Cagliari-Villacidro, Villacidro-Cagliari, le relazioni nella nostra (provinciale ma ben educata) belle époque – prima parte, di Gianfranco Murtas

Dedicato ad Angelo Pittau, Efisio Cadoni e Marco Sardu.

Francesco Alziator, dando alle stampe nel 1969 il suo celebre e celebrato studio antologico Testi campidanesi di poesie popolareggianti, riunì come in una ideale e virtuosa assemblea Efisio Pintor Sirigu, Ottone Bacaredda, Cesare Saragat, Gaetano Canelles e Ignazio Cogotti: tre cagliaritani di più lungo tragitto temporale (nato Pintor nel 1765, morto Canelles nel 1942) e due della provincia: sanlurese Saragat, villacidrese Cogotti.

Mi occuperò, sia pure incidentalmente, di quest’ultimo per amore speciale alla Norbio dessiana, che fu anche tante altre cose: Ruinalta e San Silvano – quella dell’omonimo romanzo datato 1939 – , Pontario e Cuadu – la Cuadu de Il Disertore –, Olaspri ed Ordena – la molteplicità espressiva nell’unità identitaria – e me ne occuperò stimolato proprio dalle primissime righe introduttive alla “sezione Cogotti” nell’antologia del professore: «Il centenario della nascita di Ignazio Cogotti, che ricorreva nel 1968, non ha richiamato sui suoi versi – tuttora inediti in volume – quell’attenzione degli studiosi che essi, forse, meritano, anche se limitati ad una sola dozzina di composizioni. Tante almeno sono quelle che, tra edite ed inedite, ci restano o che, più esattamente, sono a nostra conoscenza. Ci auguriamo che questa nostra selezione possa offrire l’occasione buona per riproporre Ignazio Cogotti alla critica».

È passato giusto mezzo secolo da queste righe d’avvertenza indirizzateci dal curatore. Ergo siamo adesso ai centocinquant’anni dalla nascita di Cogotti, che fu anche abile avvocato e per dodici anni – dal 1908 al 1920 – anche sindaco di Villacidro. E celebrando lui, non soltanto per obbedienza supplementare all’invito di Francesco Alziator, pare bello celebrare anche la Villacidro che gli dette i natali in una casa posta proprio al centro del centro del paese – nella piazza che si chiamò in antico Cadoni (in rispetto della gran famiglia, poi imparentata con gli stessi Cogotti), e quindi Zampillo e poi XX Settembre, affiancata al settecentesco Monte granatico e alla chiesa del Rosario, pressoché dirimpetto alla salda parrocchiale di Santa Barbara ed anche a quello che fu il famoso “pont’e su vicariu”, messo là dove nulla aveva retto alla disastrosa e ferale piena della Fluminera del 1842…

La Fluminera paesana

A proposito: in tempi di tragica concentrazione di alluvioni, nel continente e in Sardegna, si potrebbe ricordare, ancora e sempre per onorare prima di tutto le vittime innocenti e lo spirito pubblico capace di nobiltà fra i cidresi, la ricostruzione cronachistica che ne fece Salvatore Manno nel suo noto libretto Villacidro-Iridescenze, conosciuto e lodato dalla giovane Grazia Deledda e recensito, nello stesso 1893 della sua pubblicazione, su Vita Sarda, proprio da Ignazio Cogotti, al tempo studente universitario a Cagliari, allievo del Bacaredda, professore-sindaco del capoluogo:

S’era al 5 del mese di Dicembre del 1842, precisamente all’indomani della festa principale, che ogni anno celebrasi in onore di santa Barbara, titolare di questa parrocchia.

Il tempo, imbronciato, minacciava la pioggia. Nel cielo, perfettamente plumbeo, guizzavano lampi sanguigni, forieri d’imminente disastro. Di quando in quando alcuni goccioloni, cui tenea dietro una pioveruggiola, cadean violenti e ghiacciati. La giornata era tetra: il sole, perfettamente occultato dai neri nuvoloni che ingombravano il cielo, non si compiacque quel dì rallegrare questa terra deliziosa col bacio caldo dei suoi raggi dorati.

Nel popolo notavasi quell’insolita animazione, propria delle fauste ricorrenze, tuttavia una leggiera tinta di rammarico, pel tempaccio dispettoso, velava in ogni volto quell’allegria spensierata e chiassosa, che l’idea della festa geniale avea suscitato nell’animo di tutti.

Nel piazzale della parrocchia e nella piazzetta Frontera vedevansi rizzate le tende dei dolcieri e di vari merciaiuoli ambulanti. In sull’imbrunire, lo sparo dei mortaretti, delle granate e dei razzi, confuso con l’allegro scampanellare, destava, in ogni cuore un senso di giubilo.

Sopraggiunse la notte e col suo bruno ammanto avvolse tutto in un buio pesto.

Le allegre brigate di giovani spensierati, che, favoriti dal tempo, avrebbero fatto risuonare pei silenzi della notte le loro canzoni d’amore, furono loro malgrado costrette a ritirarsi nelle loro case, a cercare nelle soavi braccia di Morfeo le delizie dei sogni dorati…

Per le strade non si sentiva anima viva. Pioveva e parea che l’acqua venisse giù a corbelli.

Lo scroscio della pioggia, misto al rombo assordante del tuono, facea traballare il suolo.

A mezzo la notte si scatenò un terribile uragano.

La Fluminera, ingrossata improvvisamente, sdegna il suo piccolo letto e l’onda nera e impetuosa mugghia sinistramente, flagellando i muri delle case che sorgono sulle rive.

Molte breccie sono già aperte qua e colà sui muri di parecchi fabbricati, che, scossi dalla fiumana, rovinano, lasciando alla povera gente appena il tempo di salvarsi.

La pioggia continua a cadere abbondante. Sulla riva sinistra, presso il piccolo ponte, stava una casetta di poche stanze, abitata da due donne, zia e nipote, che campavano sull’ago.

Esse dormivano tranquille, quando incominciò ad infuriare la tempesta, ignare della disgrazia che le sovrastava.

Il fiumicello, ingrossato maggiormente, urta con rimarchevole violenza contro i muri della povera abitazione.

Ad un tratto un terribile rovinio sveglia quelle sventurate.

Atterrite per la subita intuizione della disgrazia, balzano da letto esterrefatte e, stringendosi una nelle braccia dell’altra, cercano scampo: ma l’onda nera e vorticosa ha già invaso la loro stanza e le avviluppa. Soprafatte dallo spavento, si dimenano in mille guise, cercano di uscire da quell’abisso orrendo, piangono, gridano aiuto… ma invano.

Le vie sono deserte: nessun rumore all’infuori del frastuono delle acque.

Intanto l’impeto della fiumana scuote fortemente i muri della casa, e le suppellettili, ballottate di qua e di là, si spezzano nella furia del turbinio. E l’acqua saliva saliva in quella stanza, dove le povere donne, straziate dal pensiero della morte vicina, facevano gli ultimi sforzi della disperazione… Ma tutto è inutile.

L’onda furente, con un ultimo scrollo, distrugge il piccolo fabbricato e, in un colle tristi rovine, trae nel suo corso le due vittime.

L’indomani il tempo mutò come per incanto. Alla tempesta successe la calma, ma una calma che metteva nell’animo uno sgomento indicibile.

Lo spettacolo, che si presentava agli occhi dei popolani, era uno di quelli che rendon mute le lingue e fanno spuntare sul ciglio quelle lagrime che esprimono da sé tutta l’eloquenza del dolore.

La corrente del fiumicello era straordinariamente accresciuta e ristagnava qua e colà nelle vie adiecenti. Al posto delle case distrutte stava l’onda mugghiante, a guisa di barbaro vincitore che calpesti, truce, le spoglie del vinto.

Molte masserizie galleggiavano sull’acqua ristagnante o correvano tratte dalla corsa vertiginosa della fiumana. Alberi, tronchi, botti piene di vino o vuote vedevansi in balìa della corrente. Parecchie bestie trovaron la morte sotto le rovine delle stalle o nei gorghi dell’onda vorticosa.

Non s’ebbero però a lamentare altre vittime umane all’infuori di quelle due povere donne. I loro cadaveri, deturpati dall’onda, furon l’indomani trovati presso una siepe, poco distante dal luogo del dramma. Essi erano ancora stretti uno nelle braccia dell’altro: ultimo sforzo dell’anima straziata dal dolore.

Raccolti da mani pietose quei due cadaveri furon deposti laggiù nel campo benedetto, sotto l’erbette nudrite di lacrime.

Il senatore, il professore e l’avvocato

Sindaco come il professore con il quale si laureò, Cogotti lo divenne, a Norbio, non giovanissimo, quarantenne ormai e professionista già esperto ed apprezzato. Cercò di essere ecumenico, fra i partiti che tradizionalmente riunivano le fazioni paesane (anche per i rimandi dei maggiori notabili ai capi eletti in parlamento, cocchiani, caopinniani e salariani, prima della stagione socialista), ma certo non mancò di avversari ora legittimi ora strumentali, fino a che la grande guerra non pacificò, per paradosso morale (quello imposto dai lutti condivisi), tutti quanti. Anche suo padre, ziu Luisu, fu sindaco di Norbio, negli anni che erano stati press’a poco gli ultimi del mitico Giuseppe Fulgheri – l’avvocato padrone di Zurito, il cavallo che ne avrebbe causato la morte (era il 14 marzo 1882), come Dessì racconta nella prima pagina di Paese d’ombre: il grande Fulgheri proprietario sociale e progressista (Dessì lo fa addirittura cattaneano), editore dell’Eco dei comuni e promotore dei consorzi di sviluppo agrario a Parte d’Ispi, nel medio Campidano.

Né quelli furono gli anni soltanto di Fulgheri, ma anche di Antioco Loru, il giurista cidrese che fu sindaco pure lui, ma di Cagliari addirittura, prima dell’unità d’Italia, nel 1850-1852 precisamente, consigliere e presidente del Consiglio provinciale, deputato al Subalpino, superprofessore fin da giovanissimo, dal 1841, e preside e rettore dell’università (1868-1872, 1885-1886), cavaliere-ufficiale e due volte anche commendatore nonché senatore del regno (dal 1883); e anche di Giuseppe Todde, l’avvocato ed economista di fama nazionale e professore e rettore pure lui (1888-1890) dell’università tutta concentrata allora a Palazzo Belgrano, all’ombra della torre dell’Elefante, e banchiere altresì (almeno nella dimensione cooperativistica della Popolare cagliaritana), e prolificissimo saggista e pubblicista, eterno anfitrione, generoso ospite anche (era il fatale 1882) di d’Annunzio venuto ventenne a Villacidro con Pascarella e Scarfoglio…

Fra l’evento di Porta Pia e l’esordio del Novecento, non soltanto Villacidro viveva la temperie, che poi era forse soltanto una suggestione, del modernismo tecnologico alle viste e di un qualche progressismo anche nel costume – quello di stoffa e quello del pensare e del fare –, all’interno di uno Stato ancora giovanissimo e che era poi un ordinamento giuridico, istituzionale e costituzionale in formazione di una nazione complessa e contraddittoria, segnata da infiniti differenziali e culturali ed economico-sociali fra i suoi territori. La scuola e l’esercito (quello del servizio permanente effettivo e quello di leva) o i carabinieri e i giudici, i funzionari dell’intendenza di finanza o del genio civile cercavano di cucire la tela dell’unità, gustata magari anche grazie alle nuove produzioni industriali immesse nei canali del grande consumo familiare e pure aziendale – si pensi alla meccanica e alla chimica applicate all’agricoltura – ma sopra tutti era la santa religione a diffondere messaggi di un patriottismo nazionale, di stretto contenuto prepolitico, che anche negli ambienti ostili per dottrina finivano per far breccia. Le feste paesane, orgoglio dei campanili, non potevano evitare od annullare il magistero dei preti, rimbalzo di più alti insegnamenti, e l’Italia si faceva anche così, trasversale nelle classi sociali e più marcatamente in quelle anagrafiche.

Era anche il tempo, quello – a dire ancora dei municipi – della prima sindacatura di Giuseppe Pinna Curreli (1895), nonno materno di Dessì e protagonista scoperto (ché il coperto potrebbe essere, nel caso, l’amato Fulgheri!) di Paese d’ombre, celebrato per merito reale o per accredito di convenienza, per il rimboschimento di Aletzi, per il lavatoio pubblico e l’abbeveratoio degli animali… Era il tempo, a dirne ancora, dei primi passi della condotta medica di uno dei futuri patriarchi (per non qualificarlo notabile, data la sua matrice democratica, mazziniana e tuveriana), quale indubbiamente fu Alfonso Dessì, anche lui nelle maglie parentali dello scrittore. Il tempo altresì di dottor Giuseppe Ortu, il parroco di Santa Barbara (di nascita guspinese) che arrivò al suo altare forte di molta preparazione e di molti diplomi, ma soprattutto di una riconoscibile empatia con la comunità affidatagli dal papa stesso, empatia non misconosciuta neppure dopo che, per i deprecabili contrasti con il vescovo Emanuelli, si trovò costretto a cedere ad altri il suo mandato canonico.

Il paese d’ombre, la suggestione della memoria

Azzardo queste rapide pennellate spinto anche da una recente rilettura, quella della tesi di laurea (alla Pro Deo, oggi LUISS) di Angelo Pittau – allora ventiseienne, già prete (viceparroco a Tuili) e in procinto di partire fidei donum per un triennio nel Vietnam in guerra: L’ambiente sociale nell’opera di Giuseppe Dessì, rilancio ordinato di quanto imparato respirando da piccolo l’aria di Castangias e Villascema, di Frontera e Seddanus, del Carmelo e Giarranas, di San Sisinnio, Sant’Antonio e Santa Barbara… ma anche imparato frequentando Dessì stesso, già anziano e purtroppo impedito dall’emiparesi, chiuso nella sua casa romana, professore sentimentale del giovane presbitero e scrittore e poeta lui stesso…

Mi pare che la stessa icona del “paese d’ombra” divenuta poi per maggior fortuna quella del “paese d’ombre”, sia nata nella riflessione di Dessì, che era della felice classe 1909, puntando ad interpretare, destrutturando l’apparenza, la natura della sua Norbio. Proprio così: la Norbio che era stata prima Ruinalta, la città-paese indagata nei lenti movimenti del pur dinamico ciclo storico abitato e padroneggiato da genitori e nonni e avi mitizzati. La Norbio delle sue prime esperienze di vita, fra infanzia e adolescenza, si materializzava, nell’immaginario dello scrittore, nello sfocamento dalla Ruinalta che era terra e filosofia insieme. Egli teorizzò allora la “storia immutabile” del suo paese di sangue e linfa se non d’anagrafe, individuandone la prova nella leggenda della frana il cui scoscendimento segnava il fianco della montagna, in quel di Anthos o Alethos, la piazza distrutta, appunto da una frana, al tempo dei fenici.

Villacidro, o chiamala Norbio, come un immobile (o apparentemente tale) fiume di pietre. La spiegazione viene da Dessì stesso:

Essendo le case addossate al pendio, se un muro crolla… non vengono mai riutilizzati gli stessi sassi ma altri presi un poco più a monte; mentre quelli del vecchio muro serviranno a riparare o a ricostruire, quando che sia, un muro della casa sottostante. E così via di casa in casa, giù fino allo strapiombo. I sassi che si trovano ora in fondo al dirupo o sulla via di arrivarci sono passati, attraverso i secoli, per tutte le case di Ruinalta, dalla prima all’ultima, e la strada lentissima seguita da ogni sasso si può ricostruire percorrendo con l’occhio il profilo del paese, che si staglia, esile e bruno, sul cielo, come appare al tramonto, visto dal ponte di Bragadanza. Le pietre sono il solo archivio storico di Ruinalta. Quei sassi biancastri o verdini dalla forma un poco allungata di uova d’anatra hanno fatto parte ora del muretto di un orto, ora della rustica scalinata di una casupola, e, mettiamo, dieci secoli più tardi, dell’arcata della porta carraia di un cortile, e sono passati per le mani di uomini di generazioni lontanissime… Questa è la frana che travaglia Ruinalta… E quando si pensa, fantasticamente, alla sua lenta discesa attraverso le case e gli uomini, verso la valle, non si può fare a meno di pensare, nella dissoluzione della materia, che questo è un paese d’ombra, di fantasmi di case; e che queste viti, questi alberi di fico, questi vasi di basilico, questi rosai selvatici dei piccoli cortili, e i polli, i bambini, la biancheria stesa altro non sono che forme labili posate come farfalle su questa materia inconoscibile. Bruni uguali ciottoli a forma d’uovo colati dalla spaccatura della montagna come i semi da un frutto.

Celebrare Ignazio Cogotti

Alziator lamentava il silenzio sul nome di Cogotti nel centenario della sua nascita e invitava a lavorarci sopra. Potrebbe oggi essere soddisfatto il professore, perché il suo invito lo abbiamo raccolto in molti in questi ultimi decenni. Prima di tutti e meglio di tutti l’ha raccolto Efisio Cadoni, l’anima geniale di Norbio e Ruinalta, artista del pennello e dello scalpello, poeta e scrittore e storico letterario e d’arte, organizzatore e polemista, anima critica che ancora onora con (o nonostante) i suoi… caratteri e umori, la sua comunità, quel magico e storicissimo soggetto collettivo che gli ha ispirato le ragioni profonde del vivere, del conservare e del progredire, del pensare e del fare. Un suo lavoro a stampa ormai di trent’anni – A parole. Storia del paese d’ombre – illumina circa la personalità ricchissima di Ignazio Cogotti al pari, invero, di quelle altre che dal fronte delle lettere e dei versi hanno impreziosito lungo un secolo e più la vicenda morale e sentimentale di Villacidro: Luigi Solinas e Gavino Leo, Agostino Alfonso Aleardo Manno e Luigi Cadoni (Bernardu de Linas)… Insieme con Cadoni, buon allievo e ormai maestro in proprio, anche Martino Contu, e Salvatore Erbì medico-biografo d’ogni talento locale, e anch’io, in tutta modestia, beneficato del lascito degli inediti raccolti in un faldone…

Prese corpo così, nel 1996, nel cinquantesimo della morte del avvocato-poeta, un volume diffuso poi soprattutto fra gli amici, ma presentato a Villacidro dal compianto e indimenticato mio professore ed amico sardista mazziniano ed asproniano Tito Orrù, dal titolo A sa casteddaia a sa cidresa. Un libro di oltre duecento pagine, illustrato anche dalle foto domestiche dei Cogotti e da altre di scenario tratte della collezione curata con intelletto d’amore, oltreché con speciale competenza, da Marco Sardu e Angioletta Fadda, e costituito da numerosi capitoli in utile alternanza fra i quadri d’epoca del paese d’ombre o biografici dei protagonisti, e la silloge dei versi, ora quelli in lingua italiana ora quegli altri in sardo campidanese.

Per gratitudine ai cidresi con i quali ho vissuto, carezzato dall’ospitalità dolce, alcuni anni, nella mia sospensione fra le radici arburesi e gli approdi di nascita e formazione cagliaritani, raggiunsi con i miei articoli di tema i tavoli dei direttori dei giornali frequentati, da La Nuova Sardegna a L’Unione Sarda, da Il Cagliaritano a Confronto stesso, la testata più cara perché affidata all’amico mio don Angelo Pittau. Su Confronto scrissi specificamente di Cogotti nel dicembre 1985 e ancora su L’Unione Sarda nell’agosto dell’anno successivo.

Ogni data giubilare è servita, insomma, a me ed ad altri più autorevoli, per riproporre l’autore di Deu e Chica, di Is signoricas, di Sa nott’e Paschixedda, di Su columbu, di In curridoriu, di Is piccioccus del crobi, di Is signoricas, di Po is festas de Sant’Efis (tra piscadoris), di Unu fastiggiu, di Studianti e serbidora, di In s’aposentu, di Sa casteddaia – le dodici composizioni note ad Alziator, certo non le sole anche se forse le migliori (L’Unione pubblicò nel 1913 anche Su dominigu) – e con quell’autore il suo mondo.

E qui era ed è il punto. Il mondo di Ignazio Cogotti è stato un doppio mondo: il doppio mondo del paese e della città, di Villacidro e di Cagliari. Nel capoluogo egli studiò nelle classi del Dettori (allora nel quartiere della Marina e non ancora vigilato dall’erma di Dante che sarebbe arrivata soltanto nel 1913, lo stesso anno dell’affaccio di Giordano Bruno), nel capoluogo studiò in facoltà di giurisprudenza per laurearsi nel 1894 ed iscriversi all’ordine professionale, nel capoluogo forse scoperse la sua vena poetica se è vero che i suoi sonetti in lingua sarda variante (parlata) campidanese sono perlopiù frutto dell’osservazione curiosa del ventenne universitario, giovane bello e forse (castigatamente) gaudente…

Ecco perché m’era sembrato ben legittimo e forse doveroso di stendere come in parallelo i passaggi della belle époque casteddaia e di quella cidrese. Le relazioni fra i due centri, quello urbano e quello rurale, furono proverbialmente (e di fatto) preferenziali e direi perfette per molti decenni, dalla metà dell’Ottocento al primo Novecento, ai tempi dolorosi della grande guerra… Città e campagna in simbiosi per necessaria complementarità. Dessì stesso certificò quella identità binaria, che non dimidiava ma associava e arricchiva…

Ecco dunque la mia panoramica e i focus di merito…

A sa casteddaia a sa cidresa

S’immagini pressoché immutato lo scenario paesano – luoghi e persone – di quella certa domenica dell’estate 1899 o, in sequenza, dell’autunno inoltrato del 1908, rispetto al quadro resoci dalla mano, straordinariamente evocatrice delle magiche atmosfere del tempo che fu, di Giuseppe Dessi nel suo Paese d’ombre, allorché riferisce dell’esordio municipale di Angelo Uras.

La campagna elettorale si svolgeva senza chiasso, senza discorsi, senza adunate di popolo. I prinzipales si riunirono ancora un paio di volte, presero le loro decisioni definitive per la nomina dei consiglieri e passarono la voce ai propri clienti. Furono fatte circolare liste scritte a mano su carta a quadretti… l’afflusso alle urne, sistemate nei locali delle scuole, fu molto alto. Gli elettori non levarono né aggiunsero nessun nome alla lista ufficiale, e non attentarono nemmeno ad astenersi. Del resto obbedire era la cosa più semplice, la cosa che avevano sempre fatto. Erano sbarbati e vestiti a festa, con i loro abiti scuri e la camicia bianca senza colletto e portavano in tasca la lista. Attraversavano piazza Frontera, salivano la scalinata e, entrando, si levavano la berretta. Dietro il seggio era appeso il crocifisso e il ritratto del Re con i grandi baffi. Là c’erano i carabinieri che aggrottavano le sopracciglia e si dimenavano come se avessero prurito e il segretario comunale cavalier Luigi Frongia, che non rideva mai… Questo sconcertante personaggio ripeteva severamente a ogni elettore le stesse istruzioni e lo spediva con un gesto imperioso verso la cabina in fondo all’aula. Ai suoi lati sedevano il maestro Muroni e il cancelliere Pintus i quali esaminavano la scheda, sollecitavano l’elettore a introdurla nella fessura dell’urna e a firmare un registro.

Le votazioni durarono fino alle quattro del pomeriggio poi, in presenza del pretore, l’urna fu aperta e cominciarono i lavori di scrutinio…

Quel caldo giorno di festa del 1899, invero meno pacifico di quanto non fosse l’altro nell’immaginazione letteraria dessiana, il nome di Ignazio Cogotti – avvocato poco più che trentenne (ad aprile ha sostenuto le prove pratiche per l’iscrizione all’Ordine, davanti alla Corte d’Appello del capoluogo) e una fertile passione per la poesia dialettale ­, viene segnato per la prima volta in una scheda elettorale. Non è routine, né è questo tempo di routine. Ma sono pochi, ancora troppo pochi – qualcosa come duecento e tutti maschi – gli elettori convocati ai comizi, chiamati a decidere chi dovrà occupare gli scranni consiliari di Norbio e gestire gli anni che saluteranno l’ormai esausto Ottocento per introdurre, finalmente, quella scommessa di modernità, nel vivere civile e nella produzione tecnologizzata, che si chiama “ventesimo secolo”.

Egli bisserà nel 1901 – ché quella sua prima consigliatura muore quasi sul nascere, per i conflitti intestini di basso cabotaggio nell’assemblea civica e nel proprio entourage di sostenitori schierati in fazioni e poi ancora replicherà nel 1908, l’anno della prima ascesa al trono sindacale, e nel 1910 e nel 1914.

Consigliere e poi sindaco, due decenni pieni della sua vita, i più fecondi, saranno spesi nelle stanze municipali, al servizio o – direbbero i critici dell’opposizione – nella tensione al servizio dell’interesse generale della comunità cidrese.

Si pone, Cogotti, alla sequela di un altro grande sindaco, proprio quello celebrato – con tocco naturalmente tutto romanzesco e fuori da ogni rigore e necessità di cronologia e di documento storico od anche (va detto) di precisione onomastica – dall’autore cagliaritano-villacidrese di una delle più belle opere della letteratura italiana moderna. Il cui pur fugace ripasso, risvegliando gli umori caratteristici di un approccio sentimentale ai fatti sociali ed amministrativi dei quali si dirà, può favorirne un inquadramento efficace.

Norbio fin de siècle

Ecco, dell’opera dessiana, le tracce non cancellate di don Francesco (Giuseppe nella realtà) Fulgheri, «un “gran peccatore”, secondo il canonico Masala, un rivoluzionario, secondo le autorità governative», giacobino inventore e fondatore della Società Agraria che, aveva l’obiettivo «di migliorare le condizioni dell’agricoltura in Parte ‘d’Ispi».

Ecco il protagonismo discreto del senatore Loru e quello più spiccio di Donna Luisa «la senatrice», nata Boy a Cagliari «da una famiglia di altezzosi nobilucci» ed arricchitasi, paradossalmente, sposando quel «plebeo paesano che si era fatto da sé, e che, per mantenersi agli studi, era stato persino maiolu» ed era arrivato alla cattedra di Diritto romano dell’università e nientemeno che all’ufficio di Magnifico Rettore. Costantemente e convintamente «dalla parte del governo» (che l’aveva infatti premiato con la concessione del laticlavio regio) ed in qualche modo imparentato coi Fulgheri, conti e nobili don di Nepomuceno, eli aveva intessuto relazioni mirate che ne avevano ancor più elevato il ceto ed aumentato, meritoriamente, il prestigio accademico e professionale.

Abitava, con la moglie, nella centrale via Roma, in «un palazzetto a due piani senza alcuna pretesa architettonica» ma non senza «una certa severa eleganza», con un vasto cortile e, là in mezzo, pronto sempre a mettersi in movimento, il landeau nero «un po’ funereo», simbolo «di potenza e di indiscutibile autorità».

Ecco, a condividere la scena di un notabilato attivo e dinamico, i Todde: il professor Antonio – cattedratico di gran carriera anche lui, titolare di Economia all’ateneo cagliaritano (e pure lui prossimo Magnifico Rettore) e «rivale» politico del senatore – e Donna Assunta sua moglie, spigliata animatrice delle pubbliche relazioni paesane, che con Donna Luisa faceva quasi a gara ad organizzare ricevimenti e ad ospitare «letterati di passaggio».

Non a caso Edoardo Scarfoglio, Cesare Pascarella e Gabriele D’Annunzio (quest’ultimo neppure ventenne e matricola in corso nella facoltà di Lettere a Roma) nella loro gita isolana del maggio del 1882 saranno accolti – come riferirà l’accompagnatore Ranieri Ugo – nel villino liberty «signorilmente ospitale» dei Todde.

E poi, uno dopo l’altro, ecco gli altri personaggi della scena locale, tutti elementi che non potrebbero esser nati che qui, tanto paiono pertinenti all’ambiente fisico ed agli umori del luogo, ed anzi da loro imprescindibili, e però sintonizzati col nuovo che avanza, attivi recettori di una modernità che è delle idee, del costume e dell’economia, che dal continente muove ed approda nell’Isola penetrando nel suo territorio più interno.

Ecco, nel cast del romanzo dessiano, Franceschino Fulgheri, adolescente amante della vita libera nella campagna, che gode nel cavalcare a torso nudo; partecipare alle sagre rurali ed alle marchiature dei vitelli od alle battute di caccia, e che dovrà rassegnarsi un giorno ad iscriversi alla scuola militare di Modena, da cui uscirà sottotenente dell’esercito e pronto a salire tutti i gradi della gerarchia… Ed altri ancora, tanti altri protagonisti, maschili e femminili – bastino i nomi dei Cadoni e dei Manno o dei Murgia – di quel gran teatro che racconta se stesso alla vigilia del secolo nuovo. Il teatro e il tempo di Giuseppe Pinna Curreli, giovane e sfortunato marito di una cugina prima di Ignazio Cogotti.

Il sindaco Pinna – appunto l’Angelo Uras del romanzo – è quell’”uomo giusto” che apre la strada delle riforme, o sviluppa gli intrapresi miglioramenti urbanistici, delle dotazioni civiche, cioè d’uso collettivo, nel “paese d’ombre” che corre veloce verso il Novecento. L’”uomo giusto” almeno nella rielaborazione tutta soggettiva dello scrittore che ha riletto la storia locale filtrandola con la lente degli affetti, immunizzando la figura del protagonista della “sua” storia (il nonno materno) dai veleni della pubblicistica che, in quel tempo ormai remoto, l’aveva rappresentato come direttamente coinvolto nel trafficato e spregiudicato esercizio di una politica d’interessi invece che di valori.

E, d’altra parte, non c’è mai, nella storia, un anno zero, ma una sequenza ininterrotta di avvenimenti ed anche i tempi che paiono di assoluto immobilismo in verità celano semine che, per il fatto di essere compiute in tutta discrezione, non sono meno reali e, un domani, fruttifere. Sicché può dirsi che la fervida stagione delle grandi opere pubbliche realizzate a Villacidro nell’ultimo decennio del secolo XIX è merito complessivo di un’intera classe di amministratori, al di là delle diverse appartenenze di gruppo e di partito.

Lo stesso Ignazio Cogotti, approssimandosi ad assolvere alle sue funzioni di leader civico, sarà giudicato con i criteri partigiani, nel pro e nel contro, del suo tempo. Quando, come s’è detto, Villacidro appare (ed è) autentico «paradiso terrestre abitato dai diavoli» (così da Luigi Cadoni in una corrispondenza a La Voce del Popolo del 13 luglio 1915), una comunità lacerata da mille reciproche diffidenze ed opposizioni fra i “partiti” o quegli “uomini-partito” che, grazie alla fortuna d’un patrimonio accumulato magari dagli avi o ad una licenza elementare strappata ad una scuola autorizzata a rilasciare le patenti dell’elettorato attivo, si contendono il controllo dell’Amministrazione, il potere discrezionale di decidere sulle tasse e gli appalti.

Di cosa si tratti, press’a poco, egli lo sa già, perché il padre – ziu Luisu Cogotti, su meri bonu «le cui proprietà terriere s’estendono dalla punta di Magusu oltre la pianura del Leni fino alle “Paludi” di Sanluri» – anche lui è stato, per qualche tempo, a capo del Dominariu comunale, primo comis in quell’edificio sorto dove prima c’era il convento dei Mercedari, e comprensivo non solo degli uffici municipali, ma anche della Pretura e Conciliatura, delle scuole primarie (con le abitazioni dei maestri) e persino della caserma dei regi Carabinieri.

Ziu Luisu era stato eletto sindaco nella primavera del 1892 e, in capo sempre sa berritta di lana nera ripiegata da una lato, ultimo della serie aveva sempre osservato nel vestire le fogge della tradizione, infusato dentro una giacca abbondante col colletto di velluto, con la camicia bianca chiusa al collo e il corpetto scuro ed abbottonato, le braghe larghe e, sotto, i calzoni chiari di lino che, al ginocchio, s’infilavano nelle ghette d’orbace.

Tre anni dopo era stato il turno di Giuseppe Pinna che sarà confermato nell’incarico nel l 899, per poi cedere il passo, per quasi un decennio, al partito concorrente degli Anni, Sanneris, Murgia, Piga, ecc.

Cogotti arriva alla sindacatura a quarant’anni giusti. La sua forza sarà anche la sua debolezza, per le accuse che gli si scaglieranno nel tempo, di arrendevolezza se non proprio di accondiscendenza verso gli interessi costituiti di parenti o di elettori-parenti.

Egli è esponente di una formazione civica caratterizzata da un liberalismo che presenta qualche accentuazione laica (o “laicista”, secondo il lessico preferito degli avversari che gravitano attorno alla parrocchia di Santa Barbara): formazione che poggia, in qualche modo, su quattro o cinque famiglie “egregie” fra loro strette, da un trentennio almeno, in vincoli sempre più fitti ed incrociati di sangue od affinità, che finiscono oggettivamente per essere humus di un gruppo di pressione solido e “prepotente”.

Mentre, dopo Porta Pia, l’Italia consolida il suo processo unitario, a Villacidro – che non è proprio l’ultimo lembo del regno – i Cogotti ed i Cadoni, i Manno ed i Dessi ed i Pinna tessono la tela di un patto largo e robusto che molto darà, nel tempo, al “paese d’ombre”, sia in termini di partecipazione al lavoro morale della comunità (e, attraverso, i commerci e le professioni, alla sua prosperità materiale), sia in termini di prestigio, letterario in primo luogo, per quanto taluno delle generazioni più giovani saprà realizzare.

Ignazio Cogotti è, per ridurre al minimo il viaggio lungo le ascisse e le ordinate delle parentele, cugino di Salvatore Manno (in quanto figli di due fratelli – rispettivamente Luigi e Maria, quest’ultima sposata con Francesco Manno), è dunque zio del figlio di questi Gino (poeta in italiano  e campidanese, autore di versi apparsi anche sulla Scena illustrata); ancora: zio di Luigi Cadoni alias Bernardu De Linas, l’autore, fra l’altro, di Favolas ed atteras poesias umoristicas in dialetto sardu-campidanesu (perché fratello di sua madre Maria, che in seconde nozze aveva sposato il proprietario Antonio Cadoni, vedovo di una Manno); e ulteriormente: zio o prozio di Giuseppe Dessi (perché cugino della nonna materna Maria Angela Manno moglie di Giuseppe Pinna, e perciò zio materno di Maria Cristina Pinna, sposata col prossimo generale Francesco Dessi, genitori dello scrittore).

Un’orma, don Fulgheri

Apre gli occhi, Cogotti, nella casa più centrale di tutto il “paese d’ombre”, di lato al Montegranatico, in quella piazza Cadoni che soltanto due anni più tardi potrà aver motivo di chiamarsi, come infatti si chiamerà, piazza XX Settembre. Ad un passo è la parrocchiale in cui viene battezzato dal teologo Vincenzo Usai (che dal 1852 ha la cura canonica di Santa Barbara), con la bellezza di tre nomi: Antonio, Vincenzo ed Ignazio.

1868: è l’anno nel quale in paese circola un opuscolo che infastidisce. S’intitola Il Sindaco-Modello. È firmato dall’avv. Giuseppe Fulgheri (appunto don Francesco in Paese d’ombre) ed è «diretto a stigmatizzare la condotta dell’inallora sindaco di Villacidro, il quale, fra gli altri abusi ivi annoverati per assaggio in num. di 25, si faccia lecito di prender parte alle licitazioni da esso medesimo presiedute [...] e di trattare due cause istituite per difender la proprietà di due vidazzoni (Saboddus e Acquacotta di 3.000 ettari circa) con tale rilassatezza da lasciar sospetta collusione con gli avversari del Comune».

Non è il caso di insistere su quelle vicende di un passato ormai remoto. Si intende, piuttosto, dimostrare che le polemiche presenti negli anni nuovi – quelli di Cogotti consigliere e sindaco – si fondano su una bella tradizione, che rimonta a molti decenni addietro, quando magna pars dell’Amministrazione municipale e dell’intero Collegio elettorale di Iglesias erano Antioco Loru «clericale anzichenò nelle sue abitudini» e Giuseppe Todde (professor Antonio in Paese d’ombre), sì «infarinato di politica, ma screziato dello stesso colore del cav. L.», secondo l’inclemente opinione dell’avv. Fulgheri (in La lotta elettorale politica, del 1870).

La temperie cidrese lungo tutti gli anni ’60 e ’70 del XIX secolo era questa, ed anche il “paese d’ombre”, come ogni lembo della patria, pareva bisognoso di un nutrimento etico. «Fatta l’ltalia materiale, io credo che si debba pensar a far l’Italia morale, affinché ritorni forte, sia gloriosa e durevole»: è un’altra considerazione del 1870 del direttore dell’Eco dei comuni, che conduce la sua battaglia per svecchiare la politica e migliorare lo spirito pubblico accrescendo il senso civico della comunità locale.

A tanto egli pensa di giungere attraverso una sorta di “socializzazione” della proprietà agraria, non però mediante una collettivizzazione dei fondi, s’intende, ma utilizzando la formula associativa, democratica, altrove adottata, e da cui deriverà infatti la “Società agricolo-industriale per l’acquisto e coltivazione dei terreni boschivi”, idonea anche a favorire la modernizzazione delle tecniche produttive.

Il tutto è animato da una forte tensione ideale e da una spiccata attenzione ai segni dei tempi, ai movimenti e nuovi indirizzi della storia: «Io spero ben poco dall’Italia finché la gioventù italiana sarà raccomandata a Maestri i quali la istruiscono senza educarla, ne coltivano la mente corrompendone il cuore con cattivi esempi di superstizione, d’immoralità. Se si ha da transigere si transiga coll’ignoranza – il buon senso supplisce a molte cose. – La moralità non ha equipollenti. Or l’ingratitudine troppo nera, l’egoismo troppo sfrontato, lo spirito di consorteria, l’avversione ad ogni progresso, l’odio e la persecuzione contro i deboli e gli innocenti escludono ogni moralità», scriveva ancora con una testimonianza di forte impronta mazziniana, la coscienza illuminata e critica della borghesia villacidrese in un opuscolo elettorale dello stesso 1870.

A Villacidro, Cogotti – così come le due sue sorelle Maria e Rita – frequenta le elementari del Carmine; segue il corso ginnasiale propedeutico a quello liceale, fino ai quattordici anni. È allora che la famiglia lo “consegna” a Cagliari, iscrivendolo al Seminario Tridentino, che garantisce anche il pensionato… Ma di vocazione manco a parlarne. Si sistemerà quindi presso una famiglia, a Castello, per proseguire negli studi. E nel capoluogo si apre così per lui una fase tutta nuova; e straordinariamente formativa della sua vita.

In città il liceo, intitolato all’abate latinista Gio. Maria Dettori, è accreditato di eccellenti professori. La sede è nella piazzetta che collega le scalette di Santa Teresa, che scendono dalla via Manno (sa Costa), e la via Principe Amedeo con la via Sant’Eulalia e la storica via Barcellona, che arriva dritta al porto.

Ad assicurargli una vigilanza amichevole e protettiva sono gli Angioni, una famiglia “bene” della città, di borghesia professionale.

Liceale ed universitario

Nel 1888 si matura, iscrivendosi alla facoltà di Legge, proprio quando il villacidrese prof. Todde è chiamato ad assumere, per un triennio, la carica di Magnifico Rettore (farà poi parte del Consiglio accademico). Non sarà, Cogotti, bisogna dirlo, fra quelli che potranno vantare un libretto con tutti trenta, anzi…

A Giurisprudenza il corpo docente, presieduto dal sen. Gavino Scano – altro bello spirito liberale, devoto alla monarchia ed ai più laici ideali del Risorgimento – comprende cinque ordinari ed altrettanti straordinari. Le classificazioni delle carriere e dei ruoli inquadrano gli altri professori – una ventina in tutto – nelle categorie degli incaricati, liberi docenti, dottori aggregati, emeriti.

Fra gli insegnanti delle fasce più alte sono il sindaco Ottone Bacaredda (titolare di Diritto commerciale) ed il suo predecessore, il fedelissimo coccortiano comm. Gaetano Orrù, nonché l’illustre comm. Todde.

Nel novero degli emeriti è poi l’altro grande villacidrese, il sen. Loru, pure lui, in due riprese, come detto, al vertice dell’ateneo.

Nel 1894, l’anno in cui Cogotti si laurea, l’università cagliaritana consta di tre facoltà, invero articolate in una complessa serie di corsi e di strutture didattiche.

Oltre a Giurisprudenza – 150 iscritti – ci sono Medicina (con un’ottantina di iscritti, cinque cliniche e quattro gabinetti e/o laboratori) e Scienze matematiche fisiche e naturali (con tre gabinetti più l’Orto botanico); funziona inoltre la Scuola di farmacia, che pure rilascia attestati che valgono il dottorato.

La scuola e l’università, e i ritrovi degli amici fuori dalle strette incombenze degli studi, e i passatempi, magari il curioso vagabondaggio in quello strepitoso, sfiancante e però piacevole saliscendi che è Cagliari… La Cagliari di Ignazio Cogotti ventenne è quella che dall’ultimo decennio dell’Ottocento sfonda il secolo della definitiva emancipazione, del modernismo tecnologico – telefoni ed automobili e tram, luce ed acqua nelle case dopo che negli uffici o nelle officine – e dello svago di importazione: stanno per debuttare il foot-ball ed il cinematografo, declina intanto il café chantant (le sale migliori erano in zona di via Roma) ed anche il melodramma soffre della concorrenza, benché la città rimanga sempre una “piazza” appassionata e competente, temuta, perciò, da tenori e soprani delle più affermate compagnie d’Italia.

Belle époque, il modernismo cagliaritano

La città, illuminata dalla stella amministrativa della sindacatura Bacaredda, conosce finalmente la leadership civica, non solo economica, della borghesia professionale e commerciale, nuovo ceto di governo locale.

Usciti dal “palazzo di città” gli ottimati, feudatari nella forma mentis e negli interessi materiali che, al più, sposano ad una carriera nell’esercito di sua maestà il re Savoia, la stessa sede municipale è in procinto di abbandonare Casteddu ‘e susu per scendere verso il porto, proprio là dove batte il cuore imprenditoriale e mercantile della città nuova.

Progressivamente scemeranno le antiche gerarchie rionali – sopra il Castello, sotto is appendizius – e diverrà definitivo, grazie anche al piano regolatore dell’ing. Costa che aggiorna quello dell’architetto Cima di due decenni avanti, uno sviluppo edilizio ed urbanistico “orizzontale”.

Già il mercato civico – il Partenone che troverà gloria nelle pagine di David H. Lawrence – ed il monumentale ospedale a raggera progettato dal Cima hanno anticipato il tendenziale policentrismo di Cagliari che corre verso il Novecento: perché a seguire sono venute, come simboli di una più avanzata economia, la Scuola d’arti e mestieri (sezioni fabbri meccanici, muratori, falegnami e corso propedeutico) a Villanova e quella di viticoltura ed enologia a Sant’Alenixedda; aprendo avamposti fra gli orti ed i cardeti di San Benedetto e dintorni, presto solcati dalle rotaie della Tramvia del Campidano per il collegamento della via Roma (dove, dirimpetto a moli e banchine, va prendendo corpo la palazzata a portici umbertina) e l’area di Pauli-Pirri, in cui si moltiplicano le aziende agricole, tutte fiorenti per il crescente fatturato dell’expo.

Cagliari conta 39.600 abitanti, guarnigioni e detenuti compresi, nel 1881, saranno 2.800 di più i cagliaritani dieci anni dopo, ed ulteriori 11.300 alla conta di legge del 1901.

Negli anni ’90, che possono esser presi qui come indicativi dei ritmi dello sviluppo sociale assunti dal capoluogo isolano, Cagliari è una comunità che conta 1.300 nascite all’anno, 1.100 morti, 400 matrimoni. E una città che ha una popolazione scolastica di appena mille allievi alle elementari maschili (distribuiti in classi frazionate e disperse in locali privati e di fortuna nei vari quartieri) e di circa 800 unità iscritte a quelle femminili, in prevalenza limitate ai corsi inferiori. Una cinquantina frequentano le lezioni del Convitto nazionale, un centinaio le serali a Santa Teresa.

Alle secondarie – intermedie e superiori – gli studenti iscritti sono nell’ordine dei 1.200. Sono, più precisamente, quasi 500 al “Dettori” (180/200 al liceo, 250/280 al ginnasio); 200 al secondo ginnasio di via San Giuseppe, all’ombra della torre dell’Elefante; 140/150 alle scuole tecniche della Marina; 100, fra regolari e uditori, al tecnico “Martini”, nel portico di Sant’Antonio (due terzi nelle sezioni fisico-matematiche e commercio-ragioneria ed un terzo alle sezioni macchinista del nautico), 120/130 alla Normale femminile “Eleonora d’Arborea” di via Lamarmora. E poi ci sono i cento e passa della Scuola municipale di musica, ecc.

È una città, Cagliari, che nell’ultimo decennio del secolo accoglie, nelle due sezioni del suo ospedale nuovo fiammante, qualcosa come 300 infermi, poco meno della meta alla “sanitaria” e poco più alla manicomiale (che peraltro ha appena aperto una succursale a Is Stelladas, in direzione di Pirri), e sono ospiti in buona misura di provenienza extra muros.

Così al ricovero di mendicità nel cosiddetto viale degli Ospizi, sopra e sotto la chiesa-convento dei cappuccini (declassati dalle leggi eversive), in faccia all’anfiteatro romano appena risvuotato, dopo millecinquecento anni, dallo Spano: 130/140 poveri raminghi che, privi di un’assistenza che un giorno verrà regalata da un articolato di legge, sono sostentati dalle periodiche provvidenze prefettizie e più ancora dal buon cuore dei benestanti in cerca di alleggerirsi la coscienza.

Gli aristocratici castellani, più o meno timorati clericali, conservano la buona abitudine di vedersi, il martedì, a casa Sanjust, ballando «con gran brio» dalle 22 fino alle due della notte, all’ora cioè del cotillon, mentre i borghesi hanno i loro circoli di cultura – il filodrammatico “Goldoni”, il musicale “Mario”, il letterario “Farina” – e quelli a più marcata caratterizzazione professionale… E d’altronde questa è una, città che vive pienamente il tempo dell’associazionismo, anche oltre la musica. I sodalizi sono quasi ad ogni svoltar di strada: c’è la Società operaia e quella fra i cultori delle scienze mediche e naturali, la Società dei reduci delle patrie battaglie e quella dei reduci di Crimea, il Circolo enofilo e quello universitario, il Circolo militare e quello degli Impiegati civili o degli Ingegneri ed architetti, il Club alpino sardo e quant’altro possa esistere nel mondo delle confraternite o del mutuo soccorso presindacale (calzolai, scalpellini, tipografi…).

Ma è al teatro “Cerruti” – poi Politeama “Margherita” – del viale Umberto o alla “Gialeto” (che ha la sua filodrammatica) o ancora all’”Amsicora” o alla “Canottieri” che borghesia e proletariato s’incontrano alla pari. Magari più dimesso è il tono sociale dell’”Arborea” e della “ginnastica Garibaldi” (prima c’era anche la “Mazzini”), rispettò al rango ostentato dalla Società nazionale del tiro a segno o dagli abbonati al cartellone del Civico. Né è tutto qui…

Nel l 894 al Casino filarmonico di via Lamarmora, giù della Cattedrale, debutta, festeggiatissimo, il magico fonografo partorito dal genio di Edison, ispirando immediatamente ai più giovani walzer e mazurke e quadriglie.

Il 1894 è anche l’anno del boom ciclistico in città. Viene aperto, giusto all’inizio dell’estate, il primo negozio-deposito di velocipedi (per vendita e nolo). La pista per gli allenamenti è al pianterreno del nuovissimo palazzo Zedda, quasi all’incontro a croce fra i viali Bonaria e Umberto e le vie XX Settembre (già Circonvallazione) e Roma. I cronisti riferiscono meraviglie di «una bellissima macchina da passeggio a gomme pneumatiche» e di altre «quattro belle macchine da viaggio, a gomme tubolari», anticipando l’imminente avvio delle lezioni di ciclismo sulla pista della “Gialeto”.

E s’impara in fretta, così che la mattina presto e la sera tardi è possibile vedere, nel lungo rettilineo fra il Monumentale ed il porto, in gran numero gli appassionati dilettanti correre sulle «agili e silenziose macchine» in perfetta tenuta sportiva: maglia e calzoncini corti, calze lunghe e leggero berretto da jochey. Mentre già si programmano tornei e campionati anche di lunga distanza e, presso l’abitazione del noto dentista dottor Casotti, prendono corpo tanto il “Veloce club cagliaritano” quanto la società “Forza e coraggio”.

E d’estate? Da fine giugno è aperto al pubblico (dalle 5,30 alle 21) lo stabilimento balneare “Carboni”, presso la spiaggia di Sa Perdixedda (costeggiante il porto verso ovest), che col sole e il mare offre anche, per soli 15 centesimi, lenzuolo ed asciugamano.

Nella vicinissima spiaggia di Giorgino funziona lo stabilimento dei signori Maxia, Moi e C., che ha ereditato gli “assidui” di livello (e gli altri) del defunto lido “La città di Cagliari”, dagli Ambrogi ai Pernis, dai Boero ai Thermes, ed è ogni giorno di più impegnato a migliorare il servizio: manca ancora, infatti, il trampolino per i tuffi e di troppo c’è, invece, il frequente e fastidioso scarico della zavorra (sabbione e sassi) a soli cento metri dal bagnasciuga, da parte della Capitaneria di porto.

Il trasporto dal capolinea di piazza Yenne è assicurato da una corsa di vetture e carrozzoni “uso tramvia”; i vagoni viaggiano stracarichi, ma messo piede in spiaggia tutto è presto dimenticato, e poi c’è il sole e sparso… ad asciugare ogni ben di Dio (sia pure castigato sotto costumi ascellari e comandato in spazi severamente divisi fra uomini e donne).

Anni 1889 – anno primo dell’”era” Bacaredda ed anche della fiera avversaria L’Unione Sarda—, 1890, 1891… Ormai da trent’anni non più piazzaforte militare, la città continua ad ospitare, sulla collina di Buon Cammino, un reggimento di fanteria – il 48° –, forte di centinaia di uomini, con tanto di banda musicale che, ogni settimana, si esibisce sul bastione di San Remy e altrove – dal Giardino pubblico allo square presso la statua di Carlo Felice senatore romano, al Belvedere stesso – per il godimento di chi ama Verdi e Rossini.

S’intrecciano poi, inevitabilmente, mille storie d’amore fra i giovanotti che possono spendere il fascino della loro divisa e le ragazze che riescono a svincolarsi dalla stretta sorveglianza dei grandi di casa. Le cronache riferiscono anche di storie infelici e tragiche, con tanti o troppi suicidi per “mal d’amore”…

Ai cagliaritani le notizie le dà, oltre “radiofante” (che nelle città di provincia funziona sempre benissimo), la stampa quotidiana e quella periodica, un autentico florilegio di testate che nascono e muoiono nello spazio di pochi mesi o pochissimi anni. Nel 1893 cessa L’Avvenire di Sardegna di Giovanni De Francesco, dopo vent’anni e passa di onorato servizio, mentre L’Unione Sarda consolida ogni giorno di più la sua posizione nel mercato dell’informazione locale e nel gradimento del pubblico, ancorché la sua linea editoriale sia esplicitamente di opposizione, almeno per un decennio (e oltre: fino al 1906, l’anno dei tumulti popolari contro il carovita), alla Municipalità ed al partito della “Casa Nuova” che quello stesso pubblico ha promosso in maggioranza.

Ha infatti vita effimera La Giovine Sardegna, organo quasi ufficiale dei bacareddiani (ne sono l’anima i radical-repubblicani giovanissimi Ignazio Macis ed Emanuele Canepa, quest’ultimo fratello ateo del prossimo vescovo di Nuoro e del prossimo presidente di Sant’Anna!), ma non c’è mai pianto per un giornale che chiude, perché redattori e collaboratori non tardano ad inventarsi un’altra formula, riproponendosi così, un’altra o un’ennesima volta ancora, al colloquio con i lettori.

L’edicola cagliaritana anni ’90-900-910 è effettivamente a 360 gradi, passando dalle testate politiche liberali o repubblicane o socialisteggianti o radicali a quelle guelfe religioso-politiche od elettorali, dai fogli letterari a quelli giovanili-studenteschi-goliardici, a quelli economici, emanazione delle lobbies sul campo, a quelli episodici e di circostanza…

Benché non manchino di certo le sacche di miseria, sembra però che – per come la raccontano i giornali – la città esprima, anche nei ceti popolari, quel tono che aveva ispirato ad Enrico Costa la definizione che le sarebbe poi rimasta nel tempo «Monarchica, bigotta, festaiola / In cerimonia larga e in cortesia…».

A dir di Chiesa, democrazia ed economia

Le occasioni, d’altra parte, abbondano. Anche le feste religiose, sempre ed ovunque condite di paganesimo, offrono il destro per festival e sagre, per giostre e lotterie, per pariglie e corse e giochi a premi come l’albero della cuccagna che è di prammatica, ad esempio, il primo maggio, per onorare Sant’Efisio, così come i banchetti del torrone e dei piricchittus di Tonara ed Aritzo, che accompagnano le rappresentanze in costume venute a Cagliari, per la processione stampacina, fin dalla più profonda Barbagia o dalla Gallura e il Logudoro.

Così avviene il 24 aprile per la Vergine di Bonaria, o il 24 giugno per San Giovanni Battista, il 29 ancora di giugno per San Pietro e il 16 luglio o l’11 agosto per la Madonna del Carmine o quella delle Grazie, il 10 agosto per San Lorenzo o il 1° settembre per San Gemiliano (o Emiliano, come lo si voglia chiamare il protomartire, secondo vescovo cagliaritano della bimillenaria serie, consacrato dallo stesso apostolo Pietro) e ogni volta sono luminarie in abbondanza, con la great attraction dei fuochi d’artificio e la musica degli orfeonisti della Civica prestati ai quartieri…

Nessuna ricorrenza liturgica manca del suo risvolto ludico, il Sacro Cuore compreso ed a maggior ragione i patroni delle chiese collegiate e di quelle dipendenti (Sant’Antonio abate e San Rocco, SS. Giorgio e Caterina e Sant’Avendrace, ecc.).

La religiosità-popolare è devozionale, non spirituale. Non ha soffio o interesse teologico, ma esprime un senso, magico e profano ad un tempo, quasi negoziale con il Cielo chiamato ad appagare bisogni essenzialmente terreni.

A capo della Chiesa diocesana è dapprima – esattamente dal 1882 – monsignor Vincenzo Gregorio Berchialla, un oblato di Maria d’origine piemontese, poliglotta esperto di letteratura e poesia antica e moderna, quindi monsignor Paolo Maria Serci, nuraminese già vescovo di Tortolì ed arcivescovo di Oristano, che raccoglie l’eredità del suo predecessore giusto dopo dieci anni di intenso (e all’inizio – per l’accantonamento di alcune tradizionali festività locali – anche contrastato) governo pastorale di quello.

L’archidiocesi riunisce non più di sessanta, settanta parrocchie, pressoché tutte dell’hinterland o della provincia, dato che quelle urbane sono soltanto quattro col Duomo le tre collegiate di Sant’Anna, Sant’Anna e San Giacomo, con la succursale dell’Annunziata in aggiunta. Tutte le altre sono chiese suffraganee, per quanto tutte affollate di sacerdoti e diaconi o chierici ancora agli studi al Tridentino.

La dogmatica prima di tutto, la teologia morale con essa, e sotto tutte le altre discipline, pastorale inclusa. Questo è l’indirizzo dei corsi di Palazzo Belgrano (ala Seminario), ché la verità – la Verità – è ritenuta l’apice della fede, secondo l’astorica ideologia ecclesiologica della societas perfecta, da cui discende anche ogni direttiva sui comportamenti politici od elettorali e sull’azione sociale.

Molto ruota, nella vita cittadina, attorno alle parrocchie ed al clero, ancora ostile ad uno Stato che ha “usurpato” i diritti storici della Chiesa, liquidando i beni degli ordini religiosi via via convertiti in scuole ed ospedali e caserme e “recludendo” il sommo pontefice fra le mura leonine.

Sono i circoli come quello castellano di San Saturnino, le strutture dell’Azione Cattolica e, più in generale, il laicato bianco diffuso in citta e fuori a testimoniare la frattura non ancora saldata fra la coscienza del credente e quella del cittadino. Intanto in Consiglio Comunale continua ad esserci, e ad esser combattiva, una presenza clericale che conoscerà anche momenti di ampio suffragio e spazi larghi d’agibilità nell’istituzione locale, condizionando maggioranze e giunte.

Per molti anni è Il Risveglio la voce dell’opposizione cattolica cagliaritana, antiliberale ed antibacareddiana, a tener desti ideali e proteste toccherà quindi alla Sardegnetta, com’e ribattezzata dagli “antiparizzanti” più o meno democratici La Sardegna Cattolica del conte Enrico Sanjust, quotidiano politico non meno che religioso in distribuzione dal 1896.

Qualche consistenza va prendendo, proprio in questo ultimo scorcio di secolo, la microconfessione evangelica, che ha il suo tempio nella piazza Yenne e può vantare una buona tradizione giornalistica per la diffusione dell’insegnamento battista (basti pensare a Tenebre e Luce). Il pastore si chiama Pietro Arbanasich, un irredento triestino ormai sessantenne, dal vigore profetico nella voce, la cui predicazione associa non di rado il messaggio intramontabile del Cristo con quello invece tutto umano ma esso pure religioso del Mazzini.

I repubblicani sono pochi a Cagliari: cento, forse centouno, nell’era di forza della monarchia Savoia e del liberalismo versione autoritaria di Crispi o di Pelloux o versione mediatrice e pragmatica di Giolitti. Rappresentano una minoranza utopistica, e sul piano della fede osservano con scrupolo quanto detta l’intero martirologio dell’anno democratico: il 9 febbraio si celebra la Repubblica Romana e il 20 settembre la breccia di Porta Pia, ma il 17 febbraio gli onori sono per San Giordano Bruno e il 6 marzo per San Cavallotti, il 10 per San Mazzini; soprattutto per lui («Vegliardo, in tuo nome l’Italia s’è desta / Né ingrati, né servi, più Italia non ha», aveva cantato Cavallotti, a Cagliari e in giro nell’Isola nel 1891 e ancora nel 1896) ed il 2 giugno per San Garibaldi e il 20 dicembre per Sant’Oberdan, e poi ci sono i beati di casa, i San Brusco, i Sant’Asproni, i San Tuveri…

Anche essi, i seguaci dell’apostolo repubblicano, hanno le loro testate giornalistiche per la propalazione del verbo ed il proselitismo: hanno L’Arena, hanno Il Dovere, hanno i numeri unici per le ricorrenze di calendario come Due Giugno per commemorare Garibaldi e Fratti o XX Settembre per celebrare la presa di Roma, ed avranno presto La Scure e quant’altro.

I sodalizi repubblicani – prima ancora dell’Associazione (giovanile ed operaia) di piazza Martiri, che debutta dal 1896, c’è il circolo “Giovanni Battista Tuveri”, in via dei Genovesi, presieduto dal ventenne Alfonso Dessi villacidrese, studente a Medicina – battono in efficienza quelli socialisti di lago Siotto, pure essi impegnati nella semina del dogma di un egualitarismo che non riesce però a far presa nell’opinione moderata della città, mentre fra i ceti popolari, prevalentemente orientati a sinistra, mancano spesso, per i limiti dell’elettorato attivo ma anche per l’insufficiente maturazione di una coscienza di classe, le possibilità di una traduzione dell’ideologia in termini di voti.

A conciliare pulsioni democratiche e sperimentate sensibilità liberali, marcando in città anche una significativa presenza filantropica e culturale, è la Massoneria che nel 1890 riprende ad operare, riunendo i suoi artieri in una loggia intitolata a Sigismondo Arquer – un avvocato cagliaritano del ’500 abbrustolito vivo dai preti come il Bruno –, che avrà la fortuna ed il merito di attraversare tutta la belle époque, fino alla chiusura manu militari da parte dei giannizzeri del fascismo.

Le categorie più rappresentate, tolti i docenti universitari e medi e gli ufficiali dell’esercito, sono quelle dei pubblici funzionari e degli imprenditori, molti dei quali associati nella Fratellanza commerciale o già ai vertici della dinamicissima Camera di Commercio.

Dopo il crac bancario del 1886-87 (il cui seguito sarà nei processi celebrati a far data dal 1889, a carico di amministratori e dirigenti del Credito Agricolo Industriale Sardo, della Cassa di Risparmio di Cagliari e del Credito Fondiario, ecc.), l’economia conosce una stagnazione pesante da sopportare. Cerca di fronteggiarvi, sullo stretto piano creditizio, il Banco di Napoli, che arriva in Sardegna nel 1890 (seguirà, ma sedici anni dopo, la Commerciale), e su quello più generale – il piano delle commesse e dell’occupazione di manodopera – una politica delle opere pubbliche ad ampio spettro. Nel 1899 si apre il cantiere del nuovo palazzo municipale e dello stesso periodo sono anche i lavori sulle terrazze dei bastioni castellani (e sotto sarà realizzata, la passeggiata coperta), mentre una solenne scalinata a bracci simmetrici collegherà Castello ai tre quartieri bassi.

Così è al porto, per l’ingrandimento dello scalo marittimo, sia col drenaggio dei fondali che con la costruzione di nuovi moli (la banchina di ponente raggiungerà e supererà, alla fine, due chilometri). E d’altronde, se la Sardegna vuole progredire economicamente e socialmente, occorre potenziare il porto che è il fulcro di questa promozione.

Un positivo segnale è già nel traffico merci in continuo incremento (partono sale e pasta, carbone e minerali, vino, e bestiame, grano e mattoni, zinco e petrolio, arrivano legname e pozzolana, ferro, e quant’altro) e di tutto questo è efficace rappresentazione il continuo andare e venire di piroscafi e bilancelle, golette e cutters, bovi e trabaccoli, brigantini e tartane dai nomi più vari e fantasiosi, da Gelsomino, a Combinazione, da l’Impossibile a Nuovo Veloce, ecc.

Né ci sono solo navi-merci. Lo scalo accoglie in ormeggio navi da guerra di tutte (o quasi) le dimensioni: sono incrociatori-torpediniere e pirofregate estere… Idee per gli yachts di teste coronate o semicoronate, che in crociera fra l’Atlantico ed il Mediterraneo giustamente sfruttano, magari per i rifornimenti o soltanto per la curiosità di buttarci l’occhio, la posizione geografica, strategica e comoda, di Cagliari.

Non granché diversa è la situazione evolutiva negli altri comparti dei trasporti interni: aggiustamenti sono in corso nella rete ferroviaria, dato che i vettori su rotaia hanno assunto la primazia nei movimenti di persone e beni fra le diverse aree dell’Isola (e piuttosto si tende a realizzare un miglior raccordo con le tratte marittime, nella speranza che il rispetto delle coincidenze, unito all’abbordabilità delle tariffe, porti ad una sorta di continuità territoriale Sardegna-Continente).

E anche l’omnibus va ogni giorno di più allargando il raggio delle sue corse, per collegare quotidianamente il capoluogo con i comuni non serviti dalle ferrovie, compiendo così una positiva complementarità col vettore su rotaia.

Cagliari, resiste il quadrifoglio

Le dimensioni demografiche ed il riparto territoriale della popolazione, nella città che cavalca l’ultimo decennio del secolo vecchio, conoscono dinamiche abbastanza prevedibili, anche se, va detto, l’espansione edilizia di Villanova in direzione del convento solitario di San Benedetto sottolinea il primato di questo rione di storia eminentemente agricola (come raccordo fra hinterland ed area urbana): sono quindici-sedicimila i cagliaritani residenti, fra il Terrapieno e Bonaria, coi confini ad est verso Is Stelladas; mille o duemila di meno gli stampacini, inclusi i militari delle caserme del Belvedere ed i carcerati che, dopo lo smantellamento dalle succursali nelle due Torri, vivono nel reclusorio più bunker del mondo, anch’esso sul Belvedere (ma che belvedere se le bocche di lupo tolgono il godimento di ogni forma e colore di persone, piante, animali e cose allo sguardo dei detenuti?); alla Marina, quartiere di marittimi e pescatori, abitano qualcosa come diecimila persone. Duemila cagliaritani vivono a Sant’Avendrace, fra Tuvixeddu e Santa Gilla (il borgo che amministrativamente fa capo a Stampace), e pressoché altrettanti a San Bartolomeo (dipendente da Villanova), che fra il porto ed il Poetto – l’inesplorata spiaggia d’oro tutta quartese – dà alloggio ai più marginali, fisici e morali; comprendendo quelli che sputano sangue nel bagno penale, lavorando alle saline di quella costa estrema di Cagliari.

E Castello? Sette, ottomila residenti, metà titolati e metà popolani, per non dire plebei. Qui è, per qualche anno ancora, il centro direzionale della città, qui è ancora la prevalenza degli uffici pubblici, con targhe tutte di maiuscole: Prefettura e Pubblica Sicurezza, Intendenza di Finanza ed Avvocatura Erariale, Amministrazione Provinciale e Provveditorato agli Studi sono in via Martini, fra la piazza Indipendenza e la Cattedrale; l’Agenzia delle Imposte e la Conservatoria delle Ipoteche e le Ricevitorie Demanio e Registro sono in via dei Genovesi, così come l’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti ed il Genio Civile; gli uffici giudiziari sono sparsi fra le vie Corte d’Appello (dove siedono appunto la Corte d’Appello e quella d’Assise), Lamarmora (Procura Generale del Re) ed Università (Procura Regia, Tribunale Civile e Penale  e primo Mandamento della Conciliatoria). E qui sono ancora la Curia Arcivescovile ed il Seminario, l’Ateneo ed il Comando del Distretto Militare, che occupa gli edifici di piazzetta Arsenale.

E però, s’è detto, si fa ogni giorno più necessario, e trova anche modo di progressivamente realizzarsi, quel policentrismo che è nel disegno di trasformazione urbanistica voluto dall’Amministrazione Bacaredda, che darà l’esempio trasferendo il municipio da piazza Palazzo a via Roma, in quella strada cioè nella quale hanno già trovato sistemazione uffici e servizi più direttamente connessi alle attività portuali e non solo, ovviamente, la Dogana e la Capitaneria, ma anche il Dazio consumo, il Comando Luogotenenza e l’Ispettorato di Finanza, mentre sono ad un passo da lì i Magazzini Generali (in viale Bonaria) e la Società Navigazione Generale Italiana (nel viale Regina Margherita, già Umberto I), l’Ispettorato Catasto (in viale San Pietro, in futuro detto Trieste) o quello delle Strade Ferrate (a palazzo Aurbacher, in piazza del Carmine o XXVII Marzo che dir si voglia, tanto più a ridosso del cinquantenario dell’unità), la Verificatoria dei Pesi e Misure (in via Manno), ecc.

Alla Marina ha attrezzato il suo quartier generale l’esercito: tra le vie Torino, Porcile e Principe Amedeo sono infatti concentrati i Comandi della Divisione Militare, del Genio Militare, la Biblioteca ed il Tribunale “con le stellette”. Così han fatto, le banche: il Banco di Napoli è in via Spano, la Banca d’Italia con la Tesoreria Provinciale ed il Monte di Pietà con la Congregazione di Carità sono in via Sant’Eulalia (a mezza strada fra la parrocchiale e il liceo, e giusto dirimpetto a casa Marini, la casa del mitico pietrificatore dei cadaveri), il Banco di Credito Popolare Commerciale in piazza Martiri d’Italia, l’Esattoria in via Torino, il Comizio Agrario e il secondo Mandamento pretorile in via Cima, l’Archivio Notatile e quello di Stato fra la via Sicilia e la piazza Dettori, la Direzione delle Poste e Telegrafi fra il vico Savoia e la via Baylle (ma le succursali sono sparse nei quartieri) e la Società Telefonica, al limite estremo, in piazza Yenne.

Ognuno fa la sua parte: a Stampace è la Camera di Commercio, nel largo Carlo Felice, il Comando della Legione Carabinieri nel corso Vittorio Emanuele, mentre in via Ospedale sono, appunto, l’Ospedale Militare e quello Civile…

Sì, è vero, manca un po’ Villanova, ma forse è il segno di quanto il quartiere più popoloso sia teso all’integrazione con gli altri tre, come se ancora non abbia maturato coscienza della sua autonomia o delle sue potenzialità. Qui, d’altra parte, operano e sono efficientissime la Scuola enologica e quella professionale-artigiana, e tante istituzioni benefiche – prima fra tutte l’Ospizio “Carlo Felice” – che interrelazionano proficuamente con Chiesa e Prefettura.

Città ricca, città povera? questo ci si chiede. Città di gravi diseguaglianze sociali, sperequata nelle opportunità offerte ai suoi figli. Le centoventimila razioni annue, pari ad oltre 400 pasti quotidiani distribuiti dalle “cucine economiche” e più ancora i decessi da etisia, da scrofala, da tisi, ed i gavroche sparsi nelle strade, che un tempo, all’ombra della carità di una santa superiora dell’Asilo “Marina e Stampace”, saranno promossi “marianelli” fanno pensare a una miseria diffusa. Né però ci si rassegna all’inattività, ché l’autopromozione è nella divisa dei piccioccus de ‘crobi, i servitorelli del mercato della carne e dei pesce, della frutta e della verdura, dei formaggi e delle uova, che portano a domicilio la spesa delle signoras, quotidiane frequentatrici della superficie riconvertita di quell’antico convento agostiniano che ora è tutto vetro e ghisa, ha tettoia ondulata e colonnato dorico.

Le chiamate di operai, a parte l’edilizia cantierata, vengono dalle fabbriche minime che hanno scelto le aree migliori per i loro stabilimenti: quelle meccaniche, ad esempio, ai due capi dei porto, dove sono sorte, nella seconda metà del secolo, le stazioni ferroviarie delle Reali e delle Complementari, quelle dei laterizi nell’estrema periferia, in località nelle quali, dagli orti e vigneti e poderi dei Pernis, dei Pani, dei Leonardi, dei Zedda, ecc., sono germinati enopoli e aziende agrarie di largo mercato interno ed estero.

D’avanguardia è il settore molitorio, a Cagliari, collegato a nomi di imprenditori come Luigi Merello, i vari Balletto, Costa, Faggioli, Lotti-Magrini, ecc. i cui impianti, al pari delle concerie dei Gavaudo o degli Spissu o dei magazzini di legname dei Fadda, sono addensati tra Stampace basso e Sant’Avendrace, lungo il viale San Pietro e zone contermini.

E questa la città nella quale Ignazio Cogotti vive per dieci anni, la città che conosce e frequenti da studente e poi da giovanissimo avvocato. «Dal Turrito Castello alla Marina, / dalle vie di Stampace e Villanova / echeggia un suon di gioia cittadina / che Cagliari ridesta a vita nova», rima nel maggio 1894 il poeta Luigi Solinas, ispirato dal gran brulicare della città divenuta regione per onorare il martire Efisio (quello stesso Solinas che nel 1891 aveva cantato Villacidro «di colli incoronata»).

È la città di cui Cogotti respira, assorbe e rielabora gli umori, senza smetter mai d’esser villacidrese, biddaiu nel senso migliore del termine, orgoglioso del suo paese natio che con Cagliari – e sia pure soltanto la Cagliari dei borghesi –conserva quel rapporto privilegiato che è di anni e decenni.

Osserva i costumi, le abitudini di vita, le mentalità dei cittadini e metabolizza idee e motivi per una traduzione in versi, che verrà presto, dopo che si sarà esaurita la vena della poesia manierata, della rima italiana…

Vestito di tutto punto e moderno, come Franceschino Fulgheri in Paese d’ombre, «alla francese, col panciotto abbottonato alto, la cravatta di seta annodata sul colletto alla diplomatica», a Cagliari si laurea il 12 luglio 1894. In commissione è anche il professor Bacaredda. Sarà un po’ un avvenimento, per le polemiche che qualcuno provocherà proprio sull’argomento della tesi – “Lo stato d’assedio” – e più ancora sul suo svolgimento ritenuto, evidentemente a torto, da parte clericale, corrotto da ideologie repubblicane e socialiste, insomma eversore…

Gli altri due temi trattati sono di tutt’altro filone: «I libri del commerciante possono far fede in giudizio contro il non commerciante purché siano tenuti regolarmente» e «Il monopolio degli alcools, ingiusto come tutti i monopoli, sarebbe per l’Italia, qualora l’adottasse, di tutti il più dannoso».

ll voto non è altissimo: 96/110, e va anche detto, per onestà, che non granché brillante – forse però soltanto per la… severità dei professori – saranno le votazioni negli esami cruciali che varranno anche per l’abilitazione all’esercizio di procuratore: Istituzioni civili 25/30, Diritto penale 24, Procedura civile 23, Diritto civile 25, Diritto commerciale 25, Procedura penale 18.

Nel Palazzaccio

Il praticantato Cogotti lo svolge nello studio di uno dei suoi docenti, sia pure fuori ruolo (come “dottore aggregato” è incaricato della cattedra di Scienze delle finanze), nella facoltà di Giurisprudenza l’esimio cav. Enrico Carboni Boy.

Dal 10 agosto 1894 – giusto un mese dopo la discussione della tesi – ogni santa mattina egli fa la spola fra il civico 8 della via San Giuseppe (a neppure cento metri dall’università), di lato all’omonima antica chiesa degli scolopi, dove l’avvocato ha studio ed abitazione, e le vicine aule giudiziarie, in cui va ad ascoltare e ad imparare il mestiere.

A fine novembre sostiene, davanti alla Corte d’Appello, l’esame di idoneità a procuratore, che supera con un 50 tondo. Il 23 marzo dell’anno successivo il Consiglio di disciplina dei procuratori gli concede il placet all’iscrizione all’Ordine, previo giuramento.

Quattro anni più tardi, il 26 e 27 aprile 1899, replica le prove teorico-pratiche di avvocato nanti l’apposita commissione istituita presso la Corte d’Appello, gratificato di un bel 47 su 50/100.

All’albo professionale sono iscritti un’ottantina di avvocati. La cittadella di Temi (così chiamava il “palazzaccio” il vecchio direttore de L’Avvenire di Sardegna Giovanni De Francesco) non è meno affollata dalla parte delle toghe e dei tocchi. La complessa amministrazione della giustizia si compone della Corte d’Appello (con giurisdizione regionale) a sua volta articolata nelle tre sezioni civile, promiscua e d’accusa; della Corte d’Assise, del Tribunale civile e penale, comprendente due sezioni, l’ufficio delle graduazioni e quello d’istruzione dei processi penali, la Camera di consiglio, ecc. Per i reati minori funzionano invece le Preture e le Conciliature, suddivise entrambe in due mandamenti, il primo competente su Castello e Stampace, il secondo su Marina e Villanova.

Alla Procura generale sono applicati, col titolare dell’ufficio, quattro sostituti; così alla Procura del re, dove opera, fra gli altri, l’avv. Domenico Dore, prossimo suocero di Cogotti.

Qualche numero fornito dalle annuali relazioni del procuratore generale (riferite perciò all’intera Sardegna) può dare un’idea della mole di lavoro che evadono inquirenti, collegi o giudici monocratici.

Ogni anno si pronunciano, nel civile, qualcosa come 30.000 sentenze, metà in contraddittorio e metà in contumacia. Sono verdetti in larga prevalenza provenienti dalle Preture, dove si introducono, annualmente, circa 35.000 nuove cause; soltanto duemila vengono conciliate all’udienza, ma ben 20.000 sono quelle che si estinguono per abbandono o transazione privata.

Nei Tribunali le cause introdotte sfiorano in media le 3.000, ed appena il 10 per cento sono abbandonate o transate. Delle 1.800 decise con sentenza meno della metà sono appellate.

Nel settore penale le sentenze pronunciate ogni anno sono nell’ordine delle 13.000, di cui il 90 per cento sono pretorili ed il resto – mille in numero assoluto – dei Tribunali o, marginalmente (circa 200), della Corte d’Assise.

Alla Corte d’Appello arrivano qualcosa come 500 processi e le sentenze confermate assommano a circa i due terzi.

Urbana o rurale, è diffusa in tutta l’Isola la delinquenza giovanile; i minori sotto processo in Pretura sono oltre duemila all’anno (ma per quasi la metà il dibattimento si conclude con l’assoluzione), ed oltre 300 in Tribunale (dove gli assolti sono assai di meno: uno su cinque) ed una ventina soltanto in Corte d’Assise.

Sul piano della casistica generale si rileva che a fronte di circa 1.300 reati contro le persone, quelli contro i beni sono quattro volte di più, mentre quelli contro la Pubblica amministrazione superano abbondantemente i 600. Gli assassini sono una cinquantina, le grassazioni con omicidio una decina e addirittura un centinaio quelle che, sempre predatorie, fortunatamente non finiscono nel sangue.

E in questo quadro di estesa illegalità, litigioso e violento, che si affaccia, giovane pulito, Ignazio Cogotti.

Quando l’accoglie nel proprio studio castellano, Enrico Carboni Boy è un avvocato già in carriera e nel pieno delle sue energie, conosciuto in città e nell’intero Campidano per la valentia professionale, tanto come penalista quanto come civilista, e per la sua facondia e capacità di convincere.

Alla scuola dell’avvocato-onorevole

Degno figlio di magistrato e di deputato (l’on. Michele Carboni – esponente della sinistra moderata all’interno della galassia parlamentare liberale, comunque dalla parte di Depretis – ha frequentato Montecitorio complessivamente per dieci anni, una prima volta nel biennio 1865-67 ed una seconda dal 1882 al 1890), egli s’è laureato nel l 872, ha iniziato immediatamente la professione e per lunghi anni ha insegnato all’università. Dal 1880 è consigliere provinciale, carica che conserverà ininterrottamente per la bellezza di 34 anni, fino alla vigilia della grande guerra, eletto in un torno di mandamenti che vanno da Mandas a Barumini, da Senis a Laconi, da Isili a Nutri.

Il giorno in cui, dunque, inizia la pratica, il giovane Cogotti è nella condizione ideale per maturare esperienze che vanno oltre la professione, ma s’allargano alla politica, di cui apprende meccanismi, nobili ideali e miserie tattiche, così come le propone il sistema tutto personalismo e clientelismo dell’uninominale. Ripassare, dunque, la vicenda pubblica dell’avvocato-onorevole cagliaritano può aiutarci ad immaginare, nella mutabile sequenza delle scene storiche, il come ed il perché degli orientamenti e delle attività del villacidrese, che al suo maestro resterà sempre affettuosamente devoto.

In costanza di mandato consiliare – in anni in cui la Provincia costituisce, sul piano territoriale, il cardine amministrativo dello Stato – Carboni Boy esordisce, precisamente nel 1897, anche come deputato; resterà alla Camera per tre lustri pieni, all’inizio, fino al 1913, come rappresentate del collegio di Oristano. Saltata la XXIX legislatura, tornerà a Montecitorio nel 1919, all’avvio del proporzionale, ed ancora nel 1921, fino quasi ai prodromi della trasformazione dell’ormai sclerotico sistema liberale nel regime illiberale ad opera del fascismo.

Personalità conosciutissima alla Camera (fra le cariche assegnatagli c’è anche quella di presidente della Giunta delle elezioni), sarà due volte membro del governo come sottosegretario: fra 1909 e 1910, alle Finanze, nel secondo gabinetto Sonnino e, dal 1921 al 1922, alla Marina Mercantile, nel ministero Bonomi.

Fra le iniziative da lui assunte come parlamentare ed uomo di governo quelle che più resteranno nella memoria dei contemporanei e nell’utile dei futuri sono senz’altro quelle relative all’inaugurazione della linea marittima Cagliari-Civitavecchia ed alla costruzione del bacino artificiale del Tirso.

Uomo dotto, autore di numerose pubblicazioni di carattere giuridico ed economico, egli non abbandonerà mai, per quello politico, l’impegno professionale presso il foro locale e quello romano.

Nel 1914 si rivelerà proprietario, con altri, della testata de L’’Unione Sarda; di cui diventerà negli anni successivi sostanzialmente (e cioè fino alla cessione del pacchetto azionario a Ferruccio Sorcinelli) il solo proprietario.

Nel 1915 si schiererà col gruppo degli interventisti, cui partecipa l’area non giolittiana del liberalismo o del liberal-radicalismo nazionale e regionale, con Sanna-Randaccio, Congiu, Pala, Abozzi, ecc. (contro il neutralismo dei Cocco-Ortu, Cao-Pinna, Umberto Cao e quant’altri).

Per cultura di generazione e di censo, Carboni Boy appartiene a un notabilato che concepisce la politica come arte elitaria e non s’arrende però davanti ai proporzionale che introduce le masse nella vita dello Stato. Anzi, cavalca, con arditezza la nuova situazione. Nel 1919, ormai 68enne, tornerà, come detto, alla gara elettorale, stavolta nella lista liberal-costituzionale delle “due spighe”, di cui è il solo eletto (dei “cugini” liberal-democratici della “stella” la spuntano, entrambi a Cagliari, Cocco-Ortu e Congiu, dei radicali Sanna Randaccio nel capoluogo e Satta-Branca e Dore a Sassari, gli altri eletti saranno i combattenti Orano, Angioni e Mastino, il popolare Edmondo Sanjust, il prossimo nazional-fascista Lissia e l’indipendente Murgia).

Il confronto politico sarà acceso e non mancheranno i risvolti anche villacidresi.

Il giornale riformista Il Risveglio dell’isola lo chiamerà indirettamente in causa come patron, negli anni lontani, di un socialista entra-ed-esci come Jago Siotto, mentre più attuali e pertinenti polemiche si scateneranno allorché il prefetto di Cagliari oserà autorizzare (per fare poi precipitosamente macchina indietro, onde placare la rivolta dei contadini interessati) il dottor Alfonso Dessì – l’ex giovane presidente del circolo “Tuveri” ed ora presidente di una delle due casse rurali di Villacidro nonché, con Cogotti, “capo elettore” di Carboni Boy – ad occupare la tenuta di ben 2.322 ettari intitolata a Vittorio Emanuele in agro di Sanluri, gestita nell’interesse, dei combattenti sardi, dall’Opera nazionale pro-combattenti.

Alle urne si tornerà appena diciotto mesi dopo – quando le forze liberal-moderate e liberal-democratiche si presentano in cartello sotto la riconosciuta leadership di Cocco-Ortu, decano della Camera e già ministro, contro lo schieramento sardista, quello socialista e quello popolare. Il Blocco Nazionale sfiorerà la metà dei voti espressi, piazzando sei deputati sui dodici eletti, fra cui Carboni Boy.

Alla, vigilia del voto questi aderirà al manifesto economico-sociale proposto dalla Federazione Commercianti Industriali e Agricoltori di Cagliari contro i progetti di «socializzazione industriale» (leggi controllo operaio) e di «monopolio commerciale», insomma contro ogni intervento statale che limiti il diritto di proprietà, a favore, invece, della revisione della legislazione «eccezionale» sugli accertamenti dei sovraprofitti di guerra, nonché della riduzione delle vigenti tariffe marittime e ferroviarie e dell’istituzione della linea di navigazione Cagliari-Civitavecchia.

La partecipazione al ministero Bonomi gli consentirà di passare, nei limiti delle sue competenze, dalle buone intenzioni alle buone azioni.

L’ascesa al potere di Mussolini provocherà lo sfaldamento completo della galassia liberale, la capitolazione più o meno opportunistica di molti che si adegueranno alla nuova situazione ed il ritiro a vita privata di numerosi altri. Fra essi Carboni Boy.

«La democrazia è sempre quella puttana contro la quale non possiamo che combattere. La democrazia è il partito di Cocco-Ortu, di Abozzi, di Satta-Branca, di Carboni Boy e di tutti quelli che avevano turlupinato la Sardegna», scriverà nel marzo 1923 il fasciomoro Paolo Pili all’ex amico rimasto rossomoro Francesco Fancello.

L’avversione dei fascisti della prima e soprattutto della seconda ora per gli uomini del passato sarà totale. Cocco-Ortu sarà il più odiato, ma nei rapporti del prefetto Gandolfo al Duce ce ne sarà per tutti: nel maggio 1923 – e cioè proprio all’indomani del trasferimento nel PNF di mezzo PSd’A e nell’imminenza della visita del presidente del Consiglio in Sardegna – egli chiederà a Mussolini che, a «salvaguardia» del proprio «prestigio» ed «autorità», sia «inibito assolutamente l’accesso [nel PNFJ di quei tali signori: Dessy Deliperi, Sanna-Randaccio, Carboni Boy…», ritenuti una cricca di pavidi ed infidi, perché, anziché «scendere in campo aperto contro il fascismo», avrebbero scelto strade traverse, servendosi de L’Unione Sarda e del suo nuovo editore, grintoso fascista della primissima ora ed ostile all’establishment fasciomoro, promotore addirittura d’una ipotetica «organizzazione segreta, denominata “Mussolini e Italia”» con a capo «i più fidati compari di Cocco Ortu, di Carboni, di Dessy e di Sanna Randaccio».

E sei mesi più tardi, riferendo del commissariamento di oltre 120 amministrazioni comunali, fra cui quella di Cagliari, scriverà: «Cadono ogni giorno le roccaforti, grandi e piccole, che finora avevano costituito il comodo rifugio dei compari degli onorevoli Cocco Ortu, Sanna Randaccio, Carboni Boy ecc. ed ogni caduta rivela aggruppamenti di inconfessabili interessi, malversazioni del pubblico denaro, miserabili cricche di truffaldini».

Carboni Boy muore nel 1925. La storia d’Italia, e anche della Sardegna, sarà quella che vorrà il regime. Una disposizione del 1926 imporrà il giuramento di fedeltà ai pubblici dipendenti, ma anche ai liberi professionisti che evidentemente hanno rapporti con l’Amministrazione. E Cogotti, oltre che a quello forense, assolve pure all’ufficio di notaio.

A dettare regole e formule sono l’art. 10 della legge 25 marzo 1926, n. 453, e l’art. 2 del R.D. 6 maggio 1926, n. 747. Così il 16 giugno 1928, fissando la mente più al testo, certamente accettabile, che non alle intenzioni dei suoi estensori, pronuncia, nella sala delle pubbliche udienze della Sezione penale della Corte d’Appello, il proprio giuramento di assolvere ai doveri professionali «con lealtà, onore e diligenza per i fini superiori della giustizia e gli interessi superiori della Nazione».

Ormai egli esercita la sua attività da tre decenni. È tornato, già in quegli ultimi anni di un calendario che ancora registra le date col “189…”, nella sua Villacidro, aprendo lo studio presso la sua abitazione, in piazza Cadoni divenuta Zampillo e quindi XX Settembre.

Professione e politica “mix perfetto”, gli ha insegnato il suo maestro. E lui ci si è applicato con valore e con tenacia, senza smettere la buona abitudine di poetare, anche un po’ in italiano, ma poi sempre più spesso, però, in sardo. Magari ricordando sempre con una cordiale vena di rispettosa ironia, gli umori cagliaritani che ha raccolto con abbondanza nel periodo più formativo della sua personalità e miscelato con quegli altri, certo non meno stimolanti, offertigli dall’ambiente paesano, piantagrane e rissoso per vocazione.

Ne fornisce indiretta testimonianza Luigi Cadoni, il nipote anche lui amante della rima campidanese (ma più sferzante nelle sue rappresentazioni e allegorie), cronista pro tempore e corrispondente de La Voce del Popolo negli anni della grande guerra: «Speriamo che lo assista una più benigna stella nella lite che dovrà promuovere contro gli ex amministratori, perché altrimenti sarebbe proprio il caso che bruciasse i codici e si ricoverasse totalmente sotto la protezione delle Muse: poiché se voi lettori non lo sapete, vi faccio conoscere (e ci tengo, da leale avversario, a fargli la réclame di questa sua virtuosità), che Egli scrive degli splendidi sonetti in vernacolo» (così l’11 aprile 1915).

Ma com’è la vita paesana negli anni che hanno accompagnato Ignazio Cogotti lungo le sue esperienze professionali ed amministrative? .

La guida cidrese di “Iridescenze”

Una prima fonte di notizie, insieme precisa e gustosa, è senz’altro costituita da Villacidro-Iridescenze, che per il fatto di esser scritta press’a poco quando Cogotti sta completando a Cagliari i suoi studi, e dunque qualche anno – due, tre, non di più – prima del suo ritorno sede plena a Villacidro, non perde attendibilità ed efficacia nell’inquadramento delle atmosfere e delle prospettive od aspettative locali.

Quando Salvatore Manno pubblica il suo libretto, nel 1893, in municipio siede Luigi Cogotti (zio dello scrittore), ed è forse partigiano quel giudizio circa la “saviezza” e l’”intelligenza” dell’amministrazione «al potere», che «luminosamente» avrebbe dimostrato di non essere «a niuna seconda nel compimento di opere egregie a vantaggio del popolo e ad illustrazione e miglioramento del borgo».

Che cosa stanno realizzando sindaco e assessori? La bonifica della Fluminera, innanzitutto: il «fiumicello», che attraversa buona parte dell’abitato, è imbrigliato in «un canale largo e profondo tanto da poterne raccogliere le acque, quando la corrente è scarsa». Il canale è «a volta solida», il che dà alla pavimentazione stradale, lateralmente carreggiabile, un piano inclinato «a scaglioni lunghi 11 metri, larghi 5, e diligentemente selciati. Così, allorché la corrente s’ingrossa per le forti piogge, l’acqua vi scorre sopra, mentre l’imboccatura del canale viene automaticamente chiusa a mezzo d’una saracinesca dalla furia stessa della piena».

Assieme a quest’opera pubblica attesa da generazioni di villacidresi, un rilievo speciale meritano almeno altre due realizzazioni che trovano felice compimento nella prima metà degli anni ’90: il lavatoio liberty in località detta s’arriu («dove sta il pubblico fonte principale, le di cui acque, accresciute da molti ruscelletti che v’affluiscono, sono raccolte in due grandi serbatoi, per l’acqua potabile l’uno, l’altro per alimentare l’abbeveratoio»), ed il pubblico macello.

Nel gradimento generale è anche l’adattamento a mercato dei cereali ed alimentare tout court della piazzetta presso il ponte di ferro che cavalca le sponde della Fluminera, in zona di Santa Barbara: quella piazzetta che sarà presto ribattezzata Zampillo proprio perché riceverà, da un’apposita conduttura, l’acqua «che spiccia abbondante e cristallina nel seno di Castangias».

Salvatore Marino racconta l’ieri, l’oggi e anche il domani del “paese d’ombre”: ne indica, per posizionarla nell’universo mondo, longitudine e latitudine, ne spiega le origini protostoriche, l’etimologia del nome, i profili naturali con l’articolazione rionale: Castangias a occidente, Lacuneddas a mezzogiorno, Seddanus a tramontana, Sa mitza o Frontera o Parrocchia al centro dell’ideale quadrifoglio, il quartiere Basso «così appellato perché nella sua estremità giace nel piano della vallata» – a «greco» (est).

Descrive la pianura verdeggiante, «ondulata da una fuga di apriche collinette», che s’apre, spettacolare, «come un immenso drappo di erbetta molle, di velluto», accogliendo nel suo mezzo lo stagno Stasiaro, parzialmente bonificato; segnala le attrattive dei «romiti sentieri» del monte Domus in direzione della valle del Margiani, in cui scorrono le acque del Cucina che alimentano la «cateratta» di Seddanus.

Tutt’attorno i monti e altre valli di altri comuni, ma la perla, il «graziosissimo Eden» è Villacidro: qui «la natura profuse a larghe mani i suoi sublimi incantesimi; è un paesaggio sublime, che nessun artista potrebbe immaginare nello splendore di tanta bellezza».

Non è un caso che qui vengano i cagliaritani che meno amano il mare e piuttosto preferiscono riposare, dopo maggio e fino all’estate, in campagna, riparando, «sotto il soffio della natura, lo sciupio quotidiano del fosforo». Qui il clima è «dolce e salubre», talvolta arricchito da impetuosi venti boreali e da forti calori estivi «la cui intensità s’accresce dai raggi solari, riverberati dalla nuda pendice delle circostanti montagne». L’aria è «di gran giovamento a chi fisicamente soffre». E dunque ecco i villeggianti – «esuli volontari e contenti» – che trasformano Villacidro in una «cittaduzza» allegra e festosa, con «molti signori e gentili signore» che movimentano «le sue vie larghe e selciate», o si perdono nei circuiti del provocantissimo mercato all’aperto, magari lasciando in libertà le figlie adolescenti, quelle «signorine sentimentali, tenere dei romantici passeggi frammezzo ai giardini dal profumo delicato».

Nelle cento pagine di Salvatore Manno c’è spazio per l’illustrazione delle tipologie edilizie presenti in loco e perfino per la particolareggiata esposizione – cinque pagine! – della più antica casa popolana di Lacuneddas. A fronte della quale sono quelle altre note e celebrate dei “grandi” Loru e Todde, dell’avvocato Maury Loi e del ragionier Antonio Alagna.

Vengono quindi i capitoli dedicati agli edifici pubblici – in primis il municipio ed il palazzo vescovile –, alle piazze ed alla viabilità interna – iniziando giustamente da Frontera «così appellata perché sta precisamente di fronte alla montagna» ed è «il centro della borgata»; alle chiese, sia dell’abitato che di campagna, tutte antiche e cariche di storia, legate alle tradizioni patronali e alle devozioni che immancabilmente sfogano in sagre conviviali, con tanto di «grossi tocchi di carne» ed «appetitosi porcelletti» bagnati di «ottimo vino» e conclusioni di ballu tandu, magari «al rezzo di qualche albero fronzuto» e al suono delle launeddas e degli organetti.

Orografia, valli, seni, idrografia con minuziosi elenchi di corsi principali e di affluenti e di cascate (c’è la Spendula di Pixin’Irgas e quella di Canali Frassu, quella di Murumannus e quella maggiore di Seddanus, che vola da 14 metri ed è meta di turisti a bocca aperta), ecc.: è una straordinaria guida mirata al “paese d’ombre”, topografica e sociale, il Villacidro-Iridescenze del maestro Manno. E anche dizionario dell’economia locale: agricoltura, viticoltura, acquavite (con celebrazione delle distillerie di Angelo Cadoni, Gennaro Murgia, Rafaele Sogno e Francesco Curreli), agrumeti, verzieri, selve ghiandifere, industria armentizia, selvaggiume, commercio…

L’export paesano riguarda l’acquavite, il vino bianco, l’olio, il formaggio e la lana. Le «donnicciuole» cidresi – spiega Manno – «vanno in giro nei comuni limitrofi e nella capitale a vendere l’orbace e le tele di lino» da loro stesse tessute, e smerciando vin cotto e uva passa, barattandola – siamo ancora allo scambio in natura! – con legumi che, invece, scarseggiano.

Al mercato di piazza Frontera ed alla ventina di botteghe ben assortite del paese fa corona la folla di ambulanti d’ogni genere che – «negozio portatile sulle spalle» e «réclame altosonante quanto noiosa» – vengono dalla provincia ed oltre, compensando l’emigrazione dei cinquecento cidresi «che attendono in altri comuni alle fatiche della messe o ai lavori nelle miniere».

E a proposito di miniere: la fabbrica più importante, sulle rive del Leni – a un passo dalla vecchia fonderia che aveva lavorato le scorie argentifere degli strati profondi –, è proprio uno stabilimento legato alla fondita e modellazione di un metallo pluriuso e perciò commerciabilissimo quale è il rame (il titolare, signor Battista Fois, ha un fornito negozio nel corso Vittorio Emanuele di Cagliari).

Pregiudizi e stramberie dei cidresi, leggende e brebus, credenze e superstizioni riempiono le ultime scintillanti pagine della «fatica intellettuale» – secondo l’apprezzamento della Deledda – compiuta da Salvatore Manno, il quale, da buon insegnante e poi direttore didattico, conclude la sua operetta, molto opportunamente, illustrando la realtà scolastica ed il merito dell’autorità municipale nell’incrementare i livelli qualitativi e quantitativi di scolarità presso la popolazione più giovane: «I locali per le scuole sono ottimi sott’ogni riguardo e forniti di un arredamento completo. L’insegnamento è affidato a sei insegnanti, tre per le classi maschili e tre per le femminili. Il concorso degli allievi è assai notevole. Si dice sia imminente la fondazione d’un asilo per l’infanzia».

Bisognerebbe anche aggiungere che l’analfabetismo, quantificato in un 86 per cento tondo nel 1871, si ridurrà di ben diciotto punti nel 1901, peraltro rimanendo a un livello ancora troppo elevato e alla lunga incompatibile con un risultato veramente significativo nel processo di avanzamento civile intrapreso.

Le istantanee di De Francesco

È indubbio che la «cittaduzza» sia in rapido sviluppo, anche demografico (4.961 residenti nell’anno dell’unità d’Italia, quando i sardi sono in tutto 588.064; 5.384 due decenni dopo e seimila circa nei primi anni del ’90, salvo retrocedere di ben mille unità all’alba del nuovo secolo, soprattutto per i trasferimento di molti negli alacri centri minerari dell’Iglesiente e del Guspinese-Arburese).

Le infrastrutture che via via vengono realizzate nella più fertile stagione della sua storia moderna, trasformano il volto di Villacidro migliorando nettamente gli standard di vita della popolazione: oltre all’incanalizzazione ed alla copertura della Fluminera, oltre al lavatoio a sezioni ed ispirato a «rigorosi criteri igienici», oltre al macello «il più moderno di quanti se ne scorgono in Sardegna», oltre allo zampillo che abbellisce il centro del centro, ecco l’abbeveratoio di Funtanedda, ecco il deposito d’acqua potabile a Sa Mitza e Castiangias, ecco il nuovo viale che collega l’area di Pont’e su vicariu a Castiangias, ecco la sistemazione con selciatura di nuove strade interne.

Dal 1888 e fino al 1894 viene attuato il progressivo rimboschimento della montagna, con la messa a dimora, all’inizio, di 500 pini (del costo, non lieve, di 75 centesimi l’uno) sotto la competente direzione dell’agronomo Raffaele Pischedda. Un piano poi portato avanti fino al 1900 ed alimentato da un vivaio, proprio del Comune, nel frattempo allestito. Sicché nel primo anno del Novecento la pineta potrà contare, sul suo dosso, ben 130.000 piante, per una spesa complessiva sostenuta di 20.000 lire, incluso il contributo governativo di 2.700 lire.

«A primi albori del regime liberale rapidamente si delineò un’evoluzione meravigliosa delle tendenze dei villacidresi. Trionfo d’armonia. Come la terra, assiduamente lavorata, da più anni andava arricchendo di prodotti, una nuova educazione ne alzò il livello morale», testimonia Giovanni De Francesco nel suo Un comune di montagna (Il suo passato, il suo avvenire): che è del 1902.

«Non più le carceri, – aggiunge l’ex direttore e già fondatore de L’Avvenire di Sardegna – popolare invece gl’istituti d’istruzione, dapprima come discenti, e poscia come insegnanti, fu la meta agognata dalla gioventù. Nel volgere di pochi anni i villacidresi ebbero parte notevolissima nel movimento intellettuale della provincia e quindi in quello politico», sostiene ancora, volgendo lo sguardo agli ultimi decenni del secolo, ma non trattenendolo oltre il dovuto sui vari Loru e Todde e soprattutto – il preferito – Fulgheri, e piuttosto indagando sul meritorio dinamismo delle più recenti leve di amministratori, della cui opera loda il risultato destinato a durare: «E si capisce perché in breve volger d’anni siasi accentuata ne’ villeggianti la predilezione di quella residenza. Vi s’aggiunga la costante nettezza delle vie (caso rarissimo ne comuni isolani), che non importa onere alcuno al bilancio municipale. Imitatori del lucchese e del campano, adolescenti d’ambo i sessi si dedicano spontaneamente allo spazzamento per raccoglier concime e così guadagnare da 50 a 60 centesimi al dì. Perciò giustificato l’orgoglio di Villacidro d’esser compresa, al pari di Gonnosfanadiga, Guspini ed Arbus, nel quadrilatero del lavoro, ove la civiltà va sempre più dilatandosi».

E ancora, con una responsabile attenzione ai bisogni di cassa ed agli equilibri finanziari: «Per mandare a compimento le opere indicate, occorsero circa L. 160.000, ottenute dalle risorse ordinarie del bilancio e da un mutuo contratto con la Cassa depositi e prestiti per la somma di L. 60.000».

De Francesco è schierato toto corde con il sindaco Pinna, che ha dovuto lasciare ad altri, nel 1901, la gestione del Comune, ma incoraggia anche quelli del partito avverso: l’importante è proseguire nel ben fatto. Riferisce i dati più aggiornati dell’economia paesana: «All’industria pastorizia ed armentizia, che offre un lauto beneficio, si aggiunge la coltivazione del mandorlo; dì per dì dilatantesi la quale
permette di realizzare al di là delle 200.000 lire. Dagli agrumi si traggono L. 60.000, fra pochi anni esse diverranno 100.000, grazie all’incessante moltiplicarsi delle nuove piante ed alla maggiore espansione fruttifera delle antiche».

Si compiace della vite che «ha tappezzato di pampini terreni negletti un tempo» ed esalta la magìa del farmacista Gennaro Murgia che «ha costretto le tre stelle di Boulestin ad impallidire. Da un decennio quasi, chiunque sbarchi in Sardegna domanda il “Villacidro”, l’acquavite speciale, annoverata in continente fra i distillati prelibati».

Valorizza in 300.000 lire il raccolto delle olive sane, in più di 70.000 quello delle ciliegie ed ancora in 80.000 «che si raddoppieranno indubbiamente fra tre o quattro anni» quello delle patate, la cui coltivazione è stata introdotta da pochissimi anni.

Microstoria per volontà (o consiglio) di Domineddio

Ormai è chiaro: lungo l’asse Cagliari-Oristano è a Villacidro che tocca una sorta di primato d’onore, di riguardo di considerazione. Paolo Hardy – alias Ranieri Ugo – che di direttor De Francesco è collaboratore fedele da molti anni, più e più volte ha pubblicato su L’Avvenire di Sardegna i suoi reportages di viaggio dal paese che per dono di natura si gode la foresta di Monti Mannu e la cascata di Sa Spendula, dopo la visita del terzetto del Capitan Fracassa nel 1882.

L’ha fatto, per dirne soltanto una, nel febbraio del 1888, perché ha voluto – rivolgendosi ai lettori del capoluogo – raccontare di quelle innumerevoli «benedizioni» che Domineddio «ha sparso a larghe mani» su un luogo unico e irripetibile che ben merita d’esser pubblicizzato per l’ospitalità e il riposo che assicura ed anche per quel livello umano di cui il professor Todde ed il senator Loru, ancora viventi – cadranno rispettivamente nel 1897 e nel 1898 –, rappresentano il modello o il doppio modello, viste le differenze e anzi la concorrenza o lo spirito di emulazione (vero o presunto) che è diventato proverbiale: «Se la sorte ne tira su uno professore, ce ne deve essere un altro professore anche lui; se questi diventa cavaliere, c’è sempre un deputato qualunque che crocifigge subito l’altro: gli ordini equestri si ingrossano in cammino… e perciò Villacidro ha oggi due testa quadre… l’uno rappresenta la serietà, la profondità, il rigore dell’antico diritto, l’altro la festività, la giocondità e l’arditezza impertinente della scienza nuova… son due estremi che non si toccano, ma son l’onore paesano».

Sono sempre i giornali a rendere più efficacemente, nella vivezza dei suoi colori e suoni, la quotidianità di un organismo sociale complesso quale è un paese. Il linguaggio discorsivo, la varietà degli argomenti e degli approcci – ché la polemica o la condiscendenza, l’apprezzamento o il rimbotto spesso muovono da pregiudiziali del cronista o del corrispondente in loco – consentono al lettore di entrare nella concretezza di vita di uomini e donne che cercano il giusto equilibrio fra esigenze personali e necessità o rivendicazioni della collettività.

C’è questo limite intrinseco alla fonte d’emeroteca, ed un altro ancora: la correntezza del flusso del notiziario. La rapsodicità degli incarichi di corrispondente (se di incarico può parlarsi, atteso che si tratta di un ufficio più spesso fondato sull’autopresentazione e sul volontariato, per un interesse partigiano del volontario che intende sostenere ed enfatizzare punti di vista più che riferire con puro criterio cronachistico) comporta un’infinità di stop and go, insomma stridenti soluzioni di continuità nell’informazione che altrimenti si sarebbe portati a ricondurre ad intermittenze, per così dire, degli accadimenti oggetto dell’informazione stessa.

Scontato, dunque, che è anche per queste ragioni che a bollettini torrentizi, in sequenza pressoché quotidiana, se n’alternano altri assai più radi e vaghi ed esangui, la vita del “paese d’ombre” può ricondursi essenzialmente ad alcuni filoni tematici che ne caratterizzano la fase più feconda della sua storia: le opere pubbliche ed i programmi delle scuole, l’inaugurazione di circoli di varia intonazione (culturale lato sensu o come deputazione in vista, magari, di ottenere una maggior tratta ferroviaria), la “nera” e i fatti elettorali, la visita di un parlamentare e le conferenze d’istruzione agli agricoltori, l’ospitalità e le iniziative di beneficenza, le feste dei santi patroni e quant’altro, inclusi il vai-e-vieni di pretori-cancellieri-brigadieri, i successi delle industrie dell’acquavite ed i lutti richiamati nella rubrica del “lacrimae sunt” (come a pretendere una solidarietà provinciale al dolore per una perdita che lascia il segno)…

Proprio a motivo dell’importanza economica attuale, della sua ricchezza ambientale e del suo conseguente merito turistico, non meno che per quanto reclami la sua onorata storia bimillenaria testimoniata da rimanenze archeologiche e da monumenti spesso feriti dal tempo (nel non cale dei contemporanei), su Villacidro è un po’ tutta la stampa regionale a puntare i suoi riflettori: quella seria e quella umoristica, quella cattolica e quella socialista, o più tardi sardista o fascista, quella quotidiana e quella periodica.

Nel suo primo ed unico numero (30 dicembre 1900) sa Tracca – Vita cagliaritana («Conto corrente con la Banca di Londra. Non si fanno abbonamenti. Le inserzioni si pagano care») pubblica, di spalla, in prima pagina, il verbale di un’ipotetica assemblea della neocostituita Società Dante Alighieri «per la immersione della lingua in Villacidro». Protagonisti, fra gli altri, il sandaliere Richettoni, il negoziante Barra de molenti, il commerciante Conca de Ba…, l’ecclesiastico Boi Marinu, il pensionato Mandronalla, il mugnaio Su Pulixi, il baccelliere Bellicu, l’ingegnere navale Pallone Indietro, il professore di astronomia Calla Calla, il pirotecnico Pezza Bamba, il vice ammiraglio in disponibilità Sisinnio, tutti sotto la presidenza di tale Marras poeta estemporaneo.

Lo scherzo è anche il mestiere del vignettistico Il Bertoldo di Efisio Sulliotti, che dalle pendici del Linas riceve frequentemente strampalate lettere a firma di Cuchecu e di Arrembuddu Artifiziu Sparau, il cui bersaglio preferito è sempre il professor Todde.

Di tutt’altri tema e tono, naturalmente, sono le corrispondenze dell’austera La Sardegna Cattolica, de La Lotta socialista, de L’Unione Sarda, e più tardi de Il Corriere dell’Isola, de La Voce del Popolo, de Il Corriere di Sardegna (tutte e tre di area cattolica), de Il Solco sardista, de Il Giornale di Sardegna dei fasciomori.

 

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