Gli emigrati sardi: diritto al ritorno? di Enrico Lobina

EDITORIALE  della  DOMENICA, della  FONDAZIONE

Un diritto è un bisogno sociale che la collettività, lo Stato o chi detiene la sovranità, ritiene sia opportuno inserire nell’ordinamento e rendere, in modo più o meno stringente, esigibile. Vi sono diritti costituzionali, dato il carattere programmatorio della carta costituzionale italiana, i quali non sono mai stati veramente esigibili, ma altrettanti assolutamente si.

Nel senso comune il diritto al ritorno è quello dei palestinesi che, cacciati da casa loro dagli israeliani nel 1948, hanno conquistato il diritto al ritorno nella loro terra, seppur a 70 anni di distanza da quei tragici avvenimenti.

Dopo la grande emigrazione degli anni 1960-72, dal 2007 ad oggi le sarde ed i sardi stanno conoscendo una emigrazione di portata altrettanto epocale, la quale comprende l’emigrazione di massa di laureati[1].

Le statistiche delle cancellazioni dai comuni riflettono solamente in parte la realtà. Per ogni sardo che parte e si cancella dal proprio originario comune di residenza, ve ne sono altri due che vanno in Italia o all’estero a lavorare, ma non cambiano la residenza. Nei fatti sono emigrati, ma l’Istat non lo sa. Secondo la Caritas sono 300.000 i sardi formalmente residenti in Sardegna, ma in realtà operativi in Italia ed all’estero.

Zenti Arrubia, un collettivo di giovani sardi di base a Bologna, ha l’obiettivo di far conoscere le contraddizioni della Sardegna agli italiani, i quali spesso ne hanno una immagine stereotipata. Si è anche data l’obiettivo di chiamare a raccolta, dal basso, le sarde ed i sardi emigrati che avessero voglia di discutere del loro futuro, a partire da una proposta fatta per iscritto[2]. L’ha fatto domenica 18 novembre a Bologna.

Durante la serata è emersa la consapevolezza della enormità, per la qualità e le potenzialità del ritorno, del problema emigrazione. Tutti hanno inoltre registrato la positività e le problematicità della presenza sarda organizzata in Italia e nel mondo.

La positività è dovuta alla nazione sarda che si ritrova fuori dalla Sardegna e si dà delle strutture (circoli dei sardi, organizzazioni autonome).

Le problematicità sono legate all’invecchiamento delle strutture stesse (circoli), e ad un rapporto con la politica che oscilla tra il codismo (cioé il mettersi sulla scia del politico di turno) e la scarsa consapevolezza delle potenzialità della emigrazione sarda in Italia e nel mondo.

In generale, parlare di emigrazione sarda oggi significa parlare della Sardegna tutta, con legami che, seppur non attivabili geograficamente, sono sempre attivabili, in qualunque momento, per via della moderne tecnologie a disposizione di chi vive fuori dalla Sardegna ma alla Sardegna tiene.

Al fianco di giuste richieste per gli emigrati sardi (possibilità di poter tornare a votare etc.), è emersa la convinzione che la vera piattaforma rivendicativa debba riguardare l’intera Sardegna, non solamente chi la vive dall’esterno.

 

Perché una sarda o un sardo, se lo desiderano, non possono avere il diritto di rimanere nella loro terra? Diritto al ritorno è il diritto al protagonismo di chi si sente sardo e vive fuori dall’isola, che si deve intrecciare con il rinascimento della Sardegna, un new deal di cui c’è bisogno.

Il XXI secolo, in Sardegna ed in Europa, ha bisogno di scatti in avanti. Sappiamo che il diritto alla salute, alla previdenza, al lavoro, all’inizio del Novecento erano più o meno utopie. Oggi sono realtà ed obiettivi per i quali combattere. Aggiungiamoci il diritto al ritorno, inseriamolo nel nuovo Statuto della Sardegna, che necessariamente il prossimo Consiglio regionale dovrà aggiornare.

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[1] http://www.fondazionesardinia.eu/ita/wp-content/uploads/2018/01/Emigrazione-giovanile-qualificata-in-Sardegna-completo-24.1.2018.pdf

[1] www.facebook.com/events/877831609082866


 

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