo finire: in un siffatto contesto, la Consulta regionale aveva lavorato per disegnare il futuro.

C’erano due forze – una antichissima, l’altra recente – che andavano misurandosi con la storia: il clero e le organizzazioni della classe operaia. Il clero costituiva l’unico ceto che unificava con la sua presenza le città con le campagne. Aveva mantenuto una propria organizzazione anche durante il fascismo, era rimasto vicino al popolo durante la guerra, aveva formato una riserva di laici motivata ad influire sullo Stato. Soprattutto, era l’unico a possedere quelle esperienze e capacità di riconciliazione in grado di reintegrare parte della dirigenza del ventennio. Le organizzazioni operaie erano forti nel Sulcis, tenevano referenti importanti nelle due principali città, erano parte di un movimento nazionale e internazionale vittorioso sui campi di battaglia, avevano avuto i loro martiri nelle recenti vicende della Liberazione, erano capaci di praticare nella vita sociale la dura organizzazione del lavoro industriale.

Il percorso che dal 25 aprile 1945 porta al 18 aprile 1948 vede l’Italia, quale riflesso di analoghi processi europei e della logica dei blocchi, passare dal governo unitario di Ferruccio Parri  allo scontro tra il Fronte Popolare ed il blocco ad egemonia D.C. La Sardegna era libera a partire dal settembre 1943, isolata dall’Italia, governata da un Alto Commissario, condizionata dagli Anglo-Americani. Aiuterà con le sue risorse la liberazione italiana ed i suoi combattenti.

In Sardegna scoppia nuovamente il sardismo. E’ subito maggioritario: si nutre della recente delusione italiana. E’ orgogliosa di sè: ha un gruppo dirigente capace nelle professioni e legittimato dalla non-collaborazione con il fascismo. Ha un capo carismatico, eroe della grande guerra e leader della resistenza europea (Emilio Lussu).

Non è qui il luogo – è stato già fatto – per ricostruire storicamente un’ occasione già tanto rimpianta. La forza degli sviluppi esterni, la crescita di quei condizionamenti attraverso le forze politiche locali di riferimento, l’indebolimento dell’autonomismo per indecisioni e interne opposizioni: nel 1948 esso è diventato ormai una ridotta possibilità istituzionale. La stessa applicazione dello Statuto siciliano, offerta e rifiutata nel 1946, sarebbe apparsa ora un regalo, stupido da respingere. Il percorso che trasformerà il potenziale leone in un gatto spelacchiato ha molti responsabili!

Lo statuto del 1948 (ed il Consiglio regionale del 1948) nasce con scarsi poteri, nessuna struttura per applicarli, alcuni nemici (dichiarati), tanti (in tutti i sensi) opportunismi. I ritardi delle norme di attuazione, gli sgambetti della burocrazia romana (ad es. il fallimento, provocato, dell’Airone e della Sardamare, società aerea e marittima regionale) non impedirono una partenza ed alcune scelte tutt’altro che trascurabili. Molti di quelli uomini oggi vanno riabilitati, soprattutto alla luce degli esiti successivi.

L’ autonomia nasce indebolita, cresce povera, vuole vestirsi in fretta delle vesti di fuori. I passaggi li conosciamo.

A questa nostra riunione sono presenti molti valorosi critici di queste istituzioni. Più numerosi di quanti non ne siano stati i protagonisti. E’ possibile sintetizzare.

Durante il percorso sono state quindi tracciate molte critiche: sul testo legislativo (nel congresso Psd’A 1950) come sugli inganni del governo (1954: dimissioni di Alfredo Corrias da presidente della giunta e da consigliere regionale); sulle scelte economiche (la virata del 1958 verso la petrolchimica di base, con l’abbandono dell’indirizzo della valorizzazione prioritaria delle risorse locali) come sulle sue drammatiche conseguenze: la fine, acritica e inconsapevole – anzi, agevolata – di tutto un mondo; l’espulsione di 1/5 della popolazione; le devianze drammatiche, il banditismo etc…

A neanche vent’anni dal suo inizio – nella crisi della metà degli anni sessanta – tutto era chiaro, per chi avesse voluto ascoltare i profeti del tempo. Gli elementi da analizzare erano, tutto sommato, facili, se non si fossero opposti formidabili interessi. Cultura, e non solo numeri di produzione industriale, di origine e destinazione esterna. I prodotti della campagna e dell’ambiente, da valorizzare secondo le forme più rispettose e moderne dell’offerta di nicchia. Miniere da verticalizzare fino al prodotto finito. Istituzioni che  emanassero dal diritto alla propria identità peculiare, federate innanzitutto ai Popoli d’Italia e d’Europa secondo procedure rispettose dei diritti delle Nazioni.

Più di trent’anni sono passati. In questi giorni il Parlamento italiano  inizia il voto di una nuova  Costituzione.

 

Il percorso irrisolto della nostra libertà

 

Ci troviamo ad un cambio di boa?

Come nel 1948, come nel 1992 e, prima, nel 1847 e nel 1794. Quattro tappe scadenzano i due secoli della moderna vicenda della Sardegna, iniziata nelle rivolte delle campagne contro i feudi e potenziatosi nell’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794. Nessuna di esse è stata risolutiva, visto che siamo ancora qui. Ma quelle esperienze ci lasciano lezioni ed ammonimenti. Dai comportamenti dei nostri interlocutori (anche avversari, o nemici), come dagli atti della nostra classe dirigente (che ci offre di tutto: esempi di coraggio e di generosità, ma anche incertezza, codardia, faida, tradimento) possono risultare utili ammaestramenti, per noi e per il nostro popolo.

Quattro indicatori, tra i tanti possibili: la piattaforma di riferimento; la sua presentazione; la risposta; la reazione.

Diciamo subito, a scanso di equivoci, che una simile comparazione trova limiti evidenti nella distanza dei tempi, nella differenza delle circostanze, nella non univoca intelligenza dei capi, nella tenuta del popolo e, non vada mai domenticato, nei rapporti di forza.

1. Il triennio rivoluzionario, 1794 – 1796, esprime la piattaforma dei cinque punti ; decide di rivolgersi direttamente a Torino, saltando i rappresentanti locali del re; una volta respinta, fa muovere il popolo; vince nel breve periodo, esprimendo episodi di eroismo esaltante, da parte dei capi come tra il popolo di città e campagne; fallisce per le contraddizioni interne alla classe dirigente (gli stamenti); i capi che si erano spinti verso la rivoluzione francese pagheranno con l’esilio o la morte, gran parte della dirigenza si sottomette nuovamente ai Savoia, chiede perdono, cerca di dimenticare (qualche anno dopo anche in tutta Europa avrebbe vinto la reazione).

2. I fatti del novembre 1847, verranno riassunti da G. Siotto-Pintor, 30 anni dopo: “errammo tutti”, fummo presi da “una pazzia collettiva”. Troppo tardi! La rinuncia all’autonomia istituzionale, la richiesta della “fusione perfetta” della Sardegna al Piemonte, verrà “sottomessa” alla benevola accettazione del re, in una operazione di forzato mimetismo tra le proprie condizioni e quelle del continente. Essa conclude a livello istituzionale il feroce esito sociale della legge delle chiudende, del codice Feliciano (aveva sostituito la Carta De Logu nel 1827) e dell’ abolizione degli ademprivi. Viene deciso quasi clandestinamente, dopo un moto di popolo a Sassari e a Cagliari, da una piccola parte della classe dirigente. La Sardegna vuole inserirsi, anticipare quasi, il movimento risorgimentale Italiano: non sarà la prima volta che i Sardi vorranno dimostrarsi più realisti del re! A partire dalla riflessione su questi fatti G.B. Tuveri teorizzerà il federalismo Sardo.

3. Il movimento dei combattenti ed il PSd’A, nascono come organizzazione di massa che colloca nell’autonomia e nel federalismo i punti alti del suo programma. Vennero chiamati “Irlandisti” allorché arrivarono in parlamento. Erano contemporanei dell’irredentismo irlandese, quello che vinse: era più deciso, disposto a tutto. L’Italia virava in direzione di un più accentuato centralismo, verso la dittatura. Ai giovani dirigenti sardisti, una volta lasciata per incertezza la prima ipotesi (la resistenza armata al fascismo, da soli), non rimaneva che la trattativa: legazione; attesa di un proconsole fascista a Cagliari ; promesse; trattativa; interne divisioni alla leadership sardista; confusione tra i quadri e gli iscritti; “entrismo” ed opposizione; iniziale parvenza di originalità del sardo-fascismo e sua sconfitta, mentre Lussu si avviava alla resistenza e tanti altri alla non-collaborazione.

4. Queste le occasioni mancate che precedettero l’arrivo dell’autonomia che andiamo a superare. Nel ’43 la Sardegna è isolata; dal 1945 collabora alla ripresa italiana sperando riconoscenza. Deve mettere da parte anche la possibilità di un proprio cammino, perchè prima veniva quello degli altri, si chiamassero i destini rivoluzionari della classe operaia o le benefiche sorti e progressive della democrazia americana.

La consulta regionale diminuisce in efficacia autonomistica ed in accordo interno con il progredire delle decisioni dell’assemblea costituente italiana. Qualche anno dopo, incredibilmente, si lasciò che il governo licenziasse la Fondazione Rockefeller (che era disponibile a produrre progetti anche per la ripresa economica) proprio da quelle parti politiche che più tardi apriranno l’ isola ai rozzi padroni della petrolchimica. E con essi la collocazione subordinata della Sardegna nella divisione internazionale ed italiana del lavoro fu completa: lavorerà le materie prime inquinanti (petrolio, bauxite, etc.) che non vogliono in Europa, fornirà braccia alla crescita continentale, elargirà finanziamenti ai propri sfruttatori. I Sardi affideranno la gestione dell’autonomia a partiti che, in non pochi casi, si sono comportati quali obbedienze locali di centrali esterne, la cui testa, e soprattutto il cuore, erano altrove. Lo Stato, nelle varie sue espressioni, si è messo di traverso nella costruzione della norma, nel suo completamento, nell’applicazione. Anche nel periodo democratico sono stati più che sperimentati i suoi comportamenti: debole con i forti e forte con i deboli. La Sardegna ha vissuto in trenta anni i problemi economico – sociali che il triangolo industriale italiano aveva percorso in cento (la Francia e la Germania in centocinquanta e l’Inghilterra in trecento): la fine del mondo tradizionale (modi di produzione, istituzioni sociali, valori, comportamenti individuali e collettivi, etc.) e l’inserimento subalterno nella modernità. E’ stata la rivoluzione: economica, sociale, culturale, territoriale!

 

Il dovere del tempo

Certo, ci sono aspetti positivi in quello che è successo. Su di essi occorre operare, per costruire “le opere ed i giorni” del nostro tempo.

La modernità si è accompagnata a tanta sofferenza, i mass media hanno portato anche nuove costrizioni, la  cultura degli altri troppo spesso ha umiliato la nostra senza suscitare le necessarie reazioni o inalberando vittorie senza valore. Ma questo lungo viaggio nei tempi e nei luoghi del vasto mondo ha riportato tantissimi Sardi più consapevolmente dentro di sè. Essi, ora, sanno di più di se stessi e del mondo. E’ cresciuta l’istruzione, si sono rinnovati i mestieri e sperimentate nuove strade. Questo percorso fisico e mentale all’ esterno, il positivo paragone con gli altri, la misura delle proprie possibilità, li ha resi più sicuri. Gli errori  stessi, come gli inganni, possono aggiungersi al patrimonio. Cresce la consapevolezza che la libertà è condizione del benessere.

Poiché anche dell’ Italia si è svelata l’artificiosità della costruzione istituzionale, ritornano alla verifica del processo storico le verità dei grandi Sardi : dei Tuveri, degli Asproni, dei Deffenu, dei Lussu, dei Bellieni.

Se non possiamo non dirci anche italiani, la sfida del nostro futuro è diventare nuovamente e totalmente Sardi.

Non più “nazione mancata”, vissuta come triste constatazione. Ci attira l’orizzonte stimolante di Nazione non ancora realizzata.

Per molti la Sardegna che opera da Nazione costituisce il fondamento interpretativo e propulsivo dell’agire. Il Congresso dei Sardi non è un più basso livello di consapevolezza. Non partiamo dall’indebolimento dell’approccio culturale. La via democratica al cambiamento è quella che permette più efficaci risultati nella durata del tempo. A tutti coloro per cui l’identità sarda rappresenta il valore primario nell’insieme della propria molteplice identità: ad essi spetta il diritto di esserci, nel Congresso dei Sardi.

In questo secolo anche gli altri due “inizi” sono stati segnati da un “riunirsi”: il congresso dei combattenti (1919-1922) ed il congresso del lavoro (1950 ). In entrambi la struttura dell’autorità era offerta dall’ esterno : dall’ esperienza militare nel primo caso, dall’ organizzazione politica centralizzata nel secondo. In entrambi la rappresentanza della parte sul tutto era più supposta che verificata. Nei due casi proprio questi limiti resero possibile un’ inziativa congressuale che, anche nel nostro caso, suppone linearità delle decisioni, impegno, risorse.

Non è di poco momento l’ambizione che ci muove. I referenti sono i grandi svolgimenti della nostra storia: piccola, forse, per gli altri; grande, decisiva, per noi. Forza e costanza: le difficoltà devono incoraggiare le capacità e la disponibilità di ciascuno. Bisognerà costruire democraticamente gli obiettivi che ci prefiggiamo, individuare nuove forme di rappresentanza, trovare i modi e le occasioni perché gli uni e le altre vengano riconosciuti. Sarà difficile evitare difficoltà ed opposizioni.

Ogni sardo porta nel suo cuore un sogno. Con la conoscenza della storia, parlando normalmente la nostra lingua, riconoscendoci, il sogno è destinato a crescere. A noi tocca il compito di trasformarlo in progetto realizzabile attraverso l’ azione individuale e collettiva.

Negli ultimi duecento anni i migliori tra gli uomini, ed i loro popoli, hanno assegnato a se stessi gli obiettivi della “libertà-uguaglianza- fraternità”. La libertà si è istituzionalizzata nella democrazia. Per ottenere l’ uguaglianza si è tentato il comunismo. La fraternità è ancora da realizzare. Niente garantisce gli uomini che i migliori tra gli obiettivi non travalichino le stesse loro finalità. Forse per questo gli antichi invocavano i ‘lari’ e gli ‘dei’ sulle loro imprese.

Ai tempi nostri non abbiamo né ‘aruspici’ né indovini. Fortuna e virtù, spero, ci arridano : la prima non dipende da noi ; la seconda, sì.

E quelli che li hanno invochino i loro ‘dei’ sul nostro operare. E allora : Deus s’ assistet !

 

Salvatore  Cubeddu

 

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