Molestie sul lavoro. La difficoltà di difendersi: cosa fare prima di denunciare, in La27ora

L’80 per cento delle donne che subiscono abusi da capi o colleghi non ne parla con nessuno per quieto vivere o temendo scandali e ritorsioni. I passi che si possono fare prima della denuncia. Il Correre della sera, 22 marzo 2018.

Il nodo lo registrano per prime le statistiche: del milione e 400 mila donne che in Italia hanno subìto molestie sul lavoro l’80% — certifica l’Istat — non ne ha parlato sul posto di lavoro e «quasi nessuna ha denunciato il fatto alle forze dell’ordine». Come per la violenza domestica, le vittime spesso tacciono anche perché non sanno a chi rivolgersi. «Di solito la lavoratrice viene da noi avvocati per una banale questione di demansionamento, o retributiva, e quando vai a scavare emerge che ci sono state anche molestie sessuali. E che — spiega Lisa Amoriello, giuslavorista di Pistoia specializzata in diritto antidiscriminatorio — la donna non aveva cercato aiuto per quieto vivere, o per non rivelare in famiglia e ai colleghi una questione così sensibile, oppure perché pensava di non poterci fare niente». Non è così: anche prima di arrivare di fronte a un giudice ci sono molti passi che si possono intraprendere e una serie di strumenti che permettono di tutelare i propri diritti.

Segnalare il proprio rifiuto

Il primo può sembrare scontato, ma non lo è: siamo immersi in una cultura che tende a derubricare le attenzioni sessuali (anche sgradite o inopportune) come complimenti o galanterie, il segnale che «si piace a qualcuno» e magari c’è anche da esserne lusingate. E quindi «la prima cosa da fare è manifestare in modo chiaro che l’attenzione non è gradita» come scriveva, in un Decalogo anti-molestie pubblicato da Chiarelettere nel 2015, l’allora consigliera di parità dell’Emilia Romagna Rosa Maria Amorevole. Anche quando si ha a che fare con un superiore e si teme che uno scontro possa avere conseguenze. «In quel caso si può far passare il messaggio che non si apprezza la sua attenzione anche senza essere verbalmente dure — dice l’avvocata Tatiana Biagioni, presidentessa dei giuslavoristi lombardi e già Consigliera di parità della provincia di Milano — per esempio dicendo che il rapporto professionale con lui è ottimo, ma che volete che rimanga professionale. O frasi simili, chiare senza essere ostili». Meglio ancora se si riesce a farlo via mail o via messaggio, per poterli conservare se quell’iniziale rifiuto non basta. Vale anche quando il superiore o il collega crede di non fare niente di male: «Obiezioni come “è goliardia”, o “forse non intende essere sgradevole”, o “tutti si comportano così” sono comuni, ma errate», dice ancor a Biagioni . «La legge specifica che una molestia è tale quando ha “lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice”: cioè anche se chi la mette in atto non ne ha l’intenzione». Basta cioè anche che i ripetuti complimenti o attenzioni «speciali» creino un clima per cui la lavoratrice (o il lavoratore) non si sente più libera di lavorare tranquillamente.

Sindacati, «consigliere», avvocati

Di fronte a gesti persistenti si può poi cercare aiuto dalle figure più istituzionali. Negli uffici pubblici c’è una apposita funzione di tutela, la Consigliera di fiducia. A livello provinciale e regionale ci sono invece le Consigliere di parità, il cui compito è prevenire le discriminazioni tra uomini e donne sul lavoro. Hanno potere di intervento e di indagine anche sulle aziende private e spesso lavorano con avvocati e associazioni sindacali, e possono esercitare forme di pressione più soft sui datori di lavoro. Anche nei sindacati la sensibilità sul tema delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro è in crescita: la Cisl di Monza e Brianza, ad esempio, ha aperto da poche settimane uno sportello ad hoc, che si avvale di avvocati e psicologi. Fondamentale, infatti, avverte Biagioni, «è rivolgersi a figure esperte in materia, ad esempio giuslavoristi specializzati». Le molestie possono essere perseguite in due modi: sul piano penale (il più noto, affine a un procedimento per violenza sessuale), o su quello civile, davanti al giudice del lavoro. «Quando si parla di diritto del lavoro la definizione di molestia è più ampia — spiega Riccardo Atanasio, magistrato che a Milano si occupa di questo tipo di cause—. Non prevede per esempio (a differenza che nei procedimenti penali) il contatto: anche il continuo parlare di sesso davanti a una donna diventa una molestia perché si crea un clima degradante o sconveniente». Lo stesso vale per gli sms ripetuti anche se vaghi, quando è chiaro che l’intenzione è ottenere un’attenzione sessuale. E diventa anche più facile provare le accuse: «La legge stabilisce che sono sufficienti indizi “precisi e concordanti”, senza bisogno, come avviene di regola, che siano anche “gravi”. Ad esempio è un indizio che altre colleghe prima di te abbiano subìto lo stesso trattamento. E a scopo difensivo possono essere accolte anche registrazioni fatte con lo smartphone». Infine il fatto di non essersi ribellate, di avere cioè subìto un comportamento molesto anche ripetuto, non basta di per sé a scagionare il molestatore. «Dove esiste inferiorità gerarchica, o uno stato di necessità che rende necessaria la conservazione del posto di lavoro — spiega Biagioni —, si riesce a dimostrare che un comportamento, pure se sopportato, era non consensuale e mortificante».

 

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