Arbus perde Gesuina Aru, donna della famiglia e del lavoro: 99 anni di pesanti prove di vita e buona coscienza, di Gianfranco Murtas

«C’erano i Saba (o i Saba Aru) nella casa a fianco a quella dei nonni, col cortile comunicante, che era come un palco di cemento per le scene dell’accoglienza.

«Era buono lo zio Antorino, guspinese di nascita, classe 1915, che sarebbe venuto meno non ancora anziano, nel gennaio 1962, vittima di un emorragia improvvisa e vigliacca che l’ospedale di Cagliari non aveva saputo fronteggiare. Egli conduceva un negozio di generi alimentari in una zona del paese che mi sembrava lontana ed era invece vicina. Aleggiava un certo fascino su quel mestiere di butegheri e chissà se era seduzione proprio del commercio o non piuttosto della fragranza della mortadella e degli altri affettati, del formaggio anche, sardo e parmigiano, in bella mostra sul bancone di vendita con il pane civraxiu e i sacchi di legumi.

«Il personaggio forte – matriarcale – era però la zietta Gesuina, con la sua cadenza campidanese e la battuta rapidissima che si sposava, come meglio non si poteva, al suo aspetto e alla sua funzione di massaia senza posa.

«E c’erano i cugini, in scala d’età, ognuno uguale e insieme diverso dagli altri, come i tasti di un pianoforte mai quieto… La stagione calda la passavamo a turno a casa Saba e quella famiglia così spontanea e prodiga ci afferrava come una calamita di simpatia, benevolenza ed amicizia senza limiti».

Il paese mitico di Baratzu e Sant’Antiogu

Nell’ospitalità di Vallermosa, negli spazi di una comunità a forte sapienza familiare, si è spenta ora, dolcemente, nel sonno, l’ultima protagonista di una vicenda di vita tutta arburese, quella raccontata nelle pagine di Attorno a su scannu’e tabas. Una vicenda ordinaria e insieme unica e irripetibile, con i suoi triboli e le sue luci, luci soprattutto affettive e morali, non materiali. A 99 anni compiuti con coscienza virtuosa e il merito di una grande famiglia portata su, per il grosso, da lei – Gesuina Aru – in prima persona per una vedovanza prematura. (E vien da pensare: lei vedova ancora così giovane, con bambini di uno, due, quattro anni… e gli altri ancora da crescere, lei che era rimasta orfana come poi i suoi figli, a tre-quattro anni soltanto… E diventata ormai nonna, ancora una volta la sorte l’avrebbe chiamata a una funzione vicaria: nella sua casa sarebbe cresciuto un nipote rimasto anche lui, tenero bimbetto di un anno e per crudeltà del destino, senza padre).

Il negozio di alimentari – sola fonte di sostentamento della famiglia – da portare avanti nella Arbus che, in quel passaggio fra anni ’50 e anni ’60, avviava la sua lenta ma progressiva mutazione: ammodernando case e strade, certo, ma perdendo abitanti, i giovani soprattutto, costretti uno dopo l’altro ad emigrare, a cercare fortuna fuori dal circondario, fuori dall’Isola tanto spesso. Fino a dimezzare quasi, in mezzo secolo, la sua popolazione.

Mi vien da dedicare a Gesuina Aru una pagina di Attorno a su scannu’e tabas, raccolta ordinata (e interpretata) degli episodi di vita di un ambiente sociale certamente coeso, nel cuore del cuore di un centro minerario e agricolo, fra montagna e mare, che tardivamente scopriva, neppure convinto forse, la grazia turistica del suo territorio e della sua costa: certamente un mondo allora – verso la metà del secolo scorso – capace di affrontare, in una permanente dignitosa povertà, dopo i lutti e gli scombinamenti prodotti dalla grande guerra, le fatiche del quotidiano lavorativo, in campagna o in galleria, a Ingurtosu o magari Montevecchio, nei lunghi anni della dittatura e in quelli della nuova guerra (dopo altre missioni imperialiste e sbagliate d’Africa e di Spagna), negli anni della ripresa e della “rinascita”, finalmente: quando anche la squadra di calcio era, ed ogni domenica si mostrava, una forza. Un tempo lento e lungo quello che anche io bambino registravo con i sensori familiari, un tempo fecondo e sudato, consumatosi poi in un rapido cambio di scena, portatore di novità – come ho detto – con la più alta scolarizzazione dei ragazzi (destinati poi a sparpagliarsi nel mondo, non a dar prova di talento nel paese natale e degli avi!), con i generosi soccorsi dello stato sociale, con i finanziamenti delle infrastrutture pubbliche e i nuovi standard di civiltà. Ma appunto anche con questo “lutto collettivo” rappresentato dalla emigrazione.

Gesuina Aru il suo dovere lo ha compiuto tutto intero e con grande dignità, matriarca e parrocchiana fedele di San Sebastiano, l’antica bellissima poverissima chiesa madre di Arbus che era stata comunità missionaria e consolatoria di prete Lampis una volta, di monsignor Meloni e dottor Corona in tempi meno remoti…

1923 e dopo, flashback nella casa di conca’e fraizus

«Setticemia. La moglie di Giovanni Aru ha ceduto ad un’infezione che i medici non hanno saputo domare, un’infezione che s’è sviluppata come strascico dell’ennesimo parto, anche questa volta, come altre precedentemente, infausto. Per molte settimane, dopo quel 1° agosto data della sfortunata nascita, non s’era quasi mai alzata dal letto. La febbre costantemente alta ed il malessere provocato da una dolorosa e persistente emicrania all’origine di un certo ottundimento della coscienza – peraltro mai sconfitta del tutto – avevano cadenzato l’incontenibile declino di un organismo già segnato dalle troppe gravidanze. Per tutto il lungo periodo suo marito l’aveva assistita, vegliandola con l’anziana suocera, con Santina Onnis e altre amiche del vicinato.

«Quando lo scadimento delle sue condizioni s’era fatto più evidente allarmando tutti, qualcuno aveva anche pensato di trasferirla, per un intervento estremo, all’ospedale di Cagliari, ma la mancanza di una vettura subito disponibile aveva impedito quel disperato tentativo di strapparla alla morte. Allora Giovanni Aru era stato preso da un impeto di rabbia furiosa che aveva sfogato armeggiando le cesoie come un nemico. Rapido s’era scagliato contro quel carico spontaneo di grappoli d’uva dagli acini grossi come noci che, con ostinazione, aveva voluto lasciare ad ornamento del pergolato domestico, sperando di poterli cogliere presto con la moglie risanata. Con l’animo arreso del perdente aveva assistito al trapasso e lo choc gli aveva cambiato, in un giorno solo, il colore dei capelli: da rossicci s’erano fatti tutti bianchi.

«Alle 10.30 del mattino di giovedì 8 novembre 1923 il cuore della sua dilettissima compagna di vita aveva cessato di battere, e subito erano venute a casa, una dopo l’altra, e a gruppi, le amiche, e dopo gli altri, tutti quanti dovevano partecipare le proprie condoglianze. Ed ora eccole, le donne, e da un’altra parte gli uomini, a pregare ed a bisbigliare le parole di conforto ai parenti.

«E le bambine? Esse erano preparate alla notizia: Derigna soprattutto, la maggiore, ormai quattordicenne, che in quei giorni e mesi aveva condotto la casa, ma anche Clelia, che aveva soltanto 11 anni. Le altre, le piccole, da alcuni giorni erano state allontanate. Le crisi convulsive della madre, resesi via via più frequenti, avevano creato un’aria di morte incombente che non era giusto far respirare alle bambine, le quali però avvertivano egualmente la sensazione della tragedia ormai prossima. Meno consapevoli, forse, Idina e Gesuina, rispettivamente di 9 e 4 anni, anch’esse mostravano d’intendere la penosa malinconia del lungo momento.

«Era stata Idina, forse, la prima ad accorgersi del decesso della madre. Quel giorno stava aiutando, con le sorelle, suo padre nella “vendemmia” di s’otixeddu che era iniziata molto presto. Eccitata era corsa a mostrare a sua madre il rigoglio di un grappolo che avrebbe dovuto deporre nel grande canestro approntato là accanto. “Castiri, mamai…”. Ma Severa Aru, giusto in quell’istante, aveva reclinato il capo, aprendo il suo colloquio, faccia a faccia, con Domineddio, il Signore della vita e della morte. Una dopo l’altra erano accorse le sorelle: “Mamai, rispondeimì…”, avevano implorato, ma nella camera era già sceso il silenzio.

«Ora qualcuno le ha accompagnate a vedere la salma composta in camera; qualche altro, dopo, ha deciso di risparmiare loro il trambusto di quelle visite e di quegli strepiti, e quindi stabilito di distribuirle fra alcune famiglie, sempre di parenti o del vicinato. Per alcuni giorni, forse qualche settimana, la solidarietà paesana alleggerisce i pesi dei più stretti congiunti. Idina va dallo zio Bissenti, Gesuina – che in braccio alla nonna assisterà a qualche breve scena del funerale – è accolta dall’altro zio più grande, Loi, che avrebbe desiderato crescerla insieme con sua moglie che non poteva dargli figli. (Era stata la stessa Severa Aru – secondo quanto se ne sarebbe riferito post mortem – a raccomandare a suo marito di affidare la più piccola a Loi ed Assunta e le altre, possibilmente, alle rispettive madrine, che erano anche sue e fra di loro, pur diversissime, cugine)…

«La casa di via Mazzini nella quale le piccole crescevano, rappresentava tutto quanto Giovanni Aru avesse portato come suo contributo al patrimonio familiare. Col tempo avrebbe aggiunto vari appezzamenti agricoli, da integrare nella proprietà recata in dote da sua moglie (oliveto, vigneto e capi di bestiame grosso e minuto).

«Casa Aru-Aru – bisognerà chiamarla così – era a due piani. Una decina di metri la separava dalla strada: non c’era né portone né tanto meno cancello ed il cortile, appena appena rialzato sul livello del selciato stradale, era un tutt’uno con quelli adiacenti di altri proprietari. Simile, anche per la sua connotazione di aia popolata da volatili e da altri animali, era il cortile retrostante che, esso pure, non aveva muri di cinta per dividerlo da s’otu della casa a fianco.

«Il primo assemblava is tres prazzas delle case che, dopo quella ad angolo con la via Roma, incombevano sulla lieve altura della via Mazzini. In successione erano le abitazioni di Luigi Atzeni e di sua moglie Luigia (Luisa) Pusceddu (che a lui, zio materno di Severa Aru, sarebbe sopravvissuto fino a toccare i 103 anni); di Angela Atzeni ormai risposa di Luigi Altea, col quale viveva occupandosi in primis del piccolo Battista e quindi della famiglia di sua figlia; e infine, appunto, di Giovanni e Severa Aru e della loro nidiata.

«L’ingresso era unico, pressoché in linea con la prima casa: una tettoia fatta di strisce di tavola proteggeva il cosiddetto “banco”, un grosso tronco d’albero cioè che era l’altare sacrificale delle povere bestie condotte al macello: pecore e capre ma pure, a partire dal 4 dicembre festa di Santa Barbara, maiali…».

Il gioco delle ombre e gli altri

«Le piccole vivevano la loro età indirizzate, è ovvio, soprattutto dalla personalità materna, dal temperamento schivo e quasi austero di Severa Aru. I giochi, l’aiuto domestico, lo studio scolastico, il catechismo parrocchiale, come già l’ordine e la pulizia dell’abbigliamento, tutto rifletteva un input di serietà che veniva spontaneo dall’esempio e dall’educazione di Severa Aru.

«Il gioco preferito era quello delle ombre, ma a concorrere per il massimo gradimento erano anche le acrobazie di supincareddu (o pilastra cioè “pietra piatta”) o del salto della fune, gli alambicchi dell’occultamento del fazzoletto negli interstizi dei muri di pietra, i giri forzati della trottola o di su barrallicu, oppure ancora la simulazione un po’ ripetitiva di sa butega o di sa domu, in cui i ruoli preferiti erano quelli della madre-e-massaia. Negli anni della scuola si sarebbero via via aggiunti passatempi più “intellettuali”, come per esempio potevano essere gli indovinelli dell’“impiccagione”.

«Alla luce delle lampade a petrolio o a carburo che erano in casa per rischiarare la sera, le protagoniste si divertivano a formare delle figure sui muri e a muoverle come al cinema (ancora sconosciuto ad Arbus). Così anche quel certo giorno, l’anno sarà stato il 1910 o il 1911: offesa, poverina, alle gambette dalla poliomielite, al pari di tanti altri bambini del paese, la piccola Iolanda, cinque anni soltanto, è comoda su una sedia accanto alla madre; la sorellina minore Derigna, che sta appena imparando a parlare, balbetta qualcosa come a voler richiamare l’attenzione della madre, ma l’altra la zittisce subito, gelosa e possessiva per necessità di compensazione: «Custa è mamma mia», s’intromette seccata, toccando quella vera, in carne ed ossa, «cussa è sa tua!», soggiunge indicando l’ombra sul muro.

«Tra la finzione e l’impegno volontaristico, soprattutto nell’età minima, erano le grandi ramazzate domestiche. Tutte c’erano passate, desiderose di rendersi utili, dalla maggiore alla più piccola. Iolanda, vivacissima, si trascinava nella casa e afferrando la scopa non la mollava più, se non dopo aver spazzato in lungo e in largo la stanza nella quale si trovava. Così si disponeva a raccogliere i panni sporchi delle sorelline, ammonticchiandoli alla bell’e meglio da qualche parte.

«Idem Gesuina, per dire della minore. Amava indossare il grembiule e come neofita mer’e domu puliva superfici ed angoli, lucidava il piastrellato della cucina e soffiava sulle braci… Ma la commedia era assolutamente seria: lavava e riassettava, raccoglieva i fagioli e li cucinava per i suoi occasionali commensali o per le… figlie. E cioè per le bambole di straccio (con gli occhi ripassati dalla matita) realizzati in ardita economia a casa stessa.

«Andava forte il gioco di sa butega. Con ingegno e fantasia le bambine si costruivano la bilancia: i piatti erano ricavati dai coperchietti delle scatole del lucido da scarpe, fra loro sapientemente legati con uno spago così da posizionarli in equilibrio. Come pesi venivano utilizzati sassi e sassolini di diversa grandezza. La merce in vendita era la più assortita: nel settore alimentare erano assai apprezzate le patate (rappresentate dalle loro bucce) e le angurie (o quanto restava di esse, che veniva tagliato in listarelle di varie dimensioni). Nel comparto della chincaglieria vincevano i tessuti colorati, le cui pezze in esposizione, diligentemente arrotolate, altro non erano che gli scampoli di stoffa e panno raccolti nella “sartoria” materna.

«Si giocava dentro casa o, al massimo, al riparo del cortile. Spesso s’associavano Azeglio e Marta, Delia e Ines, i figli più grandi di Santina Onnis, la vicina che era la migliore amica di Severa Aru.

«I giocattoli erano semplici, ma davvero più che di oggetti il gioco era fatto di azioni, gesti e parole. Comunque una volta, reduce dalla festa di Santa Vitalia svoltasi come tutti gli anni, fra graticole e arrosti di pesce, a Serrenti, Severa Aru – che vi si era recata con suo marito – aveva portato con sé una bambolina di pezza. Quella volta la beneficiata era stata Clelia, che meritava il premio per l’esemplare disciplina dimostrata lungo i giorni e i mesi. E sembra proprio che quel pupazzetto sia stato uno dei pochissimi balocchi mai entrati nella dotazione delle bambine.

«Soprattutto il loro padre era poco propenso a spendere per questo scopo, credeva fosse meglio donare cose “utili”: perciò, coerente a se stesso, aveva derogato una sola volta, costruendo un carretto completamente in legno, che era servito un po’ a tutte le sue bambine e già forse a Iolanda che l’avrebbe preso per una sorta di girello. Per il resto non s’era mai “allargato”. Di veramente belli erano i quattro minitripodi per il caminetto, ch’egli aveva realizzato uno per ciascuna delle figlie. E secondo la medesima filosofia aveva anche prodotto quattro piccole zappe e palette – in scala seguendo l’età delle bambine – per insegnare loro, fra il diletto e l’impegno, a dare una mano in campagna. O anche – come s’era lasciato “scappare” in confidenza – perché entrassero nel corredo delle figlie quando sarebbe venuto il momento di metter su famiglia, auspicabilmente ad Arbus. Per questo aveva un valore doppio il suo artigianato: sfruttando gli intervalli fra i turni di lavoro, a Ingurtosu, s’era servito dei macchinari lì a sua disposizione, ricavandone un’utensileria domestica – non escluso il soffietto per sa giminera – tutta in ferro od in lucido ottone. Essa era conservata in una cassa apposita, che emanava un fascino speciale, forse più per quel tanto di futuro che anticipava che non per il pregio, che pure era reale, dei manufatti. Ma c’era anche un’altra cassa, nel sobariu, che custodiva mirabilie. Tutti belli ordinati lì erano raccolti i documenti che attestavano i passaggi di proprietà della casa e dei terreni così come il contratto di matrimonio e la progressiva implementazione della famiglia…

«La partecipazione alle faccende domestiche veniva vissuto come il compimento di un’attività che emancipava, faceva riconoscere “grande” chi, per l’età, ancora non poteva annettersi i gradi in via ufficiale. Tutte collaboravano con la madre: c’era da rifare il letto, da portare qualche brocca d’acqua dalla fontana di piazza Mercato, limite massimo e invalicabile del territorio percorribile senza l’obbligo dell’accompagnamento di un grande effettivo… O ancora, c’era da recarsi presso questo o quel negoziante della zona per l’acquisto di alcune derrate – pasta, zucchero, sale, ecc. -, anche se va detto che il grosso delle commissioni era la nonna delle bambine, ormai trasferitasi, per sinergie e complementarità, nella casa attigua, a farle per conto della figlia: non c’era pubblico mercato, ad Arbus, e molti dei generi alimentari li si doveva comparare direttamente dal produttore, con il quale bisognava saper trattare».

 

 

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