Metti un pomeriggio nel carcere di Bancali, di Benedetto Sechi

 

Entrare in un carcere e trovare una umanità insolita, nei volti dei detenuti, nei loro sorrisi che non ti aspetti e perfino nei modi gentili degli agenti della penitenziaria.

Un pomeriggio di fine maggio, di questo 2018, nel carcere di Bancali, a Sassari, per una rappresentazione teatrale messa su, con gli “ospiti” della Casa Circondariale Bacchiddu, da Vittorio e Alessandro Gazale.

Il carcere di Bancali è nuovo, fa impressione da fuori per quanto è mastodontico, una fortezza inespugnabile, con dentro uomini e donne che sopravvivono in ogni modo a quella situazione.

Ricordo sempre che mia madre, parlando delle disgrazie che possono accadere nella vita mi diceva: “ la garera è fatta pà li cristhiani”, volendo dire che può capitare a tutti di finirci dentro, per colpa o per errore; quindi, ammoniva, non si dovrebbe mai gioire per chi sta in quella condizione.

L’idea della rappresentazione teatrale, nasce dal lungo lavoro di un gruppo di detenuti che si sono appassionati ad un progetto, realizzato rovistando carte nelle cantine e nei sotterranei di diversi istituti di pena, ma principalmente nel vecchio carcere di San Sebastiano, noto ai sassaresi come “casanza”.

Faldoni maleodoranti ed impolverati che racchiudevano le vite e le storie di tanta gente, di detenuti e condannati certo, ma anche delle loro famiglie e perfino delle loro vittime. Si tratta di storie rimaste sepolte li, loro hanno il merito  di averle fatte rivivere, un omaggio alla sofferenza e al dolore di tanti che non ci sono più e di alcuni che ancora possono raccontare.

Storie delle colonie penali sarde, quando “sbattere in Sardegna” qualcuno era una punizione aggiuntiva alla pena. Significava non poter avere contatti con la  famiglia. Nelle colonie penali sarde si sperimentava il lavoro agricolo, quello dell’allevatore. Una condizione non facile per le regole rigide e di sfruttamento cui erano sottoposti i detenuti.

Tra quelle carte, storie complicate, ma anche semplici, lettere mai partite, lette solo dal censore di turno, solitamente il cappellano, che decideva se fosse il caso di spedirle ad una mamma o ad una moglie o di far leggere al detenuto, a quel numero di matricola, quello che in famiglia, oltre le quattro mura, stava accadendo.

Lettere mai lette e mai partite. “Carte Liberate” è il nome del volume che, anche grazie all’editore Carlo Delfino, raccoglie gran parte di quelle storie. Un titolo che, mai come questo, rende, anche visivamente,  il senso vero del lavoro portato a termine.

Sono stati bravi a mettere in scena e a recitare questo  lavoro svolto da novelli archivisti. Ma come si diventa archivisti per caso? Un lavoro da topi da biblioteca, ho sempre pensato; un lavoro, invece, che si può fare solo se nasce l’amore per quelle “carte”, per quelle storie, raccontate a volte anche solo da un modulo, a prima vista freddo, che raccoglie le informazioni necessarie ad inquadrare lo status di recluso.

Certo, mi è sembrato strano vedere detenuti che interpretano altri detenuti. Interpretare se stessi, in fondo, non è cosa facile. Non lo è per nessuno, ma penso debba essere difficile ancora di più, per chi da quella condizione vorrebbe uscirne e dimenticarla.

E’ stata straordinaria la performance. Stavano sul palco, contemporaneamente,  in tredici, senza mai sovrapporsi, srecitando ognuno il proprio ruolo, con ilarità e risate a volte, ma anche con commozione e tenerezza, mentre leggevano alcuni brani e liberavano quelle carte. Le liberavano e le trasferivano nella mente e nella memoria di ciascuno di noi.

Si intrecciavano storie e temi anche attuali. Il lavoro negli istituti di pena, l’unico modo per dare un senso a quella condizione di uomini “conservati”, altrimenti dediti all’ozio, che è la condizione più pesante per il detenuto, diceva uno di loro.

Nel mentre recitavano e interpretavano, pezzi delle loro storie personali affioravano lentamente. Una compagnia teatrale internazionale si potrebbe dire: sardi, veneti, albanesi, indiani, egiziani.

C’era chi si sentiva un pò più libero, pur rimanendo in carcere, solo perché finalmente finivano lunghi anni del 41/bis e dell’isolamento. Chi raccontava di una evasione, poi evidentemente conclusa male.

Il lavoro di raccolta ha una sua colonna musicale. Impropriamente la chiamo così. Infatti Piero Marras, un cantautore cui sono particolarmente affezionato, ha tratto da queste storie, una quindicina di canzoni, che toccano l’anima nel profondo.

Piero Marras ha scritto tante belle canzoni, nella sua lunga carriera artistica. Ma alcune di queste, legate a “Carte Liberate”, che ho avuto la fortuna di ascoltare, sono certo saranno ricordate tra le più belle.

Ti emozionano, per i testi, per la melodia, ma soprattutto per come lui le propone, vengono fuori dall’anima, non sono il frutto di un lavoro commerciale, ma di un sentimento artistico nato dentro quelle storie e con queste persone, in carne ed ossa.

Una in particolare, che rievoca il cosiddetto ergastolo ostativo (ho imparato oggi): è quella pena che non ha mai una fine. Una condizione senza speranza. Ma si può togliere ad un uomo la speranza? Ho sempre pensato che in quella situazione preferirei la morte.

Dicevo, di un pomeriggio a Bancali, un posto che quando ci passi vicino, in auto, dai appena uno occhiata e poi tiri dritto, ti soffermi solo a pensare qualche istante che è pieno di gente, quell’agglomerato di edifici e sbarre, poi la mente se ne va altrove, quasi a voler cancellare la visione di quel posto, che non dovrebbe essere li.

Ecco, un pomeriggio lì dentro, a fare il pieno d’umanità, a riflettere sul fatto che sono luoghi che esistono davvero, che fanno parte della nostra quotidianità.

Certo, quasi sempre ci si finisce perché si è sbagliato, a meno che uno non sia condannato da innocente, il massimo delle ingiustizie.

Ma aveva ragione mamma, “me figliò, ammentaddi chi la garera è fatta pà li cristhiani”.

Benedetto Sechi

 

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