Sebastiano Satta: riemergono dall’oblio canti inediti e varianti d’autore. Appunti su un quaderno ritrovato, di Annico Pau

E’ stato pubblicato di recente, per i tipi di Carlo Delfino editore, il bellissimo volume Sebastiano Satta Canti perduti, a cura di Annico Pau. Con ampie introduzioni (nelle diverse sezioni) dello stesso Pau e un contributo critico di Alessandro Esposito Pinna, esso presenta, insieme con molte delle più conosciute composizioni poetiche del Vate – segnatamente quelle rifluite nei celebri Canti barbaricini (pubblicati nel 1910) – i “canti” che, di lui, s’eran creduti “perduti” ed erano invece consegnati a un quaderno (di 103 diapositive) felicemente custodito lungo i decenni e infine fiduciariamente donato all’ex sindaco repubblicano di Nuoro da parte dei discendenti dello scrittore Francesco Cucca.

Ecco di seguito, tratto da L’isola antica che s’incela. Dall’Ortobene a monte Atha, a cura di Dino Manca, edes ed., Sassari 2017 – che riporta gli atti della “giornata di studi” dedicata al Satta e tenutasi, nel capoluogo nuorese, il 20 maggio 2017 – il contributo dello stesso Pau annunciante, fra l’altro, il ritrovamento e la prossima pubblicazione degli inediti.

 

 

 

 

 

 

In questa giornata di ricordo, nel 150° anniversario della nascita del grande vate barbaricino, ci piace rivederlo, per un attimo, nella sua intimità. Sebastiano Satta, seduto nella scrivania del suo studio, così come lo vide lo scrittore Vin-cenzo Soro, allora quindicenne, che lo aiutava a svolgere le sue attività quoti-diane, come attendere alla corrispondenza o aiutarlo nella scrittura:

Lo conobbi nella sua stanza da lavoro. Alto e vasto, effettivamente, ben più che a una toga d’avvocato e a un esemplare dei Cinque Codici rilegato in marocchino, mi fece pen-sare alla mastruca del patriarca e al vincastro dell’archimandrita. Quella sua stanza da lavoro pareva un oratorio, una cappella segreta. La luce del giorno vi entrava tutta addolcita attraverso una vetrata rossa, creandovi un’illusione di aurora. Nel mezzo, un grande arco. Di qua dall’arco, lo scrittoio e un cassapanco aritzese inta-gliato a disegni arcaici come un cofano egiziano. Di là, ricchissima, la biblioteca. E o-vunque ritratti, bronzi, marmi, acquarelli, pastelli, tele…1

 

Stato degli studi e conoscenza della produzione poetica

Sull’opera poetica di Sebastiano Satta c’è ancora molto da studiare e scrive-re. Sta per essere pubblicato un saggio sul ritrovamento di una serie manoscritti che riportano poesie inedite unitamente ad altre note, ma punteggiate da corre-zioni e ripensamenti. Nonostante la grave menomazione cui Satta andò incon-tro, nell’aprile del 1908, e le avverse vicende della vita, fu, è vero, costretto suo malgrado ad abbandonare la toga, ma, dopo una parziale riabilitazione, conti-nuò a comporre poesie scrivendo con la mano sinistra o dettando ad amici e conoscenti. Con l’ausilio dei vari amici che lo aiutavano a scrivere e a ordinare i propri canti, nel 1910 riuscì nell’impresa di pubblicare i Canti barbaricini e con-tinuare ad attendere alla stesura dei Canti del salto e della tanca e collaborare a giornali e riviste.

Abbiamo una prova della sua grande forza d’animo, unita alla gioia di vive-re, che non gli venne mai a mancare. Nell’anno della sua morte, iniziò una col-laborazione con «Il giornale d’Italia», interrotta precocemente. Alla sua prematura morte, a soli 47 anni, lasciò ai posteri molto materiale: poesie, altre opere definite o in corso di elaborazione. Tutto ciò ci è attestato da una lettera della famiglia scritta dal fratello Giuseppe che, appena dopo la sua scomparsa, ac-compagnava la donazione di manoscritti ed altro materiale del poeta alla biblio-teca universitaria di Sassari, veniva precisato:

La famiglia possiede ancora due altri grossi quaderni di appunti e di studi, dove sono contenuti gli ulteriori, ultimi, componimenti del poeta: un poemetto fantastico dedicato al suo bambino Vindice, canti di varia natura ecc. Anche per questi manoscritti – dove meglio appare via via tutto il lavoro di elaborazione e di politura del verso – appena ne sia finito lo spoglio, non si mancherà di tener presente…2

Alcune opere, soprattutto componimenti poetici, iniziarono a comparire già nel mese di dicembre del 1914, infatti, nel corso della commemorazione del Satta ad Iglesias, l’avvocato Pietro Mastino, nella sua orazione declamò una poesia inedita ed ancora oggi poco conosciuta:

Tornò Gesù tornò tra le stupite genti

e vide nelle piazze ebbri gendarmi

scaricar contro folle umili l’armi…

e udì il rantolo fioco dei morenti.

 

Vide chiusa nei masti e le galere

l’Idea che sta nell’aquila superba;

vide i lavoratori mangiar l’erba

e i cavalieri empirsi epa e forziere.

 

Vide i fanciulli, figli del suo cuore,

dannati alla solfara e all’opifizio;

vide, rimesso a nuovo, il Sant’Uffizio.

Sentì che in ogni cuore era un dolore.

 

E disse ai figli della gleba: – O figli!

vostri saranno i campi ed i covoni;

vostri, ché lavoraste. Gli epuloni

bruchin l’erba e si rodano gli artigli.

 

Ascoltandolo, i preti bofonchiarono:

– Questi è per certo quel tal Gesù Cristo di Nazareth.

Chi mai poté quel tristo toglier dal legno

dove lo inchiodarono?

 

Così concio del fango della gleba

ch’egli venga a scacciarci dal suo tempio?

Rabbi rubello, ei smesso non ha l’empio

maligno ruzzo d’accanar la plebe?

 

Ed i ruffiani, i ladri, i farisei,

che lo vedean passar come una fiamma,

corsero ad avvertir per telegramma

il capo degli sbirri e dei giudei:

 

– Oggi, con una tunica a bisdosso,

passò propagandando Gesù Cristo di Nazareth,

quel tal rabbi, quel tristo, laido, brigante,

vestito di rosso,

 

che fu già crocefisso. Oggi, sappiatelo,

svolge un altro programma sovversivo.

Dite, che dobbiam fare? È recidivo.

Si rispose da Roma: – Fucilatelo!

 

Nel 1921 l’amico Luigi Falchi, ricordando il poeta amico, sul «Giornale d’Italia» pubblicò un articolo su: Poesie minori inedite o sconosciute del grande Poeta sardo3. Più avanti, nel 1924, in occasione del decimo anniversario della morte, fu pubblicata l’opera postuma Canti del salto e della tanca . Ancora in occasione del cinquantesimo anniversario della morte del poeta, il prof. Gavino Pau4 pubblicò alcuni lavori inediti in particolare gli appunti del discorso tenuto a Caprera nel 1908 per Garibaldi, la poesia Gli asfodeli e Per la pace in Orgosolo.

 

Il quaderno

Il quaderno ritrovato ci dà uno spaccato sui modi della scrittura del poeta e sulla sua paziente elaborazione dei testi. Significativa è altresì l’attenzione con cui Satta conservava i vari ritagli di quotidiani e di riviste che lo riguardavano. Il quaderno consta di 103 diapositive, normalmente inquadrate in due facciate. I fogli sono dotati di righe e margini, scritte, quasi sempre, sul recto e sul verso e con inchiostro nero. Fanno eccezione solo tre pagine, prive di righe e margini, formate da un unico foglio. Nei fogli compare altresì una doppia numerazione: una sul margine superiore e l’altra su quello inferiore; con molta probabilità il lavoro di assemblaggio potrebbe essere stato fatto in tempi diversi e da perso-ne diverse. Più in particolare la numerazione apposta nella parte alta del foglio e sempre oltre il margine, inizia con 2 e prosegue sino numero 86, mentre nella parte inferiore la numerazione che inizia con 2b e prosegue, in forma leggibile, sino ai numeri 147-148, le cifre sono riportate costantemente accompagnate da una sigla-scarabocchio SC, che molto probabilmente corrisponde a Salvatore Cucca.

La numerazione, in entrambi i casi, tiene conto del testo (poesia o ritaglio), e pertanto non è riferita alla progressione delle pagine, infatti quando la poesia si distende in più pagine, al numero vengono aggiunte le lettere a, b, c e così via. La pagina della diapositiva iniziale, essendo contrassegnata dal numero 2 nella parte alta del foglio o da 2b nella parte bassa, lascia intuire la mancanza di un foglio. Il componimento, della prima diapositiva, da noi titolato Io non ti chiedo nulla, potrebbe essere acefalo e pertanto incompleto. Dalla lettura delle carte appare evidente la presenza di grafie diverse, certamente quella del poeta con una scrittura tendenzialmente calligrafica, a volte in corsivo a volte irregolare e tormentata, che fa intuire l’uso della mano sinistra a causa della menomazione all’arto destro, compaiono inoltre grafie diverse, non comparabili con quella del poeta, ma ciò non deve destare meraviglia perché si sa che egli si faceva aiutare nella scrittura da amici e familiari. Certamente quella della consorte Clo-rinda, che, come ci informa Gavino Pau, collaborava col marito nella scrittura:

Un centinaio di cartelle, scritte […] dal poeta prima che fosse colpito da malattia, altre dalla moglie.5 Ma anche quella di altri amici che aiutarono il Nostro in varie occasioni, quali il giornalista Sebastiano Manconi e i fratelli Attilio e Alfredo Deffenu,6 ma soprattutto il poeta Francesco Cucca che, da quanto è dato sapere, ha scrit-to manualmente l’unica copia esistente dei Canti barbaricini.7 Senza trascurare un fedelissimo collaboratore come Vincenzo Soro:

Io avevo quindici anni […] e questa umile mano che scrive queste umili cose vi ebbe, quasi ogni giorno, l’onore di fermare su carta ciò che il poeta dettava. Dettava, perché la sua mano era morta […]. Dettava. Canti e pensieri»; e ancora ricordava come nello stendere i testi delle liriche «il Poeta li dettava: poi se li faceva rileggere, e li rileggeva egli stesso assai volte, in un continuo diuturno tormento di elaborazione e di revisione: il tormento che lo uccise.8

Si trovano inoltre molte correzioni, cancellature di versi o di titoli delle poesie e ripensamenti. A un primo esame, le correzioni apportate con una grafia minuscola, parrebbero apportate dallo stesso poeta. Nelle ultime pagine del quaderno, tra i manoscritti, egli sembra essere intervenuto con un tratto confu-so e quasi illeggibile, che conferma l’uso della mano sinistra. Infine il professor Gavino Pau ci informa che anche Clorinda Pattusi collaborava col marito nella scrittura:

Un centinaio di cartelle, scritte […] dal poeta prima che fosse colpito da malattia, altre dalla moglie9. Solo due componimenti riportano la firma autografa di Sebastiano Satta. Dalle date contenute nelle poesie autografe, nei manoscritti allografi e nei vari ritagli è possibile avanzare con attendibile approssimazione l’arco tempora-le in cui il quaderno è stato compilato: dal 1900 alla fine del 1911.

In una delle poche pagine non numerate, oltre ad una breve poesia, troviamo alcuni bozzetti raffiguranti volti abbozzati, forse si tratta di militari o di te-stimoni ai processi, molto probabilmente scarabocchiati nelle pause tra un‘udienza e l’altra in Tribunale.

 

I manoscritti

Tra i manoscritti, oltre le poesie conosciute, si trovano anche componimenti inediti, qualche volta parzialmente rielaborati e ricchi di interessanti novità. Le informazioni in nostro possesso non consentono di conoscere le ragioni della loro mancata pubblicazione. Si possono perciò formulare soltanto delle ipotesi: forse ci fu una precisa scelta dell’autore, che non li ritenne degni delle stampe; o, più banalmente, furono dimenticati. Ma anche, si potrebbe fantasticare, perché tenuti e conservati in giro per l’Africa, al seguito della «biblioteca ambulante»10 del poeta delle Veglie beduine. Come già detto troviamo, alternati ai manoscritti, un grande numero di ritagli: alcuni sono la trascrizione di componimenti poetici, altri riportano articoli di critica raccolti dopo la pubblicazione della prima edizione dei Canti barbaricini, altri ancora contengono interessanti e divertenti articoli, talvolta scritti dallo stesso Satta. Non disponiamo del testo originale del quaderno, ma solo un elaborato in formato digitale. Tutte le poesie sono rigorosamente composte in lingua italiana, come egli usava fare, e la terminologia corrisponde perfettamente al suo modulo espressivo, così come sono tipiche del Satta la metrica e il ricorso ai canoni del sonetto; senza trala-sciare poi che, quasi sempre, i temi trattati sono quelli classici: i pastori, i bandi-ti e i paesaggi aspri della nostra Barbagia. Nell’ultima parte del quaderno la gra-fia del poeta appare stanca e irregolare, ed è evidente che alcune correzioni furono da lui apportate con la mano sinistra, dopo la paralisi che lo aveva me-nomato. Un altro indizio di sicuro interesse si trova in alcune pagine vergate con scrittura tendenzialmente calligrafica, nelle quali viene riportato il canovaccio di un indice contenente i titoli di una serie di poesie quasi tutte riconducibili ai Canti barbaricini, con in testa Dedica, chiaro riferimento ai tre versi intitolati A Vindice mio figlio,11 cui segue subito il preludio Don Chisciotte, e poi i Canti veri e propri con I colloqui dei morti. La copia di questo documento è riportata in appendice al presente volume.

È   interessante notare che in varie poesie edite, come alcune della raccolta Canti barbaricini, si trova traccia dell’elaborazione dei testi, con la comparsa di versi modificati o in parte emendati rispetto a quelli pubblicati nelle riviste; questo accade ad esempio nelle liriche Il voto, Il seminatore, Apparizione di Gesù ai mietitori’. Altro indizio importante, presso la sezione sarda della biblioteca Sebastiano Satta si trovano alcuni manoscritti che coincidono con gli inediti in nostro possesso.

 

Gli inediti

Dalla lettura dei trentasei componimenti inediti, trentacinque poesie e un muttu, appare subito chiaro che il poeta aveva una particolare predilezione per il sonetto, ma non disdegnava altri tipi di metrica. Talvolta utilizza come struttura metrica la saffica rimata che nella seconda metà dell’Ottocento era quasi una rarità, ma non ignota al Satta che mostra di conoscerla ed usarla bene. Molte di queste liriche sono state composte quando il poeta era malato e sofferente, ma nonostante questo appare chiaro che non aveva perso il suo spirito battagliero ed ancora trovava lo slancio per occuparsi di poesia.

Tra i componimenti troviamo delle liriche dedicate a Ludovico Ariosto e a Francesco Berni ed al loro mondo poetico; nel ricordo del periodo bolognese, si applica alle famose torri felsinee con la La Garisenda e ancora ad un insignificante fiume che circonda la città di Bologna Sàvena, ma che evidentemente gli era rimasto impresso. Il poeta affronta con passione temi legati al suo pensiero laico e libertario venato di forte anticlericalismo. Troviamo inoltre epigrammi ironici e pungenti, così come ritorna spesso sulle tematiche del tempo passato e della sua giovinezza, come ai suoi ricorrenti colloqui con i morti. Un componimento è mutilo della prima parte, mentre alcune poesie sono delle vere e proprie esercitazioni o a volte solo delle bozze. I componimenti poetici inediti sono tra loro diversificati, sia nella struttura metrica che nella tematica. Normalmente i temi non differiscono da quelli classici del Satta, per cui molti potrebbero trovare consona collocazione nelle varie sezioni dei Canti barbaricini. L’espressione più ricorrente, come amava fare Satta, è il sonetto ma troviamo anche qualche composizione libera e qualche anacreontica. Trovano posto temi giocosi, l’amore, l’amicizia, gli affetti ed i ricordi personali, a volte dolorosi, i miti del tempo perduto, delle amicizie, della casa, della famiglia e degli avi. Molte poesie sono dei componimenti strutturati e completi, altre solo un abbozzo o un tentativo di prima stesura o anche un puro esercizio di strofe d’occasione.

Dall’esame dei manoscritti, che come abbiamo vista datano dal 1903 al 1911, a volte autografi e in genere idiografi, ricchi di macule di fotocopie che a volte ne falsano la lettura e quindi l’interpretazione e talvolta anche il risultato, per non tralasciare delle ricorrenti correzioni e cancellature, sovrascritture e vistosi ripensamenti con il rifacimento di interi versi. Tra queste poesie sono interessanti un vero e proprio testamento spirituale del Satta, senza titolo e con ogni evidenza monco ma nonostante questo il frammento di versi rende molto esplicito il suo profondo spirito di laico curioso e agnostico. Altre poesie sono di tono satirico, altre ancora di carattere patriottico democratico e repubblica-no. Tra gli inediti troviamo dei temi inconsueti rispetto alle tematiche sattiane e sono quelle dei due sonetti rispettivamente dedicati a Ludovico Ariosto e Francesco Berni. Questi due sonetti, il primo dedicato ad un intellettuale e il suo mondo fantastico e meraviglioso del suo Orlando furioso:

 

LUDOVICO ARIOSTO

 

Voi, dove più ridean pennelleggiate

Da Rafaele e da Tizian le sale,

Le donne e i cavalieri assumevate

Al vostro mondo, splendido ideale.

 

Tra le coppe d’argento constellate

Bella, Lucrezia Borgia, dal ducale

Volto arrideva; le visioni alate

Splendevan nell’ottava trionfale.

 

Beato, che allor quando nell’incanto

Del verso vostro l’elegia piangeva

O cozzavano l’armi scintillanti,

Ai cavalier splendea del vostro canto

L’alta gloria, e ogni bella vi arrideva,

Soavemente, dai neri occhi stellanti!

 

Mentre il secondo viene dedicato ad un licenzioso verseggiatore satirico e burlesco come Berni che è sempre stato oggetto di attenzione solo da parte della critica letteraria di professionisti:

 

FRANCESCO BERNI

 

Messer Berni, la mistica terzina

Che con Dante saliva al paradiso,

Con voi, facile scese a dir l’eliso

De’ cardi freschi e della gelatina;

 

E il trepido sonetto, che in divina

Melodia racchiude di Laura il riso,

Per voi si armò di bile venosina,

Fiero a bollare l’Aretino in viso.

 

Pure allor che la patria nel glorioso

Manto si avvolge, ed Ifigènia sola

In faccia al vecchio mondo cade e spira,

 

O spirito bizzarro, nel radioso

Tramonto assurge il vostro canto e vola,

E ha pur tra il riso scrosci e lampi d’ira.

 

Come pure non mancano i riferimenti alla sua esperienza bolognese con due poesie, di cui una dedicata alla Garisenda:

 

LA GARISENDA

 

Come allegra si scaglia l’Asinella

Nel sol meridïano

A mirar oltre i tetti, agile e snella,

I clivi e il dolce piano,

 

Dalla cerchia dei colli che s’infiora

Sospir di nidi e foglie

A lei salgono e, prima, dell’Aurora

Il roseo bacio coglie.

 

Ma però non allegra il sole o l’aria:

Mi asserragliano cupe

Le case e appaio fosca solitaria

Triste come una rupe.

 

Su le mie spalle curve, su la nuca

Calva la nebbia incombe,

E invano a farmi lieta in ogni buca

 

Tuban delle colombe

I nidi. Eppure a mirar le fuggenti

Su me nubi in tempesta

Dante, oh gloria! levava i cavi intenti

Occhi e la scarna testa.

 

Or mi aduggiano gli anni e i versi: il va[no]

Rumor de la fangosa

Via m’attedia e il guardare questo umano

Dolor, curva pensosa.

 

Meglio rudero antico in cima al monte

Sorger sfidando il nembo,

Cinta d’ellere e falchi l’ardua fronte

In faccia a un verde lembo;

 

O viva rupe eretta sopra il bianco

Apennin tra le brume

A cui largo sonante giù dal fianco

Scrosci tra i greppi un fiume.

 

ed una che ha come tema il fiume che scorre nel bolognese:

 

SÀVENA

 

Tu da le balze, dove tra i castagni

Occhieggian fiori ed occhieggian bambini,

Precipiti tuonando: Da i grifagni

Dirupi in cerchio accennano i richìni

 

Alberi e scendi benedetto e bagni

Larghi pascoli lieti. Fra i divini

Silenzi, melanconici compagni,

Corrono il piano, seguendoti, i pini.

 

E i pioppi… E anch’io ti seguo, e la serena

Pace e il blando murmure al mio canto

Vorrei. Vorrei su te, fiume d’argento,

 

Trascorrer l’alma di memorie piena,

Trascorrer senza riso e senza pianto,

In una eterna notte senza vento.

 

SOLA VOI…

 

Ancora un tema moralisteggiante e di lettura incerta, forse una satira ai costumi dell’epoca, contro una società chiusa, pronta a condannare e irridere di chi infrange i canoni della morale comune:

 

Sola, voi, dove la perfida

Onda bruna tra gli scogli

Ha barbagli ed ha gorgogli

Sotto il ciel canicolare,

 

Sola, o bella, voi le pallide

Membra date ai gorghi ignude,

Orgogliosa voi del rude

Grande amplesso del Dio mar!

 

Di celar però lo splendido

Fior del corpo sovrumano

Consigliato vi hanno invano

Molte rigide virtù.

 

Giù nel fondo un terso scheletro

Tra i coralli e tra le ghiaie,

Le rotonde negre occhiaie

Figge in voi, guarda.

 

L’ARROSTO DI NATALE

Ferma condanna al sistema giudiziario dell’epoca. Sembra quasi una sceneggiatura di un frettoloso processo a un misero personaggio che ha forse rubato, un misero abigeatario. La scena di mala giustizia amministrata con superficialità, giustizia quasi sommaria tra occhiali d’oro e desolazione del poveraccio avvolti dai suoi miseri stracci. Poesia ironica sulle condizioni della giustizia nei confronti della gente povera. Forse parla di un imputato, per furto di bestiame. Nell’aula del Tribunale tre saggi. Allegoria di come veniva amministrata la giustizia nei confronti dei poveracci:

 

Su la parete è un Cristo, sulla panca

Lurida un operaio.

Questi dai cenci sparge nella bianca

Aula l’ombra ed il gelo di gennaio.

 

Oh Natale! Egli volle – anche egli il tristo -

Nel tuo giorno l’arrosto…

E or tre savi al cospetto di quel Cristo,

Gliene chiedono arguti e gravi il costo.

 

Tre savi, dalle placide parole

E con paterno accento…

Fra vesti nere, candide facciole,

Occhiali d’oro, e scatole d’argento.

 

Poi parlan due. Con molta urbanità

Schermiscono molte ore…

L’un parla in nome dell’autorità

E l’altro strizza lagrime dal cuore.

 

A un tanto l’ora entrambi! Ecco i savi,

Che scuffiano ogni giorno

E manzo e pollo, imparziali e gravi:

In nome della legge, e in stile adorno

 

Sentenziano. Ed il gramo che ebbe il torto

Di mangiar quel boccone

Di carne, se ne va ben concio, e attorto

Da apotegmi e sofismi, in reclusione.

 

IO NON TI CHIEDO NULLA

La poesia, ovvero la sua parte terminale, ha tutta l’aria di un testamento spirituale di un laico impenitente di fronte al mistero della vita. L’agnostico Satta quando afferma «Io non ti chiedo nulla e non ti porgo/ preghiere o Dio…», pur riconoscendone l’esistenza (ma poi di quale idea di Dio stiamo parlando?),12 afferma in maniera categorica che non intende accettare i riti e le liturgie della religione. Principio ribadito con vigore e orgoglio nei versi successivi «…né a te mi piegherò /supplice mai, pur quando nel gorgo / della terra traboccherò». Nella seconda quartina manifesta apertamente l’agnosticismo che lo guida, considerando che: «Io non so dei tuoi cieli che le nuvole / Che ne sono i pensieri e il vario incanto / del sole, delle stelle, ei venti ei turbini / Che ne sono il palpito e il canto», quasi a conferma della sua profonda angoscia religiosa che non dà pace e serenità. Il poeta nulla sa e conosce del Dio creatore, se non appunto quanto riesce a intravedere. Visione di un agnostico che osserva tutto quello che di meraviglioso lo circonda e non trova risposte.

Con ogni probabilità il componimento è monco della parte iniziale, infatti la prima pagina in nostro possesso è segnata con 2 nella parte alta del foglio, mentre in basso riporta 2/b. In questa poesia, caratterizzata da inquietudine e disperazione, il poeta sembra negare il suo stesso anticlericalismo e sostenere un suo personale modo di essere cristiano. Infatti l’ateo Sebastiano Satta nell’affermare «Io non ti chiedo nulla e non ti porgo / preghiere o Dio…» riconosce l’esistenza di Dio, ma nello stesso tempo sostiene che non intende accettare riti e liturgie della religione cristiana. Principio ribadito con forza e orgoglio, nei versi successivi «…né a te mi piegherò / supplice mai, pur quando nel gorgo / della terra traboccherò». Nella seconda strofa è ancora l’ateo e ribelle S. Satta a considerare che «Io non so dei tuoi cieli che le nuvole / Che ne sono i pensieri e il vario incanto / del sole, delle stelle, ei venti ei turbini / Che ne sono il palpito e il canto», quasi a conferma di una profonda angoscia religiosa che non dà pace e serenità, in quanto il poeta nulla sa e conosce del Dio creatore, se non appunto quanto riesce a intravedere.

 

Io non ti chiedo nulla e non ti porgo

Preghiere o Dio; né a te mi piegherò

Supplice mai, non pur quando nel gorgo

Della terra traboccherò.

 

Io non so dei tuoi cieli che le nuvole

Che ne sono i pensieri e il vario incanto

Del sole, delle stelle, e i venti e i turbini

Che ne sono il palpito e il canto.

 

 

 

 

LÀ SU, IN ALTO…

Un poemetto in cui viene ambientato in una chiesa abbandonata dove tre uomini armati fanno un giuramento e chiedono la benedizione della madonna, da loro considerato un gesto normale e non come un’azione criminale. Poesia blasfema. Una chiesa, dedicata alla madonna, abbandonata nella selva. Nessuno canta la messa. In questa chiesa convergono tre «fieri cuori» e sui santi libri fecero un tremendo giuramento di vendetta e chiedono di benedire le armi «vindici»:

 

Là su, in alto, nella selva,

Tra le rupi abbandonata

V’è una chiesa alla madonna

Dei dolori consacrata.

 

Nessun prior vi canta messa:

Sol calando tra le frane

L’uragano a notte fonda

Batte a stormo le campane.

 

Dentro, grande sanguinosa,

Ammantata di vïola,

Sta la santa: dall’infranto

Petto il sangue ancor le cola.

 

Ora cantano i rapsodi

Chïamati nelle ottave

(Come dolce ai sardi petti

È il canto mesto e grave

 

Dei rapsodi!) che in un vespro

Tutto fiamme là tre fieri

Cuor convennero e sui santi

Libri al raggio di due ceri

 

Mormorarono un tremendo

Giuramento: indi le ultrici

Armi tratte supplicarono:

«Madre, tu che benedici

 

Il vermiglio vino e il pane;

Tu che versi le rugiade

Molli e pure come il latte

Sopra i pascoli e le biade;

 

Tu che benedici l’aurea

Messe sopra le pendici:

O Signora Onnipotente

L’armi nostre benedici!».

 

Scintillaron l’armi vindici

Come raggi d’astri: Fuori

Scalpitavano e nitrivano

Alla notte i corridori.13

 

XX  SETTEMBRE

Ode politica e civile nel ricordo dell’apertura della breccia di Porta Pia. L’atteggiamento del poeta è in sintonia con i fautori del risorgimento traditi dalla casa Savoia. 20 settembre: data storica nella corsa per l’unità d’Italia. Le truppe di Vittorio Emanuele II entrano in Roma, e si porta così a compimento il processo di unificazione dell’Italia e la fine del potere temporale dei Papi. Poesia oratoria ma di grande passione politica, da cui emerge il forte spirito nazionalista del poeta. Vengono delineate con toni dolenti e rabbiosi le speranze deluse e l’ira dei patrioti italiani, l’ammirazione per l’eroe tradito, Mazzini, e il disprezzo per la monarchia sabauda. Non c’è spazio per speranze e gioie, la poesia trabocca di conforto e, anche se Roma è stata annessa al Regno d’Italia, resta l’amaro di un sogno violato e di ferite talmente profonde da non poter più essere risanate. Poesia drammatica e aspra, espressa in una lingua ricercata e di chiara impronta classica, con cui il poeta riesce a dare respiro nazionale agli ideali democratici in cui crede fermamente e con passione:

 

Non così, mentendo alte parole

Di gloria al ciel che v’alia

Puro d’attorno ed all’eterno sole,

O bandiere d’Italia,

 

Vi dovevano issare: ma sgualcite

Mute brune severe

Come ali di forti aquile ferite,

O italiche bandiere.

 

Vi dovevan chinar sul secolare

Sogno da sicofanti

Polluto: O Rosso Sogno che anelare

Di cuori rimembranti

 

A Te, che le vigilie degli eroi

E la pensosa fronte

Di Mazzini raggiasti, a Te che poi

Cadesti in mezzo a l’onte!

 

Quando, già pieni i Fati, a l’ardue mura

La Monarchia mirò

E – proterva giumenta – per paura

Tremante le varcò.

 

IO DA FANCIULLO APPRESI…

Il poeta che ha vissuto fin da ragazzo a contatto con la morte. Sonetto con immagini di rara forza espressiva. La morte del padre gli è rimasta indelebile nel Satta maturo. Paesaggio autunnale. Ricordo dell’infanzia triste e desolata nella sua casa ove a suo tempo entrò la morte (forse parla della sua situazione quando rimase, lui e suo fratello, orfani di padre). Parla di sua madre nella desolazione della sua casa:

 

Io da fanciullo appresi qual tristezza

Tengan le case ove entrò la morte,

E sentii attorno al fior di giovinezza

Visïoni di pianto a lungo attorte.

 

Ond’è che, se al crepuscolo la brezza

Per le deserte stanze erra; e le porte

Gemono; e batton ne la squallidezza

D’autunno ai vetri fronde e foglie morte;

 

Io veggo ancora – Oh! Triste risognare

I sogni d’un’infanzia desolata! –

Senza nidi le gronde, il focolare

Paterno senza voci, e l’abbrunata

Madre mia sotto il ciel crepuscolare

Agucchiar muta dietro la vetrata.

 

DICE L’AVO…

I racconti dei vecchi nuoresi che narrano ai bambini, come già aveva fatto con Giorgio Asproni il suo vecchio mito. Ricordo di un periodo lontano di quanto fosse «lieto» vivere nel 1700. Descrive un mondo che non c’è più. Il paesaggio incontaminato dei villaggi ove si viveva senza gli inganni dei mercanti. In quel periodo cresceva una gioventù sana e gagliarda. Alitava su ogni cosa la ribelle anima sarda. Non c’erano magistrati chiusi dentro la legge, torvi e come i vecchi corvi.

I padri tramandavano la vendetta ai figli e le loro madri le riportavano in tremende ninna-nanne. I pastori, vigilavano i loro greggi. Descrive quindi il furto del bestiame e la vendetta del pastore. Infatti il derubato, dopo aver scannato l’abigeatario e lo fa scendere dentro un leccio scavato dal tempo e gli dà fuoco, in tal modo la pianta bruciò Come il ceppo di Natale:

 

Dice l’avo: Mi narravano

I maggiori, io lo rammento,

Quanto lieto fosse il vivere

Verso il mille e settecento:

 

Vigne, messi e selve intatte

Frondeggiavan folte al sole,

Pei villaggi non si udia

Che il rumor d’industri spole.

 

Vivean lieti d’abbondanza

I villaggi: Non inganni

Di mercanti. Dentro i tini

Fremean vini di cent’anni.

 

Crescea allor la gioventù

Sana, indomita, gagliarda;

Alitava su ogni cosa

La ribelle anima sarda.

 

Non curiali in cappa bruna,

Appiattati tra gli stecchi

Della legge, torvi e queruli

Assai più che corvi vecchi,

Lì garrivano. Legavano

 

La vendetta ai figli i padri;

In tremende ninna-nanne

La cantavano le madri.

 

I pastori, se qualcuno

Nell’armento lor di piglio

Dava, innùmi distendeano

Sull’armento altrui l’artiglio.

 

Mi diceva un mio maggiore

Uomo saggio, forte e bello

Che facea passar la palla

Del fucile entro un anello,

 

Come errando un giorno in cerca

Del suo gregge tra i crepacci

Della costa, udisse l’eco

Dei ben noti campanacci.

 

Corse, e visto che un mandriano

Si cacciava il gregge avanti,

Ed udito il belar triste

Degli agnelli riluttanti,

 

Gli fu sopra e lo scannò.

Poscia dentro un’elce vecchia,

Che scavata avevan gli anni,

Lo calò come una secchia.

 

Suscitato il fuoco attorno,

Arse l’albero fatale,

E bruciò per una notte

Come il ceppo di Natale.

 

Altri manoscritti

Il quaderno oltre ai manoscritti inediti comprende poesie conosciute e ritagli tratti da riviste culturali, da periodici e da quotidiani sardi e del continente. In altri manoscritti troviamo poesie note, che fanno parte delle raccolte pubblicate e talvolta segnate da interventi correttivi, come cancellazioni e ripensamenti. Sono inoltre presenti ritagli di giornali riguardanti la sua attività giornalistica, altri contenenti articoli di critica successivi alla pubblicazione dei Canti barbaricini. Infine numerosi ritagli riguardano la sfera personale e familiare, infine quella professionale. I ritagli sono conservati senza mai riportare né la fonte, né la data di pubblicazione. Altre volte il poeta apporta correzioni a una copia di stampa, così come cancella interi versi e scrive appunti correttivi per la predisposizione di un nuovo testo poetico, come nel caso di In Barbagia che, con qualche piccolo intervento correttivo, diventa Nella tanca poi ricompreso nei Canti barbaricini. L’intero materiale risulta assemblato senza un preciso ordine, manoscritti e ritagli sono disposti in maniera casuale.

 

Poesie edite

Tra i manoscritti contenuti nel quaderno troviamo componimenti poetici conosciuti e pubblicati nelle opere del Satta, ma ricchi di correzioni e varianti che riguardano talvolta interi versi: si tratta di 39 liriche, di cui 12 muttos. Più in dettaglio, le poesie furono pubblicate nelle raccolte giovanili o nei Canti, mentre i muttos provengono prevalentemente dalla rivista «Nuova Antologia», dal numero speciale del quotidiano «L’Isola» e da «Il Giornale d’Italia»:

Nella terra dei Nuraghes: Disperata, Elegos (Heu miserande). Canti barbaricini: Le barba-ricine (Notte di San Silvestro, Una cantoniera , Intima, Presso Marr […] → Cala Gonone, Meriggio, Nella tanca, Sull’Ortobene). Sonetti di primavera: Alba. Colloqui coi morti: Il pa-store. Le selvagge: Il ritorno, Disperata nuziale, Ditirambo di giovinezza, Vespro di Natale, Il voto, La sposa. Antelucane: Il canto della bontà, Lepa e vomere. In lode di Francesco Ciu-sa: Lo scultore. Le Icnusie: Il bove, Il seminatore, L’Alternos , Apparizione di Gesù ai mieti-tori. Canti del salto e della tanca: Il palo telegrafico, Piccole anime, Emigranti, Ai poeti di Sardegna. Muttos: Sposa, Primavera, Amori lontani, La portatrice d’acqua, Il violento, Amore lontano, La madre, Nuoro d’inverno, L’ospite, A Vindicino, Gli usignoli, Le donne di Torpè.

Alcuni componimenti non hanno subìto correzioni rispetto a quelli pubblicati, mentre altri sono stati vistosamente modificati: alcuni solo nel titolo, altri anche nei versi. Ciò rende particolarmente interessanti queste poesie, appunto modificate, che Simona Pilia definisce «varianti d’autore». Proprio la lettura di queste varianti ci dà un’idea chiara sul modo di lavorare del poeta: troviamo infatti liriche in fase di formazione, con le relative correzioni e i ripensamenti.

Infine, di quella che è considerata l’ultima opera del poeta, Ai rapsodi sardi, viene riportata solo la parte finale col suo titolo originario: Ai poeti della Sardegna. Le variazioni rispetto alla versione pubblicata nella silloge dei Canti del salto e della tanca sono talvolta profonde. I muttos contenuti nel quaderno rappresentano solo una piccola parte della produzione sattiana. Prendono spunto dalla poesia sarda, ma sono caratterizzati da una certa originalità. Alcuni sono poco conosciuti mentre altri sono rimasti parzialmente inediti.

Dunque come sostengono Giulio Paulis e Immacolata Pinto «…il mutu è un componimento, normalmente di versi settenari, la cui struttura strofica presen-ta la divisione in due parti distinte: l’istérria e la torrada. Di essi, l’istérria ha una funzione puramente metrica e strumentale, servendo fondamentalmente a “stendere” le rime che dovranno essere tutte chiuse dalla torrada , la parte in cui si trova il vero messaggio trasmesso dal mutu. Di conseguenza essendo total-mente subordinati a tale compito essenzialmente metrico, i contenuti dell’istérria sono costituiti da un’immagine o da un pensiero (per lo più strani, bizzarri e addirittura senza senso) che spesso non hanno alcun rapporto e coerenza logica con l’immagine o il pensiero espressi nella torrada».14

Satta si impegnò felicemente in questa impresa riuscendo ad elevarla e a darle dignità artistica. I primi componimenti: Primavera, Cuori lontani, ancora Cuori lontani , Il bandito , Il nomade e La madre furono pubblicati su «La Nuova Antologia» del 1° aprile 1911, ottenendo un certo successo da parte della critica nazionale. A questo punto ci piace citare un muttu, contenuto nel quaderno, poco noto e in parte inedito, che venne pubblicato su «Il Giornale d’Italia» del 1° gennaio 1914 tra i Muttos di Capodanno. Il giornale infatti non editò sa torrada.

Il muttu è dedicato al sacro rito dell’ospitalità barbaricina. Nella Nuoro arcaica si sosteneva: S’istranzu est semper mandau dae Deus15. Il padrone di casa, dopo i convenevoli di benvenuto «bene benniu» e dopo aver messo il nuovo arrivato a suo agio, e invitato qualcuno di casa a governagli il cavallo, ordina alla moglie di preparare un desco. Muttu molto efficace nel descrivere il vero senso dell’ospitalità barbaricina.

L’OSPITE

 

Tordi grassi, pan fresco,

E vin razzente: ché verna

Cruda sera nevosa:

Tordi grassi, pan fresco.

 

Salute, ospite! Governa

Tu il cavallo, e tu, Rosa,

Attendi al fuoco e al desco.

 

Alcuni di questi componimenti sono stati ricompresi come «frammenti inediti» in un incorniciato riportato nella pagina speciale del quotidiano di Sassari «L’Isola» del 29 novembre 1924, stampata dal giornale nella ricorrenza del decimo anniversario della morte del poeta nuorese.

 

I ritagli

Nel quaderno, oltre i manoscritti, troviamo una serie di ritagli conservati senza un preciso ordine e riguardanti le collaborazioni poetico-giornalistiche su riviste e giornali sardi, ma anche a quelli della penisola come il prestigioso supplemento letterario del «Corriere della Sera» La Lettura.16

Si tratta di ritagli, in alcuni casi distribuiti in più pagine, talvolta ben conservati, a volte monchi o incompleti, non viene mai indicata la fonte e solo sporadicamente si individua la data di pubblicazione. In taluni casi si osserva che alcuni componimenti hanno subito profonde modifiche all’atto della loro pubblicazione. I ritagli di articoli di critica all’opera sattiana fanno parte dei rari interventi comparsi, su riviste e giornali specializzati, dopo la pubblicazione dei Canti barbaricini. Tra i ritagli di critica troviamo gli interventi del giornalista e critico come Mario Pilo, di certo Tristano che scrive su una rivista francese (sotto questo pseudonimo potrebbe celarsi Annibale Grasselli), ancora di Francesco Cucca ed infine di Triboulet II, tratto dalla rivista «Il Viandante». Il medesimo articolo firmato Tristano, ma tradotto in italiano, è siglato s. m. in un altro ritaglio.

Troviamo inoltre altri articoli ritagliati con tutta evidenza da riviste specializzate, tra cui uno firmato da Tagliacarte, che recensivano i Canti barbaricini appena pubblicati. Questi ultimi ritagli, tratti da quotidiani e riviste specializzate di diffusione nazionale, sono stati raccolti con molta cura, tanto da far pensare che per Satta rivestissero particolare interesse.17 Altri ritagli comprendono al-cune collaborazioni di Satta a riviste o giornali, come pure vertono sulla sua attività professionale, o ricordano l’esordio nella Corte d’Assise di Sassari, altri riguardano la sua sfera familiare (nascite, auguri o fatti luttuosi), altri ancora la sua malattia e la successiva riabilitazione. Un ritaglio che molto probabilmente rivestiva molta importanza per il poeta, riguarda la pubblicazione di una lettera del professor Giovanni Marradi in cui ricorda il suo allievo del Liceo Azuni di Sassari. Infine ritagli di collaborazioni, molto sapide e pungenti, con una rivista sassarese cui era molto affezionato «Il Burchiello», nonché articoli scritti da amici in ricordo della giovinezza da spensierato goliardo trascorsa nella sua se-conda patria: Sassari.

 

Alcune curiosità

Oltre le poesie manoscritte ed i ritagli ci imbattiamo in un Canovaccio per un indice forse abbozzato nella fase preparatoria dei Canti barbaricini. Nel primo foglio campeggia la scritta Dedica, con evidente riferimento A Vindice mio figlio…, e prosegue con Don Chisciotte, sonetto cha fa da Preludio ai Canti. Segue il ciclo de I colloqui dei morti ove compare il titolo di una poesia sconosciuta, Il povero, mai pubblicata, mentre nell’elenco non compaiono La fanciulla e Il pastore. Se-guono i Sonetti di primavera : oltre i titoli delle poesie che li compongono si trova L’anziano, componimento sconosciuto e mai pubblicato. Poi vi sono Le leggende pastorali complete, mentre segue il trittico In lode a Francesco Ciusa, preceduto da Sgelo, nello stesso ordine della raccolta le Antelucane. Si prosegue con Melodie sel-vagge, che nei Canti barbaricini vengono indicate semplicemente come Le selvagge. I titoli delle Melodie riportano sul lato destro una numerazione disordinata che va da 1 a 11, forse aggiunta successivamente al fine di correggere l’ordine dei brani e riportarli alla successione, con la sola posposizione tra i numeri 6 e 7 dell’edizione dei Canti barbaricini . Da notare che il titolo Alle madri non fa nessun riferimento né alla Barbagia né alla Sardegna. Altro particolare interessante sembra il titolo incompleto e cancellato di Notte nel villaggio. Molto probabilmente il componimento, contenuto tra gli inediti, non è stato valutato degno di pubblicazione tra Le selvagge. L’indice, passando oltre, riporta in ordine sparso i titoli di poesie contenute nei cicli de: Le Barbaricine (12), Le Icnusie (3), Sonetti di primavera (1), Antelucane (4). L’appunto chiude con Ode al Gennargentu.

Come è possibile osservare, l’indice è vergato calligraficamente, costellato di cancellature e di ripetute incertezze di attribuzione ai vari cicli che compongo-no i Canti barbaricini. Troviamo anche un articolo, satireggiante e ricco d’umorismo, ispirato da una incauta affermazione dell’on. Giovanni Rosadi18 che, intervenendo alla Camera dei deputati, aveva preso un abbaglio definendo i nuraghi «una associazione di malviventi sardi». Da questa incredibile notizia, Sebastiano Satta aveva tratto l’ispirazione per uno scritto gustoso e divertente che fu inviato a Salvatore Barore Scano, direttore del foglio goliardico e umori-stico di Sassari «Il Burchiello», con la premessa: «Nella mia solitudine ho pensa-to di compilare una specie di referendum dei più illustri italiani…».

Concludo con la speranza di aver dato un piccolo contributo alla conoscenza di questo grande nuorese, venerato dai suoi concittadini in vita ma purtroppo, col passare degli anni, quasi dimenticato in patria e fuori.

A parte qualche rara eccezione, infatti, nel febbraio di quest’anno, due studiosi americani: James Scudamore e Ravi Shankar, hanno annunciato che, nel corso di una loro visita nell’isola nel 2014 il viaggio:

…assunse l’aspetto di un’immersione in vari aspetti della cultura sarda […] Abbiamo anche scoperto le opere di grandi scrittori e artisti dell’isola, tra i quali Sebastiano Satta.

[…] Un impegnato socialista sulla linea di Pablo Neruda, Satta ha dedicato la sua vita a sostegno della classe lavoratrice dell’isola, mentre nella sua poesia (come Versi Ribelli e Canti Barbaricini) ha celebrato il territorio isolano, specialmente la zona della Barbagia.

Il risultato di questa immersione ha portato, come sfida, alla traduzione in inglese di tre poesie del Satta: Il palo telegrafico, L’aquila, La lampana e un muttu Il falco. Queste traduzioni, che cercano di mantenere la liricità originale, sono state composte in Sardegna ed eseguite presso la galleria all’aperto dello scultore Pinuccio Sciola.

 

 

BIBLIOGRAFIA

AA.VV. 1964, Sebastiano SattaAlbo celebrativo nel 50° anniversario della morte, Cagliari, Editrice sarda F.lli Fossataro.

DEFFENU 1972, Attilio D., Epistolario 1907-1918, a c. di M. Ciusa Romagna, Cagliari, ed. Fossataro.

FALCHI 1921, Luigi F., Poesie minori inedite o sconosciute del grande Poeta sardo, «Il Giornale d’Italia», Roma, 25 dicembre.

MANCA 1996, Dino M., Voglia d’Africa. La vita e l’opera di un poeta errante, Nuoro, Il Mae-strale.

MANCA 2014, Dino M., Tra le carte degli scrittori. I manoscritti della Biblioteca Universitaria di Sassari, Filologia della letteratura degli italiani, Sassari, Edes.

PAULIS, PINTO 2013, Giulio P., Immacolata P. (a cura di), Etimologia fra testi e culture, Mi-lano, Franco Angeli.

SATTA 1910, Sebastiano S., Lia, «La Lettura», X (gennaio), Milano.

SATTA 1951, Salvatore S., Spirito religioso dei Sardi, «Il Ponte», 1951.

SORO 1926, Vincenzo S., Sebastiano Satta. L’uomo, l’opera, Cagliari, Edizioni il Nuraghe.

 

*Tratto dal volume: L’isola antica che s’incela. Dall’Ortobene a monte Atha, a cura di Dino Manca, edes ed., Sassari 2017.

1 SORO 1926, pp. 10-11.

2 Cfr. MANCA 2014, p. 119.

3 FALCHI 1921

4  AA.VV. 1964, pp. 87-89.

Ivi, p. 88.

6  Così Attilio Deffenu informa l’amico Francesco Cucca: «Da parecchi giorni io ho il sommo piacere di passare assieme a lui buona parte della giornata, giacché m’ha fatto l’onore di presce-gliermi, assieme al mio fratello Alfredo e all’amico Bustianu Manconi, come revisore, per così dire, dei suoi versi [...] che sono pressoché riordinati e pronti ad essere dati alle stampe». Cfr. DEFFENU 1972, p. 17.

7 Cfr. MANCA 2014.

8 V. SORO, op. cit., p. 11.

9  9. AA.VV. 1964, p. 88.

10  10, Gavino Pau scrisse che Cucca «spesso, per necessità di lavoro, viveva in foresta, portandosi appresso una sua biblioteca ambulante» (Francesco Cucca: la vita, le opere, la critica, opera inedita). Sulla personalità e l’opera di Francesco Cucca cfr. MANCA 1996

11  Versi posti in apertura dei Canti barbaricini: «Io ti veda calar dal Gennargentu / con un cavallo innanzi e l’altro dopo, / e baldo, con la tua pipa d’ottone!».

12  Salvatore Satta così argomenta sul tema: «mi sono chiesto se noi crediamo veramente in Dio.

È una domanda alla quale è difficile rispondere, perché bisognerebbe intendersi sull’idea di Dio».

CFR. SATTA 1951.

13  Nel quaderno il verso manca. Il verso è stato recuperato da una raccolta di autografi del poeta conservato nella sezione sarda della biblioteca «Sebastiano Satta» di Nuoro.

14 PAULIS, PINTO 2013, p. 163.

15  Il forestiero [o l’ospite] è sempre mandato da Dio.

16 SATTA 1910.

17  I ritagli dei giornali e riviste di livello nazionale, con ogni probabilità, venivano forniti al poeta dall’agenzia di ritagli di giornali e riviste «Eco della stampa» di Milano di cui era abbonato o dal fratello Giuseppe, alto funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia, che risiedeva a Roma.

18 GIOVANNI ROSADI (Lucca 1862-Firenze 1925): eletto deputato per la prima volta nel 1900, fu rieletto ininterrottamente per sei legislature. Dalla biografia pubblicata sul sito della camera dei Deputati apprendiamo trattarsi di un avvocato, letterato e scrittore. Nel 1914 fece parte del go-verno Salandra come sottosegretario alla Pubblica Istruzione.

 

 

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