Cagliari-Villacidro, Villacidro-Cagliari, le relazioni nella nostra (provinciale ma ben educata) belle époque – seconda parte, di Gianfranco Murtas

Dedicato ad Angelo Pittau (nella  FOTO), Efisio Cadoni e Marco Sardu

Quello raccontato dalla stampa a cavallo di secolo è un calendario ricco e vivace e anzi esuberante e perfino concitato quanto mai prima è stato nella bimillenaria vicenda della comunità norbiese… Ecco, come miscellanea di date ed episodi, di suoni e rumori e colori, di voci e volti di protagonisti, comprimari e comparse di una fascinosa ed irripetibile pièce, una serie di istantanee scattate sulla quotidianità sociale del “paese d’ombre”.

La scuola, le conferenze, il circolo di lettura

La scuola a Norbio è, forse, il settore della vita civile che meglio rappresenta, con il suo dinamismo, quel futuro che è già attualità.

La signorina Efisia Mura, maestra delle ultime due classi del corso elementare, si è dimessa, nell’agosto del 1897, ed il Comune ha immediatamente bandito un concorso per la sua sostituzione, fissando in 880 lire lo stipendio annuo. La selezione premierà una giovane, Maria Andusi, già supplente nel capoluogo.

L’iniziativa del patronato scolastico viene quasi a ruota. La prima idea è del sindaco Pinna e del prof. Di Tizio, venuto a Norbio per gli esami di licenza elementare. Un comitato di “dame” coordina le prime attività. Ne è presidentessa Luigia Oppo, la vedova del prof. Todde, che offre di suo 50 lire e convoca con rapido appello, in villa – quel villino o villone liberty della parte alta della via Roma, poco più (ma sul lato destro) della casa Loru, destinata a diventare un giorno la casa di Giuseppe Dessì (ed oggi sede della Fondazione omonima), le signore della high norbiese, impegnandole tutte, nessuna esclusa, alla cucitura dei capi di vestiario da donare ai ragazzini poveri.

Per parte sua la vedova Fiori, maestra con due decenni pieni di insegnamento sulle spalle e una sensibilità non comune verso i bisogni dei piccoli, organizza una bella serata benefica che raccoglie 60 lire. Come fa anche il giovanissimo Alfonso Dessì, in una pausa dei suoi studi cagliaritani, che ne realizza altre 80. Si può già provvedere, nell’immediato, a 119 alunni – ma presto saranno, ad una conta scrupolosa, ben 2.501 – che avranno libri e cancelleria e quant’altro loro occorra.

A proposito di patronato. È del 1911 – quando gli iscritti alle scuole di Norbio sono circa 500 – un pezzullo su L’Unione Sarda, firmato “Ofrom”, che reca il titoletto “Per la scuola e per l’avvenire”, in cui si sostiene l’esigenza di un efficiente servizio ausiliario, in chiave pedagogica e sociale, della scuola: «…Ma molte vergini, piccole anime, non confortate dalla fortuna, riescono però, mercé il sussidio della parte eletta della società, ad avviarsi nel sentiero del bene; e la dolce soave aura della filantropia, come soffio di fata benefica, rende loro lieta l’esistenza…». E dopo l’incipit paternalistico, ecco la cronaca: cento abitini sono destinati agli scolari più bisognosi, e il mese successivo ci sarà il bis, per altri sessanta.

Di tutto quel che vede si compiace l’esimio ispettore prof. Perri e non meno prodigo di apprezzamenti è il prof. Luigi Aresio, titolare di cattedra al ginnasio di Cagliari, venuto anche lui, l’anno successivo e l’altro ancora, per presiedere agli esami di licenza elementare.

Dei 26 candidati ne promuove soltanto undici, e di questi ben dieci sono, però, i locali, ottimamente preparati dai maestri Marino ed Anchisi; di quelli venuti apposta da Sanluri, San Gavino e Guspini ne passa invece soltanto uno.

Nell’aprile del 1901 la prima ginnasiale diretta dal prof. Giambattista Sechi – sono 20 allievi in tutto – dà la prova del suo valore con un saggio, chiamiamolo multidisciplinare, che riscuote l’applauso generale. Date le premesse, l’anno che verrà si potrà senz’altro completare il corso.

In questo primo decennio del secolo nuovo, le classi aumentano in media di una all’anno, e la, direzione didattica, giustamente dal Ministero affidata al maestro Salvatore Manno – l’autore di Iridescenze –, dovrà, essere, appena possibile, norbiese in esclusiva e non più… pro quota nel più largo circondario.

A mettere a rumore l’ambiente, nel 1904, è l’appello che parte dal paese per la perequazione degli stipendi delle maestre a quelli dei loro colleghi uomini. Che senso ha, infatti, discriminare ancora fra i sessi? Anche perché, a parte il valore educativo della parità, quando c’è da contribuire ad una buona causa, le finanze private delle une non sono mai meno generose di quelle degli altri. Vedi il caso dell’Istituto provinciale degli orfani degli insegnanti elementari. Fra le primissime a versare il loro obolo sono, in provincia, le maestre di qui: Francesca Oppo, Maria Antonietta Levreri, Luisa Frasso, Maria Perrucco, e naturalmente, con loro, i colleghi. Vincenzo Toro, Raimondo Deidda, Salvatore Serra e Francesco Manno (il figlio del direttore, che del padre ha voluto seguire le orme).

È di questi stessi anni la costituzione della biblioteca popolare circolante che rappresenta anch’essa novità importante, incoraggiata fin dall’inizio dall’ispettore Andrea Pirodda, capo del distretto che ha sede a Sanluri.

I primi libri che arrivano, per donazione, dagli amici e dagli amici degli amici, non sono forse quelli più rispondenti agli interessi dei lettori potenziali: perché, oltre a Pinocchietto palombaro e Pinocchietto in automobile e a Gli amici di Edmondo De Amicis, ci sono anche Fedra di D’Annunzio, Sul lago di Lemano di Sergi, La signora delle camelie di Dumas.

Le cose migliorano. Alle Poste di piazza Frontera giungono grossi colli dallo stesso dicastero della Minerva e da taluni editori: Biondo e Sandron di Palermo. Albrighi e Segrati di Roma, ecc. Altri pacchi vengono da Cagliari o direttamente da Pontario, Ordena ed Olaspri, e nel mucchio non mancano certo titoli più interessanti. Le signorine Ines Ferrari e Maria Piga inviano tre volumi ciascuna – Il libro delle fate, I mestieri strani e L’isola contrastata la prima, La Serbia durante la guerra del 1876, La Sardegna di Gastaldi Millelire e L’Africa australe di Livingston la seconda –, mentre la signorina Anita Giustetti manda dieci numeri della rivista Luce e ombra.

Il direttore Manno, che ci crede moltissimo, si butta a capofitto nell’impresa: vuole arricchire in pochissimo tempo la dotazione libraria che vede come efficace supporto della lezione tradizionale in aula (o, peripateticamente… in pineta). Ed ecco che in uno o due mesi soltanto riesce ad ottenere ulteriori 150 testi, più assortiti di quanto non sia dato immaginare. Un buon numero li spediscono il provveditore Garelli ed il prof. Pirodda, ma a loro si aggiungono i bambini Maria e Carlo Silvetti che vivono a, Mantova (donano una “bibliotechina rurale”) e molti altri generosi di Parte d’Ispi e San Silvano: il signor Efisio Mauri, l’avv. Cogotti – il nostro avvocato-poeta e prossimo sindaco –, l’ormai ex sindaco Pinna e l’ex consigliere Angelo Cadoni, il capitano Dessi (prossimo padre di Beppe lo scrittore!), i signori Ottavio Scano, Umberto Gambula, Giuseppe Cabriolu, la maestra di Cagliari Valentina Caneschi, le signorine Margherita Cocco ed Anna e Maria Levreri, ecc.

Viene anche eletto il direttivo che amministrerà la biblioteca: ci sono dentro un po’ tutti quelli che, in paese, hanno contribuito: da Francesca Oppo ad Efisio Maury, da Ignazio Cogotti a Francesco Dessì, da Ignazio Murgia ad Anna Levreri, al giovanissimo maestro Francesco Manno, che assume le funzioni di responsabile della catalogazione e del prestito.

La cultura non è, però, questione soltanto di scuola. Cultura vuol dire conoscenza, chiavi interpretative della realtà, capacità di orientamento fra problematiche varie e complesse… È affare di tutti, quindi, proprietari e lavoratori del braccio, artigiani ed industriali…

Chiamato dal signor Gennaro Murgia, che gli farà anche visitare Monti Omu e le colline rimboschite attorno al Carmine, accompagnandolo poi ai rigogliosi agrumeti del signor Basilio Costa, nel giugno del 1892 tiene un’affollata conferenza d’istruzione sulle malattie più diffuse fra il bestiame e sui metodi migliori per prevenirle e combatterle, il prof. Giuseppe Sforza, direttore della cattedra ambulante di agricoltura della provincia. Egli raccomanda l’uso dello stallatico «perché – assicura – assai superiore al concime chimico», e riferisce infine su alcuni esperimenti di castrazione di bovini ed equini.

Nello stretto giro di settimane, ad un’altra lezione è invitato il dottor Mastino, assistente presso la medesima cattedra, il quale si assume il compito di spiegare come «far risorgere» la produttività delle campagne. E nella primavera di qualche anno dopo, metti il 1901 – è il prof Attilio Melisi, delegato antifillosserico ENOT, ad utilmente intrattenere un uditorio di ben 400 possidenti e viticoltori, riuniti nella più grande aula delle scuole, illustrando le nuove tecniche e soprattutto i nuovi prodotti – meccanici e chimici (sostanze anticrittogamiche, poltiglie bordolose e zolfo ramato) – per la difesa delle coltivazioni dai parassiti. E un’altra volta ancora – siamo adesso nella primavera del 1910 – tocca al dottor Berlingeri, direttore ad Oristano. Tema della sua conversazione: “Il foraggio e la concimazione diretta e indiretta”.

Né è tutto agricoltura. All’archeologia, ad esempio, pensa il prof. Cartaillac. Assistito dal suo illustre collega mineralologo Domenico Lovisato (docente a Cagliari ma di casa a Ruinalta), proprio al battesimo del secolo egli visita palmo a palmo la zona di Matzanni, non senza deliziare i propri accompagnatori con la sua parola competente e briosa, generosamente ricambiato, a tavola, con qualche squisita pietanza della tradizione locale.

Da un’idea del signor Gennaro Murgia viene il Circolo di lettura inaugurato nel 1902. Presto arriva anche la bandiera sociale, dono dell’industriale Fois Farci, che l’ha fatta ricamare dalle abili mani della figlia e delle signorine Schivo.

La cerimonia di consegna è molto suggestiva e commovente, e giustamente allietata dal classico cumbidu di vini bianchi e dolci. Quel che manca è, purtroppo, l’attesa benedizione del vessillo, nonostante la contemporanea presenza di tre sacerdoti amici e fors’anche soci. Il vescovo difficile di Ales ha, infatti, detto di no. Si sarebbe voluto portare quel labaro in parrocchia, e in giro nelle processioni di tutti i patroni di Ruinalta e invece…

Un’iniziativa culturale in mix alle ragioni patriottiche è quella assunta dall’ottimo signor Costa – proprietario ed industriale onnipresente (loggia massonica inclusa) – il quale promuove la raccolta di fondi da tempo avviata nel capoluogo e in qualche altro centro del Campidano, per l’erezione di un monumento al buon padre Dante.

In paese mettono mano al borsellino – ché si tratta sempre e soltanto di spiccioli! – in una trentina al massimo. È il 1905. L’erma del sommo poeta verrà, a Cagliari, sette anni più tardi, quando sarà piazzato all’ingresso del liceo-ginnasio “Dettori”.

La musica, la fanteria, il patriottismo e San Sisinnio

A San Silvano, dove le persone che se la passano in una pur sobria agiatezza non sono davvero poche, si parla con qualche frequenza di feste, di ricevimenti, di musica e di balli e anche di pranzi. Cose borghesi, che fanno e danno movimento al paese, ed ogni volta suggeriscono al corrispondente volontario di qui dieci o quindici righe da spedire alla redazione del giornale. Che, essendo pubblicato a Cagliari, può così rendere abbondante gloria ai cittadini i quali, sempre più spesso, sono chiamati ad animare le serate d’arte e di mondanità nelle case dell’high che s’affacciano sulla Fluminera.

Accompagnati al piano dalla signora F. Brundo, una volta si esibiscono due giovani che vengono appunto dal capoluogo: il soprano Pierina Ordioni (figlia del celebrato avvocato Giuseppe), che estasia tutti con le sue «potenti note acute, squillanti ed argentine», ed il basso Ugo Serra. In repertorio alcune delle migliori arie di Verdi e Rossini.

Le occasioni di far allegria non mancano mai: si combina magari un’escursione, a piedi o a cavallo, alla Spendula con una conferenza, una serata danzante con qualche gioco capace di divertire tutti.

A godersi l’esibizione della società filarmonica di Gonnos quasi al suo debutto è, però, in una bella serata del l 893, l’intera popolazione. Orfeonisti e cantanti riempiono piazza Frontera, proponendo al pubblico assiepato tutt’attorno il duetto della “Lucrezia Borgia”, vari ballabili e soprattutto la marcia intitolata proprio “Gonnosfanadiga”, di cui è autore lo stesso capobanda, il maestro Cintura.

Nel giugno del 1894, per festeggiare l’onomastico della sua nobil consorte, è stato il prof. Todde ad organizzare un trattenimento che dura almeno dodici ore. Si inizia con le danze sullo spartito del quartetto d’archi diretto dal maestro Cintura e si finisce con il banchetto che arriva al caffè e all’ammazzacaffè non prima delle 5 del mattino, restituendo così ai molti e selezionatissimi partecipanti le calorie perse fra mazurke, polke e walzer.

Procede il calendario. Nell’agosto del 1895 esordisce anche a San Silvano il fonografo. A presentarlo è il signor Melis: «Un miracolo per i nostri villici – riferisce il corrispondente de L’Unione Sarda – i quali accorsero in massa a spendere la tenue moneta, contenti pur di sentire la canzone di un baritono villacidrese ed il ballo sardo, suonato con lo zufolo da un nostro montanaro, raccolti sulla lastra a persuasione degli increduli».

Del Circolo di lettura è l’iniziativa del pary approntato, nel febbraio del 1899, presso le scuole del Carmine. Al piano nientemeno che Efisio Onnis, il pretore, e la sua diletta sposa. Il giudice sta per lasciare il paese, trasferito a Carloforte. A San Silvano è atteso, da Guasila, il dottor Mario Deplano.

Anche sul versante dell’entusiasmo sportivo e goliardico Parte d’Ispi si rivela luogo cercato e sempre ospitale. Così è, ad esempio, per i ciclisti cagliaritani che, impegnati nella loro lunga attraversata dell’Isola (la meta è Sassari), credono bene di fare sosta qui per rifocillarsi con liquidi e solidi della migliore produzione locale.

Essi sono accolti in municipio con un bel discorso di benvenuto letto dal maestro Manno sr e, prima di partire per Guspini dove pernotteranno, i vari Costa e Devoto, Dessì ed Orano, ecc. passano il testimone agli altri della comitiva che, arrivati in ritardo, riposeranno alla cantoniera sulla strada per Siliqua.

In pellegrinaggio ecologista alla valle della Spendula sono, nell’aprile del 1902, i goliardi della Corda Fratres cagliaritana. Esaltati dall’acquavite e dal maraschino che qui scorre come il latte, passano una giornata indimenticabile, rallegrando l’ambiente col loro inno sociale, magari in latino: «Utcumque dulcis limina patriae, solo exsultantes corpore liquimus, / miramur ignotis in oris / nota diu bene corda, fratres…».

Non meno giovani sono i quarantasette zappatori che, sotto il sole d’agosto nell’anno 1903, sono inviati da Cagliari a Narti per preparare il terreno su cui dovranno acquartierarsi, per quaranta giorni, gli uomini del 42° reggimento impegnati nelle manovre di routine. E la prima volta che interrompe la prassi che ha visto sempre il Sassarese come zona prescelta per questo genere di esercitazioni.

E arrivano finalmente i bravi fanti dell’esercito italiano, trovando qui un’aria che è salutare come forse da nessun’altra parte nell’Isola. Alla faccia del Secolo di Milano che aveva scritto di Olaspri come una terra malarica e da fuggire, mandando così su tutte le furie l’ufficiale sanitario che aveva replicato accusando quel cronista di non saper neppure leggere la cartina geografica.

Annunciati già a S’Acquacotta dalla fanfara un po’ marziale e un po’ festosa, i soldati arrivano nel giorno di ferragosto. Trovano la via Roma imbandierata col tricolore nazionale e i drappi più belli alle finestre di casa. Dopo il saluto del paese tutti in tenda (gli ufficiali sono invece ospiti nell’abitazione di Basilio Costa, ancora lui!).

Tutto procede secondo le migliori previsioni, con l’apprezzamento e gli auguri del comandante De Giorgi, che convocati i suoi all’alba in piazza Frontera, li passa in rivista motivandoli con rinnovato amor di patria.

Sono soltanto queste le liturgie patriottiche che piacciono ai clericali di Norbio. Per il resto essi vorrebbero tornare a Pio IX e cancellare il Risorgimento con un sol frego.

Sconfitto il partito del sindaco Pinna (e dei notabili allineati sulle posizioni del prof. Todde, dai Cadoni allo stesso Cogotti), la nuova schiacciante maggioranza guidata da Giovanni Anni-Sessini cerca di riformare, ma all’indietro, perfino la toponomastica.

Nell’aprile del 1902 il Consiglio Comunale accoglie la proposta dell’assessore Giuseppe Piga deliberando di disbattezzare l’antica piazza Zampillo da tempo ormai divenuta “XX Settembre”, per intitolarla invece al… Popolo. Idem per… la via Garibaldi, ch’esso vuol dedicare a San Sisinnio con la giustificazione, appunto, che si tratta dell’unica strada di collegamento fra il centro del paese e l’antica chiesetta del santo anti-streghe, anti-cavallette ed anti-mosche. La gente, che pure ama il suo protettore, e però coltiva non di meno il mito del generale dell’Unità nazionale, insorge. Ce ne passerà, quindi tutto tornerà   ab antiquo.

Quel benedetto 20 settembre! Per la verità, il più delle volte la data suprema dell’Italia unificata è celebrata con riti solenni anche dalle amministrazioni più tiepide e defilate.

Nel 1904, ad esempio, la commemorazione della storica breccia di Porta Pia è tenuta, presso la sala della Conciliatura, dal figlio di quello stesso ex assessore e prossimo pro-sindaco clericaleggiante, lo studente Emanuele Piga (repubblicaneggiante) – un norbiese destinato a far carriera – e da Salvatore Serra, compito maestro alle primarie. Ad introdurre i loro discorsi è il dottor Giovanni Spano, che, chiuso l’ambulatorio, va ad esaltare il triplice significato storico-politico-morale dell’evento, ricordando anche i sacrifici di tutti i martiri dei moti liberali e delle guerre d’indipendenza.

Poi tutti fuori, sul terrapieno del municipio: tricolore in testa, il corteo sfila nella sera, intonando inni patriottici e gridando al cielo gli evviva di circostanza al XX Settembre, a Casa Savoia, all’Italia degli italiani.

Non meno sentita, certamente nella retorica di Stato ma anche nello spinto pubblico, è la ricorrenza dell’unità nazionale. Il 27 marzo 1911 si festeggia il cinquantenario della proclamazione di Roma – in quel giorno non ancora liberata, però, dai patiboli del papa-re – capitale d’Italia. Il sindaco Cogotti, che fa professione di liberalismo, ordina l’affissione di un manifesto che riecheggia quanto egli stesso ha scritto in rima, in anni lontani, citando Villa Glori e Monterotondo e Mentana, sì per celebrare altra cosa, l’impresa dei bersaglieri di Cadorna cioè, ma insomma…

Il tricolore sventola ai balconi di tutti gli edifici pubblici di Norbio, così come nella sede del Tiro a segno come in quella del Circolo di lettura e perfino – udite, udite – nel palazzo vescovile.

A scuola ogni insegnante intrattiene i bambini sul significato della festa, illustrando le figure più eroiche del vasto paradiso giacobino ed anticlericale. Alle 17 orazione ufficiale del direttore Manno, con osanna ripetuti alla “Terza Italia”.

Al tramonto, poi, fiaccolata straordinaria, con impiego di ben 300 torce. In testa due alfieri, si parte dal poligono di Castangias per attraversare l’intero paese: Roma intangibile, Roma capitale, Roma laica. Il palazzo comunale imbandierato ed illuminato reca alle finestre alcuni cartelli con scritte inneggianti alla Patria risorta ed all’Urbe caput mundi.

Una volta – l’anno è il 1904 – succede che i norbiesi odano i festosi rintocchi delle campane della vecchia chiesetta dei mercedari (ora di proprietà comunale) che annunciano la nascita del pretendente al trono dei Savoia. Monarchico di cuore, il pro-sindaco Piga si precipita a spedire al ministro della Real Casa, a Racconigi, un alato messaggio di felicitazioni alla Corona («dalle montagne lontane perdute nel mare che protessero un giorno la culla del re di Sardegna…»). Anche stavolta luminarie, evviva patriottici e tutti per le strade del centro. La bicchierata d’onore, evidentemente d’uopo, è offerta dal signor Bolaccbi-Giua, esponente della maggioranza comunale, a casa propria.

Ma si diceva anche di San Sisinnio. Egli, il santo de su coloru (o de su daganu), il santo de sa musca (o de s’aragna), il santo de su pibirizzi (o de su caboniscu o de sa torrada’e su santu) – conserva ormai da secoli un posto speciale nel calendario delle devozioni mezzo cristiane e mezzo pagane di qui. Lo conserva per quel tanto di magico che c’è nella leggenda del martire (che morì tra atrocis penas e cunvertendu meda genti), una legenda presa tutta per oro colato da una popolazione conservatasi felicemente superstiziosa fin dalla protostoria.

Ogni anno la festa inizia nel tardo pomeriggio del primo venerdì di agosto. Le reliquie muovono, in processione solenne, dalla parrocchiale, per raggiungere la chiesetta di campagna, ad un’ora dall’abitato, verso Matzanni, luogo ameno popolato soltanto da giganteschi olivastri.

Oltre ai pellegrini veri, col rosario in mano, qui arrivano anche i carri e le bancarelle come per il mercato, e pedibus calcantibus contadinotte e giovanotti pronti al ballo della tradizione e pronti anche, bisogna dirlo, a sgarrare, a mischiare al sacro del tempo e del luogo un po’ delle loro… voglie profane.

L’edizione del 1901 pare più pomposa del solito. Ad organizzarla è la società “Aurora” e mai come stavolta c’è affollamento nella processione della scorta al sacerdote che, con cotta e stola, reca a cavallo i frammenti delle venerate reliquie del santo.

Aprono i carabinieri e la cavalleria, seguono il barracellato, le confraternite ed il popolo orante. L’ispirato panegirico del can. Carmelo Nieddu incanta i fedeli. La messa è accompagnata dall’organista Randaccio, che sa dare quel tono di maggiore solennità al rito. La navatella con le sue sobrie arcate in tufo è strapiena di devoti: l’altarino dorato che un certo giorno dell’estate 1921 sarà profanato con un incendio doloso e sacrilego, è illuminato dalle candele e dalle preghiere di chi chiede una grazia, di chi cerca di sdebitarsi col Cielo per la grazia ricevuta.

La sagra, fuori dal tempio, coinvolge tutti: le traccas di Decimo e Villasor, quelle di Arbus e Serramanna e, naturalmente, quelle di Norbio e Ruinalta – le più belle di tutte – si disputano il premio di 40 lire. Alcuni giocano, secondo l’uso… tirando al gallo. Per parte sua il giovane Soro, figlio dell’illustre professor Serafino, si esibisce in una gradevole chitarrata, cantando a voce piena i testi da lui stesso composti.

Il ritorno della reliquia in paese è grandioso anch’esso, e non soltanto per la partecipazione degli ottanta cavalieri. L’omelia-panegirico è adesso del parroco di Sanluri, il teol. Marini, e tutti, recitate le speciali preghiere e cantate le lodi del Signore e del suo servo e martire, si congedano dal loro protettore, dandogli appuntamento all’anno che verrà.

Il sogno della ferrovia e l’appalto dell’illuminazione

È di questi stessi anni la mobilitazione promossa dal Circolo di lettura rappresentato da Antonio Cadoni, Giuseppe Pinna e Serafino Gaviano e dal comitato del Nuovo circolo (così si chiama), in persona di Angelo Francesco Bolacchi-Giua, Efisio Serra, ed ancora Serafino Gaviano, poiché si dia corso al progetto di quella strada ferrata già invocata al Ministero dalle municipalità, oltre che di Norbio, di Calasetta, Sant’Andrea, Santadi, Tratalias, Narcao, Gonnosfanadiga, Guspini, Arbus e Terralba: una tratta ferroviaria da Sant’Antioco a Marrubiu, passando per tutti i paesi istanti.

Mentre si prepara un incontro con i parlamentari sardi, ai quali si chiederà un deciso intervento sul governo, i due circoli diffondono un documento con cui sperano anche di sensibilizzare la pubblica opinione: «Deve essere compito della Nazione, ripeteremo, perché i comuni reclamanti, avendo prestato il loro concorso nelle spese sopportate dallo Stato per dotare di comode comunicazioni le altre contrade, hanno incontestabilmente diritto a pretendere che anche per loro debba cessare lo stato di segregazione che fu ed è la traversia di ogni idea di progresso.

«… Nessuno ignora – continua il testo – che il circondario d’Iglesias costituisce una regione, la quale, per le ricchezze minerarie, potrebbe dirsi “la California d’Italia”. Tutti deploriamo che queste ricchezze in massima parte siano sfruttate a profitto di speculatori stranieri; riflettiamo che gl’immensi tesori, sottratti a questa nostra produttrice regione, rappresentano altrettante ricchezze sfuggite alla Nazione…».

I collegamenti, certo. Ma è una stagione, questa, che impone un più generale avanzamento degli standard civili di una popolazione che cerca l’integrazione modernista.

L’Amministrazione pubblica, chiamata per dovere istituzionale a guidare tale processo di crescita diffusa, delibera, nella molteplicità delle sue articolazioni anche territoriali, gli interventi da attuare in questo e quel settore.

Fra 1900 e 1901, dopo quello del Monte di soccorso per la riparazione del magazzino montuario al piano terreno, è la volta, ad esempio, del primo esperimento d’asta («all’estinzione di candela vergine») bandito dal Comune stesso per la illuminazione del paese, partendo da una base di 1.600 lire. Si inizia con un piano di 21 fanali a petrolio, poi le cose migliorano velocemente: dal novembre 1904 si passerà al gas acetilene, e già si accenna ad un grande impianto elettrico.

Migliora anche la situazione igienico-sanitaria, benché non si escludano retrocessioni improvvise e però, auspicabilmente, momentanee: una volta – diciamo nel 1910 – per l’epidemia di pertosse, un’altra per i casi di difterite…

Nel febbraio del 1909, intanto, si mette mano al progetto di un istituto antimalarico che possa servire l’intero circondano ed anche oltre.

Distillerie, ecologia e il poligono di tiro

«Vieux Cognac, Rosolo mandarino, Acquavite speciale e Acquavite commerciale»: l’elenco delle produzioni è nelle manchettes pubblicitarie della premiata ditta Gennaro Murgia (proprio agli albori del secolo nuovo essa ha ricevuto la medaglia d’argento all’Expo universale di Parigi ed il suo benemerito titolare è stato premiato anche lui, da sua maestà il re, nel 1903, con un bel diploma di cavaliere).

«Alcool aromatizzato dall’anice», base per la preparazione dell’«Anisette de Bòrdeaux», «limpida e incolora, di ottimo gusto satura di principi aromatici e che in dose piccolissima rende l’acqua lattiginosa», aggiunge la réclame che avverte altresì quali siano i depositi, nel Cagliaritano, forniti del delizioso prodotto: in città in via Baylle 26, dal signor Eugenio Frongia, ed a Pirri, presso il magazzino del signor Bernardo Dessì.

Azienda leader, coi suoi modernissimi macchinari a vapore, quella del signor cavaliere Murgia, ma non esclusiva. Qui prosperano una decina e passa di distillerie, ciascuna con la sua specialità e la sua ambizione di collocarsi nelle preferenze speciali del pubblico. L’ultima arrivata, nel marzo del 1898, è quella di Raffaele Saiu Anni. Umile ma decisa, essa pure va alla conquista di un mercato che non sembra mai colmo.

Acquavite e resine aromatiche sono due grandi virtù di Parte d’Ispi. Col rimboschimento, nel cuore di Seddanus, già nel 1902, prende piede la buona tradizione della festa degli alberi. Seddanus è forse la zona dove la pineta appare più rigogliosa e i suoi viali richiamano ogni settimana scolaresche e comitive tutte di buon gusto ecologista.

Nel maggio del 1909 è li che si danno convegno la bellezza di 120 maestri di tutta o quasi la provincia. Sono una trentina i comuni rappresentati. Fra i più anziani intervenuti ecco la signora Riva di Las Plassas – 47 anni di servizio – e la Agus di Guspini, la Carta di Serrenti, la Demartis di Gonnosfanadiga, la Congiu di Arbus, il maestro Marceddu di Sanluri che è il “nestore” degli insegnanti sardi.

La tavolata è opportunamente allestita in mezzo agli alberi, così da consentire ai commensali di respirarne i preziosi umori… E quando, ancora accomodati, si passa ai discorsi tutti di taglio squisitamente ambientalista o pedagogico-ambientalista, è un continuo batter di mani. L’ispettore Pirodda col suo bel dire raccoglie più applausi di tutti: «Amare i bambini è preparare loro la fibra, purificarla se occorre; spronarli a disciplinare la mente, a governare istinti e passioni, fra cui sono quelli della distruzione. È a questi istinti, non combattuti, alimentati anzi, nel crescere degli anni, dall’ignavia delle plebi, che noi dobbiamo se la nostra diletta Sardegna paga annualmente un grave tributo alla violenza dei ciechi elementi…».

E sono i fiumi ed i torrenti che straripano, devastando i campi coltivati, per quell’ «imprevidenza, insensatezza, avidità e malvagità umana, per cui si atterrarono i boschi e le ampie foreste, che coprendo i nostri monti e le nostre ubertose pianure arginavano un tempo i fiumi e impedivano lo straripare violento delle acque», aggiunge l’ottimo professore, ricordando la nefasta opera dei carbonai e degli incendiari che ancor più hanno consegnato l’Isola alla miseria e alla malaria delle paludi…

Ma è senz’altro quella dell’autunno del 1911 l’edizione della festa degli alberi che è la meglio riuscita fra la decina finora celebrate. Guidata dall’insegnante Salvatore Serra, la scolaresca muove da piazza Municipio alla volta del monte del Carmelo. Qui maestro Serra legge il discorso che s’è preparato con ogni scrupolo, infiorandolo di numeri e statistiche per dimostrare ai suoi ascoltatori, piccoli e grandi, importanza e utilità di arbusti e foreste.

Anche il direttore Manno dice la sua sul tema che induce ai migliori sentimenti, e però tutto fa precedere dalle espressioni più affettuose che egli sente di dover indirizzare ai «valorosi e forti soldati che scrivono laggiù, nei rosseggianti campi della Tripolitania e della Cirenaica, col loro sangue giovane e generoso, una splendida pagina di storia». Per loro sollecita, anzi, «un atto di bontà» da estendere alle famiglie dei caduti «a cui la guerra ha strappato l’unico sostegno» (e lo avrà: per molte e molte settimane a Cuadu si raccoglieranno i contributi pro-feriti e pro-famiglie).

In perfetta linea col suo svolgimento è la chiusura della manifestazione: agli alberi e alla natura creata sono dedicati due inni appassionati, a Tripoli i versi d’una poesia in rima ed all’Italia “un saluto”, il più commosso, portato da una creatura di sette anni, alunno della seconda.

Immerso nella più verde flora del Mediterraneo è, a Castangias, il poligono di tiro, meta di belle scampagnate. Qui si disputano le gare cui partecipano di norma i sodalizi sorti un po’ in tutta la provincia… Quello dell’ottobre del 1911 è un torneo a quattro squadre: Villacidro, Cagliari, Guspini e Sanluri.

L’arrivo è festoso, rallegrato dalla bella giornata e dalla fanfara degli amsicorini che regalano ai presenti i ritmi briosi delle marcette. Più conosciute ed orecchiabili (concluderanno però con la più austera Marcia reale). Il poligono è tutto imbandierato. Le signoras e signoricas della città, venute qui ad accompagnare i loro mariti, fratelli o figli o fidanzati, sfoggiano una moda sobria, «libere e snelle nel vestire semplice, a capo scoperto» e non più schiacciate da canestri-canestrini-canestroni e imbuti vari… I bambini giocano arrampicandosi sui pini come autentici caprioli o scoiattoli. Qualcuno si trattiene presso la baracchetta dove avviene la mescita delle bibite. Il fotografo Raimondo Serra immortala le migliori scene col suo flash. Le gare dei tiratori, arbitrate dal capitano Dessì, prendono la mattina e il primo pomeriggio, fino alle 18. In mezzo c’è il pranzo.

Fra una pietanza e l’altra ecco i discorsi del presidente Manno – che nuovamente saluta i prodi italiani combattenti a Tripoli – e del sindaco Cogotti, dei rappresentanti le varie società e dei presidenti dei sodalizi che riuniscono i reduci delle patrie battaglie, in testa l’anziano Campurra che s’è presentato al meeting col petto fregiato di tutte le medaglie possibili e immaginabili.

Cavalieri e deputati, sindaci e rivoluzioni

Piazza importante da sempre anche per la politica, Norbio è meta di frequenti visite di candidati deputati o di parlamentari in cerca di conferma. Ognuno ha i suoi referenti locali, i suoi “grandi elettori”, quegli esponenti dell’amministrazione o delle professioni che sanno spendere efficacemente (cioè con risultato) il loro carisma fra clienti, amici e parenti ammessi all’elettorato attivo.

Gli onorevoli Cocco-Ortu e Cao-Pinna sono fra i più assidui e da più antica data. Ricordarne la sequenza fa bene…

Quella volta dell’ottobre del 1894 giungono insieme, accompagnati anche dall’avv. Congiu (cognato di Cocco e prossimo deputato pure lui), per un giro di conferma di antiche solidarietà. A riceverli, ai limiti del paese, l’intero Consiglio Comunale, sindaco avanti a tutti. Parlano in diversi, fra cui il dottor Piras e il notaio Curreli.

Cocco-Ortu se ne va poi nella bella villa “toscana” del prof. Todde, gli altri due sono ospiti graditi di Giovanni Sanneris, che altre volte – metti quando, nel febbraio del 1901, si tratterà di festeggiare il neonato governo Zanardelli, con Giolitti all’Interno e Cocco-Ortu guardasigilli – sarà il grande regista delle manifestazioni pubbliche che confermano la vocazione filoministeriale dell’establishment locale.

Nel novembre del 1899 torna Cao-Pinna, che alla Camera si è schierato con Giolitti e Zanardelli contro Pelloux dopo che contro Di Rudinì. Egli tiene un comizio presso le scuole del Carmine, dove a fare gli onori di casa è il «precettore elementare» Salvatore Manno. «Militai nelle fila del partito liberale sempre, dentro e fuori dell’assemblea politica, e cogli uomini che ne sono guida in parlamento seguii il Pelloux finché rimase fedele al programma annunziato dalla parola del Re…», dice l’onorevole che cerca (ed avrà) la conferma del mandato. Segue un banchetto per 150 coperti e la questua per i poveri, che hanno sempre bisogno: cento lire.

Si accennava alla fiducia al governo Zanardelli-Giolitti-Cocco: le strade si riempiono di gente contenta e la fiaccolata illumina la sera. Parlano Giuseppe Piga, il maestro Floris ed il signor Bolacchi Giua. Divisi in paese, ci si incontra sovente nello stesso seguito dei “grandi” della politica nazionale.

Tolti questi rari momenti unificanti, Norbio resta però quel che è sempre stata e, si scommette, sempre sarà: un paradiso terrestre, sì bello e incantato ma… abitato dai diavoli più litigiosi che siano usciti dal tornio impazzito del Creatore.

Qui, si sa, nessuno è mai consenziente con l’idea dell’altro, ognuno ha un suo punto di vista che gli pare sia sempre migliore in assoluto. E quando si parla di Municipio gli esclusivismi finiscono per radicalizzare i conflitti.

Nel dicembre del 1903, per dirne una, giura fedeltà al re e alla Nazione il nuovo sindaco Giovanni Anni, eletto a novembre con ben 15 voti su 16. Aveva iniziato da modesto operaio, ora ha una posizione economica invidiabile. Molti non lo amano, lo accusano, per così dire, di non essere né uno scienziato né un filologo o un filosofo… «Ma, di grazia – domanda il corrispondente de L’Unione Sarda che crede doveroso prenderne le parti – quali sono i trattati di filosofia, di giurisprudenza dati dalle stampe dai sindaci che lo precedettero?».

È una consigliatura difficile, tutta strappi, anche questa del primo decennio del secolo, a Norbio, dove la minoranza di ieri è intanto divenuta maggioranza.

Nell’agosto del 1904, per dirne un’altra, si rinnova parzialmente il Consiglio: il “partito” filoparrocchiale manda o rimanda in aula Giovanni Sanneris (con 273 preferenze) e Agostino Spano e Giovanni Serra e Antioco Serafini e Giuseppe Piga e Basilio Costa (il massone!), mentre gli altri, piuttosto giacobini, soltanto Giuseppe Aru Aru.

A fallire clamorosamente è stavolta il mazziniano (già transigente) Alfonso Dessi, che raccoglie soltanto 89 suffragi. Il paese non capisce il valore della candidatura di questo professionista «giovane d’anni e di ideali» che indubbiamente avrebbe portato in Consiglio un contributo di pensiero nuovo e moderno.

Il dottor Dessì, destinato a comandare per almeno vent’anni in paese senza mai aver bisogno di fare l’assessore o il sindaco, non se la prende troppo per la sconfitta. E reduce dal suo viaggio di nozze e ben altre soddisfazioni ha in casa, dove lo attende la sposa Assunta Sollai, figlia di un agiato proprietario di San Silvano. Testimoni per il rito religioso sono stati il prof. Raffa Garzia (prossimo direttore de L’Unione Sarda e docente all’università di Bologna e celebrato letterato autore dei Mutettus cagliaritani) ed Antonio Alagna, per quello civile il pretore Deplano ed Ignazio Cogotti.

Nell’estate del 1908 è diverso, anzi rovesciato. Sta per iniziare l’”era” Cogotti. Gli elettori iscritti sono addirittura 444 e quelli che si recano a compiere il loro dovere 315. Ormai avvicendati, salutano il sindaco Anni, l’assessore Saba, i consiglieri Linguardo, Murgia, Leo, Muntoni, Sollai e Spano (questi ultimi dimissionari) e Serra (deceduto); entrano o rientrano Giuseppe Pinna (262 voti), Antioco Muscas, Antonio Cadoni, Angelo Cadoni, Adolfo Ferrari, Gennaro Murgia, Antonio Alagna, Angelo Garau e Giuseppe Cabriolu. Sindaco sarà eletto Ignazio Cogotti, che bisserà nel luglio di due anni dopo, con 240 suffragi personali.

Nella primavera del 1911 il senatus consultus di Norbio decide, dopo tanto tergiversare, le tabelle dell’imposta cosiddetta del “fuocatico” relativa al 1909.

Gli avvisi sono recapitati a domicilio ai contribuenti e le contestazioni non tardano ad esplodere. C’è chi osserva: un pescivendolo dovrà versare 7,50 lire, un commerciante o un industriale dieci. E giusta proporzione?

Nei giorni a ridosso del ferragosto 1919 a Cuadu scoppia una mezza rivoluzione, almeno così sembra all’inizio. «Mille persone» – scrive L’Unione Sarda – marciano alla volta del municipio e lo assediano. L’Amministrazione è accusata di numerose inadempienze verso la cittadinanza che ora protesta. La minaccia appare seria e la preoccupazione monta veloce. Il palazzo comunale viene chiuso in tutta fretta e le chiavi sono consegnate al comandante la stazione dei Carabinieri.

In redazione, poi arrivano altri particolari, che rettificano e precisano. Non mille, intanto, ma… 57. Sì, 57 in tutto i dimostranti, e «la maggior parte forestieri, non elettori né contribuenti», quasi tutti a Cuadu da pochi mesi soltanto.

Il sindaco ha invitato ad un colloquio una delegazione di quattro protestanti, con a capo tale Antonio Concas originario di Nureci. Queste le pretese: abolizione della tessera annonaria e delle imposte sull’uso del patrimonio comunale. Si chiede anche la consegna delle chiavi del municipio, di cui si rinnova la minaccia d’occupazione, al pari del Monte granatico e, in sovrappiù, di qualche casa privata. Il sindaco tratta, non vuole forzare; fa mettere tutto a verbale, decidendo infine i chiudere lui gli uffici e di consegnare le chiavi alla Benemerita.

In paese, intanto, sono accorse autorità dalla sottoprefettura di Iglesias e s’è pure precipitato il delegato di PS, e con lui anche il comandante la tenenza dei carabinieri di Guspini.

Per qualche giorno Cuadu resta blindata dai militi dell’Arma e da un plotone di fanteria. Non si sa mai…

Storici e metafisici lungo la Fluminera

Ma quant’altro potrebbe dirsi di questo trentennio 1890-1920, il trentennio dell’accelerazione dello sviluppo civile e sociale di Norbio e Ruinalta, di Cuadu e San Silvano?

Il cimitero che ormai dal 1842 accoglie gli operosi giunti al termine della loro giornata provvidenziale – lunga o breve che sia – è anch’esso, paradossalmente, integrato nella vicenda comunitaria. Esso registra sentimenti popolari e ragioni dello spirito, sedimenta e rielabora quel senso della storia come fluire ininterrotto delle generazioni, e perciò del lavoro morale e materiale delle generazioni, che nel “paese d’ombre”, sopra cui domina una consapevolezza metafisica, l’intuizione di un’eternità che scaturisce dalla realtà concreta della vita, è avvertito come da nessun’altra parte.

Aveva iniziato con Sisinnio Onidi Idda il 20 agosto di quell’Anno Domini – essendo parroco il teol. Giovanni Maria Leoni –, e da allora, cessate le inumazioni nei due piccoli camposanti rionali a ridosso della parrocchiale di Santa Barbara e della sua succursale di Sant’Antonio, per mezzo secolo ha offerto, quel cimitero extra muros, l’estrema dimora a buoni e cattivi, comunque alacri nel fare…

Dopo ben 52 anni di onorato servizio ecco giungere nella sua fossa, nel settembre del 1894, il maestro Francesco Saiu, celebrato corpore praesenti dall’amico prof. Giuseppe Aquenza, originario di qui ma docente nella lontana Palermo (dove insegna lingue all’università), e pochi mesi dopo tocca all’avv. Giovanni Battista Cadoni, per lunghi anni amministratore civico e consigliere provinciale; e quindi a Francesco Moreno, giovane di soli 37 anni, usciere della Pretura; e, siamo adesso nel marzo del 1902, all’ufficiale sanitario dottor Antonio Piras; e nel settembre del 1903 all’impiegato comunale Nicolino Aresti ancora giovanissimo sposo; e nell’aprile dell’anno successivo al notaio Francesco Curreli, quasi ottuagenario (è il suocero del cav. Murgia), e nella primavera del 1912 al medico condotto Giovanni Spano…

I lutti maggiori – maggiori, ovviamente per il richiamo pubblico dei nomi, non per le impossibili gerarchie dei valori ontologici – si concentrano fra 1897 e 1898, quando ad involarsi, ma da Cagliari non da Norbio, sono i due dioscuri, i professori Todde e Loru, all’età rispettivamente di 68 e 80 anni.

Grassazioni e attentati, la furia degli elementi

Non si contano i caduti per imboscate, per vendette, per episodi di violenza belluina. Vittime e carnefici; morti ammazzati ed aggressori sono spesso compaesani, altre volte Ruinalta e Ordena o Pontario sono il teatro di regolamenti che hanno per protagonisti attori di fuori, ma che qui trovano come il luogo ideale per sfogare istinti ed amor di sangue.

Le grassazioni e gli attentati dinamitardi sono all’ordine del giorno. Che avessero ragione il Lombroso e il Niceforo ad incasellare anche questo territorio come vocazionalmente, anzi geneticamente delinquente?

Qui c’è un via vai di pretori e cancellieri ma più ancora di carabinieri e sottufficiali comandanti. Ogni brigadiere o maresciallo che arriva (e quanti ne passano!… Osana e Polo, Bellani e Lussu, Meloni e De Berti e Fiorani, ecc.) si propone di estirpare, una volta per sempre, la malapianta della delinquenza, senza che mai, però, il proposito si possa realizzare.

Una volta è il pregiudicato Angelo Giua – un’agilità da camoscio e un’astuzia veramente fuori concorso – a farsi braccare per aver gravemente ferito con un’arma da fuoco, all’ombra della grande croce di Seddanus, il povero Basilio Cuccu; e un’altra – se occorre, la data è il settembre del 1893 – è il dio dell’ebbrezza a vestire i panni umani per uccidere, all’ingresso di una trafficata taverna, un onesto legnaiuolo, tale Francesco Casti…

Di grassazioni con morti ce n’è almeno una all’anno, e poi ci sono le altre non ferali ma mai incruente.

Il vice brigadiere Antonio Deiana, nel dicembre del 1897, affronta, coraggioso, con i carabinieri al suo comando Giuseppe Palmas e Fedele Collu, due pericolosi latitanti: sono Giuseppe Lindiri e Giuseppe Comino. I militi s’avvicinano, nel silenzio della notte, alla «tetra capanna» che ha dato ricovero a quelle «belve umane dai muscoli d’acciaio: e dal cuore di macigno». Schivano una prima palla che parte dal fucile di uno dei due banditi. La loro risposta è immediata e mortale: il proiettile dell’arma del vice brigadiere colpisce Comino, fracassandogli il capo. Il complice si arrende.

Un altro fuorilegge viene arrestato, nel giugno del 1898, nelle campagne di Arbus. Individuato da principio per tale Giuseppe Collu, è tradotto nel carcere di Cuadu, perché quello di Guspini è ancora in ristrutturazione. Confermandosi per quello che subito è apparso ai carabinieri – cioè deciso a tutto e crudele – egli già l’indomani atterra con un sasso il suo piantone e fugge. Una migliore verifica, intanto, accerta trattarsi non di Giuseppe Collu ma di tale Pasquale Concas, 24 anni, originario cli San Sperate. Sul suo capo il Ministero dell’Interno mette una taglia di cento lire.

Questo l’identikit prontamente diffuso: statura rn. 1,69, capelli neri, fronte alta, occhi castani chiari, naso regolare, bocca piccola, viso largo, colorito giallo pallido, corporatura robusta, voce un po’ nasale, parla l’idioma campidanese ed è colto da pertosse, freddo e calmo…

Non mancano, pur in un quadro così teso e feroce, gli episodi che inducono anche al sorriso, magari per il lieto fine. Come quella volta – si parla del maggio del 1899 – in cui a Villascema, a una dozzina di chilometri dall’abitato, vengono sottratti una vacca e il suo vitello di proprietà del sindaco Pinna. I carabinieri si mettono subito alla ricerca di abigeatari e refurtiva. Intorno alla mezzanotte essi scoprono che gli animali sono in… piena cottura. Affaccendato accanto al fuoco è tale Usula, servo pastore di Giuseppe Muntoni detto Peddiarxia, guardia campestre della ditta Tonietti, che confessa di aver acquistato la carne dai fratelli Steri. Parte dunque la perquisizione dell’abitazione di questi ultimi dove, già lessati, i quarti rimanenti sono trovati sotto le coperte del letto. Steri senior e due dei tre juniores sono ammanettati. La carne sequestrata viene distribuita ai poveri.

E gli attentati dinamitardi? Uno al mese. Una volta l’obiettivo è la stessa caserma della Benemerita (arrestati i presunti colpevoli: madre e figlio); un’altra volta la dinamite è piazzata sul parapetto della finestra di casa dell’ex sindaco Giuseppe Piga; un’altra volta ancora in quella dell’ufficiale sanitario, nella centralissima piazza Frontera…

La malizia umana si aggiunge, mai necessaria, all’inclemenza degli elementi che non possono, di per sé, sentire ragioni. Il Leni straripa nel dicembre del 1897, provocando danni enormi nelle campagne circostanti, devastando anche lo stabilimento metallurgico, per la lavorazione del rame, del signor Fois Farci (i danni superano abbondantemente le 3.000 lire).

Il diluvio continua per una settimana almeno ed il fortunale disastra anche tutta la zona di Santa Barbara, da dove volano le tende sistemate dai bancarellari venuti un po’ da ogni paese per la festa della patrona.

Del settembre 1903 è il rovinoso incendio di S’Acquacotta, che distrugge il raccolto che doveva premiare la quotidiana fatica di mesi e mesi di contadini e braccianti. Si apre, immediata, la gara di solidarietà dei paesani, e non solo la loro. Perché a compensare i danneggiati non possono certo bastare le 400 lire inviate prontamente dal Ministero dell’Interno, o le 250 lire del ministro Cocco Ortu, o le 100 offerte dall’on. Castoldi (il padrone delle vicine miniere di Montevecchio). È necessario uno sforzo molto più corale della gente. Per questo si va alla sottoscrizione popolare, di cui si fa promotore un comitato spontaneo, costituito dai maggiorenti di Ruinalta ed Olaspri: pro-sindaco e vicario, pretore e ufficiale sanitario, e gli altri notabili e/o amministratori civici ex e futuri: Dessi e Costa, Cogotti e Anni, Murgia e Sanneris, ecc. Un contributo lo dà pure l’artista Stanislao Silesu che, fresco di successo al “Mario” di Cagliari, ripete il suo concerto in paese, destinando il ricavato del botteghino alla buona causa.

Vescovi e parroci, sacramenti e missioni

Per undici anni la diocesi è governata con mano ferma da monsignor Palmerio Garau, samassese di nascita, che è già vecchio (settantenne) quando, nel 1895, riceve la mitria.

Egli succede a monsignor Francesco Zunnui Casula, uno dei pochi vescovi sardi ad aver partecipato al Concilio Vaticano I, promosso nel 1892 alla metropolia di Oristano.

Dopo qualche esitazione, anche lui decide di fare di Norbio, per circa un semestre all’anno (estate e una parte dell’autunno), la sede del suo episcopato. Dal palazzo già dei marchesi Brondo, a Seddanus, con la collaborazione di uno stuolo di beneficiati e chierici tutti diligenza e disciplina, coordina le attività pastorali e canoniche di parroci e vicari, muovendosi per paesi secondo il calendario delle cresime e delle principali celebrazioni patronali

Nel marzo del 1898 monsignore è a Norbio per predicare le missioni quaresimali. Lo accompagna il giovane can. Piano. Zero in diplomazia – e forse non è male – egli sferza a sangue i pregiudizi popolari che tanta presa hanno in questa valle, non risparmia né parole né toni. Ma basterà questo ad educare le «rozze menti del volgo»?

Dal 1892 il parrocato di Santa Barbara è affidato a don Angelo Eloris, che segue con perizia tutto quanto sia nelle necessità e nel godimento spirituale della sua comunità. Segue gli alterni, e qualche volta confusi, sviluppi delle trattative apertesi già negli anni ’60 per il passaggio della chiesa e dei ruderi del convento dei mercedari al Comune: è in quell’area che nel 1874 è stato costruito il nuovo municipio, mentre assai più tardi si realizzeranno, quei lavori di ingrandimento dell’edificio che imporranno l’abbattimento della chiesetta, officiata fino all’ultimo da un cappellano e/o dal clero curato.

Ancora nel 1898 si iniziano importanti restauri nella chiesa succursale di Sant’Antonio, che anticipano la sua promozione al rango di parrocchia. I lavori, che si protrarranno per un lustro circa, sono a carico del bilanciò comunale, come contropartita della cessione operata dalla parrocchia al Comune di un tratto del vecchio cimitero rionale su cui costruirsi un caseggiato scolastico.

Dal 1908 a don Floris succede il dottor Giuseppe Ortu che reggerà Santa Barbara anche lui per sedici anni esatti, finché – dopo il Concilio Plenario, sardo del 1924 – non sarà definitivamente rimosso dal suo vescovo monsignor Emanuelli, col quale le ragioni di conflitto sono ormai divenute troppe e non componibili.

È sotto il suo parrocato che nel 1913 viene realizzata, dal falegname Giuseppino Collu, la tribuna che ospita il prezioso organo del 1757, precedentemente collocato nel coro. Così i mobili della sacrestia, di apprezzabile fattura artigianale o artistico-artigianale.

Altri lavori d’arte di qualche importanza sono effettuati, negli anni della guerra 1915-18, da un internato austriaco, al quale si debbono i due grandi affreschi del presbiterio: l’Ultima Cena e la Comunione della Vergine.

La “grande guerra” e il dopo

Sono 126 i norbiesi che, dopo il Piave e Vittorio Veneto, non tornano a casa. Anche alla loro memoria è volta la gloria delle medaglie al valore concesse ai migliori che, fortunatamente, sono rientrati vivi ed ora riprendono le proprie attività. Fra essi, premiato con l’oro (e un riconoscimento gli arriverà pure dal governò di Parigi), il maggiore (già incontrato capitano) Francesco Dessi, comandante di battaglione nel 152° fanteria, uno dei reggimenti più valorosi della Brigata Sassari.

Come al tempo della guerra italo-turca, si aprono pubbliche sottoscrizioni di soccorso alle famiglie dei caduti, ora nel bisogno oltre che nel dolore.

In municipio, nel gennaio del 1917, dopo trent’anni di servizio speso nella leale collaborazione alle amministrazioni via via succedutesi, lascia il suo ufficio di segretario comunale, il cav. Frongia – colui «che non rideva mai», secondo il ritratto dessiano di Paese d’ombre – che si ritira nella sua Gesturi, a passare una tranquilla vecchiaia.

Nel 1918 si, diffonde l’epidemia di spagnola che miete migliaia cli morti in tutta l’Isola e non risparmia neppure Cuadu.

In paese, intanto, come in ogni altro centro della Sardegna, gli ex combattenti si associano per chiedere allo Stato di onorare le promesse fatte dopo Caporetto: la terra ai contadini, a chi la lavora. Nasce il Partito Sardo d’Azione, si organizza quello Socialista, che una presenza a Cuadu ce l’ha ormai da una decina d’anni e non sempre brillante con le sue smanie anticlericali cui ha risposto senza mai arretrare umiliata la parrocchia, a sua volta adesso schierata al fianco di un’altra formazione politica pure essa di nuovissimo conio: il Partito Popolare Italiano.

Nel 1921 il censimento quantifica in 6.371 i residenti, appena 500 in più che nel 1911 (nell’intera regione i residenti sono 859.529, qualcosa come settemila appena più del decennio precedente).

Il lento, mesto congedo di Cogotti

Il nuovo scenario sociale e politico che segue al conflitto mondiale coincide – e non per caso – con la chiusura definitiva della stagione pubblica, dell’impegno politico-amministrativo di Ignazio Cogotti.

Con la sconfitta elettorale alle provinciali del settembre-ottobre 1920 nel collegio Villacidro-Guspini (1.238 voti sui circa undicimila espressi) per lui si apre l’ultima pagina; non breve però, della sua vicenda umana

Tutto concentrato nelle cure familiari ed in quelle della professione, l’ex sindaco, avvocato ormai a tempo pieno e poeta, sempre più rapsodico, soltanto ancora per qualche anno, resta fedele, nell’intimo e anche, di fatto, nelle forme, al deposito etico, intellettuale e civile della propria formazione giovanile, cui ha dato compiutezza negli atti della sua non facile sindacatura.

Quando il fascismo sale al potere egli ha cinquantaquattro anni. Salvo il galantomismo personale di questo o quel podestà, il “paese d’ombre” è anch’esso, come l’Italia intera, corrotto dal regime che ha conculcato i grandi valori della libertà e della rappresentatività democratica che appartengono alla cultura e alla tradizione risorgimentale.

Il re ha tradito pure lui e la Chiesa (ma dovrebbe dirsi “gli uomini di chiesa”) si è piegata ad essere instrumentum regni di un potere capace di totalizzare la società. Così è, questo si respira a pieni polmoni anche nel microcosmo ai piedi del Linas, dove intanto finalmente riprende ad aumentare la popolazione (7.806 residenti nel 1936) e c’è grande e crescente fervore attorno alla nuova ferrovia per Isili, alle miniere riattivate di Monti Mannu e al Monte granatico centro dell’ammasso dei cereali.

Gli antichi consolidati punti di riferimento ideale e ideologico – Carboni Boy, Cocco Ortu, Zanardelli, Giolitti – uno dopo l’altro se ne sono andati. Nella politica, o anche soltanto nell’amministrazione, non c’è più spazio. Tutto ormai è nelle mani dei gerarchi di partito e della milizia.

A Batzella, a S’Utturu Mannu, ecc. nelle ore del suo riposo dal lavoro di studio, nelle ore della sua ricerca di distrazione dai guai di casa e dal peso dei lutti – si pensi a Vittorina che lo lascia per malattia, e dopo lungo penare, nel 1937 –, chissà, forse Cogotti ripensa – alle stagioni passate, ai mutamenti rapidi avvenuti negli anni della sua leadershp civica, anche in questa sua terra che è lenta per natura e vocazione, che tarda, come ogni altro ambiente rurale, ad entrare in sintonia col nuovo che il vasto mondo elabora inesausto e consegna alle generazioni che vengono.

Tutto finisce in una giornata dell’estate del 1946, poche settimane dopo la svolta repubblicana dell’Italia post-fascista. Il 12 agosto Cogotti anche lui lascia, salutato dai suoi: Graziella, Gigi, Nuccia, Domenico, Bruno, gli altri dell’intimità domestica. Per mezzo secolo Norbio e Ruinalta e l’intero territorio cli Parte d’Ispi, la Villacidro dei padri e dei figli lo metterà come fra parentesi, fino a che, verso la fine degli anni ’60, un demologo cagliaritano di nascita e di spirito come Francesco Alziator lo riscopre, valorizzandone le qualità artistiche come poeta dialettale, anzi popolareggiante, e proponendolo a chi non l’ha mai conosciuto né mai letto. E perciò non ha mai gustato, forse, i magici sapori della tarda belle époque sarda, cagliaritana e villacidrese.

 

Condividi su:

    Comments are closed.