La diocesi di Ozieri ed il suo vescovo mauriziano Serafino Corrias in un nuovo libro di Tonino Cabizzosu. Variazioni sul tema, di Gianfranco Murtas

 

L’uscita recentissima di un nuovo studio documentario di Tonino Cabizzosu – questo dal titolo esplicativo Registro di provvidenze del vescovo Serafino Corrias (1872-1878) – mi suggerisce, prima di entrare nel merito della bella introduzione del curatore e dei contenuti del ricco apparato archivistico portato a stampa, per encomiabile sua liberalità editoriale, dall’Associazione don Francesco Brundu, qualche generale considerazione sull’attuale stato ecclesiale isolano e le già promesse (o imposte) sue trasformazioni di ordinamento.

Perché ne sarebbe coinvolta direttamente anche la diocesi di don Cabizzosu e già di don Serafino Corrias vescovo, che è poi la stessa del cardinale Angelo Becciu tanto celebrato in questi anni e anche in queste settimane – fino all’altro giorno con speciali solennità – e già del suo compianto collega cardinale Francesco Mario Pompedda, così come di personalità eminenti sotto molti profili della storia religiosa (oltreché civile) contemporanea: mi piace ricordare al riguardo don Francesco Amadu, fecondo e dotto storico del territorio goceanino e della Chiesa locale; don Francesco Brundu, formidabile motore della ministerialità laicale e anima della stampa diocesana già dieci anni prima del Concilio; don Giovanni Ortu, compilatore ed interprete critico degli atti episcopali sardi di quasi un secolo e mezzo a partire dai tempi della Rivoluzione; don Renato Iori, biblista e appassionato poeta, dolorosamente scomparso ancora giovane appena pochi anni fa (di lui, a proposito del vescovo Corrias, richiamerei un bel contributo incidentalmente biografico dal titolo “La situazione della diocesi di Bisarcio nella relazione ad limina scritta da mons. Serafino Corrias nel 1879”, presentato il 28 dicembre 1999 al convegno diocesano ozierese e rifluito poi negli Atti).

Ma si pensi anche, indietreggiando di qualche decennio appena, al genio variamente espressosi nelle attività intellettuali di uomini come don Damiano Filia, autore della monumentale La Sardegna Cristiana (illoraese per lungo tempo vicario generale a Sassari), come don Pietro/Pedru Casu (lo scrittore e poeta berchiddese, sardografo e traduttore della Commedia di Dante), come don Giovanni Antonio Mura (il poeta bonese di certa fede antideleddiana e anticipatore nel mondo clericale delle ragioni politiche che saranno del sardismo marciante negli anni ’20 e rimarciante negli anni ’40 e successivi)… Nel conto metterei anche il vescovo Salvatore Scanu, ozierese classe 1859, inviato nel 1909 alle Chiese calabresi di San Marco Argentano e Bisignano… un presule che fu amatissimo e che pur pagine ingiustamente amare di vita dovette scontare nell’esercizio della sua pastorale (egli fu anche uno dei coconsacranti, nel 1915, del vescovo salernitano Carmine Cesarano che governò la diocesi di Ozieri negli anni giusto della grande guerra, succedendo a don Filippo Bacciu, cioè a chi aveva raccolto il bacolo dal Corrias, nel 1897, segnalandosi nel concreto come forse il più significativo dei leader ecclesiastici della Sardegna del primo Novecento).

Diocesi però anche, come ogni realtà umana, nelle sotterraneità sociali e sentimentali, a radicata e preziosa e irriducibile presenza femminile: si pensi alle “nazarene”, o chiamale “filippine” Piccole Suore di San Filippo Neri, da più d’un secolo attive nella pratica della carità declinata secondo modalità molto diverse, nella pedagogia religiosa e in quella caritatevole, soprattutto nella testimonianza d’affiancamento (tanto più degli anziani e degli ammalati), lungo le molte stagioni del Novecento e ancora di questo pezzo di nuovo secolo…

Piacerebbe anche, in tale contesto, associare idealmente alla Chiesa locale – per quella casa aperta nel 1937 ad Illorai – anche madre Maria Agnese Tribbioli, “giusta tra le Nazioni” per l’azione spiegata, con le sue “operaie”, di protezione di innumerevoli ebrei dalle persecuzioni nazifasciste: valga, a celebrarne qui la memoria, citare l’epistolario di oltre mille lettere raccolte e presentate da Tonino Cabizzosu nei due preziosi volumi di Coraggio sempre e amore grande!, Cagliari, Zonza editori, 2008.

Affidata ora è già da un lustro al lavoro apostolico di don Corrado Melis, giovane e dinamico vescovo proveniente dal pezzo di Campidano regolato dalla Chiesa di Ales (e perciò come in scambio con don Giovanni Dettori, nulese/ozierese per un decennio presule proprio in Marmilla), la diocesi s’è gloriata per molti anni anche d’altro: nel monte metterei il titolo episcopale – vescovo di Castro – riconosciuto a padre Giuseppe Pittau S.J., un altro alerese (di Villacidro), dopo la rinuncia all’ufficio ultimo coperto nella curia romana e all’atto del suo ritorno nell’amato Giappone (dov’è infine scomparso nel 2014).

Viaggiando nei secoli della storia

Il riferimento a tale diocesi “della memoria” – questa di Goceano e Monte Acuto, tutta stretta fra Gallura, Barbagia e Logudoro e combinata a quella coeva e maggiore di Bisarcio per rinascere insieme come diocesi detta ancora di Bisarcio (e poi di Ozieri) – rimanda a passaggi ad un tempo dolenti e stranamente gustosi della storia sarda, fra età giudicale e dominazioni iberiche (aragonesi prima, spagnole poi) e a certe evoluzioni nelle stesse giurisdizioni ecclesiastiche, a frazionamenti e accorpamenti canonici, ai tre secoli… pieni di “vuoto” in quanto a soggettività distinta, e come tale riconosciuta, delle venti e più comunità associate territorialmente (appunto fra Bisarcio e Castro).

Non l’unica (si pensi ad Ales oppure all’Ogliastra) ma forse la più fascinosa, per la sequenza di smantellamenti e ricostruzioni, fra le diocesi della Sardegna, quella di Ozieri regala allo studioso davvero echi suggestivi che saldano epoche tanto diverse: dal basso medioevo della “successio apostolorum” coinvolgente ben settanta vescovi nel sistema Bisarcio-Castro, all’unificazione fra Aragona e Castiglia (la stessa, nel calendario, della cacciata ebraica dagli stati cattolici e della scoperta dell’America) e all’impero di Giulio II, appena succeduto al Borgia, che segna la fine della parabola; e poi il rilancio con la Divina Disponente Clementia di Pio VII, il papa Chiaramonti di regola benedettina che avrebbe incoronato (o magari soltanto benedetto) Napoleone a Parigi e ne sarebbe stato fatto poi prigioniero per due anni (se ne ricordano le scene portate al cinema, con qualche necessaria forzatura storica, da Alberto Sordi con il suo brillante Il Marchese del grillo).

La piccola storia nella grande storia: a saperla maneggiare sembra rimbalzino, assai più che i fantasmi del passato, tutti quei nessi che, con le loro variazioni, danno il senso autentico e tangibile della “tradizione” come continui semina e raccolto del fare umano, come rappresentazione delle dinamiche storico-geografiche che dettano ed insieme eseguono…

Coesiste oggi, con il titolo residenziale attribuito a don Melis, quello onorifico riconosciuto, rispettivamente per Castro e Bisarcio, a due vescovi religiosi di provenienza e cultura diversissime, entrambi ausiliari nelle rispettive diocesi: il benedettino Dominic Meier (nella tedesca Paderborn) e il missionario di Nostra Signora del Sacro Cuore Jorge Cuapio Bautista (nella messicana Tlalnepantla). Potrebbe ben celebrarsi… un concilio universale, sia pure in ventiquattresimo, ad Ozieri!

Fatte le debite proporzioni dimensionali, forse nessun’altra diocesi sarda negli ultimi decenni ha potuto mostrare, in quanto a pubblica concentrazione di chierici, tanta eccellenza. La mancanza di una stampa all’altezza del suo standing, pare onesto dire anche questo, sembra peraltro privare la Chiesa locale della giusta ribalta, evidentemente in termini di esemplarità non certo di vanagloria: ribalta che, fra i proverbiali egoismi propri del mondo ecclesiale (o meglio clericale) non soltanto sardo, … se non te la procuri nessuno te la offre gratis.

In effetti, come mostrato da Tonino Cabizzosu in molti suoi libri – segnalo in particolare Una “Voce” per il Logudoro e il Goceano 1952-2002 ed altri lavori connessi alle celebrazioni del bicentenario della diocesi rinata a vita nuova (cf. Duecento anni al servizio del territorio, 1803-2003) – Ozieri la sua stampa ecclesiale l’ha sempre curata dai tempi di monsignor Francesco Cogoni, ma anche prima, anche molti lustri dell’arrivo, nel 1939, del vescovo quartese che sarebbe stato zelantissimo padre conciliare: dal 1922 il Bollettino delle parrocchie di Ozieri cominciò ad affermarsi, pur nella sua evidente modestia, nelle letture paesane e dal 1934 toccò al Bollettino della diocesi di Ozieri, e quindi a Sardegna Eucaristica e dopo ancora a Logudoro: tre testate, queste ultime, tutte riferibili all’iniziativa del vescovo Igino Serci Vaquer. Un presule, il Serci – nipote dell’arcivescovo di Cagliari Paolo Maria (scomparso nel 1900) – che aveva maturato le sue maggiori esperienze da parroco nella collegiata cagliaritana di Sant’Anna (di fianco al mitico presidente don Mario Piu), e poi da docente al ginnasio del Tridentino, direttore del Segretariato pro-Schola e infine canonico penitenziere della Metropolitana lungo gli anni che furono di produzione continuativa della stampa cattolica nel maggior capoluogo: egli aveva visto passare, e ad essi anche collaborare – a dire soltanto dei maggiori –, i quotidiani La Sardegna Cattolica e poi Il Corriere dell’Isola – a mano entrambi del conte palatino avv. Sanjust – , il settimanale La Voce del Popolo (negli anni della grande guerra) e poi il quotidiano popolare Il Corriere di Sardegna (diretto per alcuni anni da don Gabriele Pagani, più tardi spentosi insieme con il fuoco che i fascisti avevano appiccato alla sua tipografia), quindi, dal 1928 (bisticciando con il Giordano Bruno finito nell’atrio universitario) il settimanale La Sardegna Cattolica (a direzione Lai Pedroni e Lepori). Aveva colto, don Serci Vaquer, tutta l’importanza di un apostolato… stampato e in esso, finché poté, s’impegnò con la massima diligenza sempre.

Ebbe spazio infine, ad Ozieri, ora però sotto l’episcopato già di don Francesco Cogoni, la pagina diocesana su L’Osservatore Romano della domenica e fu preparazione appunto della Voce che dunque da 66 anni cavalca il tempo, ma troppo e purtroppo ansimante adesso, senza riuscire più ad accompagnare la Chiesa locale nei suoi attraversamenti, tanto più in quelli che s’annunciano, in questo anno di grazia e nei prossimi, di nuovo epocali.

La Sardegna fra diocesi soppresse e riaccorpate

Nelle tavole di rettifica territoriale che alcuni gruppi di lavoro stanno elaborando sia a livello di Conferenza Episcopale Italiana che, per quanto d’interesse, di Conferenza Episcopale Sarda proprio la diocesi di Ozieri – a due secoli e più dal suo ripristino – appare la più debole, anche se certamente non è, nella situazione di pericolo, la sola. L’input trasmesso dallo stesso pontefice nella scorsa primavera, e dopo che studi infecondi sono stati compiuti nell’ultimo cinquantennio (dacché Paolo VI dettò quell’indirizzo alle gerarchie italiane: era il 1964, età conciliare, con replica nel 1966), è stato piuttosto chiaro: un terzo circa delle circoscrizioni diocesane italiane dovranno accorparsi fra di loro, più spesso in capo alle cosiddette metropolie, altre volte per attrazione del polo più potente fra i territori limitrofi. Alcune potranno godere, per un certo periodo, del servizio apostolico di un vescovo ausiliare, ma comunque dovranno progressivamente unificare gli organismi di curia, dai collegi dei consultori ai capitoli cattedrale, dai consigli presbiterale e pastorale agli altri cinquanta uffici ancora chiamati a coordinare o indirizzare o amministrare questo o quel settore di vita diocesana (da quello catechistico a quello giuridico o liturgico o dell’arte sacra o, anche, della stampa, ecc. fino alla cancelleria, al tribunale e all’economato…). Non sarà però, si badi bene, una rivoluzione “per diminuire” gli onori e le potestà deliberative, sarà o dovrà essere una riforma “per migliorare” il senso ecclesiale valorizzando le sinergie o compartecipazioni invece che le autonomie (le quali, tanto spesso, sono distanze e orgogli autoreferenziali e dunque sostanzialmente immotivati ed anzi estranei e contrari ai fondamentali di dottrina).

Nel quasi dimezzamento ipotizzato ed accompagnato, o temperato nella sua modalità chirurgica, da compensative valorizzazioni di storie e qualificazioni dei territori canonicamente derubricati – insomma, alla ricerca, in positivo, di altri e nuovi equilibri interni – sarebbero imprigionate le diocesi non rispondenti ad una griglia di standard dimensionali (estensione territoriale e popolazione, numero di parrocchie ed entità del clero tanto diocesano quanto religioso, ecc.). Nel caso sardo, e forse anche in quello di altre regioni del continente, il problema più importante che potrebbe porsi, prima ancora dell’aggregamento alla diocesi madre o ad una diocesi contermine, sarebbe quello concretissimo di decidersi per la salvaguardia delle integrità oppure per il (previo) frazionamento. In altre parole, poiché alcune delle diocesi sotto esame e candidate alla soppressione presentano nel loro seno una policentricità, una articolazione territoriale che ne esprime la natura composita, si tratterebbe di valutare per il meglio, magari con un referendum popolare, o almeno delle comunità attive, se seguire una via o l’altra.

A fare scoperto il discorso – e cito i casi soltanto per motivi di scuola –, se la diocesi storica (carissima a chi scrive) di Ales-Terralba che vive territorialmente realtà diverse fra l’Oristanese, la Marmilla e il Villacidrese-Guspinese (ma anche la piana di San Gavino e forse Sardara) dovesse un giorno essere inglobata da altri prevalenti soggetti della sua provincia ecclesiastica, dovrebbe essa porsi il problema: accettiamo di indirizzarci “tutti insieme” verso la nuova meta perché convinti d’essere ormai un unico blocco sedimentato dai secoli e segnato da relazioni rigogliose nell’oggi, oppure valorizziamo le correnti di preferenza d’ordine amministrativo o in generale civile e allora se il Terralbese e la Marmilla ben potrebbero far riferimento conclusivo all’archidiocesi di Oristano, il medio Campidano potrebbe optare per Cagliari (Iglesias in subordine)?

E così la diocesi di Lanusei – che aggrega oggi in sé anche parte del Sarrabus oltre che l’Ogliastra ed appartiene, con Nuoro ed Iglesias, alla provincia ecclesiastica di Cagliari –, ove coinvolta anch’essa nel piano di ristrutturazione, vi opterebbe salvaguardando l’integrità attuale o valuterebbe l’opportunità di scorpori di natura puramente geografica?

E la diocesi di Ozieri – per tornare alla festeggiata d’oggi – che sa di associare in sé territori gravitanti in parte sul territorio barbaricino, in parte su quello gallurese e in parte su quello sassarese – vivrebbe, nell’estrema ora delle decisioni, più il sentimento caldo dell’unità stratificatasi nel tempo o quello pragmatico delle (pur sane) opportunità?

Sono ipotesi di scuola, ripeto; di concreto c’è la direttiva papale e la griglia degli standard: sarà bene comunque che le comunità affrontino tempestivamente la questione che direttamente le coinvolge, proprio per non essere parte passiva nel futuro della propria sorte, ma essere invece soggetto identitariamente vittorioso, pur rimodulato secondo le nuove necessità. I giornali diocesani  che non vogliano essere semplici tribune della curia o passive espansioni dell’agenda vescovile, non dovrebbero già da subito affrontare il problema che avrà, presto o tardi, la sua soluzione e lavorare per evitare algide, amare e indiscutibili decisioni esterne, e con questo anche il prezzo di sgradevoli e infeconde disarmonie?

Un vescovo di lunga vita e faticoso episcopato

Fra non molto avverrà il trasloco delle spoglie del vescovo Serafino dal camposanto di Ghilarza, ove oggi riposano, alla cattedrale dell’Immacolata di Ozieri – rinata neoclassica per genio virtuoso del Cima – dove monsignore officiò per un quarto di secolo.

Nel suo sepolcro ghilarzese si legge, del «Rev.mus DD. Don Seraphinus Corrias episcopus bisarchiensis», la maggior attribuzione per un battezzato e, tanto più, un ministro del culto: «pietate animarum zelo caritate insignis» (bello il paragrafo riconosciutogli da Tomaso Sanna nel suo Il cimitero di Ghilarza da San Giorgio a Costaleri, Ghilarza, Iskra, 2014), con presentazione di Ivo Serafino Fenu).

All’episcopus bisarchiensis di fine Ottocento, si ricordi anche questo, Tonino Cabizzosu dedicò un ampio profilo destinato al volume L’Ottocento del Dizionario dell’Episcopato Sardo, curato insieme con Francesco Atzeni e di cui ancora si attende la pubblicazione (seguito naturale del tomo Il Settecento, uscito ormai da una decina d’anni). Il saggio è stato anticipato, con ampio supporto bibliografico ed archivistico, sotto il titolo “Serafino Corrias vescovo di  Bisarcio dal 1871 al 1896”, in Ricerche socio-religiose sulla Chiesa Sarda tra ’800 e ’900, vol. III, uscito ad iniziativa dell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari nel 2009).

Nato diocesano di Bosa (a Domusnovas Canales, frazione di Norbello) fu ordinato presbitero, don Serafino, che ancora non aveva 23 anni, e già da un anno era dottore in teologia: mente rapida ebbe i migliori affidamenti dal vescovo Uda (che lo fece suo segretario, vicario in duomo e professore al seminario), ed a 34 anni vinse per concorso il canonicato teologale del Capitolo cattedrale, mentre nel 1869 assistette come perito il vescovo di Nuoro, il famoso monsignor Salvator Angelo Maria Demartis, padre carmelitano in calda intimità con Pio IX, nelle sessioni conciliari del Vaticano I.

Se il papa si munì allora della forza dogmatica dell’infallibilità, toccò alla storia – e anzi alla provvidenza della storia (o ancora alla Provvidenza nella storia) – segnare avanzamenti, demolendo la teocrazia e donando Roma all’Italia risorgimentale grazie all’azione militare del generale Cadorna, che vide fra le vittime anche un giovane bersagliere sardo. Si dichiarò prigioniero nella città leonina, il pontefice, eppure poté procedere da allora, meglio che prima, all’esercizio del suo mandato di supremo governatore della Chiesa, e così alla provvisione di molte diocesi italiane rimaste scoperte da molti e molti anni. E di tutte quelle sarde che avevano potuto contare per lungo tempo, fino al 1867, soltanto sulla rapsodica supplenza (magari per qualche turno di cresime o per le ordinazioni presbiterali) dell’ordinario iglesiente Montixi e, negli ultimi quattro anni, anche del Demartis a Nuoro e del Zunnui Casula ad Ales (partecipanti entrambi, col “liberal” collega iglesiente, al Concilio riunito nella basilica di San Pietro). Si ricordi il Balma a Cagliari, si ricordi il Marongio a Sassari, si ricordi il Soggiu ad Oristano, si ricordi il Filia ad Alghero, si ricordi il Campus a Tempio, si ricordi il Serci sr. (Paolo Maria cioè) a Tortolì, si ricordi il Cano a Bosa… E anche il Corrias ad Ozieri, diocesi vacante da ben 24 anni.

Colpisce questo dato di calendario che giustappone integralmente l’arco temporale della militanza presbiterale del giovane don Serafino nella sua nativa “dioecesis bosanensis” a quello appunto della vacanza episcopale nella “dioecesis bisarchiensis” (poi “othierensis”) a lui preconizzata. D’altra parte, si consideri anche questo: che cioè la vacanza e le sue conseguenze le conobbe personalmente egli stesso a Bosa, officiando in duomo da semplice vice parroco e poi da teologo capitolare o insegnando nel seminario minore in faccia al Temo. Dall’anno stesso della sua ordinazione, infatti, Bosa mancò del suo presule involatosi per età e malattia dopo soltanto pochi mesi di governo: poté sperimentare nel concreto, il giovane e dotto don Serafino, le incertezze, per non dire gli sbandamenti cui si esponeva una diocesi senza un suo responsabile naturale (e ciò tanto più quando un ciclone quale fu quello delle leggi eversive fosse andato ad abbattersi su uomini e cose, sul clero e sulle dotazioni dei plessi di culto). Né quelle incertezze o quegli sbandamenti potevano cessare di colpo dopo un’avvenuta provvisione canonica, perché ad essa non seguiva mai con la dovuta (o sperata) celerità la concessione dell’exequatur governativo, e dunque l’immissione dell’ordinario nei ruoli temporali, a partire dalla fruibilità degli episcopi e della cosiddetta mensa. Nel caso del vescovo Serafino dovettero trascorrere due anni e più prima che il governo Minghetti – l’ultimo della destra storica – e per esso il ministro guardasigilli Onorato Vigliani sciogliessero la riserva…

Ogni giorno con il suo patimento

Il registro di provvidenze del nuovo vescovo di cui dà conto Cabizzosu nel suo recente studio è quello riguardante il periodo iniziale dell’episcopato: colpiscono la (forse superficiale ma comunque immediata) curiosità del lettore l’anno iniziale e quello finale della rassegna perché rimandano essi a date solenni e importanti della vita del giovane regno d’Italia: il 1872 è l’anno di morte di Giuseppe Mazzini, il profeta dell’Unità della patria amato dagli idealisti, il 1878 è l’anno di morte di Vittorio Emanuele II oltreché di papa Mastai Ferretti (dopo un pontificato durato giusto un terzo di secolo). Un periodo di storia nazionale e anche di storia della Chiesa universale (e della tormentatissima Chiesa italiana) si chiudeva allora. La sinistra al potere dal 1876 a Roma, con i governi Depretis e Cairoli (e nuovamente, e lungamente, Depretis), aveva avviato una certa e pur contraddittoria politica riformatrice che col tempo avrebbe portato all’estensione del suffragio elettorale ed alla accelerazione dello sviluppo industriale del nord continentale, e intanto già subito alla obbligatorietà della istruzione elementare (gratuita ed aconfessionale). Re Umberto avrebbe favorito un qualche maggior contatto della dinastia con la popolazione dell’intero paese – Sardegna inclusa – accrescendo in ogni provincia lo spirito nazionale. Da parte sua, papa Pecci avrebbe, pur con tutte le cautele e non poche remore, ampliato lo spettro degli interessi sociali della Chiesa, pacificando la coscienza del credente e quella del cittadino e, tutto sommato, accettando il fatto compiuto di Porta Pia e la nuova relazione (ancora di “sospensione” a livello istituzionale) fra le due sponde del Tevere.

Dalle montagne goceanine non mancò, in varie occasioni, don Serafino Corrias – al pari invero di numerosi altri presuli diocesani – di manifestare sentimenti patriottici e lealisti. In altri suoi saggi, è stato lo stesso Cabizzosu (cf. Ozieri. Storia di una città, 1836-1986, a cura dell’Amministrazione Comunale di Ozieri, uscito dalla Grafopress ozierese nel 1989: il contributo del Nostro è “Chiesa e società ad Ozieri fra Ottocento e Novecento”) a darne conto, riportando le parole del vescovo alla morte di re Vittorio, dal quale nel 1875 era stato insignito della commenda mauriziana:

«Vittorio Emanuele Il, l’invitto soldato d’Italia, il Re Galantuomo, fu sempre il primo ai pericoli delle patrie battaglie, il primo ai travagli e alle fatiche, il primo al sagrifizio di sé, non soffrendogli il cuore che per l’onore della patria e per il bene della nazione cui si era tutto dedicato rimanesse in sì nobile palestra a niuno secondo.  La religione cattolica che aveva succhiato col latte della nutrice… non gli venne mai meno nel corso della vita e segnatamente gli ultimi momenti». Non ricordò, il vescovo ozierese – il vescovo d’un territorio che aveva eletto a proprio rappresentante in parlamento lo scomunicato Garibaldi –, la scomunica comminata da papa Pio anche al «Re Galantuomo», né alcuna altra maledizione saettatagli contro dai presuli sovrani delle chiese monumentali delle principali città…

La sobria introduzione del curatore, che aiuta a fissare le coordinate tanto generali (della complessiva personalità del vescovo Serafino e del suo episcopato sviluppatosi nel tempo) quanto specifiche, parziali o limitate allo stacco epistolare – si tratta di ben 236 unità registrate nel copialettere lungo il settennio –, offre una efficace rappresentazione di cosa fosse nell’ultimo trentennio del secolo la diocesi di Ozieri. Fonti, le due relationes ad limina di don Corrias a Leone XIII ed alle congregazioni romane (rimesse nel 1879 e nel 1882), le ben 27 lettere pastorali indirizzate al clero ed al popolo ed anche, per le cronache che le accompagnarono, le quattro visite pastorali promosse in lassi temporali piuttosto irregolari: nel 1873-1874 all’esordio, nel biennio 1879-1880, nel lungo settennio 1880-1887, infine nel più concentrato triennio 1894-1896, il che fu come il canto del cigno d’una ministerialità impegnata certo con generosità e l’apertura (invero assai relativa) concessa agli uomini di Chiesa dal tempo ch’essi vissero.

Il quadro di una diocesi di campagna

22 le parrocchie in altrettanti comuni, una decina o poco meno le chiese rurali frequentate da pastori e servi in cui era autorizzata l’amministrazione dei sacramenti; passivo il saldo fra nuove ordinazioni e decessi di chierici per lo più anziani; da leggersi invece in chiave positiva, a compensare tutto il resto, un certo laicato associato in gruppi devozionali e di pietà nonché in confraternite (ben 21) e, in taluni casi, la buona disponibilità di catechisti operanti nelle abitazioni private.

In una Chiesa ancora molto clericizzata, il più delle cure immediate del vescovo pareva riversarsi proprio sul presbiterio diocesano (attore della cura animarum) integrato negli ultimi anni dai religiosi o ex-religiosi (minori osservanti e cappuccini) costretti fuori dai conventi ormai soppressi. Una ventina i giovani agli studi nel seminario minore che arrancava depauperato di molti dei suoi trascorsi sostegni finanziari.

A fronte di impegni evidentemente gravosi e costantemente rammentati dal presule quale imprescindibile “dovere” (così per la ferma residenza e la cordialità delle relazioni con gli amministratori e i funzionari pubblici, così per la correntezza e accessibilità della predicazione, ecc.), il clero, così quello giovane come quello anziano, se la passava male, sferzato dalle conseguenze delle leggi eversive degli anni ’60 e mantenuto, potrebbe dirsi, insieme con le sue chiese e le funzioni d’altare, dalle modeste libere offerte dei fedeli.

Rilevanti ed insistenti erano, in tale contesto, gli sforzi per allargare temporalmente o intensificare le omelie domenicali o delle sante feste (programmate dal novembre al giugno successivo, con rinforzo quaresimale) e più ancora per renderne fruibili i contenuti a popolazioni per larga parte ancora analfabete o a bassa scolarizzazione.

Proprio per il riordino soprattutto delle attività parrocchiali avviato dal nuovo vescovo, il tono complessivo della vita diocesana pareva accettabile, nonostante tutto il pregresso, lo stato di abbandono di lunghi anni (soltanto parzialmente fronteggiato dall’impegno generoso dei vicari capitolari Gavino Pischedda e Pietro Virdis), la precarietà dei mezzi per campare dignitosamente da parte dei preti, il degrado dello stato materiale degli edifici di culto ed anche, perché non dirlo? la mancanza di un progetto importante insieme religioso e civile nel quale coinvolgere coralmente popolo e sacri ministri, ma anche le rappresentanze amministrative aprendo nuove strade per più avanzati obiettivi sociali.

E’ all’interno di questo quadro sì moralmente sano ma anche segnato da debolezze strutturali, che prendono consistenza o si definiscono i casi anomali e Cabizzosu ne richiama diversi dall’ampio campionario, in ciò già accostandosi al “particolare” materiale di cui il registro di provvidenze – cioè d’amministrazione e funzionamento – è la raccolta ordinata per cronologia.

La gamma tipologica dei destinatari delle comunicazioni vescovili – ora istanze ora delibere – è vastissima, così come, naturalmente, è vario l’oggetto. Ecco quindi parroci, rettori e autorità civili, prefetti, sottoprefetti e ministri addirittura, sindaci e canonici, pretori e cardinali (dal Datario al Segretario di Stato, ai capi delle Congregazioni di curia), procuratori del re o procuratori generali e responsabili di associazioni o confraternite, colleghi vescovi ed abbadesse, cappuccini e intendenti di finanza, ecc. tutti nell’ideale piazza del dare e del prendere di fronte al vescovo Serafino, periferico funzionario (forse l’avrebbe chiamato così, senza volerlo diminuire però, papa Bergoglio) di Santa Madre Chiesa.

La lettura della raccolta documentaria conduce all’interno delle pieghe di una società e di storia che sembrano, per molti aspetti, lontane o lontanissime dal nostro oggi. Entrano qui dispense dal servizio corale e luizioni di censo, ricorsi per il riconoscimento di assegni e sospensioni di giurisdizione al confessore ordinario, comparse per espropri e richiami di rendiconti, domande di sussidi e nomine di procuratori ad exigendum, richieste di alloggi per i chierici o di contributi per restauri parrocchiali, promesse di allestimento di feste patronali e trasmissione di decreti di exequatur e temporalità della mensa, applicazioni di frutti resinodali e altre burocrazie curiali veramente d’ogni genere e natura.

Entrano certo, in tutto questo daffare annotato su carta, le nobiltà d’intervento «a scopo di paci» – così a Monti, d’intesa con il vescovo Campus, ordinario di Tempio ed Ampurias, nel 1875 –, ma pure entrano, e parrebbero perfino prevalenti, le attività contabili come d’azienda, tanto spesso guidate da logiche od attuate con modalità peggio che profane. Finendo così per mostrare – ecco qui la riserva – l’ampio ventaglio di contraddizioni in cui certo clericalismo esclusivista ed autoreferenziale, altro dallo spirito evangelico cioè, ha potuto, per lunghi secoli, fasciare la Chiesa santa e spirituale, evidentemente non soltanto ad Ozieri, nel Monte Acuto e nel Goceano tutto, e fasciare, e anzi ingessare, anche lo sviluppo sociale determinandone esso, per larga parte, i tempi, i modi e i paradigmi stessi dei processi evolutivi (così essenzialmente anche sul piano culturale e del costume).

Ecco un caso, fra gli infiniti altri, che dalla rassegna delle provvidenze può evincersi, e motiva la riserva critica sopra affacciata (mossa da un input morale che – avverto subito – potrebbe non dover entrare in gioco). E’ datato 18 giugno 1874 ed è riferito alla comunità rurale di Bultei, ma che sappiamo quasi routinario nelle gestioni diocesane e parrocchiali fino a pochi decenni fa: «Visto il caso proposto e consultato dal Sindaco con nota 14 corrente mese, si autorizza il parroco a voler designare nel campo santo un tratto di esso, che sia esclusivamente destinato alla sepoltura dei bimbi deceduti senza battesimo, e agli adulti, ai quali non si concedono gli onori funebri della Chiesa. Detto tratto si riterrà come interdetto».

Le creature decedute senza battesimo, al pari dei suicidi disperati (non guerrieri ideologici ma afflitti portatori del male oscuro), non meritavano per gli uomini di Santa Madre Chiesa (funzionari del sacro dogmatici e autoreferenziali) di riposare in terra benedetta…

Conclusioni (fuori tema?)

Mi sia consentita questa fuga finale per pensieri dolenti, che peraltro libera dai rendiconti l’ottimo monsignore ozierese fedele, per granitica formazione, agli statuti della sua coscienza e della sua Chiesa tridentina…  Se ancora oggi (o pochi giorni fa) il cardinale Ruini – uomo tremendamente (all’apparenza) senza fede – ha negato i funerali religiosi a Piergiorgio Welby, che sfiancato da trent’anni di sla aveva ottenuto di potersi liberare dalle ormai “invivibili” e crudeli cannule “di vita”, non potrebbe pensarsi a paradossali incongruenze, giudicabili perfino blasfeme, in capo a quel dignitario (o funzionario) di Chiesa?

E’ di questa stessa nostra storia recentissima la beatificazione di Pio IX, il papa delle ultime esecuzioni capitali per ghigliottina. A domanda, a rappresentazione di dubbio, che cosa si risponde? E chi risponde?

Il giovane vescovo Melis, attuale successore del vescovo Corrias, forte delle libertà conciliari, forte degli appoggi della scienza moderna e dei profeti militanti e riconoscibili, come potrebbe raccontare Chiesa e Vangelo fra loro “in associazione” in questo nostro inizio di terzo millennio? La grande responsabilità della Chiesa come agenzia educante è – a mio soggettivissimo avviso – quella della propaganda degli assoluti, quando nella storia degli uomini davvero nulla è un assoluto se non la dignità delle persone. Né potrebbe affogarsi tutto, per quanto riguarda proprio la Chiesa in quanto agenzia educante (oltreché testimone della scuola evangelica da cui deriva), in una generale e generica, e deresponsabilizzante, contestualizzazione: quelli erano i tempi… Perché nel 1849 Mazzini abolì, nella Repubblica Romana, la pena di morte, e il papa “vicario di Cristo” – fatto beato pochi anni fa! –, che l’aveva applicata fino ad allora, la ripristinò immediatamente, quando le armate “cattoliche” e i francesi abbatterono l’illusione e finirono, sparandogli addosso, il nostro Goffredo Mameli poeta ventenne… La ghigliottina operò a Roma fino alla vigilia di Porta Pia, di Porta Pia scomunicata come Garibaldi e Mazzini, come Vittorio Emanuele e i Savoia…

Voglio dire in conclusione e con tutta franchezza nella logica, una volta ancora, della storia “sempre contemporanea” secondo la lezione di Benedetto Croce, e fuori ormai dai confini soltanto ricettivi della piccola e cara diocesi che ha suggerito, ancorché per la tangente, questi personalissimi (e forse testamentari) allunghi: i libri che ricostruiscono le vicende secolari, millenarie addirittura della Chiesa inducono sempre a due diversi approcci di lettura, entrambi validi perché diversamente finalizzati. Quello ordinario e laico, di chi intende impadronirsi di conoscenze circa fattualità e dinamiche per come sono registrate: valgono qui le sequenze evenemenziali, e naturalmente le contestualizzazioni, l’interpretazione causale e dello sbocco effettivo, senza necessità di sentenze morali di alcun genere. E quello religioso di chi, intrigato dalle pressanti esigenze di coscienza inerenti la cosiddetta “storia della salvezza” che tutti ci ingloberebbe, interroga con i criteri evangelici e spirituali, uscendo dal tempo e dal tempio per mettersi nella franca e nuda relazione umana del tu-per-tu, ai piedi della montagna delle beatitudini, materiale o ideale non importa…

Dalla conoscenza viene sempre, pur faticata, la conquista della libertà, e gran cosa è sempre la libertà come virtuoso inarrestabile contagio… D’altronde, il giudizio non è mai e poi mai, se negativo, una condanna dei cuori in cui nessuno potrebbe entrare: è piuttosto onesta (e sempre provvisoria) conclusione di una messa a fuoco dei fatti e dei suoi perché.

 

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