Nella compagnia delle belle minoranze anticonformiste. Fabio Maria Crivelli e quelle nottate a L’Unione Sarda discutendo una volta con Ciccio Cocco Ortu e un’altra con Titino Melis, di Gianfranco Murtas

E’ storia di sessant’anni fa quella del rinnovo parlamentare che fu una nuova e grave delusione per le formazioni della democrazia laica che pur avevano collaborato, ciascuna a suo modo, con De Gasperi e la sua leadership centrista nello sforzo immane di ricostruire l’Italia dalle macerie morali e non soltanto materiali della guerra fascista. Vero è anche che gli anni ’50 avevano visto progressivamente sfilacciarsi il quadro delle alleanze di governo, senza che il nuovo – il centro-sinistra cioè a partecipazione socialista – fosse ancora maturo al suo esordio politico. Sicché forse erano illusioni, soltanto illusioni, quelle di un ritorno di gratificazione, come di riconoscimento di valore e merito, dalle urne del 1958, tanto più per i liberali e i sardisti.

Alle politiche di dieci anni prima, del 1948 dunque, la Sardegna aveva mandato alla Camera, fra gli altri candidati presentatisi nei diversi schieramenti, due personalità di primissimo livello che per poco avevano mancato l’obiettivo nel 1946 per la Costituente ed ora invece rimbalzavano sulla scena nazionale tutti i pregi dell’umanità liberale isolana (che veniva dal vecchio ministro giolittiano né soltanto da lui) e tutti i pregi dell’umanità dei Quattro Mori fidelizzati alla Repubblica “delle autonomie”: Francesco Cocco Ortu di parte liberale e Giovanni Battista Melis di parte sardista erano entrati, o rientrati, allora da protagonisti nel gran teatro delle scelte legislative nazionali e la Sardegna, chi con un sentimento chi con un altro, visse quella stagione come propedeutica o in affiancamento all’avvio del nostro regionalismo fattosi perfettamente istituzionale nel 1949. Gli atti parlamentari sono lì a documentare l’intensa partecipazione di entrambi i deputati isolani, all’interno della maggior rappresentanza, ai lavori parlamentari. In quella legislatura, era stata varata la Cassa per il Mezzogiorno, era stata votata la liberalizzazione degli scambi, erano state approvate le riforme agraria e fiscale, s’era rinforzata la lira, in politica estera era stata sancita l’adesione italiana all’alleanza atlantica e il nostro governo aveva pure firmato il piano Schumann ed il trattato istitutivo della CECA, formidabile strumento di pacificazione (per l’oggi e il domani) del continente.

Il rinnovo elettorale del 1953, all’insegna della legge cosiddetta (e mal-detta, trattandosi di un maggioritario democraticissimo) “truffa”, aveva portato alla sconfitta soprattutto delle formazioni minori e né Cocco Ortu né Melis, che quella legge avevano votato, erano stati confermati nel seggio onorevolmente occupato nella prima legislatura repubblicana. Si era sperato perciò nel rilancio dei rispettivi partiti nel 1958. E certo doveva considerarsi che il PLI aveva appena subito la scissione sulla sua sinistra, per l’abbandono dei “villabruniani” andati a costituire il Partito Radicale, ma si sperava nondimeno in un recupero sul versante di destra per le difficoltà centrifughe del variegato mondo monarchico nazionale (invero sempre meno revanchista); da parte loro, i sardisti, dopo aver per alcuni anni cercato intese di cartello con i repubblicani (loro cugini ideologici nel nome di Mazzini e Cattaneo e fin dal 1921 sodali nelle più decisive battaglie politiche prima per l’antifascismo poi per l’autonomia), avevano optato per l’alleanza con Adriano Olivetti e il suo movimento di Comunità, oltre che con altre formazioni minori (come il Partito piemontese dei Contadini) nella convinzione che l’emigrazione sarda ne avrebbe sostenuto alla grande le bandiere presenti nei collegi elettorali del settentrione d’Italia soprattutto.

Illusioni appunto, e né Ciccio Cocco Ortu né Titino Melis riebbero neppure allora il loro seggio. Così fu in quell’infelice 1958, che vide la sconfitta anche dei repubblicani alleati dei radicali appunto di Villabruna e Mario Pannunzio, i radicali de Il Mondo cioè. Molto sarebbe cambiato alla prova successiva, quella del 1963, l’anno dei recuperi, della soddisfazione, pur se le ragioni di Cocco Ortu erano diverse e opposte a quelle di Melis: perché allora tornarono a Montecitorio e l’uno e l’altro, uno a contestare il centro-sinistra programmatore moroteo, l’altro a sostenerlo (e in contemporanea aprendo ai socialisti anche nell’Isola).

Certo è però che nella fase ancora del limbo, liberali e sardisti, e personalmente Cocco Ortu e Melis, portatori di un vivido senso del bene comune, di quello che un padre della patria come Ugo La Malfa chiamava, facendone una categoria assoluta, l’“interesse generale”, insieme avessero, e con successo, operato nel Comune di Cagliari: era il 1960 ed i due leader erano entrambi consiglieri presenti e battaglieri. Sicché quando in Municipio si profilò l’ombra di un commissario prefettizio data la prolungata crisi politica e l’incapacità clamorosa e frustrante della Democrazia Cristiana, partito feudale di vassalli valvassori valvassini, di sbloccarla dopo la resa di Mario Palomba e il fallimento del tentativo Follese, furono essi – il liberale e il sardista insieme – a lanciare l’ancora di salvezza, segnalando il nome di Giuseppe Peretti, indipendente nel gruppo democristiano, come nuovo sindaco di garanzia. Libero dall’ipoteca monarchico-missina che aveva fino ad allora ingessato la scena politica. E il rettore Peretti fu nei sei mesi della sua amministrazione fra i migliori sindaci dell’intera teoria di primi cittadini cagliaritani da Crespellani in qua.

Ecco il quadro. L’Unione Sarda negli anni ’50 e primi ’60 seguì con qualche maggior attenzione e rispetto, nelle complessità della politica regionale e nazionale, le opzioni, pur diverse e in parte, ripeto, opposte, delle minoranze liberale e sardista. Vorrei accennare a questo e in particolare a una presa di posizione diretta e personale, postelettorale nel 1958, del direttore Crivelli.

In appoggio al leader liberale

A nove anni dalla scomparsa desidero ricordare anche stavolta, come in ogni anniversario, alcuni tratti della personalità o della presenza giornalistica di Fabio Maria Crivelli, per oltre un quarto di secolo (dal 1954 al 1976 e poi dal 1986 al 1988) direttore de L’Unione Sarda.

Di lui ho scritto molto e molte volte, sforzandomi così di onorare una amicizia che la morte non ha spezzato. Ogni volta cerco di portare un elemento nuovo alla sua conoscenza, e quando non si tratta di inediti sono luci di riflettore che credo nuove su fatti o persone a lui ricollegabili, tali da portare in emersione, di lui, relazioni importanti e significative della nostra recente storia civica e politica.

Oggi mi è caro, ricordando Crivelli, abbracciare nell’omaggio, traendole appunto dalla grande storia civica e politica, le due personalità prima richiamate, che a lui furono umanamente e idealmente le più vicine ed alle quali anche io, repubblicano di segno azionista, ho guardato, nei miei giovani anni, con senso di prossimità ed ammirazione, la stessa condivisa dai miei sodali: Francesco Cocco Ortu e Titino Melis.

In un lungo editoriale uscito sabato 31 maggio 1958, titolato “Luci e ombre nel quadro sardo” (con occhiello “Consuntivi editoriali”) Crivelli lamentò l’insuccesso liberale e la mancata elezione di Cocco Ortu al seggio di Montecitorio. In modi anche inusuali (ne dettaglierò uno nell’addendum a questo articolo) egli aveva sostenuto in modo particolarissimo il buon nome dell’esponente del PLI. In giusta relazione si manifestava dunque la delusione per l’obiettivo fallito.

Nel fondo ora richiamato egli dette anche conto della linea seguita da L’Unione Sarda nelle settimane in cui i diversi partiti avevano via via presentato programmi e liste al giudizio della pubblica opinione e infine delle urne: «Durante questa ultima campagna elettorale come nelle precedenti il nostro giornale ha, dal principio alla fine, tenuto fede ad una direttiva ben precisa: seguire la lotta in corso attraverso la più vasta informazione possibile, senza nessun preconcetto e nessuna preferenza nei riguardi delle forze politiche impegnate nel gioco. Nei commenti, com’è diritto di ogni giornale che per la sua indipendenza economica è libero di scegliersi il proprio orientamento, noi abbiamo chiaramente, com’è nel nostro carattere, indicato una scelta che a nostro avviso ritenevamo la più proficua, la più logica, la più costruttiva per gli interessi dei sardi. Liberi e al di fuori di ogni partito politico noi abbiamo consigliato i sardi a badare più ai nomi che ai simboli, senza per questo tradire le personali e già radicate convinzioni politiche di ciascuno; alla grande massa di lettori già orientati verso la DC abbiamo ricordato le benemerenze di un uomo come Maxia al quale, indiscutibilmente, la Sardegna deve molto; ai cagliaritani abbiamo indicato la necessità di non disperdere voti  e di puntare su un candidato [Crespellani, NdA] che era l’unico in grado di poter essere eletto in un collegio in cui, nella passata legislatura, nessun candidato democratico era riuscito. Ad una vasta cerchia dei nostri lettori che appartengono al ceto borghese e che, per tanti motivi, sapevamo contraria ad un voto dc, noi abbiamo ricordato il nome di un cagliaritano tra i più illustri, tra i più stimati, tra i più preparati alla vita politica: il nome di Cocco Ortu».

E qui appunto le conclusioni amare per il risultato dei numeri: «Mentre le nostre prime due indicazioni sembrano cadute su un terreno fertile dove il seme ha germogliato, la nostra terza indicazione è invece caduta, a quel che sembra, nel vuoto, e Francesco Cocco Ortu resterà per la seconda volta fuori del Parlamento italiano. Il candidato di questa campagna elettorale che ha avuto i più affollati comizi, il candidato che il maggior numero di applausi ha riscosso nelle piazze di tutta l’Isola, l’uomo politico che migliaia di milanesi hanno acclamato come nessun altro leader in questa campagna, l’uomo i cui discorsi della prima legislatura repubblicana sono ancora ricordati con ammirazione da amici e da avversari, quest’uomo che da vent’anni tutto ha dato alla politica con personale, continuo, amaro sacrificio, non andrà alla Camera. Vi andranno invece… ».

Amarezza per le scelte all’apparenza (?) incomprensibili degli elettori, propensi a premiare e coltivare gli uomini e le donne del Biancofiore clericale e clientelare: «Ora noi non verseremo per questa mancata elezione le lacrime che così premurosamente mette sui nostri occhi il cortese direttore dell’organo democristiano locale. E non proveremo neanche a dilungarci nel cercare le cause di un così sconcertante fenomeno elettorale… Abbiamo abbastanza esperienza per sapere come vadano certe cose, e per capire, per esempio, che se è vero che Fanfani a Cagliari non ha attaccato i liberali è stato perché l’ha considerato controproducente e soprattutto superfluo, ben sapendo che la lotta efficace non è quella che si conduce con i discorsi sulle piazze, ma quella che viene condotta nei segreti delle sacrestie, sussurrata nei confessionali, perpetrata attraverso le mille organizzazioni più o meno riconosciute, finanziate non si sa come, la lotta subdola che fa leva sulla paura, sul quieto vivere, su conformismo, sulla menzogna tendenziosa, sulla diffamazione a mezza bocca.

«Niente lacrime da parte nostra, dunque, per un’elezione che noi avevamo auspicato e che non c’è stata. Al contrario, accanto al successo di due degne persone che noi abbiamo appoggiate senza guardare al partito di appartenenza […] noi mettiamo anche i ventimila voti che i sardi hanno dato a Cocco Ortu e li ricordiamo in modo particolare, proprio perché sappiamo quanto più difficile sia stato da parte del candidato conquistarli, in un clima in cui la lotta politica sempre più si avvia verso forme che con la democrazia – quella vera – ben poco hanno da spartire.

«Noi restiamo, insomma, nella convinzione che se i cagliaritani avessero eletto oltre Maxia e Crespellani anche Cocco Ortu, la capitale della Sardegna e l’Isola intera avrebbero avuto tutto da guadagnare; e siamo convinti che saranno d’accordo con noi in ciò anche moltissimi fra quelli che a Cocco Ortu non hanno dato il loro voto».

Riequilibrando con il “cireneo” sardista

Pochi giorni dopo l’uscita del fondo direttoriale (esattamente il 6 giugno), il giornale pubblicò le osservazioni critiche di un lettore cagliaritano (G.F. le sue iniziali), il quale si dispiacque che, accanto a quello egregio del leader liberale, L’Unione Sarda non avesse valorizzato quanto meritava anche il nome «di un altro degno rappresentante dell’Isola: Giovanni Battista Melis, che non ha mai voltato la faccia ai suoi elettori e non elettori».

Così scriveva G.F.: «Uomo democratico, di cuore, preparato e, soprattutto, cordiale con tutti, egli si dedica da decenni con fede di apostolo alla sua terra natia: la Sardegna! Di questo benemerito figlio, ella personalmente, sig. Direttore, parlò in senso favorevole, sia pure indirettamente, pochi anni addietro in occasione dello scioglimento della Giunta Regionale Sarda.

«Chi scrive – aggiungeva precisando il lettore – non è un Sardista, bensì un indipendente di innate idee liberali-repubblicane, ed è per questo che approva incondizionatamente la Sua teoria: badare più all’uomo che al simbolo, sempre che le idee non siano completamente opposte…».

Ed ecco la risposta di Fabio Maria Crivelli: «Costrettivi dall’organo locale della Democrazia Cristiana, noi esprimemmo l’altro giorno il nostro punto di vista sul danno che all’Isola derivava dalla caduta di una figura così altamente rappresentativa qual è, a giudizio non soltanto dei suoi amici, l’avv. Francesco Cocco Ortu. Il tema dell’occasionale dibattito era, quella volta, circoscritto, giacché il nostro contraddittore si era esclusivamente soffermato sul nome dell’on. Cocco Ortu. Pensavamo, ad ogni modo, di riprendere l’argomento per parlare diffusamente di altri uomini che la Sardegna avrebbe avuto tutto l’interesse di mandare al Parlamento. Ora il lettore cagliaritano ci offre il pretesto a completare il discorso cominciato giorni fa. E ne profittiamo per esprimere la nostra simpatia ad un uomo che da molti lustri, con raro impegno morale, ispirandosi ad una problematica oggi solo in parte assorbita da altri partiti, combatte la sua coraggiosa e feconda battaglia politica: Giovanni Battista Melis. L’elettorato, sensibile a suggestioni che sono estranee agli interessi della sua terra, non ha voluto mandare a Montecitorio l’avv. Melis, con questo rinunciando a farsi rappresentare da un patrocinatore retto, coerente e preparato. Ne siamo dolenti e ci auguriamo che il partito di cui G.B. Melis è l’espressione possa giovane alla Sardegna almeno nell’ambito della politica regionale inserendosi con tutta la sua autorità nel governo della cosa pubblica».

In mortem di Cocco Ortu

Come detto, Francesco Cocco Ortu tornò in Parlamento nella primavera 1963, e vi tornò – a capo di una lista sardista-repubblicana con il simbolo mazziniano ed europeista dell’Edera (il simbolo appunto della Giovine Europa) – anche Giovanni Battista Melis. Lavorarono al meglio, nel lustro successivo, e l’uno e l’altro, il primo avversando i governi di centro-sinistra allora al loro esordio, il secondo appoggiandolo, di fianco a Ugo La Malfa.

Cocco Ortu fu anche rieletto nel 1968. Sette mesi dopo quel rinnovato e meritato successo però dovette arrendersi alla crudeltà di un male che ne aveva offeso ogni energia.

L’indomani, il 17 gennaio 1969, il giornale ne dette notizia con accoramento: “La dolorosa scomparsa di Francesco Cocco Ortu”. Nel sommario la verità: “Una nobile vita tutta dedicata agli ideali di libertà, di civile passione, di fervido amore per la sua terra, di democrazia intesa nella sua più autentica funzione”.

Per più giorni, in prima pagina e in cronaca di Cagliari, e altrove ancora per le testimonianze come quella bellissima di Giuseppe Musio (l’avvocato socialista che, da giovane, per alcuni anni ebbe sulle sue spalle la responsabilità de L’Unione Sarda defascistizzata: proprio quando Cocco Ortu poco più che trentenne collaborava con il commissario prefettizio e poi sindaco Dessy Deliperi, con l’incarico di assessore all’Annona).

Fabio Maria Crivelli gli dedicò un partecipato editoriale, che guardava all’uomo – all’amico anche – ma insieme alla politica generale, alla posizione ideale che era stata difesa per lunghi anni dall’apostolo liberale. Titolo dell’articolo, uscito sabato 18 gennaio 1969, “Una voce si è spenta”. Eccone il testo:

«Ci sia consentito di dare l’estremo addio a Francesco Cocco Ortu con brevità, con nuda essenzialità, respingendo le tante e pur giustificate espressioni di esaltazione che ci vengono alla mente, cercando di soffocare per un attimo i moti della commozione e del dolore e quel senso terribile di vuoto che la sua scomparsa provoca in tutti noi.

«Nella desolata tristezza dell’ora noi sentiamo che con Cocco Ortu non è morto solo un uomo politico di vivido ingegno e di adamantina onestà, un sardo illustre e pugnace, un oratore formidabile, un difensore inesausto dei più alti ideali della convivenza civile e umana. Noi sentiamo che con lui prematuramente si spegne una luce che non è di un uomo o di un partito o di una regione, con lui tace per sempre una voce che ha parlato per tanti di noi, che ha incarnato le speranze, le inquietudini, le amarezze di un’intera generazione. Di quella generazione che dopo aver detto no alla dittatura ha vissuto la propria giovinezza nella drammatica e inebriante primavera di un paese che rinasceva dalle rovine, che si è gettata con entusiasmo e con un bagaglio intatto di ideali e di propositi nella lotta politica intesa come nobile competizione di idee e libero confronto di programmi per l’obiettivo comune di una Nazione libera, giusta e progredita.

«Venticinque anni sono trascorsi da quella primavera drammatica e fiammeggiante, venticinque anni durante i quali i drammi non sono mai cessati e tante, troppe delle nostre illusioni sono sfiorite sotto i colpi di una realtà che ha dato al paese in cui viviamo un volto ben diverso e una proiezione assai lontana da quella che la nostra generazione aveva sognato e immaginato. La democrazia italiana è oggi in bilico fra le tendenze di una partitocrazia in cui il potere è il fine unico di ogni azione e di ogni programma e le tentazioni disgregatrici di una certa gioventù che agli ideali dell’onestà, del sacrificio, dell’intransigenza morale sembra voglia sostituire, con il metodo della violenza, l’anarchica ricerca di immediate conquiste materiali. La generazione di cui Francesco Cocco Ortu può considerarsi il simbolo più puro non può davanti all’Italia di oggi non sentirsi tradita. Tenuta lontana dalle azioni decisive della vita sociale per un’indomabile vocazione all’intransigenza e al rifiuto di ogni compromesso con le squallide realtà di una democrazia degenerata, questa nostra generazione si trova ugualmente oggi coinvolta nella negazione globale e irrazionale che le oppongono le ultime leve, ansiose di riformare una società di cui non conoscono le tormentate tumultuose origini. A questa inquieta gioventù che s’affaccia alla ribalta della vita nazionale con propensioni che talvolta suscitano in noi il ricordo di miti e di stili che credevamo dimenticati per sempre, la voce di Cocco Ortu avrebbe potuto ancora per molti anni parlare con la certezza di poter essere ascoltato se non altro in nome di una onestà intemerata dopo una vita di battaglie e di sacrifici, e insegnare che “il possesso della verità non è mai statico e dogmatico, ma sempre dinamico e critico”, secondo una lezione in cui si racchiude forse l’essenza stessa del liberalesimo.

«Ora anche questa voce è venuta a mancare. Attorno al suo feretro, sconvolti e smarriti, tanti della sua generazione ci ritroviamo per piangerlo, per ricordarlo, per ritrovare un attimo nel nostro cuore l’eco delle lontane battaglie, dei comuni ideali, delle tante speranze che sono state tradite. Sappiamo che dopo una carriera politica intensa e logorante è morto povero, lasciando alla famiglia che adorava solo un retaggio di nobili e incontaminate tradizioni. Lo sentiamo commemorare dagli altri; era un uomo fatto per l’opposizione, dicono. Era un uomo dell’opposizione, diciamo noi. Ma come poteva essere diversamente? Come poteva un Francesco Cocco Ortu trovar posto nella maggioranza, in un’Italia come quella di oggi, un’Italia così diversa da quella che egli e che tutti della sua generazione volevamo, un paese che ha gettato lungo la strada dei venticinque anni tanti dei nostri ideali, dei nostri propositi, delle nostre aspirazioni, come fagotti ingombranti, come fardelli inutili in vista di più comodi, di più riposanti traguardi?

«Dicendo addio a Cocco Ortu tanti di noi dicono oggi addio all’uomo che fu tra i pochi a rappresentare e a interpretare i nostri impulsi migliori, le nostre ribellioni, la nostra ansia di un’Italia più libera e più pulita. Scompare con lui uno dei più puri esponenti di una generazione che è stata tradita più volte dagli uomini e dagli eventi e che solo al ricordo di nomi come il suo affida la difesa di se stessa davanti all’incalzare di quelle generazioni che della libertà paiono essere perfino stanche, senza averne mai appreso la drammatica alternativa e la tormentata ricerca attraverso sacrifici, sudore e lacrime».

Ancora vent’anni dopo

Il 20 gennaio del cruciale 1989, nella sala congressi del Banco di Sardegna, di Cocco Ortu si parlò in molti, ricordandolo nel ventesimo della scomparsa. Ne parlò il sindaco Paolo De Magistris e dopo di lui ne parlarono il presidente Mario Melis, l’on. Emanuele Sanna, il procuratore generale Giovanni Viarengo, l’ex direttore de La Nuova Sardegna Aldo Cesaraccio e altri, fra essi due dei massimi esponenti del Partito Liberale Italiano: Salvatore Valitutti e Giovanni Malagodi. Magnifico l’intervento del professor Antonio Romagnino.

Gli atti di quella giornata pregevole e preziosa sono stati pubblicati in Liberalismo e socialità. Appunti e riflessioni, a cura di Franco Bojardi e ad iniziativa elogiabile dell’Istituto Francesco Cocco-Ortu.

Riservato come sempre, Crivelli – invitato fra gli oratori – preferì non partecipare con un suo intervento al convegno, ma consegnò al giornale la sua testimonianza. Questa anzi anticipò l’incontro pubblico, uscendo a tutta pagina (quella della cultura) il 15 gennaio. Titolo: “La ragione al servizio del liberalismo. Francesco Cocco Ortu, ricordo di un generoso combattente politico”.

Ecco di seguito i ricordi e le illuminanti riflessioni dell’ex-direttore de L’Unione Sarda:

«Vent’anni fa, il 16 gennaio 1969, moriva a Cagliari Francesco Cocco Ortu. Un male inesorabile aveva stroncato in pochi mesi la fibra vigorosa di un generoso protagonista della vita politica sarda e italiana e privava il partito liberale di uno dei suoi leader di primo piano, di un combattente tenace, di un esponente che molte battaglie avrebbe ancora potuto condurre al servizio di un ideale cui aveva dedicato tutta la sua esistenza. Di Cocco Ortu come politico e della sua opera preziosa, delle sue esperienze parlamentari, del suo apporto alla vita pubblica e alle fasi della ricostruzione post-bellica e alla rinascita della Sardegna parleranno autorevoli personalità del mondo politico e culturale in un convegno che si svolgerà a Cagliari il 20 gennaio per iniziativa della fondazione che prende il nome dell’illustre parlamentare scomparso. Io vorrei limitarmi, in questo triste anniversario, a ricordare l’Uomo così come ho avuto modo di conoscerlo in un lungo sodalizio di amicizia, con quel tanto di nostalgia che si prova nel riesumare momenti della propria esistenza vissuti a contatto con personaggi d’eccezione e che senti ancora vicino al di là dell’ignota barriera che separa i vivi dai morti.

«Francesco Cocco Ortu è stato uno dei pochissimi politici che frequentavano assiduamente la mia stanza direttoriale all’Unione Sarda, per quattordici anni la sua presenza notturna al giornale ha costituito una consuetudine che riempiva le ore vuote fra la consegna del materiale alla tipografia e l’attesa che lo sferragliare della vecchia rotativa annunciasse l’uscita delle prime copie de L’Unione. In quelle ore in cui nel Terrapieno silenzioso si consumava il passaggio fra la notte e le prime luci dell’alba, in una stanza avvelenata dal fumo di troppe sigarette, “Ciccio Cocco Ortu”, come lo chiamavano i suoi più vecchi amici, teneva banco come si fosse appena alzato dal letto e non avesse invece alle spalle una giornata densa di impegni professionali e politici; davanti a un piccolo pubblico fatto di giornalisti stanchi e portati più allo scetticismo che all’entusiasmo, discuteva dei fatti del giorno con straordinaria lucidità di giudizio, con veemente passione, con una fede ottimistica che tendeva a minimizzare i suoi stessi timori e le tante delusioni che la realtà delle cose ogni giorno proponeva. Il liberalismo per lui prima di essere una scelta maturata nell’ambito familiare era una questione di fede: gli sembrava impossibile che un uomo dotato di ragione non riconoscesse i principi cui il suo partito si ispirava come gli unici validi a governare gli atti della politica e i problemi del tempo. Ascoltava con visibile sofferenza le obiezioni scherzose dei suoi interlocutori, e si sforzava di accettare alcune critiche all’operato di molti dirigenti del Pli; ma alla fine sbottava sempre in veementi requisitorie contro i partiti rivali, ne elencava le malefatte, descriveva in modo realistico e inoppugnabile i metodi vergognosi che sempre più diventavano per certe forze politiche una prassi che soffocava il corretto uso della democrazia e delle sue leggi ideali.

«Spesso, con l’avanzare delle ore, il suo uditorio si riduceva alla mia sola persona: allora Cocco Ortu placava il tono delle sue proclamazioni, si passava a un colloquio disteso in cui affioravano rievocazioni della sua vita e in cui traspariva, non più mascherata, l’amarezza di un liberale a disagio e in intimo conflitto fra i suoi principi e la linea tenuta dalla dirigenza nazionale del suo partito. Si era a metà degli anni Cinquanta e il Pli era ancora scosso per il conflitto interno che aveva portato all’uscita dal partito di un gruppo di esponenti di alta fama quali Villabruna, Pannunzio, Carandini; mi sembrava chiaro che Cocco Ortu aveva condiviso le ragioni di quel gruppo che costituiva la sinistra nel Pli, che anche lui non condivideva l’acquiescenza liberale verso la Dc e il ruolo di ruota di scorta che il partito sempre più andava svolgendo nei governi che si susseguivano. Ma, sia pure con sofferenza, non aveva seguito i dissidenti nei loro disegno di dar vita a un primo partito radicale, e mi spiegava la sua decisione con una frase che Nenni aveva pronunciato al tempo della scissione socialdemocratica, e cioè che si può avere  ragione solo combattendo dentro il partito e non uscendone, in realtà era impossibile concepire un Cocco Ortu fuori del partito liberale; in Sardegna il Pli era lui, soltanto lui, in un’identificazione indissolubile che lo costringeva a un lavoro massacrante, a una continua tensione, a un oblio permanente di tutto ciò che non fosse lotta politica. Liberale e antifascista Cocco Ortu era divenuto sui banchi del liceo cagliaritano che aveva frequentando negli anni Trenta; nel 1933, a ventuno anni, si era laureato in giurisprudenza a Roma discutendo la tesi di laurea con un docente ebreo, l’unico che aveva accettato di dare il centodieci e lode a un giovane che rifiutava dei indossare la camicia nera e già era tenuto d’occhio dalla polizia fascista.

«Iniziata a Cagliari l’attività forense aveva contemporaneamente dato il via a un’opera di proselitismo in favore dei principi liberali, perseguendola anche durante la guerra mentre prestava servizio come sottotenente nel 6° regimento d’artiglieria. Appena la Sardegna si era liberata dalla presenza tedesca aveva fondato la prima sezione del Pli e nel 1944 aveva portato la voce dell’isola nel convegno di Bari scrivendo i illustrando quel “Manifesto dei liberali sardi” che aveva riscosso il più fervido elogio da parte di Benedetto Croce. Gli anni seguenti lo avevano visto protagonista di primo piano nella vita politica sarda e in quella nazionale. Vicesindaco e assessore all’Annona al Comune di Cagliari, ea stato uno degli uomini-guida nella faticosa ricostruzione di una città distrutta, abbandonata e piena di fame. Poi erano iniziate le battaglie elettorali; molte di queste le avevo seguite, dopo il 1954, da vicino perché dopo i suoi peregrinanti comizi nelle varie zone dell’Isola Cocco Ortu veniva a farmene una descrizione diretta, a volte allega, a volte amara, nelle notti a L’Unione di cui ho parlato. Ad alcuni dei suoi comizi, in piazza Yenne, ho assistito di persona. Una piazza stracolma ascoltava sempre con entusiasmo i suoi discorsi; egli possedeva in sommo grado la difficile arte dell’oratoria: la logica delle argomentazioni era stringente ed elegante, la foga non tralignava mai nell’enfasi della banalità, trascinava al consenso l’uditorio senza spreco di aggettivi e di figurazioni astratte; ma tutto nelle sue parole era passione, la passione di un politico che credeva ciecamente in ciò che diceva e si sdegnava dell’uso che molti facevano della politica degradandola a mestiere o a ricerca di personali profitti.

«Quando, nelle notti elettorali, cominciavano a giungere i risultati al giornale, Cocco Ortu seduto in un angolo della mia stanza e fumando la centesima sigaretta, viveva ore di autentico supplizio. Tre volte i risultati portarono la sua elezione alla Camera; ma non era questo che lo interessava. Studiava le cifre una ad una, cogliendo i progressi e i regressi del suo partito in ogni più piccola zona d’Italia; due volte, nel corso di quei lontani anni, lessi la disperazione nel suo volto di fonte a un chiaro insuccesso del Pli. Allora egli esplodeva, la sua critica verso chi guidava il partito da Roma diventava impietosa, aspra, irrefrenabile. Deplorava la continuata sottomissione liberale alla Dc, l’immagine che ne davano i giornali di partito dei signori, della Confindustria, dei ceti abbienti. Raccontava di come in Sardegna si acquistassero voti col clientelismo più sfrenato, con la mobilitazione delle parrocchie, con l’uso spregiudicato dei fondi regionali. L’etichetta di partito dei ricchi lo mandava in bestia; nessuno meglio di lui sapeva con quali infime risorse doveva affrontare la campagna elettorale, stampando a sue spese i manifesti, rodendo gran parte delle sue entrate professionali in favore del partito, girando quasi tutto da solo per tutta la Sardegna a bordo di una vecchia auto per trovar voti in un elettorato che aspettava il posto, il sussidio, il finanziamento dai prodighi amministratori del governo regionale. “E’ un’impresa disperata fare politica così” mi disse in una di quelle notti elettorali in cui il Pli risultava sconfitto e sempre più immiserito nel calcolo delle percentuali. Alludeva a quel professionismo politico che ormai era dominante e tendeva a emarginar sempre più uomini come lui che facevano la politica  per passione, con purezza d’intenti, incapaci di ogni più piccolo compromesso, forti solo delle proprie convinzioni, e gelosi custodi della personale integrità morale.

«La morte, cogliendolo quando ancora era pronto ad affrontare nuove battaglie, ha risparmiato a Francesco Cocco Ortu le degenerazioni della lotta politica negli ultimi vent’anni, con la comparsa di personaggi implicati in un susseguirsi di scandali e di vergognose speculazioni; gli ha anche risparmiato di vedere gli effetti di quella che ormai tutti chiamano la politica come spettacolo e il conseguente sperpero di miliardi per la conquista di un seggio alla Camera. Ma la morte ha anche privato la Sardegna e l’Italia di un leader politico che poteva costituire l’esempio di cosa dovesse essere la politica intesa come passione civile; per questo ancora oggi penso con tristezza alla sua scomparsa e sento come un onore il fatto di aver goduto per tanti anni il dono prezioso della sua amicizia e della sua stima».

In memoriam di Giovanni Battista Melis

Ampio spazio il giornale, ancora per pochi mesi diretto da Crivelli – presto costretto alle dimissioni dalla sua schiena dritta davanti alle abusive pressioni della proprietà rovelliana –, riservò anche alla figura di Giovanni Battista Melis scomparsa pure essa dopo tante sofferenze ai primi di luglio del 1976.

Era allora, l’on. Melis, consigliere regionale rieletto nel 1974 (l’esordio nel parlamento sardo era avvenuto nel 1969), il solo sardista nella assemblea legislativa dell’autonomia. Fuorisede nei giorni il direttore, L’Unione affidò a Fernando Pilia (“Un sardo indomito”) ed a Michele Columbu (“L’ultimo saluto a Titino”) i servizi di commento, di lato a quelli redazionali di cronaca, dell’evento tristissimo, di un lutto moralmente condiviso dall’intero schieramento democratico.

Fu così che soltanto nel 1984, il 1° luglio, venne l’occasione di un più personale omaggio, da parte di Crivelli, alla memoria del leader rimpianto. Nella terza pagina, all’interno della rubrica domenicale “Agenda aperta” assunta fin dai giorni del (forzato) ritiro in quiescenza, l’ex direttore del quotidiano di Terrapieno, salutando il grande successo sardista alle elezioni che aprivano la nona legislatura dell’esperienza autonomistica dell’Isola, propose un ricordo affettuoso dell’ l’antico Cavaliere “senza macchia e senza paura” , scomparso senza aver potuto godere del raccolto che la sua infaticabile semina avrebbe meritato (ma diciamola tutta: raccolto poi disperso per l’incapacità totale della nuova classe dirigente del partito fattosi tutto “nazionalitario”).

Nella sua personalissima rubrica d’un tempo, sulla terza pagina de L’Unione Sarda, dunque, Crivelli  così celebrava Giovanni Battista Melis:

«In questi giorni di riscossa sardista, guardando sventolare al vento le bandiere con i quattro Mori, ascoltando i commenti di pacata fierezza degli attuali leader del PSd’AZ, m’è tornata sovente alla memoria l’immagine dell’on. Titino Melis.

«Per molti anni Titino è stato un assiduo frequentatore della mia stanza all’Unione: insieme a Francesco Cocco Ortu, il leader liberale anche lui prematuramente scomparso, ha trascorso molte notti elettorali passeggiando nervosamente fra i corridoi, l’angolo delle telescriventi, le sale di redazione per poi approdare, quando io finivo di dettare il titolo della prima pagina o di scrivere il commento, sul divano davanti al mio tavolo, mentre dalla finestra affacciata sul Terrapieno entrava la prima luce del giorno. E allora, mentre qualcuno provvedeva a spalancare i vetri per diradare i miasmi di centinaia di sigarette consumate nelle ore febbrili della veglia, si apriva fra noi un colloquio in cui la realtà dell’evento politico appena concluso veniva analizzata in termini non più passionali, enfatici, perentori ma nelle sue dimensioni più esatte, nelle sue cause più giuste, nei suoi riflessi più immediati.

«In quelle ore, con quel politico che stimavo per la grande onesta lucida intelligenza, l’irrefrenabile passionalità, a me toccava la parte del consolatore. Perché, in quegli anni, le notti elettorali non erano portatici di buone notizie per Titino Melis e il suo partito: il movimento sardista scontava ancora il trauma della lacerazione, il distacco di Lussu, l’oscillante collocazione nello schieramento politico, l’indecisione fra una collaborazione non gratificante con la DC e l’accostamento ad un’opposizione in cui il PCI era forza egemone e schiacciante. Titino Melis sembrava impersonare nei suoi tratti ruvidi, nelle sue perorazioni infuocate, nei suoi scatti facili all’ira, l’amarezza di un partito che dopo aver conosciuto le ondate di piena del 1947 e 1949, ora, a cavallo degli anni Sessanta, sembrava destinato quasi all’estinzione, costretto a contendere i voti ai liberali e ai repubblicani per assicurarsi una sopravvivenza, una base da cui preparare un domani migliore.

«I Sardi, abbagliati dalle promesse del miracolo economico, sedotti dal mito dell’industrializzazione, falcidiati dall’emigrazione, concedevano sempre meno voti a quel partito di cui, con me, Titino Melis continuava, anche nelle ore più amare, a vantare la purezza degli ideali, l’insostituibile funzione storica, l’essenzialità nella salvaguardia dell’identità in pericolo. E ogni volta che veniva a portarmi un comunicato, un documento del partito, un articolo per la “Tribuna Elettorale”, di fronte alla mia preoccupazione per la lunghezza di quei testi che egli scriveva sempre da solo e che spesso finiva di ricopiare sulla mia macchina da scrivere, mi ribatteva, aggrondato, quasi iroso, che il suo era un partito povero, non poteva spendere per affissi elettorali, propagande radiofoniche e televisive, “e tutte queste moderne diavolerie” che gli altri, i partiti concorrenti, “usavano con i soldi rubati ai sardi”. Noi – concludeva ogni volta – possiamo solo contare sulle forza delle nostre parole, e “lei che è un amico della Sardegna e che un giorno, spero, diventerà sardista, deve aiutarci”.

«Quasi sempre finivo coll’arrendermi, vinto dalla simpatia e dall’ammirazione per quel combattente amareggiato ma mai stanco. Mi sembrava un uomo intento perennemente a soffiare su un focherello che per mancanza di vento rischiava di estinguersi. Perciò oggi che il fuoco sardista ha ripreso ad ardere sotto la spinta di un vento tornato impetuoso mi pare ingiusto, tristemente ingiusto, che Titino Melis non sia qui anche lui a godersi quest’ora di rivincita e a guardare, magari con un sorriso ironico, i leader degli altri partiti che ansiosamente continuano a chiedere al PSd’AZ come intende utilizzare la sua vittoria elettorale».

Addendum

Ho accennato alla “spinta” cocchiana da parte del direttore Crivelli nel 1958. Essa si espresse quella volta, curiosamente, anche in un certo dettaglio normativo, della disciplina legislativa relativa al recupero dei resti su scala nazionale, rimedio doveroso alle debolezze delle forze di minoranza, nel cui novero figuravano anche quelle fra le più nobili per storia e testimonianza patriottica e democratica. Così le neorisorgimentali, dal fronte repubblicano-radicale a quello liberale.

Così scrisse Crivelli su L’Unione Sarda del 6 aprile 1958 rispondendo ad una lettera di R. Leccis che confidava come, essendo orientato a votare per Cocco Ortu, ne fosse quasi dissuaso da un amico democristiano con l’argomento della “dispersione dei voti”:

«Per effetto della nuova legge elettorale, il primo traguardo che i partiti minori debbono raggiungere è questo: trecentomila voti in tutto il territorio della Repubblica; ed il secondo traguardo è questo: almeno un quoziente in una circoscrizione. Realizzandosi simile ipotesi, i partiti minori potranno utilizzare i resti del collegio unico nazionale; in caso contrario no. Quale è la conseguenza? Che i duemila voti raccolti in Sardegna da una lista, mettiamo, repubblicano-radicale possono essere decisivi per l’attribuzione di due o tre seggi nel collegio unico nazionale ai candidati repubblicani e radicali. Abbiamo citato i repubblicano-radicali solo a titolo d’esempio, volendo spiegare che il meccanismo della legge contraddice l’ipotesi di una dispersione dei voti. Tutti i voti in buona sostanza sono utili ad arricchire l’ammasso nazionale.

«Veniamo adesso al caso dell’avv. Cocco Ortu. E diamo pure per scontato che la lista del PLI non raggiunga il quoziente pieno. Anzi, andremo più in là. Vogliamo cioè dare per scontato anche questo: che socialisti e missini totalizzino un resto più alto di quello realizzato dai liberali. Cosa dice la legge in proposito?

«E’ convinzione comune che i seggi vengano attribuiti nel modo seguente: uno per ogni quoziente pieno ed i seggi residui ai quozienti più alti nell’ambito della circoscrizione. Si pensi cioè che nel caso di sette seggi assegnati in Sardegna alla DC, di tre seggi assegnati al PCI, di un seggio al PMP [Partito Monarchico Popolare], di un seggio al PNM [Partito Nazionale Monarchico] e di un seggio al Partito Sardo d’Azione (sin qui abbiamo contato quattordici seggi a quoziente pieno), i due seggi residui vengano assegnati ai due resti più alti. Del che si consegue che i missini, i monarchici laurini, i socialisti e gli stessi democristiani sono in grado di superare i liberali, tagliati irrimediabilmente dalla lotta. E’ un errore. La legge dice infatti tutt’altro.

«I resti vengono ammassati nel collegio unico nazionale, dopodiché si stabilisce il quoziente nazionale. Fatto questo, ad ogni partito o gruppo di partiti nazionali vengono assegnati i seggi residui. Mettiamo che al PLI ne spettino quattro. I quattro seggi andranno a quei candidati capofila nei voti di preferenza i cui resti di lista abbiano raggiunto i più alti valori percentuali in rapporto al quoziente circoscrizionale. Semplifichiamo. Il PLI somma nel collegio unico nazionale venticinque resti. Primo viene quello di Milano, secondo quello di Palermo, terzo quello di Venezia, quarto quello della Sardegna. In questo caso l’avv. Cocco Ortu viene eletto al Parlamento, anche se il numero dei voti riportati dalla lista liberale in Sardegna è inferiore al resto di tutte le altre liste.

«Per concludere, Cocco Ortu può andare al Parlamento anche totalizzando, in dannata ipotesi, meno voti del MSI, del PNM, del PMP eccetera. E dunque non si ha dispersione di voti puntando sulla lista liberale».

 

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    1 Comment to “Nella compagnia delle belle minoranze anticonformiste. Fabio Maria Crivelli e quelle nottate a L’Unione Sarda discutendo una volta con Ciccio Cocco Ortu e un’altra con Titino Melis, di Gianfranco Murtas”

    1. By gianfranco murtas, 29 ottobre 2018 @ 15:32

      Dall’amico Antonello Mascia, presidente della sezione cagliaritana dell’Associazione Mazziniana Italiana e meglio di me introdotto nelle vicende storiche del PLI nazionale e sardo perché forte di una giovanile impegnata militanza liberale, ed anche buon conoscitore di Francesco Cocco Ortu – segretario provinciale del PLI – negli anni che andarono dalle elezioni regionali del 1965 al rinnovo parlamentare del 1968 a dopo ancora, sono stato giustamente corretto su un passaggio del mio scritto evocante il rapporto fra lo storico direttore de L’Unione Sarda, Fabio Maria Crivelli, e Francesco Cocco Ortu (oltre che Giovanni Battista Melis). Mi riferisco in particolare alla posizione dell’esponente liberale circa la legge elettorale maggioritaria del 1953 – mal-detta “truffa” – che, come si sa, provocò lacerazioni in tutti i partiti di democrazia laica che collaboravano allora con i governi De Gasperi e la DC: liberali, repubblicani, socialdemocratici, sudtirolesi e sardisti.
      La legge (la n. 148 del 31 marzo 1953) prevedeva un premio in termini di seggi ai partiti della coalizione centrista: essi avrebbero potuto conquistare il 65 per cento del plenum di Montecitorio riuscendo alle urne a sommare il 50 per cento più uno dei voti validi. Allora, prima ancora che il corpo elettorale si esprimesse (di fatto negando quei consensi e quindi vanificando l’effettività della norma), i repubblicani furono abbandonati nientemeno che dal sen. Ferruccio Parri (fondatore allora di Unità Popolare), i socialdemocratici da Piero Calamandrei e Tristano Codignola, i liberali da Epicarmo Corbino, Giuseppe Nitti, Mario Venditti, altri bei nomi del tempo andato, taluno perfino con un passato di costituente.
      Francesco Cocco Ortu non condivise la scelta del suo partito, fu cioè contrario alla legge. Non tanto però avversò il principio maggioritario, contestò invece l’entità del premio che, a suo avviso, si sarebbe risolto in un vantaggio prevalente (o abnorme) alle liste democristiane, ancor più rafforzando l’egemonia del Biancofiore già evidenziata dal voto famoso del 18 aprile 1948. Fu infatti, Cocco Ortu, sempre un fiero (ancorché disciplinato) avversario dell’alleanza liberal-democristiana nel momento nel quale la DC degasperiana insistette nel voler… geometricamente bilanciare, all’interno dello schieramento centrista, i liberali con i socialdemocratici, portatori di altra storia dai fondamenti perfino alternativi.
      Contrario alla scelta maggioritaria sostenuta dal suo partito, egli non partecipò al voto parlamentare.
      Traccia di tutto questo è, oltre che, ovviamente, negli Atti parlamentari, nel discorso del leader sardo al congresso nazionale del PLI svoltosi a Roma nel 1955, e meritoriamente riportato nel volume Una voce per la libertà. Articoli, Discorsi, Interventi di Francesco Cocco Ortu junior, pubblicato a cura del Comitato di Cagliari dell’Istituto per la storia del Risorgimento nel 1999. Così egli si pronunciò allora: «Io ho sempre presente il risultato del 7 giugno 1953: 10 anni erano passati dalla caduta del fascismo; e la democrazia italiana qualche cosa aveva pur costruito in quei dieci anni, sulle rovine e tra i rovi della disfatta fascista. Eppure, la democrazia italiana ha avvertito il pericolo di una battaglia rischiosa: ha forgiato una legge impopolare, che io ho la buona coscienza di non aver votato, e nonostante quella legge, la democrazia italiana è stata battuta dal social-comunismo e dai monarco-fascisti: altrimenti la legge sarebbe scattata. Questo è un dato di fatto obiettivo di cui tristemente ogni buon democratico d’Italia deve prendere atto e che deve tener presente, se vuol guardare con senso di responsabilità all’avvenire».
      Gianfranco Murtas