Il “Mare Nostrum” di europei ed africani nei versi di Angelo Pittau, di Gianfranco Murtas

E’ ancora giovane, con i suoi 78 anni abbondanti, e fecondissimo di idee, progetti ed opere don Angelo Pittau, presbitero della chiesa di Ales-Terralba. Presbitero – anziano (leader) di comunità cioè – e poeta, direi inestricabilmente, nella sua natura, presbitero e poeta, operaio e architetto e poeta: interprete del sentire sociale, ma con i panni dell’anticonformismo – mai preoccupato della temporanea impopolarità – ed educatore nato.

Un motore di iniziative, di programmi, di opere che si vedono e si toccano, e risolvono e, sempre, educano. E’ uno dei miei orgogli l’averlo incontrato, con utilità, quaranta, quasi cinquant’anni fa, al suo ritorno in Sardegna dalle periferie torinesi e dal Vietnam. E’ uno degli uomini, Angelo Pittau, che di più mi hanno segnato nei miei percorsi. E’ stato amico di Giuseppe Dessì, uno dei pochi, e l’unico prete – allora giovanissimo, studente della Pro Deo – ammesso nella casa romana dello scrittore. E’ villacidrese di solide radici campidanesi, sardo e cittadino del mondo, per le sue esperienze di vita, prolungate nel tempo, fra la capitale e l’Indocina, Marsiglia e Lione e Torino, per i gemellaggi che ha promosso fra la sua diocesi e il Ciad, e il Camerun, e la Tanzania, e l’Honduras, e l’Argentina, fra la Caritas affidata alle sue cure e l’isola di Haiti, e il Chiapas messicano…

Conosce l’economia delle campagne, dei nostri pastori ed agricoltori, conosce i ragionamenti delle banche e sa pilotarli, con genio negoziale, dalla parte del bisogno da soddisfare. Conosce “le” povertà “della” poliedrica povertà imprigionata fra i meridiani e i paralleli del mondo muovendo da quelli di Castangias e Lacuneddas, di Seddanus e Frontera, le povertà delle periferie e delle migrazioni (magari le migrazioni dei sardi nelle grandi città del continente e dell’Europa). Conosce la guerra, quella vietnamita e cambogiana più di quella captata da bambino nella casa o negli orti ad un passo dalla base d’aviazione burgunda a Trunconi, conosce i campi di morte e le aule delle università, conosce il lavoro manuale e faticoso di porti e cantieri e le complessità delle parrocchie di territorio (fiduciario una volta del cardinale Pellegrino un’altra del vescovo Tedde), conosce le mille declinazioni della sofferenza morale e materiale raccolta dai centri d’ascolto che ha fondato e diffuso nelle piane e sulle alture fra l’Oristanese e il Linas, conosce l’inconcludenza deviata di centinaia e centinaia di giovani – due generazioni ormai! – che ha riunito, con libertà e disciplina, nelle comunità di recupero, conosce l’impellenza di vecchi poveri e di malati di mente per i quali ha approntato strutture e formato operatori con professionalità e cuore di carne.

Con don Angelo, amico e confidente, ho pressoché concluso la stesura di un lavoro a stampa che, oltre ad essere il ripasso sinottico di una vita, è un inquadramento di mezzo secolo e più di impegno civile e sociale, di testimonianza religiosa in Sardegna e fuori Sardegna. E’, Angelo Pittau, uno dei nomi importanti della storia sociale e “relazionale” della nostra Isola del Novecento, al pari di pochi altri. Non potrà esserci chi, approcciandosi allo studio delle dinamiche collettive della nostra terra nel secolo ormai trascorso e della prima parte di questo presente, potrà evitare di imbattersi nella poliedricità dei suoi progetti e dei suoi interventi. Così nella carità civica e in quella spirituale. Ed è, Angelo Pittau – va ripetuto –, poeta, oltre che giornalista, fondatore e direttore di testate apprezzate di dibattito e confronto. Ha firmato versi raccolti in sillogi come Lasciatemi solo a pensare – pubblicato negli anni che erano ancora quelli degli studi al seminario regionale di Cuglieri – e Al di là del Giordano, come Mie ferite (che guarda interamente al dramma bellico del Vietnam) e Ed io ritorno, come Stelle di Terre e Leggère

Dice della sua ispirazione e della sua poetica don Angelo: «La vita è bella ed è buona, nella Scrittura bello e buono sono un’unica parola: Dio è bello e buono, anche l’uomo è bello e buono, la creazione, il cosmo è bello e buono. Così colgo nella mia vita attimi di bello e di buono, attimi che diventano tratti, parole, soffio, respiro. Nel mio scrivere non ci sono punti e virgole. I versi sono immagini, che si delineano con le parole dei versi, che prendono corpo con il respiro, le pause, gli a capo…».

Nella sera del 18 aprile 2015 – giusto mille giorni fa – don Angelo meditava le scene che parevano rendere il mare Mediterraneo un ponte concavo invece che convesso… Ho ritrovato i versi nei quali egli aveva fissato le sue emozioni, il transfert esistenziale – lui cidrese cristiano occidentale fattosi nero africano tropicale – in cui aveva materializzato la sua fede collocandola nella orizzontalità delle condizioni umane, in essa scorgendo il senso della verticalità divina.

 

«Noi siamo uomini»

Il vostro mare

è diventato il nostro mare

ci avvolge con le sue onde

ci risucchia nelle sue profondità

il mare è diventato la nostra tomba

Noi siamo uomini

del deserto, della savana, della foresta, della terra che non ci nutre

che ci uccide di stenti

noi siamo uomini

che fuggono una terra di morti

fuggono fame guerra morte

fuggono sognando

una terra di pace.

Noi siamo uomini

come voi

ma il vostro mare

freddo come il vostro cuore ci respinge ci inghiottisce

ci seppellisce.

Noi siamo larve d’uomini fantasmi

voi avete paura

paura di noi

e ci lasciate morire.

Uomini

noi vogliamo solo accoglienza un aiuto per sperare

per avere un futuro.

Voi avete paura

e ci lasciate morire.

Noi moriamo muti

l’acqua soffoca il nostro gridare i nostri rantoli

voi non ci sentite.

Sentite le parole dei vostri politici dei vostri media

non ascoltate il nostro pianto muto il nostro urlo

non afferrate le nostre mani tese voi

ci lasciate affondare.

 

Condividi su:

    Comments are closed.