Puigdemont “Non mi pento di niente, ma l’indipendenza non è l’unica soluzione”

A Ginevra per prendere parte al Festival del cinema e forum internazionale sui diritti umani, l’ex presidente catalano Carles Puigdemont ripercorre i suoi sei mesi di esilio a Bruxelles. Non rimpiange nulla. la repubblica 18 marzo 2018.

È venuto in Svizzera per cercare sostegni all’apertura di un negoziato con il Governo spagnolo?

«Non lo chiedo esplicitamente. Ma tutto quello che si può fare dall’esterno per favorire un dialogo è nell’interesse dei catalani, degli spagnoli e di tutti gli europei. Non riesco a immaginare una soluzione senza un negoziato che veda la partecipazione di una terza parte che possa svolgere il ruolo di mediatore. Non chiedo alla comunità europea di sostenere l’indipendenza della Catalogna, ma di sostenere i diritti civili e politici fondamentali».

 

Ginevra è anche la sede dell’Onu. Lei ha presentato reclamo contro la Spagna per violazione del diritto all’autodeterminazione. È anche per questo che è qui?

«Assolutamente no. La nostra pratica è in corso, ma dovrà seguire il percorso che il Consiglio per i diritti umani giudicherà opportuno».

 

Lei cita spesso la Svizzera come modello di decentralizzazione. Potrebbe essere applicato alla Spagna?

«Mi chiedono sempre se l’indipendenza sia l’unica soluzione. Io rispondo che non è l’unica strada. Siamo disposti a lavorare su altri modelli per arrivare a un accordo. Il modello svizzero rispetta la diversità culturale e linguistica e mostra che la coesistenza è possibile. Ma per arrivarci, bisogna riconoscere che esiste un problema politico.

Bisogna riconoscere l’altro come un soggetto politico con cui dialogare, senza linee rosse. È quello che non si è riusciti a fare nel caso della Spagna. Non si è riusciti a far capire al sistema politico spagnolo che bisognava parlare. Che bisognava riconoscerci come attore politico e non come soggetto criminale».

 

Alcuni la definiscono un martire, altri un fuggiasco. E lei?

«Non sono mai stato in una situazione di illegalità. Mi sono messo a disposizione della giustizia belga. Mi sono limitato a usare i miei diritti nel quadro delle leggi europee. In secondo

luogo, non ho la vocazione del martire. Faccio politica. Ma mi ribello contro la situazione dei miei compagni incarcerati. È un’ingiustizia intollerabile. Sono un combattente democratico e pacifico».

 

Dopo gli avvenimenti di questi ultimi sei mesi, se potesse rifare qualcosa agirebbe nello stesso modo?

«C’è una cosa che farei diversamente. Il 10 ottobre avevamo previsto di proclamare l’indipendenza, ma io ho deciso di sospendere gli effetti concreti di questa dichiarazione per

lasciare una porta aperta al dialogo con il Governo spagnolo. È quello che mi avevano suggerito di fare da Madrid. Ho agito dunque in modo responsabile, addirittura

azzardato, visto che tutti si aspettano una proclamazione effettiva. Ho scelto di dare una possibilità al dialogo. Sfortunatamente, era una trappola, perché non c’è stata

alcuna reazione positiva da parte del Governo. Se potessi tornare sui miei passi, non sospenderei la proclamazione di indipendenza».

 

Lei accetterebbe che fossero gli spagnoli a pronunciarsi sul futuro della Catalogna?

«Non l’ho mai rifiutato. In ogni caso, il risultato in Catalogna sarebbe molto significativo. Detto questo, nella maggioranza dei casi (salvo forse l’Algeria), è il territorio che vuole diventare uno Stato che si esprime. Veda il caso della Scozia. O anche il caso della Brexit».

 

Ma qual è il piano? Continuare a proporre dei candidati a cui Madrid impedirà di esercitare la carica?

«Qual è l’alternativa? Sottomettersi?».

 

Quale sarà esattamente il suo ruolo in futuro?

«Dipende. Se lo Stato spagnolo non si deciderà a capire che bisogna cominciare a parlare e a fare politica, se continuerà con la repressione, la persecuzione giudiziaria, forse dovrò restare in esilio parecchi anni. Ma non è il mio desiderio. Io lavoro per una soluzione politica negoziata».

 

– Traduzione di Fabio Galimberti

 

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