Giovani sardisti nel 1946, la testimonianza di Simonetta Giacobbe, con la presentazione di Gianfranco Murtas

«Non è un dibattito solo accademico… quella certa mancanza di sentimento di Patria», evviva il sardismo, abbasso il sardismo. Ricordando Simonetta Giacobbe (Gianfranco Murtas). Una nota del direttore di questo sito.

Sono trascorsi già quattro anni dalla scomparsa di Simonetta Giacobbe. Nel gran passo aveva preceduto di poche settimane soltanto il mio Bachisio Zizi, altro grande nuorese e barbaricino. Anche Simonetta Giacobbe, figlia di gran famiglia, madre di gran famiglia, sorella e moglie di grandi personalità, apparteneva al mio mondo ideale. L’eleganza del tratto era l’eleganza della sua anima, tutti confermerebbero. Veniva da una educazione morale e civile che era superiore e richiamava tutti con il carisma dell’esempio. L’ho stimata ed amata come persona e come intellettuale democratica, autrice o curatrice di libri, magnifici quelli sulla relazione d’amore e ideali dei suoi genitori.

Sarà sconveniente, però mi domando quale eleganza morale e civile possa mai entrare nei sogni di chi ha affiancato la storia del Partito Sardo d’Azione a quella della Lega, il presente delle due formazioni. Di chi ha affiancato i simboli fra loro, dopo che una bandiera fu offerta nientemeno che a Berlusconi anni addietro. Potrà una certa notte irrompere Lussu e con lui potranno irrompere Mastino e Oggiano, e Titino Melis e tutti i Melis, Elena e Ottavia e Pasquale e Mario…, e i magnifici Giacobbe e Zuddas, Pintus e Puggioni, e Contu, quelli di GL, e Davide Cova… impossibile contarli, Bellieni e Fancello e Siglienti, Angius e Sale e Soggiu e Puligheddu e Ruju… sardisti tutti e sempre, anche oltre la tessera, insieme con la moltitudine di quelli che ci hanno creduto davvero, ed hanno sofferto per la militanza e più ancora per gli ideali che soffiavano sulla bandiera… Potranno irrompere e negare la loro solidarietà ai nuovi che si dicono dirigenti – dirigenti? – e tristemente rassomigliano ai fasciomori di quasi cento anni fa. Valeva, la legge del miliardo contro i ristagni e le zanzare, e certo anche l’arsura di abitati e campagne, vent’anni di dittatura, le leggi razziali e le distruzioni della guerra ariana?

Dopo i fascisti i leghisti, quelli che volevano dividere l’Italia in porzioni e benedire la repubblica della Padania con l’acqua attinta alla foce del Po e raccolta/custodita nell’ampolla come il sangue di San Gennaro o di San Garibaldi dell’Aspromonte. Salvo poi cambiare idea. Come se un cattolico andato in crisi non pensasse di orientarsi verso una chiesa evangelica riformata ma pensasse alla religione di Scaramacai, per rivedere poi le sue scelte, tornando al Nazareno e ignorando l’importanza dei cosiddetti fondamentali.

Ho ritrovato, riordinando un comparto del mio archivio – quello dell’antifascismo democratico, del regionalismo repubblicano, azionista e sardista – un intervento sobrio ed appassionato, lucido e riflessivo, di Simonetta Giacobbe. Dico di Simonetta Giacobbe, compagna di vita di Michele Columbu, erede lei dei talenti com’erano stati anticipati dal sentimento all’universo mondo, quel certo giorno in cui a quel beato impasto di infanzia virtuosa era toccato di vedere ed ascoltare il pur onorato vescovo Cogoni che scomunicava col fuoco degli occhi e della parola gli antifranchisti… (leggere o rileggere da Piccole cronache di Maria Giacobbe, nella edizione nella edizione Laterza del 1975, le pagine super da 212 a 216). L’intervento di Simonetta è di ventidue anni fa – la data esatta è il 17 giugno 1996, agli Amici del libro di Cagliari.

L’associazione culturale più prestigiosa del capoluogo aveva organizzato, insieme con la “Cesare Pintus”, la presentazione di un mio libro dal titolo semplice e squillante: 1946, l’anno della Repubblica. Preparando l’evento, che onorava un cinquantesimo da meditare, avevo suggerito che si andasse più per testimonianze, per racconto di esperienze dirette, che non per recensioni più o meno di conforto narcisistico dell’autore di un nuovo volume da mettere in biblioteca. E dunque: La Chiesa e il Giornalismo, l’Impresa e la Politica, la Scuola e il Sindacato, la Vita quotidiana in Sardegna alla vigilia della svolta referendaria, ecco il titolo da dare alla serata. Avevamo invitato a prendere la parola Walter Angioi ed Ottavio Cauli, Giovanna Crespellani e Salvatore Pirastu, Achille Sirchia e Marcello Tuveri, e con loro Gianni Filippini e Antonio Romagnino. E… Simonetta Giacobbe appunto.

Ecco il suo intervento.

Giovani nel 1946

«Quegli antifascisti erano la mia famiglia allargata… sentivo l’orgoglio della sardità, ero l’erede ideale di quei valorosi che dopo la Prima guerra mondiale si erano messi insieme attorno a una grande idea di riscatto per la nostra terra… Il separatismo mi sembrava il progetto di una sorta di cancellata che si volesse chiudere attorno alla Sardegna»

Fra i tanti studi che ci hanno offerto occasioni di riflessione sui cinquant’anni della Repubblica si avvertiva la mancanza di un libro come questo di Gianfranco Murtas, che incentra il suo interesse su quanto è avvenuto in Sardegna in quel cruciale 1946.

Pur non avendolo ancora letto, perché fresco di stampa e non ancora in circolazione, so che vi troverà l’esatta e puntuale documentazione che è propria dei libri di Gianfranco Murtas – su idee, dibattiti, fatti e persone di quel tempo, che mi consentirà una pacata rivisitazione di una stagione vissuta con tumultuosa partecipazione ma giovanile inesperienza.

Gianfranco Murtas fonda le sue ricerche sul documento, sull’esattezza del fatto e della data, sulla circostanza provata, ma a me e ai signori qui presenti chiede una testimonianza personale, con ciò rivelando un interesse al vissuto, che è proprio delle più moderne correnti storiografiche.

Ma una testimonianza non è un “come eravamo” aneddotico e sentimentale e neppure un rivangare lotte e polemiche di un momento tempestoso risvegliandone la passionalità, bensì un “come eravamo” che, pur con i limiti della limitatezza dell’osservatorio, assomigli a una riflessione che ci riguardi personalmente e insieme includa il pensare e il fare di quanti erano con noi e ora non sono qui.

Come eravamo noi giovani di allora, di quel cruciale anno 1946? Come ero io, e quanto la mia storia personale aveva in comune con quella dei miei coetanei?

Non è facile dire. Certamente mi differenziava l’essere nata in una famiglia di antifascisti che considerava la libertà un bene irrinunciabile e in cui le parole chiave della politica – libertà e giustizia sociale – sebbene sussurrate sotto voce, facevano parte del lessico familiare.

Vivevo a Nuoro, una città piccolissima, allora, ma per nulla sonnolenta anche se geograficamente decentrata, sede del più nutrito gruppo di antifascisti della Sardegna. Quegli antifascisti – Oggiano, Francesco e Filippo Gatta-Galfré, Antonio Dore, la famiglia Melis, Mastino, Pinna, Mannironi – erano la mia famiglia allargata, erano gli interlocutori che nel lungo esilio di mio padre avevano rappresentato un punto di riferimento.

In tempi in cui la cultura politica ufficiale era filtrata e orientata e ben pochi libri si erano salvati dalle  perquisizioni poliziesche che il fascismo periodicamente ci infliggeva, la cultura politica libera era affidata prevalentemente all’oralità e da quegli antifascisti appresi molto. Ma nella necessità di fare fronte comune contro la dittatura, i loro discorsi vertevano più sugli ideali condivisi che sulle ideologie che in un lontano passato avevano ispirato le loro scelte. L’antifascismo, pur essendo un “anti” era diventato un valore fondante.

Fu così che non appresi, e nella mia ingenuità lo scoprii dolorosamente quando si scatenò la lotta politica, che cosa separava i socialisti Filippo e Francesco Satta-Galfré dal democristiano Salvatore Mannironi o dai comunista Antonio Dore o dai sardisti Oggiano, Melis e Mastino, quanto di giustizia e quanto di libertà auspicasse ognuno di loro, quanto di regionalismo e quanto di internazionalismo bastasse a trasformare una vecchia, nobile amicizia in opposizione crudele.

Condividevo con i miei coetanei – soprattutto con alcuni giovani comunisti con i quali avevo vissuto le speranze e le ansie dal ’43 in poi – il rammarico che la Sardegna avesse perduto l’occasione di partecipare alla liberazione dell’Italia e dell’Europa dai tedeschi e non ci abbandonava il risentimento nei confronti di chi avrebbe dovuto – militari e/o antifascisti dì grande prestigio – impedire, o tentare di impedire, che i trentamila tedeschi, che l’8 settembre si trovavano in Sardegna, lasciassero l’isola, con tutte le loro armi, non per tornare alle loro famiglie in Germania ma per rafforzare le armate che martoriavano l’Alta Italia.

Condividevo la mancanza di aggiornamento sulla strada percorsa dal resto del mondo durante il ventennio: la Russia continuava ad essere la mitica terra della grande rivoluzione e l’America la mitica, anch’essa, patria delle grandi libertà di tutti i popoli.

Condividevo l’astrattezza e l’ inesperienza che ci portavano a confondere la realtà con i desideri, il progetto con l’utopia; a sottovalutare o sopravalutare le difficoltà; a essere intolleranti o eccessivamente arrendevoli nei confronti delle opinioni altrui.

In molti di noi l’ingenuità e l’entusiasmo si trasformavano in integralismo: io ero sardista per scelta e per tradizione familiare e mi pareva che abissi incolmabili mi separassero dai giovani liberali, dai giovani democristiani, dai giovani comunisti, per non parlare dei giovani monarchici. E sicuramente anche molti dì loro sentivano allo stesso modo.

Con i miei giovani compagni di partito – il Partito sardo d’Azione – i punti di convergenza e i punti di divergenza uscivano dal generico. Sentivo come loro l’orgoglio della sardità e il sentirmi erede ideale, insieme a loro, di quei valorosi che dopo la Prima guerra mondiale, si erano messi insieme attorno a una grande idea di riscatto per la nostra terra.

Mi separava, invece, proprio il limite “nostra terra” che per me iniziava dalla mia Nuoro e dalla mia Sardegna ma si estendeva a spazi molto più vasti che comprendevano, quanto meno, l’Europa. Ricordo alcune lettere che nel ’45 nostro padre scriveva a noi figli dall’esilio americano spiegandoci che cosa fosse il federalismo, come nascesse da collegamenti e rapporti fra paesi, città è regioni autonome e come poi diventasse collegamento e rapporto fra stati pur sempre autonomi, nella prospettiva che mai più una guerra ci mettesse gli uni contro gli altri e che nessuno stato della federazione rompesse i patti di democrazia per correre l’avventura di una dittatura.

Con un progetto così vasto nel cuore non potevo che inorridire alle affermazioni dei miei compagni separatisti.

In un convegno che si è tenuto alcuni giorni fa in occasione della presentazione del secondo volume di “Sardisti”, di Salvatore Cubeddu, si è negato che la componente separatista abbia mai avuto riconoscimento ufficiale e peso nelle direttive del P.S.d’Az., si è affermato addirittura che il separatismo sia stato quasi soltanto uno spauracchio agitato dagli oppositori interni ed esterni al partito.

Non ho difficoltà ad accettare la prima parte di quest’affermazione e non entro in polemica sulla seconda, sebbene in qualche modo mi coinvolga in quanto anche io fui tra gli oppositori interni e poi fra quelli esterni al partito. Ma affermo che il separatismo c’era ed era una corrente forte e importante.

Forse, come ha detto Palermo, l’attuale segretario politico del P.S.d’Az., in quello stesso convegno, il separatismo rappresentava e rappresenta una delle tante anime del Sardismo che proprio da questa molteplicità traeva e trae linfa.

Se oggi posso guardare al separatismo come un eccesso di sardismo – mi si passi l’espressione – tutto sommato innocuo e che trova terreno fertile nelle anime più generose, allora, per l’integralismo che ho ammesso di aver avuto, il separatismo mi sembrava il progetto di una sorta di cancellata che si volesse chiudere attorno alla Sardegna.

Qualche giorno fa, l’amico Murtas mi ha fatto avere la fotocopia di un numero del Solco dedicato alla cronaca e alle relazioni del Primo Congresso giovanile sardista tenutosi a Macomer nel maggio del ’46.

Sorvolo sul detto, ossia sulle relazioni e sul non-detto, altrettanto eloquente, relativo alla questione istituzionale e alle inquietudini che pure serpeggiavano all’interno del partito (sull’ alleanza o meno col Partito italiano d’azione, sull’ interclassismo o il socialismo del partito), ma mi soffermo a un’osservazione di costume che credo più indicativa sul “come eravamo” allora.

Nonostante la combattività e la partecipazione che noi donne avevamo esercitato nelle sezioni           durante l’elaborazione delle tesi congressuali, nessuna donna era stata delegata a portarle al congresso e nessuna di noi aveva partecipato al dibattito.

Come se le sezioni avessero rappresentato il privato, una sorta di prolungamento della casa, dove c’era permesso pensare e agire, e il congresso, invece, avesse rappresentato il pubblico, spazio riservato agli uomini ai quali per altro era riservata la carriera politica che ne sarebbe seguita.

La cultura dell’emarginazione delle donne dall’attività pubblica, e l’accettazione di questa emarginazione da parte delle donne stesse non era stata ancora disvelata.

E venne il tempo del Referendum. Io non avevo ancora l’età per il voto e la cosa mi amareggiava ma non mi impediva di partecipare al dibattito ovunque e ogni volta che se ne presentasse l’occasione. Ma la partita mi pareva sbilanciata: mi pareva che i monarchici avessero manifesti più belli, con la famiglia reale al gran completo di una bellezza quasi irreale col biondo di tutti quei bambini innocenti, manifesti davanti ai quali veniva spontaneo chiedersi con che cuore si poteva cacciarli; avevano slogans più efficaci: Repubblica uguale salto nel buio al quale, nel nuorese, si aggiungeva sarcasticamente l’espressione “essere a Repubblica” uguale a essere senza regole.

Ma – tornando a un discorso meno infantile – effettivamente giocava a favore della Monarchia l’impreparazione, diffusa e palpabile ancorché impossibile a fronteggiare in tempi brevi, davanti a un tema di quella portata. E di impreparazione ce n’era in abbondanza.

Naturalmente non voglio dire che una scelta a favore della Monarchia fosse, o sia ancora oggi, necessariamente frutto di impreparazione, ma semplicemente che allora non erano pochi quelli che in una pilotata confusione tra divino e umano dichiaravano di non voler commettere il peccato di schierarsi contro il re. Dio in cielo e il re in terra, dicevano, col tono di enunciare una verità sacrosanta. E davanti a questo penoso equivoco si era impotenti.

In Sardegna, il Referendum ci fu contro e segnò una nostra schiacciante sconfitta. Per noi donne la sconfitta fu doppia: nei discorsi della gente e anche in quelli di molti opinionisti repubblicani, sardisti compresi, la causa della débacle era da ricercarsi nell’ inesperienza delle donne, nuove al voto. Come se non si fosse potuto dire altrettanto per gli uomini, digiuni di voto da almeno vent’anni.

Comunque, nell’insieme del territorio nazionale la Repubblica si era affermata. Senza traumi e con grande compostezza. L’Italia poteva avviarsi serenamente verso La rinascita. Si lasciava alle spalle un’epoca tragica e la sua fine rovinosa. Aveva davanti a se un paese che voleva risorgere dalle rovine morali e materiali della guerra. A noi basti il ricordo di Cagliari, che risorse quasi miracolosamente in tempi brevissimi e in assenza di aiuti pubblici.

Col voto del 2 giugno, insieme al Referendum istituzionale deponemmo un’altra pietra di fondazione della democrazia con l’elezione dell’Assemblea costituente.

Alla Repubblica e alla Costituzione, che esprimevano l’uomo nuovo nato dalla lotta alla dittatura, affidavamo il compito di rinsaldare il senso di identità nazionale svuotato dalla retorica fascista e lacerato dalla guerra perduta.

Ma oggi, dopo cinquant’anni e al di là delle parole, non sappiamo se e quanto bene questo compito sia stato assolto. Questo è il grande tema sul quale ci si interroga e purtroppo non è un dibattito solo accademico. Le minacce di secessione non sono che la punta emergente di un malessere che permea l’Italia: i cittadini che non si riconoscono nello Stato, per altro colpevole e ingiusto, le regioni che negano il tessuto di una Storia comune ed enfatizzano le diversità, il Nord che non vuole più avere a che fare col Sud, la Sicilia che riscopre un suo passato separatista, sono sintomi di una mancanza di quel che si chiama senso comune di appartenenza, mancanza di sentimento di Patria.

Come ciò sia potuto accadere trova spiegazione nella storia recente e in quella più lontana dell’Italia ma non ne diminuisce la gravità.

La necessità che si era presentata al momento dell’Unificazione italiana, di fare gli italiani dopo aver fatto l’Italia, si ripresenta oggi con rinnovata drammaticità.

*****

Caro Gianfranco,

come vedi ho immesso, come sottotitolo, il titolo che avevi posto al pezzo, cosa mai successa nella lunga storia della tua collaborazione con noi. Come direttore del sito, lo ritengo rispettoso nei confronti di Simonetta Giacobbe, il cui scritto andiamo a presentare; come ‘opinionista’ – nel senso di un ‘sardista’ che, come te, scrive di storia del sardismo – mi sembra che il titolo, ora sottotitolo,  rappresenti l’attualità come tu la vedi, meno quella della scrittrice-conferenziera.

L’elenco dei nomi che tu proponi come ‘eroi positivi’ (vedo che manca Michele Columbu, il “separatista”, per molti degli “altri”) è fatto da persone meravigliose sotto molti aspetti, ma che, a motivo della loro interpretazione e personale vissuto del sardismo, si sono tra loro lacerate e combattute con termini, e conseguenti scelte, rispetto alle quali quanto scrivi sul presente rapporto tra PSd’Az e Lega sono poco più che  colpi di fioretto.

Ma anche Simonetta Giacobbe non ne fa mistero, anche se, pudicamente, lo rivolge solo non-sardisti. Leggiamola:

… Fu così che non appresi, e nella mia ingenuità lo scoprii dolorosamente quando si scatenò la lotta politica, che cosa separava i socialisti Filippo e Francesco Satta-Galfré dal democristiano Salvatore Mannironi o dai comunista Antonio Dore o dai sardisti Oggiano, Melis e Mastino, quanto di giustizia e quanto di libertà auspicasse ognuno di loro, quanto di regionalismo e quanto di internazionalismo bastasse a trasformare una vecchia, nobile amicizia in opposizione crudele.

……

Forse, come ha detto Palermo, l’attuale segretario politico del P.S.d’Az., in quello stesso convegno, il separatismo rappresentava e rappresenta una delle tante anime del Sardismo che proprio da questa molteplicità traeva e trae linfa.

Se oggi posso guardare al separatismo come un eccesso di sardismo – mi si passi l’espressione – tutto sommato innocuo e che trova terreno fertile nelle anime più generose, allora, per l’integralismo che ho ammesso di aver avuto, il separatismo mi sembrava il progetto di una sorta di cancellata che si volesse chiudere attorno alla Sardegna.

……

Viviamo in tempi di un feroce scontro politico (ma quand’è che non è stato così in Italia?). La tua prefazione all’articolo dimostra che vi partecipi.

Sai come me che le tue accuse di oggi sono state precedute da analoghe, anche peggiori, rivolte gli uni contro gli altri nelle occasioni in cui il PSd’Az, nei lunghi oramai cento anni della sua esistenza, ha ‘dovuto’ fare accordi elettorali con ‘partiti italiani’, di destra e/o di sinistra.

Tante le forme ed i motivi. Ne rileverei uno, come essenziale, che sottostà, quale tema di fondo, a tutti gli altri: la Patria.

Sono esistite ed esistono tante organizzazioni/associazioni politiche e culturali che definiscono se stesse sardiste. Anch’esse domandano l’esclusiva e sottolineano le differenze. Una cosa le accomuna. Il considerare la Sardegna la loro patria ‘principale’, fondamentale, primigenia.

Poi, per tanti ed in molti versi, la “nostra patria è il mondo intero”. Anche. Ma, se  vogliamo essere precisi, io inizio a chiamare patria quella terra che contiene il popolo con cui condivido la storia, parlo la lingua, nutre e sostiene i miei figli. E che ho scelto, aperto al fatto che altri possano sceglierla.

Buona domenica. Ciao.

s.c.

P.S: Quanto ai temi dell’attualità politica, avremo modo di continuare il confronto.

 

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