Nel camposanto di Bonaria, celebrando le memorie dei massoni cagliaritani di fine Ottocento/primo Novecento, di Gianfranco Murtas

….  i cimiteri costituiscono la miglior scuola dell’educazione: insegnano i limiti della nostra storia personale ed insegnano ad utilizzare al meglio, nella virtù e nella carità, il tempo e le energie che dalla natura – o dal Grande Architetto – ci sono venuti in dono.

Da un decennio e oltre è entrata nella prassi delle logge giustinianee di Cagliari la visita “meditata” al cimitero monumentale di Bonaria, come per riscoprire – attraverso le biografie dei precursori – lo stretto nesso che per un secolo e mezzo ha associato l’Ordine massonico alla vita civica nelle sue più varie espressioni amministrative, professionali, industriali, religiose, culturali, accademiche ed artistiche. La più recente è proprio di qualche giorno fa, giovedì 8 marzo. Ha preso l’iniziativa, questa volta, la loggia Tetraktis n. 1413, senz’altro una delle più dinamiche della circoscrizione sarda. Con il suo Maestro Venerabile, l’Oratore, i dignitari hanno partecipato diversi Artieri dell’organico ed altri nell’organico di compagini colleghe. Io ho avuto il piacere di condurre il gruppo lungo i viali, fra le tombe monumentate a terra (come quelle dei Serpieri e di Castello) o nei colombari (quelle di Vassallo, Sbragia e Caruso, di Cerruti, Umana e Pugliese), nelle cappelle di famiglia (vedi il caso degli Chapelle, di Guidetti e di Rossino, di Garau e dei Pernis, dei Barrago e di Lay), nell’area acattolica (ecco Looman e Mary Lo Bue), nei famedi associativi del mutualismo cagliaritano di antica impronta liberomuratoria esso stesso (dalla Società degli Operai a quella dei Reduci delle Patrie Battaglie, con i sepolcri di Rocca e Salaris e Mathieu): ho proposto cioè la sosta – breve ma partecipata per la pagina di vissuto civico e non soltanto fraternale – in una ventina e più di siti, quelli che accolgono le spoglie, appunto, di massoni che a Cagliari hanno svolto la loro missione pubblica. Nel novero anche Mario Mela ed Efisio Toro, Guido Algranati ed altri ancora…, ed ulteriori d’altra generazione, come Franco d’Aspro.

Credo possa essere utile riferirne, anche come testimonianza del raccordo che, tanto più da parte di una società dettasi “di tradizione” come è la Libera Muratoria, si avverte, materializzandosi, fra la cronaca e la storia, il presente e il passato. Entrambi produzione umana, il passato ed il presente costituiscono dei chiaroscuri, con alternanze di virtù e cadute, di limiti e progetti generosi, e come tali andrebbero intesi e accolti, senza le mannaie sentenziose e facilone, quelle del giudizio definitivo cioè, e senza le superfetazioni autopromosse e le glorie artificiose. Perché tanto emerge chiaramente, come realtà e come interpretazione della realtà, nel ripasso delle storie individuali e sociali, nella riflessione critica che sempre accompagna (o dovrebbe) la memoria di persone e di episodi della loro vicenda esistenziale, contestualizzandoli nei tempi particolari.

Il percorso ha preso avvio dalla lapide dedicata dagli studenti universitari cagliaritani a Giuseppe Garibaldi, all’indomani della sua scomparsa, avvenuta in quel di Caprera il 2 giugno 1882. E’ notorio che presso quella lapide marmorea, nella testata del colombario centrale dell’area introduttiva cosiddetta di San Bardilio, i giovani democratici della stagione umbertina e nel primissimo Novecento (fino alle soglie della grande guerra) solevano fermarsi nelle date sante, oltreché del 2 giugno, anche del 10 marzo (per onorare Giuseppe Mazzini) e del 20 dicembre (per onorare Guglielmo Oberdan), o del 20 settembre (per celebrare Roma liberata dalla teocrazia piina). Anche i massoni, forse senza pronunciare i discorsi di norma antigovernativi dei giovani repubblicani, radicali e socialisti (che puntualmente scatenavano l’ira censoria di qualche delegato di Pubblica Sicurezza e la rimozione delle corone di fiori ornate da fiocchi rossi), si soffermavano in quel sito che fissava per sempre, simbolicamente, il nome del generale, già gran maestro della Massoneria italiana, nei sentimenti della città. Garibaldi fu cittadino onorario di Cagliari (così come di Sassari), fu in rapporti con liberi muratori cagliaritani portatori anch’essi di storie nobili. Si ricordi, fra tutti, il capitano marittimo Antioco Sitzia, che condusse la nave dei rivoltosi alla sfortunata volta di Sapri nel 1857 – eran trecento eran giovani e forti e sono morti…  –  e passò tristi lunghe notti, le notti di mesi, nelle inumane segrete dei Borboni, fra Napoli e Salerno…

A dir di Sitzia, il garibaldino agli ordini di Pisacane, e celebrando Mentana

Non è stato possibile soffermarsi presso la fossa particolare, nella parte più antica del camposanto (dove il capitano fu inumato nel 1876), ma la sosta presso il ricordo marmoreo di Garibaldi ha come riassunto le memorie di tutti i garibaldini custodite nei diversi settori del monumentale. Anche quella di Antioco Sitzia dunque. Del quale potrebbe qui richiamarsi – non sarebbe davvero stonato – almeno qualche momento della testimonianza patria e democratica.

Il «28. g. X mese anno 000871 V.L.» su carta intestata alla loggia simbolica Libertà e Progresso, con i rinforzi degli «auspici del G.O. d’Italia» ed i rimandi grafici alle più virtuose idealità («AGDGADU Massoneria Universale, Famiglia Italiana, Scienza Libertà Lavoro Fratellanza Solidarietà») il Venerabile si felicitò appunto con il «Maestro Antioco Sitzia» per il conferimento della croce della Corona d’Italia. Non importa se egli fosse repubblicano e il riconoscimento venisse dal re Savoia. Mancavano due mesi soltanto alla morte di Giuseppe Mazzini, nell’amara e umiliante clandestinità di quel di Pisa, e ciò che contava, nell’Italia pur non ancora a democrazia realizzata, era l’assetto costituzionale conquistato e santificato or non era molto con l’annessione – ratificata da plebiscito – di Roma capitale e del Lazio.

Scrisse il Ven. Bonaventura Ciotti (profugo dello Stato Pontificio e rinato civilmente in Sardegna, esperto industriale minerario): «Quando l’Italia era ancora smembrata e le sue sette Provincie erano ancora governate da sette Monarchi, Voi, degno nipote di Ampsicora, foste uno di quei pochi che tentarono in Napoli lo sbarco di un pugno di liberi cittadini che traditi, pria che dentro vi suscitassero il fuoco della rivoluzione, furono con voi catturati a bordo del “Cagliari” dai cagnotti del Governo Borbonico.

«Il 1857 è per Voi una data memoranda. Noi non dimenticheremo giammai che in quell’epoca funesta pendeva già sospesa sul Vostro capo la scure del carnefice salariato da Francesco II.

«Un’azione che basta per qualificare un uomo, ed oggi il Governo Italiano, memore dei sagrifizii da Voi durati fin dalla età di 12 anni, per la santa causa della libertà, volle fregiarvi il petto colla Croce della Corona d’Italia.

«Il Governo del Re nel conferirvi quest’insegna onorifica non ve lo disse apertamente. Noi però che abbiamo imparato a conoscervi prima che il Governo italiano piantasse in Roma le sue tende, squarciamo il velo che cuopre il mistero, e nel presentarvi in segno di riconoscenza questa Corona, vi diciamo a fronte alta che se la politica ha i suoi segreti, anche Voi Antioco Sitzia avete dei meriti in faccia all’Italia. E’ tempo che tutti gl’Italiani lo sappiano».

Cagliaritano della zona di Sant’Eulalia, classe 1801, secondogenito di un medico della Marina sarda, sposato prima con Efisia Martini (da cui avrebbe avuto, fra gli altri, una figlia con un futuro di monaca clarissa, suor Margherita), poi – rimasto vedovo – con Angela Sanna, Antioco Sitzia era, s’è detto, un capitano marittimo che la storiografia non ha forse ancora svelato nella sua piena identità: vale a dire su quanto un “caso” lo abbia portato alla militanza patriottica e democratica, o su quanto premesse ideali già adolescenziali lo abbiano inoltrato, in passaggi solo all’apparenza marginali, nella grande storia nazionale. Oltre cioè i dati puramente professionali del servizio, dal 1842 alla Rubattino – soprattutto sulla rotta Genova-Cagliari-Tunisi – e prima forse nella flotta del barone Des Geneys.

Potrebbero contare, e valere, qui, delle molte carte da utilizzare per una ricostruzione biografica “orientata”, quanto soprattutto scrive Giorgio Asproni nel suo Diario politico, annotando i suoi contatti con Sitzia, e qualche passo di… dura testimonianza circa la sua detenzione nelle carceri borboniche dopo il fallimento della impresa di Carlo Pisacane: «Passeggiando in Via Nuova ho incontrato il Capitano Antioco Sitzia, e ci siamo trattenuti per ore insieme. Mi ha raccontato gli aspri e crudelissimi trattamenti che gli fecero nelle prigioni di Napoli. Nei polsi portava ancora le cicatrici dei ferri. Parlando di Pisacane e compagni mi ha detto che se fossero stati 400 della tempra di Giovanni Nicotera, di Pisacane, di Falcone, e di Foschini, la impresa riusciva…».

A dir di risorgimento nazionale. Con Garibaldi e Sitzia con lui, un cenno merita – collocata ora nel viale “degli Eroi” del monumentale – la croce dei martiri di Mentana: ricordo anch’essa delle laiche devozioni cagliaritane degli anni remoti, di un culto di patria intimamente impastato con il culto della democrazia, nel superamento del cattivo governo papalino e l’associazione di Roma e del Lazio all’Italia fatta già stato unitario. Nel 1867, al tempo ormai di Firenze capitale, i garibaldini tentarono un assalto a Roma, nella speranza, che si rivelò illusoria, di una larga corrispondenza rivoluzionaria all’interno dello Stato Pontificio. Saltò la caserma Sarristori, con molte vittime fra gli zuavi pontifici (e i soldati francesi di supporto), e la cosa sarebbe costata la testa a Monti e Tognetti, gli ultimi ghigliottinati per volontà dei tribunali di Pio IX e il placet del papa-re (gli altri candidati al patibolo furono salvati dal “gran scandalo” sollevato da repubblicani e massoni, Asproni in prima fila, che accusarono papa Mastai di tradimento della sua missione spirituale). Sul piano militare le truppe inviate da Napoleone III a rinforzo dei contingenti multinazionali pontifici sopraffecero allora, a Mentana appunto, i garibaldini. Roma restò al papa-re, e fu per i clericali più reazionari e odiosi una proroga di tre anni, di mille giorni ancora, concessa loro dalla storia, o forse dalla Provvidenza…

Dagli Chapelle a Vassallo (pensando anche ad Armando Businco)

Fra le tappe iniziali del percorso seguito dalla loggia Tetraktis è certamente da segnalare quella presso la solenne, austera e ordinatissima cappella della famiglia Chapelle, di derivazione francese – area Vichy –, ma per idealità sarebbe da supporre certamente non corriva verso gli opportunismi politici (anti-italiani) di Napoleone III. Fu massone, degli Chapelle Michelet – titolari nell’Isola di diverse concessioni pubbliche tanto più nelle esattorie, negli appalti del macello e dei servizi di trasporto degli omnibus, postali, ecc. nonché imprenditori agricoli ed edili –, Georges, passato all’Oriente Eterno nel 1914 all’età di 63 anni. Lo si ritrova buona guida sarda, nei primi anni ’90 dell’Ottocento, di Gaston Vuillier, un abile ritrattista suo connazionale entrato nella lista dei “viaggiatori” che furono autentici esploratori della Sardegna presentata con le sue povertà tristi e i meravigliosi esotismi al mondo europeo, latino ed anglosassone, nella belle époque.

Iniziato appena trentenne fra le Colonne della Libertà e Progresso (la compagine liberomuratoria di Antioco Sitzia e Bonaventura Ciotti), giusto nella metà degli anni ’70, passò una ventina d’anni dopo alla nuova loggia Sigismondo Arquer, ritirando la patente di Maestro nel 1901. S’occupò della costruzione del bellissimo palazzo di famiglia, nella piazza XXVII Marzo – poi del Carmine – dove, sessanta o settant’anni dopo, e per tre lustri interi, avrebbe avuto accoglienza il Tempio officiato dalle più moderne logge cittadine (dalla Nuova Cavour alla Hiram, alle altre a seguire) e, c’è da immaginare, curò pure la costruzione della cappella cimiteriale che un giorno avrebbe accolto anche le sue spoglie.

A dominare gli spazi, le cui pareti sono completamente rivestite dai marmi in bardiglio lucido, e fra le sei colonne in marmo verde di Prato con capitelli bronzei (come in bronzo sono anche i quattro candelabri), è la statua gigantesca – quattro metri d’altezza – del profeta Ezechiele, scolpita da Giuseppe Sartorio, l’artista numero uno fra quelli che han lavorato, lungo vent’anni almeno, per il monumentale cagliaritano.

Ezechiele fu il profeta del risveglio delle “ossa secche” – metafora della risurrezione dei corpi secondo la teologia cristiana –, cinquecent’anni prima di Cristo, al tempo del saccheggio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor re dei babilonesi, e della prigionia di migliaia e migliaia di ebrei (il tempo che fu anche, press’a poco, quello della prima… avventura cartaginese in Sardegna, dopo la primissima stagione della colonizzazione fenicia). L’Antico Testamento accoglie le sue parole in uno dei libri fra i più fascinosi dell’intera raccolta biblica: «Mi rivolsi alle ossa come il Signore mi aveva ordinato. E mentre parlavo, sentii il rumore di qualcosa che si muoveva: le ossa si avvicinavano tra loro e si univano l’uno all’altro. Vidi formarsi su di loro i nervi, la carne e le vidi ricoprirsi di pelle. Ma erano ancora inanimate, senza respiro. Allora il Signore mi disse: Rivolgiti da parte mia al soffio della vita con queste parole: Soffio della vita, Dio, il Signore, ti ordina di venire da ogni direzione e di soffiare su questi cadaveri perché rivivano! Io pronunziai le parole… Il soffio della vita entrò in quei corpi ed essi ripresero vita. Si alzarono in piedi. Tutti insieme sembravano un esercito grandissimo».

Fra i nomi che balzano alla vista fra i 42 loculi ecco anche quelli di Paolo, Gina e Albertino che furono vittime del terribile terremoto di Reggio e Messina (centomila morti) nel dicembre 1908. I loro corpi furono riportati nel marzo 1909 in città: benedetti nella chiesa di San Francesco di Paola, al porto, vennero presto trasferiti, con grande partecipazione popolare, al cimitero. Cagliari si era prodigata nell’assistenza possibile alle colpiti, soprattutto ai feriti di quel disastro. Una trentina di studenti universitari, tanto più della facoltà di Medicina, erano accorsi offrendosi come barellieri a Palermo, al cui porto giungevano le vittime da Messina (la linea ferroviaria fra le due città era completamente saltata). Dal porto agli ospedali da campo allestiti nei quartieri. Guidava il gruppo di soccorritori cagliaritani il dottor Luigi Cocco, prossimo all’iniziazione nella loggia Sigismondo Arquer (radiologo, sarebbe stato accolto massone giusto nel 1910), e diversi dei partecipanti – da Enrico Mara (nel 1911) a Siro Fadda (nel 1913) – sarebbero stati anch’essi iniziati in logge diverse. Con loro era anche Armando Businco, destinato ad essere il Venerabile della loggia Karales, costituitasi nell’orbita della Comunione di Piazza del Gesù nel 1912 e regolarizzatasi due anni dopo nel GOI. Businco, con un futuro di clinico di prima grandezza, di fama nazionale ed estera – Cagliari gli avrebbe intitolato l’Oncologico –, lui mazziniano repubblicano e sardista della prima ora, azionista negli anni della resistenza (catturato dai burgundi per il trasferimento in un lager tedesco sarebbe stato fortunatamente liberato, nel passaggio lombardo del treno, dai partigiani), collaborò all’opera preziosa del volontariato studentesco, ma si fece anche corrispondente, per alcune settimane, de L’Unione Sarda che, con i suoi articoli, aprì la prima pagina del giornale per quasi un mese intero in quel gennaio del 1909.

Dopo la visita alla cappella degli Chapelle ecco il sepolcro, bello per l’artistico altorilievo bronzeo (opera anch’esso del Sartorio) che impreziosisce la grande lastra grigia con incisi il nome e gli estremi anagrafici del defunto, di Ettore Vassallo. Che morì giovane, trentacinquenne appena. Di ceppo carlofortino, egli fu un commerciante assai noto a Cagliari, con negozio di manifatture tessili nel corso Vittorio Emanuele. Accompagnò la sua attività di lavoro con una generosa presenza nella vita pubblica cittadina, nella sinistra repubblicana in quanto al partito (di cui fu più volte candidato alle conte elettorali) e nelle amministrazioni civiche in quanto agli uffici di supporto alla rappresentanza (così nella commissione municipale per la revisione delle liste elettorali, al tempo della rinnovata sindacatura Bacaredda dopo le crisi delle amministrazioni Marcello e Nobilioni).

Ebbe un piede nella sezione repubblicana ed uno nei Passi Perduti massonici e, dal 1911, nel Tempio di via Barcellona. Giovanissimo, fu fra quelli che più attivamente contestarono le repressioni della polizia governativa alle libere espressioni politiche dell’opposizione, puntualmente interessandone l’on. Bovio, a Roma, perché girasse la protesta al ministro dell’Interno e insieme fu fra i promotori del monumento proprio a Giovanni Bovio – leader del mazzinianesimo dopo la morte dell’Apostolo e grande oratore del Grande Oriente d’Italia, involatosi nel 1903 –, monumento marmoreo che venne collocato nel maggio 1905 nello square della Reali, faccia alla stazione e spalle al busto di Verdi: opera di scultura che, come anche il manufatto verdiano, ebbe la firma di Pippo Boero, un giovanissimo artista (massone anche lui in forza alla stessa Sigismondo Arquer) cresciuto alle Belle arti della capitale e nella bottega di Ettore Ferrari, futuro gran maestro del GOI.

Ma non solo del monumento boviano Vassallo fu nel novero dei promotori, saldando lo spirito repubblicano a quello latomistico; fu anche, con gli altri della sua loggia, impegnato nella raccolta dei fondi per l’allestimento di un Dormitorio Pubblico nel viale degli Ospizi (che, completato nel 1915, sarebbe stato affidato alla Croce Rossa Italiana per le intervenute urgenze di ricovero ospedaliero legate alla grande guerra).

Ebbe funerali civili, muovendo alla volta del monumentale e partendo dalla sua abitazione di via Portoscalas. Le cronache dei giornali riferirono del mantello verde massonico che avvolgeva la bara e dei cordoni laterali retti dagli esponenti repubblicani e socialisti, dai rappresentanti della Camera del Lavoro e dei commercianti e da Romolo Enrico Pernis, per la loggia Sigismondo Arquer, il cui labaro, insieme con le bandiere politiche della sinistra, accompagnava pure esso il feretro. Riferirono anche dei discorsi in cimitero, e ancora una volta associarono le orazioni dei compagni politici a quelle dei Fratelli massoni: per i quali prese la parola Mauro Angioni, avvocato e professore (prossimo deputato pre-sardista), accompagnato dai altri Artieri, o prossimi tali, da Carboni a Ghisu a Nonnoi…

Ravot, Caruso, Sbragia

Nel lungo colombario di spalle al muro che, nel viale “degli Eroi”, presenta in rassegna lapidi ormai dilavate e qualche foto dei numerosi soldati caduti nella guerra 1915-18, sono sepolti diversi massoni e/o personalità che, direttamente o indirettamente, hanno avuto a che fare con la Libera Muratoria cagliaritana ed i suoi effettivi.

Si tratta di un settore che è attualmente in fase di sistemazione o di risistemazione delle lastre marmoree. Una delle pochissime lapidi al momento già ricollocate è quella che segnala il riposo, dall’AD 1900, di Emanuele Ravot, il quale fu magistrato (con carriera sviluppata fra Cagliari, Torino e Catania) e, dal 1884 al 1887, sindaco del capoluogo. Manca, allo stato delle ricerche, la documentazione che ne attesti la militanza liberomuratoria. Conta al riguardo, legittimando la sua inclusione nella lista dei massoni, l’inclusione che ne aveva fatto quel certo ignoto nobile decaduto e clericale il quale nella borghesia laica aveva visto, nel 1865, quella classe sociale che andava rimpiazzando l’aristocrazia in retrocessione. La loggia massonica – allora funzionava a Cagliari la Vittoria – era considerata la rappresentazione ideale e associativa di quello sgradito rinnovamento delle classifiche sociali sicché i “goccius” ch’erano stati elaborati all’insegna (“sa torrada”) del «Ponei fogu a is framassonis ch’inci papanta su Casteddu” o, in formula più completa, “Deus si campidi de is ladronis / a giustacoru e cappeddu. / Ponei fogu a is framassonis [o framasonis] / ch’inci papanta su Casteddu», dovevano sanzionare, almeno moralmente e… letterariamente, gli “abusivi” nuovi protagonisti della scena.

Ecco così, colpevole o innocente, il dottor Ravot, destinato appunto ad essere molte cose importanti in magistratura e nella municipalità, inquadrato anch’egli, ancora giovane, nei ranghi della Vittoria, mobile negli spazi antichi di palazzo Villamarina, ad un passo dalla cattedrale: «C’esti unu grandu rovanellu / papadori costituiu / intriganti sbrigungiu / abilissimu rufianu / animali prus villanu / no s’incontrada in Casteddu. / Ponei fogu…».

Sotto il loculo di Ravot è quello che custodisce le spoglie di Benvenuto Caruso, medico stomatologo e libero docente in clinica odontoiatrica, cagliaritano classe 1908, dunque di una generazione più giovane del suo vicino, e passato all’Oriente Eterno nel 1962. Militante nel Partito Sardo d’Azione, egli venne iniziato quarantenne nel 1949, dal Venerabile Silicani, presso la loggia Risorgimento 354 che fu la prima costituita a Cagliari all’indomani della seconda guerra mondiale, partendo nell’aprile (e operativamente nel novembre) 1944 con la riunione di massoni prefascisti sia giustinianei che ferani.

Musicologo e violinista provetto, fra i promotori del rilancio del teatro in Sardegna, presente ad ogni manifestazione culturale ed artistica del capoluogo, ebbe dall’università assorbenti incarichi d’insegnamento che, ammalandosi sempre più gravemente, finì per assolvere addirittura a casa, non potendo egli più raggiungere l’ateneo. Aveva, negli ultimi tempi, organizzato a Cagliari il congresso nazionale di stomatologia, offrendo anche il suo personale contributo di studio, ultimo fra le pubblicazioni scientifiche che avevano arricchito, nella stessa accademia, la sua scheda.

Di lato alle tombe di Ravot e Caruso eccone un’altra (ancora in attesa del recupero della sua lastra marmorea), che per i liberi muratori cagliaritani rimanda a sentimenti fraternali particolarmente rilevanti: quella del lucchese classe 1850 Cesare Sbragia, dottore in chimica e farmacista (dal 1887 e per lunghi anni, dopo l’inizio di attività nell’Iglesiente, socio di Maffiola nella piazza Yenne di Cagliari). Fu lui il Venerabile che inaugurò il nuovo Tempio a palazzo Vivanet, nel marzo 1896. Fino a quel momento, dal 1890, la nuova loggia Sigismondo Arquer – nata forse nelle stanze dell’ex Fatebenefratelli riutilizzate dall’Istituto Tecnico dopo il trasferimento dell’ospedale nel grande stabilimento del Cima – aveva riunito i suoi Artieri in una sede precaria della via Eleonora d’Arborea (già Gesù e Maria).

Era stata l’occasione per accogliere, graditi ospiti, i massoni sassaresi della Gio.Maria Angioy, gli ozieresi della Leone di Caprera ed i carlofortini della Cuore e carattere, ed altri ancora provenienti apposta dal continente. Aveva aperto i lavori il Saggissimo (presidente del capitolo Scozzese) Eugenio Pernis, pronunciando parole coerenti con il suo titolo rituale: «… a me non resta che pregarvi per quanto so e posso di tollerarvi a vicenda, di perdonare le offese, di sollevare i caduti non rei d’infamia, e finalmente di portare in ogni vostra opera i principi che informano il Sodalizio…».

Analogo lo spirito dell’allocuzione del Ven. Sbragia: «Piacemi rammentarvi che la Massoneria è nata con l’umanità, e con l’umanità cesserà. La tradizione si perde nella oscurità dei tempi, ragione per cui debba ritenersi per certo che la Massoneria è innata alle prime comunanze umane. Non si chiamò con tal nome nel principio, anzi si sa che fu la Francia per la prima che la chiamò Massoneria; ma i nomi diversi, che in periodi diversi ha assunto, non hanno menomato la sua essenza puramente umanitaria, riprodotta nel suo trinomio: libertà, uguaglianza, fratellanza; e cioè provvedere ai bisogni dell’umanità, patrocinare e difendere i diritti e lavorare pel suo progresso».

E più oltre: «Noi siamo costantemente calunniati, siamo accusati di ateismo, ed i preti ci descrivono come adoratori di Satana, e così via dicendo. Il massone non è ateo perché una società di uomini che segue e professa il principio del perfezionamento evolutivo dell’umanità, i dettami dell’etica, che esplica ed intende il sentimento della carità, che è sentinella avanzata a guardia dei diritti dell’umanità, che ammira studiando i fenomeni della natura d’onde si desume la esistenza del Grande Architetto dell’Universo, che compendia tutto: questa società, questi uomini non possono essere, non sono atei. Il libero pensiero predomina ed informa la nostra Instituzione».

S’era impegnato in quegli anni, Cesare Sbragia, a pro della Società tra i cultori delle Scienze mediche e naturali, che riuniva diversi operatori sanitari ed accademici delle facoltà scientifiche e, anche come esponente nella loggia, a pro di alcune Opere pie, come era l’Istituto dei sordomuti, così come dei feriti della guerra d’Africa in ritorno a casa… Ebbe anche qualche non velata simpatia politica a favore del partito della Casa Nuova bacareddiana, che riuniva molti seguaci del Salaris contro la fazione cocchiana.

Passò all’Oriente Eterno, dopo due anni di Venerabilato, neppure cinquantenne, nel 1898, cedendo le sue forze in un ospedale napoletano. La sua famiglia – la moglie Ersilia e la piccola Adelina (con altri fratellini prima di lei) – l’aveva preceduto nella stessa sorte l’anno (e gli anni) prima e lo scalpello del Sartorio ne aveva realizzato il cenotafio, senz’altro uno dei più delicati del monumentale bonarino.

A dir di Pietro Martini ed Efisio Marini

Poco oltre, nello stesso colombario, riposano i resti dello storico e direttore della Biblioteca universitaria di Cagliari Pietro Martini. Lo si deve ricordare, a proposito di collegamenti con la Massoneria locale, per il fatto che il suo cadavere fu pietrificato dalle arti chimiche segrete di Efisio Marini, il quale era entrato anche lui, maltrattato per odio ideologico, nei “goccius” dell’autore del 1865: «Unu tontu che sa perda / su chi salidi is pippius / circada de spilidi is bius / nendi chi imperdada is mortus / ma cun totus is cunfortus / adi fattu cucurumbeddu».

Il «cucurumbeddu» mariniano fu il trasferimento, quasi obbligato, a Napoli, dove egli aveva sperato di ottenere quella cattedra universitaria che a Cagliari i baronati accademici gli avevano negato. E infatti sembrò all’inizio di riuscire nel suo intento – appoggiato come era dal magnifico rettore e dallo stesso ministro di Istruzione –, per poi doversi arrendere anche lì, nella grande università napoletana, da cui più d’un insegnamento annuale con promessa di rinnovo non poté ricevere. Onorò il nome suo e di Cagliari fuori Italia, e dal grande mondo delle accademie scientifiche, fra Vienna e Parigi, Londra e Berlino, ottenne i migliori riconoscimenti. Per il resto visse della sua precaria docenza, di un precario esercizio professionale e di molte belle relazioni umane… Visse in povertà, nutrito del suo sacrosanto orgoglio, pessimista sulla natura dell’uomo.

Quando scoppiò, negli anni ’80, una grave epidemia colerica, fu apostolo di mille sventurati anche con i propri rimedi curativi, avendone infine la formale gratitudine delle istituzioni e il diploma della Croce Bianca. Fu amico caro (e collaboratore nella buriana dell’epidemia colerica) di Giovanni Bovio – che lo avrebbe celebrato dettando l’epigrafe che nel 1902 venne affissa nel palazzo dell’università di Cagliari – e con Bovio, repubblicano e alto dignitario massonico, è credibile avesse condiviso sul continente le migliori idealità (ne fa abile cenno anche Giorgio Todde nella sua felice saga mariniana edita da Frassinelli e dal Maestrale); si fece benemerito, a Napoli, anche per la pietrificazione, giusto a fine Ottocento, delle spoglie del cardinale arcivescovo Sanfelice.

L’anno successivo a quello in cui “eternò” il cadavere… importante di don Guglielmo Sanfelice d’Acquavella, oppose il proprio no al sindaco Ottone Bacaredda che molto aveva insistito con lui perché tornasse a Cagliari per guidare l’ultima invenzione della salma pietrificata di Pietro Martini, così come aveva fatto quattro mesi dopo la morte dello storico, dunque nel luglio 1866 (allora Martini era stato perfino seduto su uno sgabello e fotografato da Agostino Lay Rodriguez), e ancora nel 1871 e nel 1882, risultando sempre perfettamente conservata. Ne fanno fede i verbali apposta redatti e sottoscritti dall’autorità civile da quella scientifica. Marini sapeva manipolare quelle membra restituite, o sempre vincolate, in apparenza, alla vita, ma nel 1898 non venne, rifiutandosi di condividere il proposito dell’Amministrazione di collocare definitivamente il cadavere in un loculo chiuso. Quasi trent’anni prima egli aveva raccolto i fondi per l’approntamento di una cassa con oblò, perché lì il povero Pietro Martini fosse sistemato ed ammirato; il fallimento delle banche sarde del 1887 aveva però polverizzato la somma raccolta e giustamente il Comune ne aveva concluso dovesse rinunciarsi al monumento rassegnandosi a “imprigionare” l’anziano storico in una bara ordinaria e in un loculo pubblico di prima classe, togliendolo dalla cassa provvisoria (e in sé irriguardosa) tirata su, in un certo vano cimiteriale, con delle corde, pronta ad essere richiamata  per la periodica ispezione di notai e medici…

Chissà se davvero – ma è più sì che no – Efisio Marini abbia appartenuto alla loggia Vittoria, come i “goccius” sentenziarono. Giusto quando lasciò Cagliari alla volta di Napoli, dirimpetto a casa sua – la casa con il prospetto rifatto nientemeno che da Gaetano Cima – sul fianco sinistro salendo della via Sant’Eulalia, i fratelli-Fratelli Castello nativi di Marsiglia – Jean, Angelo e Luigi (gemelli gli ultimi due) – avevano inaugurato la loro loggia Fede e Lavoro, riempiendola di lavoratori del mare. Dell’organico della nuova compagine di rito scozzese egli forse conosceva qualcuno, certamente conosceva Francesco Barrago, medico fra tanti marinai e calafati, perché suo coetaneo oltre che collega medico, che sarebbe stato iniziato nel 1869, quando anche si lanciò, all’università, nelle sue descrizioni della dottrina evoluzionista del Darwin…

Guidetti, Garau “babbu bonu”, Rossino

Nelle cappelle di famiglia che, sul versante del viale Cimitero, chiudono l’area di San Bardilio e, più oltre, si protendono verso l’Orto delle Palme nuovo, in faccia ai quattro quadrati erbosi che costituiscono la parte più antica del camposanto (quella in cui si cominciò ad inumare dal 1829), riposano altri Fratelli massoni. Fra essi, dal 1895, Giuseppe Guidetti, contabile d’impresa originario di Torino, ma fattosi cagliaritano insieme con tutta la sua rispettabile famiglia che intessé importanti e continuativi rapporti con le suore vincenziane dell’Asilo della Marina e le loro opere caritative.

Certo, a pensarla con le categorie cementificate del clericalismo/anticlericalismo dovrebbe sorprendere questa coabitazione, nella stessa cappella, di una santa come suor Teresa Tambelli (ai cui funerali, nel 1964, chi scrive servì come piccolo chierichetto) ed uno scomunicato come il Fratello Guidetti, in forza alla Fede e Lavoro dal 1874, dacché aveva cioè soltanto 24 anni. Ma tant’è, la storia relativizza tutto, e la carità conta sempre più delle regole canoniche…

Non distanti sono le tombe di Angelo Garau e di Battista Rossino (questa seconda nella cappella Bolla), entrambi Artieri della loggia Sigismondo Arquer: iniziato il primo, 34enne medico chirurgo già in carriera (e prossimo a partire come ufficiale nella grande guerra) nel 1911, il secondo pittore e docente di disegno, già 40enne, nel 1913. Ebbero – dicono i documenti – fedeltà diverse, certamente entrambi onorarono la Cagliari del loro tempo offrendo al bene pubblico il meglio dei propri talenti.

Garau, bisogna dirlo, fu un santo laico, medico sociale, mazziniano colto, militante del Partito Repubblicano Italiano, antifascista incorrotto negli anni della dittatura. Figlio di un cavallottiano stampacino, aveva studiato al liceo Dettori e s’era poi laureato nel 1904; partendo da assistente volontario era diventato, giovanissimo ancora, libero docente e, dopo la guerra, direttore dell’Ospedale militare di Sassari e primario di Chirurgia a Cagliari. Consigliere comunale con Bacaredda associò l’amore al mazzinianesimo a quello della Libera Muratoria in cui raggiunse il grado di Sovrano Principe Rosa+Croce, Cavaliere dell’Aquila e del Pellicano, il 18° della Piramide rituale; fu quando, con altri titolari di cattedra universitaria (diversi dei quali suoi Fratelli di loggia) firmò un manifesto interventista rimesso poi al presidente del Consiglio Salandra.

Oppose a Mussolini in visita a Cagliari il suo camice bianco, mentre altri colleghi ostentarono, in quelle stesse corsie, la camicia nera. Mazzini che c’entrava con la dittatura? E la sede – Tempio e Passi Perduti – della loggia Sigismondo Arquer non era stata saccheggiata dai questurini fascisti?

Si pensionò nel 1945, ammalandosi successivamente lui stesso di tumore. Ricoverato ed operato dispose la vendita della poca argenteria di casa per pagare le cure. Venutolo a sapere, il Consiglio d’Amministrazione dell’ospedale, alla unanimità e ben ricordando come per tantissimi anni avesse curato tutti senza mai chiedere onorari, deliberò l’abbuono di ogni spesa. L’Unione Sarda, quando scomparve, scrisse: «La professione e la competenza gli avrebbero potuto consentire una vecchiaia piena di prosperità economica. Non volle. Preferì essere povero, modesto, ma soprattutto probo, integerrimo». E il curatore del libro matricola della loggia annotò: «Deceduto a Cagliari nel reparto chirurgico dell’Osp. Civile il 27 marzo 1954 alle ore 2,30 antim. Dopo quattro mesi di atroci sofferenze. Uno dei ns. migliori».

Qualcuno, sul giornale, così testimoniò dei giorni che avevano preceduto, nel 1943, il trasferimento dei reparti a Villamassargia: «Incurante delle bombe che cadevano nello stesso edificio del nosocomio, rimase al suo posto, operando, medicando, con una seguenza incredibile, gli innumeri feriti che ivi affluivano. E ciò nelle più impensate condizioni: senza medicinali, senza bende, un minimo aiuto e solo con quei geniali ripieghi che la sua eletta mente sapeva trovare».

Lo scultore Franco d’Aspro, anche lui massone e alto dignitario del Rito Scozzese, gli avrebbe dedicato, nell’anniversario della morte, il busto in bronzo che si trova all’ingresso dell’Ospedale del Cima.

Personalità certamente assai diversa ma anch’essa di indubbio valore, nel campo d’arte suo proprio, fu anche Giovanni Battista (Baciccia) Rossino, passato all’Oriente Eterno nel 1956.

Di ascendenze liguri-carlofortine, studiò a Torino e Roma, espose, ancora giovane, a Milano, nella vetrina internazionale del 1906. Fece sodalizio professionale con Felice Melis Marini, nipote del celebrato dottor Efisio Marini, e con lui aprì una scuola d’arte giusto nel grande spiazzo prospicente la storica collegiata di Sant’Eulalia. Fu ritrattista, autore di quadri disputati alle numerose mostre da lui allestite nel tempo. Fu anche poeta, al pari di Melis Marini…

Fra quelli che lo biografarono, oltre ai critici d’arte professionali, non mancò Nicola Valle, massone egli stesso fin dal 1948, e animatore dei maggiori sodalizi culturali della Cagliari postbellica, dagli Amici del libro alla sezione della Dante Alighieri. Sulla rivista Il Convegno, in Persone e personaggi e in Ritratti letterari questi sollecitò la raccolta e il riordino complessivo delle opere dell’artista fino ad ora non riconosciuto quanto pure meriterebbe. E meriterebbe allora anche ricordare come egli, fra i militanti delle logge cagliaritane e sarde, fu certamente non un isolato, se si pensa a uomini come Francesco Ciusa e Mario Delitala, come Antonio Ghisu (il decoratore della basilica di Bonaria prima degli sconvolgimenti bellici che hanno portato all’azzeramento quasi delle sue fatiche murali!) ed Andrea Valli (presentissimo anche lui tanto nel municipio quanto al monumentale), come Guglielmo Bilancioni e Melkiorre Melis, come Attilio Nigra e Pippo Boero, fino appunto a Franco d’Aspro…

Il nome di Battista Rossino riporta anche ad altre memorie pur non ancora a sufficienza approfondite. Nello stesso edificio padronale che, con i Bolla – altro nome che, con Giovanni allora giovanissimo studente rampollo della gran dinastia commerciale (iniziato a Milano) – si ricollega alla Massoneria isolana dei primi anni ’20, ospitava anche casa sua, nel corso Vittorio Emanuele al civico 203, ad un passo da s’Ecca Manna, doveva trovarsi la seconda sede della Libera Muratoria cittadina: quella adocchiata dai fascisti nel 1924 e 1925 e minacciata, al pari delle altre di via Barcellona e di palazzo Brusa, attraverso i corsivi di Battaglia, il periodico dell’intellettualità dark del tempo…

Egli stesso cedette – va detto – alle lusinghe o alle minacce della nuova formazione al comando. Il verbale di loggia registrò, il 13 novembre 1923, le sue dimissioni “per incompatibilità”: l’incompatibilità fra la Libera Muratoria e il fascismo ideologia come il fascismo regime in divenire. Né quella o quelle rinunce, e le convergenti radiazioni, furono rare a Cagliari come altrove. Presto qualcuno avrebbe sofferto e proseguito la propria militanza in una “massoneria clandestina”, ma altri avrebbero sperato, in buona o cattiva fede, in tempi nuovi che, rispetto al classico liberalismo postrisorgimentale, non erano quelli della democrazia compiuta, magari repubblicana, bensì quelli della prepotente dittatura guerrafondaia.

I Pernis, la dinastia e la filantropia

Una cappella modellata come una grotta rocciosa (e il sacrario ordinato nella cripta) – esito delle intuizioni realizzative di Giuseppe Sartorio – raccoglie i resti dei Pernis, che furono una delle famiglie più illustri di Cagliari e della Sardegna per un secolo intero, nella successione di quattro generazioni, fra secolo XIX e secolo XX. Fra i protagonisti della vita commerciale-industriale (e agricola) dell’Isola centro-meridionale e del capoluogo soprattutto, impegnato taluno anche nella rappresentanza camerale e nell’amministrazione politica del capoluogo, i Pernis che legarono il proprio nome più direttamente alla causa massonica furono Eugenio e suo figlio Romolo Enrico, entrambi titolari altresì dell’ufficio di consoli di sua maestà britannica, il che ancor più li accostò, per relazioni fraternali, alla Libera Muratoria internazionale.

La gestione dei Magazzini Generali (che a su campu ‘e su rei, a un passo dallo scalo portuale, parcheggiavano le merci in viaggio) e così della fabbrica alimentare e delle forniture navali, delle produzioni e del commercio vinicolo, dell’import del ghiaccio (per la conservazione degli alimenti) dalla Norvegia e dell’export di sali marini e vini lavorati così di combustibili minerari (il carbon fossile destinato soprattutto al Regno Unito), tutto questo e altro ancora in surplus concorrevano a montare una ricchezza straordinaria, favorita dalla legislazione liberista dell’Italietta.

Secondo il modello sociale del tempo i grandi borghesi sostenevano interventi filantropici rilevanti e frequenti, coinvolgendo in questo anche i sodalizi cui affidavano le proprie preferenze od aspettative ideali e civili. La Massoneria cagliaritana venne, da questo punto di vista, trascinata dai Pernis (così come da Serpieri ed altri) nel sostegno preferenziale del Ricovero di mendicità, già dagli anni ’60 dell’Ottocento. E questa vocazione fu una costante vitalizzante fino alla sospensione delle attività per decreto di dittatura.

Di provenienza familiare svizzera (cantone dei Grigioni), Eugenio e Romolo Enrico – seconda e terza generazione dei Pernis fattisi sardi – furono a lungo i leader riconosciuti del sistema latomistico cagliaritano: in particolare Eugenio, classe 1834, figlio di Josias e genero di Enrico Serpieri (il Fratello fondatore della Camera di commercio), venne iniziato negli anni ’70 fra le Colonne della Vittoria per passare poi alla Libertà e Progresso e fu fra i primi dignitari alla ripresa di attività delle logge nel 1890. Per cinque anni Venerabile della Sigismondo Arquer (e quindi Venerabile ad onorem e ad vitam) nonché, s’è detto prima, Saggissimo del Rito Scozzese (e infine Sovrano Grande Ispettore Generale), passò al “non tempo” nel 1899.

Solenni i funerali. Così le cronache di stampa: «Precedevano il feretro i vari istituti pii cittadini e il Ricovero di mendicità. La bara era stata deposta in una carrozza di prima classe, ricoperta da numerose e ricchissime corone. Reggevano i cordoni i sigg. comm. Ciuffelli, prefetto, il cav. Canepa per la Fratellanza commerciale, il cav. Dol per la Camera di Commercio, il cav. Valle Carossino per il Comune, il cav. Nobilioni per l’amministrazione dell’Ospedale Civile, il prof. [Gustavo] Canti per la Loggia massonica, il cav. [Settimio] Canti, direttore dei Magazzini generali (anch’egli attivo dell’Arquer con le funzioni di Segretario, nda), il cav. Bernard, console di Francia, e il sig. Moss per la colonia inglese.

«Seguivano il feretro un numeroso stuolo di amici e conoscenti, fra i quali abbiamo notato l’on. Carboni Boy, il sindaco comm. Bacaredda, una rappresentanza della Giunta comunale, il cav. Angius, consigliere di prefettura, il presidente e numerosi membri della Camera di Commercio e Fratellanza commerciale, il presidente della Congregazione di carità cav. Marongiu, il cav. Congiu, il corpo consolare al completo, una larga rappresentanza della Loggia massonica Sigismondo Arquer, cui il defunto era iscritto, il colonnello in ritiro Manca Sciacca, vari membri della Deputazione provinciale, moltissimi commercianti della nostra città, vari consiglieri provinciali e comunali, il cav. Cadeddu Arnoux, il prof. Guzzoni degli Ancarani, il cav. Fortunato Merello col personale dello stabilimento, il prof. Angioni Contini, una larga rappresentanza della Ichnusa.

«Al cimitero parlarono, davanti alla bara, il console francese Felix Bernard a nome del Corpo consolare, il pubblicista G. De Francesco e il preside dell’Istituto tecnico cav. Canti (Venerabile della Loggia Arquer, nda)».

Degno suo successore fu il figlio Romolo Enrico – classe 1864 – che, avviatosi alla carriera militare (all’accademia di Modena) ma poi dirottato a proseguire negli uffici e negli affari paterni, avrebbe avuto parte non secondaria nelle competizioni elettorali amministrative della città, fino a diventare assessore comunale nella giunta Bacaredda rieletta nel 1911, e come tale delegato, fra l’altro, ad accogliere nel settembre di due anni dopo – appunto a nome del Comune – il dono del monumento a Giordano Bruno che l’apposito comitato aveva ottenuto di collocare in piazzetta Mazzini.

E’ certamente curioso, ma non improprio, che di tale incombenza fosse incaricato proprio lui che di quell’erma del domenicano bruciato vivo dall’Inquisizione romana nel 1600 era stato, in quanto dignitario di loggia, ed insieme ai partiti progressisti ed a varie associazioni anticlericali, fra i proponenti.

Nel 1910-1911 era stato anche fra i promotori dell’Associazione Democratica, un parapartito di taglio liberal-riformista che avrebbe raccolto le adesioni della Cagliari borghese e laica, cui lo stesso Bacaredda – sostenitore del liberalismo “organizzatore”, orientato cioè alla democrazia – volle guardare con simpatia.

In loggia – nella loggia Sigismondo Arquer di cui sarebbe stato a lungo Maestro Venerabile, e anche il Venerabile che organizzò la miglior sede dell’intera storia, dal 1907, nella via Barcellona ai civici 29-31 – entrò un anno dopo la morte del padre, all’inizio del 1900 cioè. Generosissimo sarebbe stato l’incessante alimentatore delle iniziative solidaristiche a favore delle Opere pie cittadine come l’Istituto dei ciechi ed anche della piccola chiesa evangelico-battista (fra i suoi avi era un pastore protestante che aveva esercitato il ministero in quel di Trieste ai tempi della Rivoluzione Francese), anche se pari generosità avrebbe avuto modo di dimostrare ai salesiani, paradossalmente negli anni in cui più alta era la sua stella in Massoneria!

Fra i meriti sociali di Romolo Enrico Pernis fu il Dormitorio pubblico per il quale promosse ripetute raccolte di fondi (posero la prima pietra, nel 1910, re Vittorio Emanuele III e sua moglie la regina Elena di Montenegro, in occasione di una loro visita in città).

Per un decennio intero – fino all’arrivo dei fascisti come nuovi padroni della scena pubblica –, venne incaricato della presidenza dell’Ospedale San Giovanni di Dio. E proprio riferendosi ad un commento pubblicato dal periodico cattolico locale La Voce del Popolo (prosecuzione delle testate lanciate dall’avv. Sanjust, nel 1896 e nel 1907, rispettivamente La Sardegna Cattolica e Il Corriere dell’Isola), piuttosto critico verso il Consiglio comunale per la scelta dei nuovi amministratori del nosocomio nell’area laica e massonica, il 31 dicembre 1913 scrisse fra l’altro:

«In questo articolo sono contenuti apprezzamenti tutt’altro che benevoli per la mia nomina a presidente dell’Ospedale Civile e peregrine asserzioni sulle origini dei nostri istituti di beneficenza.

«… tengo a smentire recisamente la gratuita asserzione che fra i fondatori ed i benefattori dei nostri istituti di beneficenza non vi sieno state persone appartenenti alla Massoneria, all’“Idra massonica” come con frase biblica si esprime l’anonimo scrittore della Voce del Popolo.

«Questo è smentito dai fatti: nella lapide commemorativa la fondazione del Ricovero di mendicità troviamo incisa la “Loggia Massonica” fra i promotori del pio istituto. Nel libro dei principali istituti pii: lo stesso Ricovero di mendicità, l’Ospedale civile, le cucine economiche, ecc. troviamo i nomi di Enrico Serpieri, Stefano Rocca, Eugenio Pernis, Nicolò Pugliese, Sophus Simmelkjioer, comm. Antonio Satta Musio, prof. Luigi Zanda, Giuseppe Thermes, Efisio Marini. … E poi gli amministratori!

 

«E ancora oggi i sedicenti cattolici amministratori di tali stabilimenti non vengono da noi massoni a sollecitare la ripetizione delle nostre passate volontarie contribuzioni?…».

Nei primi anni ’20, mentre suo figlio Enrico jr., ormai diciottenne, portava in casa ardite simpatie mussoliniane (che sarebbero diventate monarchiche nel secondo dopoguerra), egli si trovò a combattere (con Federico Canepa, Mario Lai ed altri Fratelli) la battaglia sempre più dura tesa a difendere la loggia dall’aggressione continua dei fascisti. Nel novembre del 1925 sarebbe avvenuta la capitolazione, con l’invasione dei questurini nel Tempio, la fuga degli opportunisti, lo zittimento (e anche la sorveglianza maliziosa) dei fedeli e leali…

Gli ultimi anni di vita di Romolo Enrico Pernis – a dittatura consolidata – furono impiegati ancora nelle attività imprenditoriali di famiglia: così nell’immobiliare (Società anonima Bonaria) e nell’industria metallurgica (sfruttamento e lavorazione delle bariti), oltreché nel più tradizionale comparto agro-industriale (Società anonima Vinalcool); piuttosto, e di necessità, defilata si fece invece la sua presenza sulla scena pubblica, ormai chiusa ad ogni libera espressione.

Egli s’involò all’Oriente Eterno, improvvisamente, mentre si trovava a Roma. Fu per un attacco di angina pectoris, in albergo, a metà settembre del 1933. Non appena giunse la notizia, la stampa cittadina lo ricordò esaltandone «l’affidabilità del carattere, la bontà d’animo e nelle opere di bene, oltre a quelle straordinarie doti d’imprenditore che gli provenivano dalle grandi tradizioni di famiglia».

Giunse la salma a Cagliari e fu un gran movimento di omaggi al cittadino benemerito, al pubblico amministratore ed all’operatore economico di lunga lena. Nessuno ricordò, o poté ricordare i suoi meriti di libero muratore.  La tumulazione avvenne nella suggestiva cappella di famiglia, nel braccio perimetrale del viale Cimitero: in quel vasto ed oscuro antro di roccia, al centro del quale – poco discosta dal pertugio sotterraneo – s’alzava, e s’alza, una grande croce supplicata e confortatrice.

Giuseppe Castello, fra parrocchia e loggia

Dapprima murato, poi liberato dal suo involucro, il cippo celebrativo di Giuseppe Castello – un albergatore di origini genovesi, emigrato per qualche tempo a Marsiglia (destinazione di fughe frequenti di mazziniani perseguitati) – presenta, sul margine alto del primo dei riquadri erbosi del cimitero antico, il simbolo della squadra e compasso intrecciati e racchiudenti la G di God (e/o di Geometry) sul sole irradiante la luce della ragione e del superamento d’ogni pregiudizio.

Passato all’Oriente Eterno nel 1866, ormai 62enne, crebbe i suoi figli secondo i sentimenti di patria ed è credibile – ma mancano, allo stato, i documenti certi – che egli stesso abbia favorito l’iniziazione massonica dei suoi quattro maggiori maschi innanzi citati: Jean, Angelo e Luigi – incardinati nella cagliaritana Fede e Lavoro – e Girolamo, ferroviere, attivo nella Gio.Maria Angioy di Sassari. Gli altri, nati tutti a Cagliari dopo il 1855, furono registrati nei libri dei battesimi di Sant’Eulalia e lì soltanto.

Ai primi tre toccò di condurre l’albergo La Concordia, interno allo storico palazzo Belgrano (Asproni, nel suo Diario politico, riferisce di avervi preso alloggio nel 1861, durante una delle sue missioni cagliaritane, anche per gli incarichi ricevuti di rappresentante ai congressi nazionali delle Fratellanze operaie): in esso vennero ospitati, fra il 1869 ed il 1870, diversi «fratellevoli banchetti», con molti brindisi politici, poi cronacati dalla stampa del tempo, a pro della libertà e della patria e con i saluti telegrafici al generale Garibaldi e la conclusiva questua a favore del Ricovero di mendicità…

Padroni dell’albergo e dignitari della loggia: uno Venerabile, l’altro Segretario, l’altro ancora il Guardiano del Sigillo. Chissà con quanta soddisfazione ultra temporum del padre Giuseppe…

Dei Serpieri, glorie repubblicane

E’ il cenotafio artisticamente forse più bello, e prezioso, di tutto il monumentale, quello che celebra il Fratello Enrico Serpieri, deputato e segretario della Costituente della Repubblica Romana, nel 1849. «Primo ai pericoli / ultimo a cedere protestando», fiero e coraggioso «allo straniero invasore / oppose la forza del diritto / inespugnabile» è il flash biografico inciso – a mo’ di didascalia – in un cartiglio di marmo. Bello e prezioso anche per la proiezione che detta attorno a sé, illuminando di storia anche le steli di tre dei suoi figli: Attilio, Cimbro ed Arnaldo.

Sono zuavi ingiusti e minacciosi, soldati francesi tesi nel sostegno alla peggior causa papalina, tutti armati e tutti uguali a Napoleone III imperatore del calcolo, che fronteggiano gli uomini della Costituente repubblicana: fra essi, seduto al centro del tavolo e carta alla mano, il segretario generale dell’Assemblea e con lui altri dieci. Così nell’espressivo altorilievo della facciata anteriore del grande parallelepipedo di marmo chiaro disposto in orizzontale sopra una triplice base di granito grigio. L’opera, commissionata da Giambattista Serpieri nel 1876, a pochi anni dalla morte del padre cioè, è di uno scultore romagnolo – Sisto Galavotti – forse coadiuvato dal conterraneo Guglielmo Bilancioni, un pittore (e Fratello massone) che a Cagliari, e non solo a Cagliari (si pensi al sassarese palazzo Giordano!) lascerà molte tracce del suo passaggio (a partire dal ritratto a colori di Attilio Serpieri, il figlio bismaggiore di Enrico in divisa garibaldina, di ritorno dai combattimenti della terza guerra d’Indipendenza).

Così l’epitaffio scavato nella parete posteriore dice dell’uomo pubblico, associando l’anima democratica e patriottica a quella civica e politica, quella imprenditoriale a quella filantropica: «Nato in Rimini il IX novembre MDCCCIX / del Risorgimento Nazionale / strenuo propugnatore / patì carcere esilio / sempre onorando la Patria / morì l’VIII novembre MDCCCLXXII / in Cagliari / ove ospite amabilissimo / Consigliere Comunale / Presidente la Camera di Commercio / Deputato al Parlamento / Cavaliere di più ordini / al bene pubblico / con rara operosità / intese costantemente».

Sul fianco destro del monumento, sotto un leggero rilievo iconografico (con Mercurio seduto è una donna rappresentazione della fecondità agricola), è un’altra epigrafe: «I giorni dell’esilio / la ospitalità / confortava onorava / con lavoro assiduo / con fede specchiata / nuove industrie creando».

In perfetta simmetria, a sinistra, come a commento d’una scena di amicizia sociale (la carità d’una donna col bimbo in un braccio mentre con l’altro tende il suo mantello a coprire, e proteggere, il mendìco a terra), una incisione racconta il Serpieri solidale: «Padre e sposo / esempio di virtù d’affetto / di umanissimo cuore / il nome suo onorato / rendeva caro a tutti / beneficando».

Romagnolo di Rimini, figlio di famiglia borghese e colta, Enrico Serpieri era ancora studente iscritto alla facoltà di Medicina dell’ateneo felsineo quando partecipò agli sfortunati moti liberali del 1831 (quelli che avrebbero portato al patibolo Ciro Menotti). Ricercato dalla polizia come aderente alla Giovine Italia, trovò scampo dapprima in Francia (Marsiglia) e poi a San Marino; arrestato dalla gendarmeria pontificia nel 1844 – dopo la temporanea bonaccia riminese (durante cui fece famiglia mettendo al mondo i primi dei suoi cinque figli) – fu processato e condannato all’ergastolo, per essere liberato due anni dopo a seguito dell’amnistia concessa da Pio IX appena asceso al trono. Cercò quindi nuove forme di impegno nel movimento democratico, trovandole nel febbraio 1849 come rappresentante della sua città alla Costituente repubblicana di Roma. Fu il sogno di appena cinque mesi: a luglio le armi francesi invocate dal pontefice sbaragliarono la fragile Repubblica, per la quale sacrificò la sua vita Goffredo Mameli, ed egli dovette trovare rifugio in territorio sardo-piemontese. Dal porto di Genova, insieme con molti altri conterranei e sodali politici (che continuarono ad essere vigilati, come mazziniani, dal governo di Torino), s’imbarcò nel 1850 alla volta della Sardegna ove ottenne un posto direttivo, insieme tecnico ed amministrativo, presso la miniera di Gibbas (un filone quarzoso mineralizzato in galena), nel Sarrabus, sfruttata dalla genovese Società dell’Unione.

In conseguenza di una travolgente alluvione che devastò gli impianti, lasciò poi quella gerenza per trasferirsi a Padru Mannu, nel Marghine, dove Pietro Beltrami – suo corregionale e compagno della Repubblica Romana – aveva avviato un’attività agricolo-industriale (allevamento animale e produzione di carbone vegetale). Tre anni dopo si associò alla compagnia marsigliese Bouquet in una nuova iniziativa industriale in quel di Domusnovas: si trattava di lavorare scorie d’argento giacenti da secoli, forse millenni, sparse in un vasto comprensorio che col tempo egli acquistò attrezzando anche, alla confluenza del Cixerri col rio Canonica, una pionieristica fonderia industriale (a carbone di legna) forte di 300 addetti, che gestì insieme con i tre figli maggiori (Giobatta e Attilio – reduci dagli studi genovesi – e Cimbro; ad essi si erano aggiunti, ultimi nati, Arnaldo e Mirra, che avrebbe sposato Eugenio Pernis). Un business fortunato protrattosi fino al 1869 e allargatosi agli impianti siti in territorio di Fluminimaggiore

Nel 1862 era stato, Serpieri, il maggior promotore (per divenirne presidente per dieci anni!) della Camera di Commercio di Cagliari; nel 1865 aveva fondato, con Gavino Scano, Antonio Giuseppe Satta-Musio ed altri massoni, il quotidiano Il Corriere di Sardegna, destinato a passare come organo ufficioso delle logge isolane; nel 1869 aveva lanciato il Banco di Cagliari, che pure avrebbe avuto vita dignitosa almeno fino alla crisi del 1887; era stato eletto in Consiglio comunale e scelto dalla Municipalità come presidente del Ricovero di mendicità; nel 1865 aveva conquistato perfino un seggio a Montecitorio, ma come rappresentante del collegio della sua Rimini…

La sua iniziazione dovrebbe rimontare ai primi anni ’60 (il che ne spiegherebbe l’inclusione nel piedilista sbeffeggiato dei “goccius” che citano appunto – fra i protagonisti di presunte scelleratezze – anche «unu riccu Zerpedderi»: «Somministrad a sa lolla / tinta, pinnas e paperi / unu riccu Zerpedderi / po assassinu processau: / ahi! commenti ind’adi bogau / podinai su croxixeddu». La Fratellanza cagliaritana era tesa a sostenere, nel periodo, numerose iniziative di promozione culturale (istruzione popolare) e della memoria patria (erezione di un monumento ad Eleonora d’Arborea in Oristano, in logica di nazionalitarismo sardo ma in un quadro tutto italiano) o filantropiche, incluso il soccorso in casi di emergenza per disastri naturali, dentro e fuori dell’Isola, e lui – il patriota borghese – fu sempre in prima fila, generoso nel fare e non soltanto nel dare.

In un documento redatto in francese e intitolato, con intenzione di dileggio, agli «Amici (della camorra)» e datato 1865 – forse dunque coevo dei “goccius” – a Serpieri vennero attribuite le funzioni di «Premier Maitre des cerimonies», quando a Scannerini, subentrato al fondatore De Lachenal si riconosceva il Venerabilato della loggia Vittoria ed a Gavino Scano – futuro rettore dell’università e senatore – la dignità di «Orateur», come al Ghiani-Mameli quella di «Secretaire»…

Quando s’involò, egli era nell’organico della Libertà e Progresso (di recente fondazione) e recava le insegne del 18° grado della gerarchia scozzese: Sovrano Principe Rosa+Croce, Cavaliere dell’Aquila e del Pellicano.

Il suo funerale, svoltosi domenica 10 novembre 1872 – giusto otto mesi dopo la morte del venerato Giuseppe Mazzini – si rivelò occasione propizia per la prima esternazione delle logge attive nell’Oriente cagliaritano: ciò attraverso l’ostensione dei labari che finalmente fuoriuscirono dal Tempio per confondersi nel lungo corteo che accompagnava il feretro al monumentale, nonché attraverso l’elogio funebre pronunciato dal Fratello Federico Mereu, il Segretario della Libertà e Progresso che prese la parola fra gli altri oratori, tutti esponenti delle maggiori istituzioni economiche e sodalizi sociali operanti in città…

Sia la Rivista della Massoneria Italiana che Il Corriere di Sardegna riportarono quelle parole pronunciate, coram populo, davanti alla bara. Questa la commossa conclusione: «Simbolo di pace e di dolore deponiamo, o Fratelli, il ramo d’acacia… e all’ombra di questi stendardi abbrunati, che simboleggiano la causa che abbiamo giurato di propugnare finché avremo un alito di vita, rivolgiamogli l’estremo addio».

Non sarebbe mancata un’eco polemica. La presenza dei labari recanti le insegne di squadra e compasso avrebbe indotto il nuovo arcivescovo di Cagliari, l’oblato padre Giovanni Antonio Balma, – a detta del settimanale cittadino La Verità (quello stesso che aveva scritto di una «bella, maestosa, imponente e trionfante» bandiera massonica seguita da «un numero sterminato» di Figli della Vedova) –, a vietare al clero, pena la sospensione a divinis, la presenza in analoghe occasioni. Pur con conseguente crollo della cassa parrocchiale, «solita lucrare in larga scala dai funerali», osservò press’a poco l’acre periodico fattosi portavoce dei più ideologizzati ambienti del laicismo locale. Prima puntata d’una guerra mai conclusa.

Di lato al mausoleo evocante la maggior scena della fine della gloriosa Repubblica Romana (quella Repubblica che nel 1849 aveva abrogato la pena di morte!) ecco l’obelisco a quattro facce che ricorda Atttilio. In alto, un ovale di grandi dimensioni – il già menzionato ritratto a colori realizzato dal Guglielmo Bilancioni e vigilato da un angelo bambino – e, sotto, la dedica: «Di Attilio Serpieri / le ceneri / qui depongono / in pianto / il padre Enrico / la moglie Giovanna Rinaldini / i figliuoletti Cinzica ed Enrico / i fratelli / Giambattista Arnaldo Mirra».  A seguire è un cenno biografico: «Nato a Rimini nel 1834 / seguì in questa isola / il padre esule politico / vi trovò ospitalità conforto / vi morì nel 28 giugno 1867». A misurare lo scorrere del tempo, una clessidra alata aggetta alla grande base, e – nella faccia del grande dado chiaro – un’ape operosa scolpita all’interno di una corona d’alloro: simbologia che induce a pensieri insieme solenni e tragici.

Sulla destra e sulla sinistra della stele una lunga torcia rovesciata allude all’evento luttuoso; nella facciata posteriore è ancora una doppia incisione: «Dell’indipendenza nazionale / amantissimo / due volte combatté per essa / due volte ebbe il petto adorno / del distintivo dei valorosi / contribuì ad arricchire / di una nuova industria / questa sua patria adottiva / breve nobile vita / suo culto / la famiglia la patria il lavoro»;  «E / sotto questa pietra / l’avo la madre il fratellino / depongono il corpicciuolo / di Cinzica / dopo 10 mesi appena / nel 1 maggio 1868 / si ricompose al padre / l’anima tenerella / impaziente».

Dirimpetto ai monumenti celebrativi di Enrico Serpieri e del figlio Attilio sono quelli di Cimbro ed Arnaldo: Cimbro scomparso appena 23enne, nel novembre 1863, ed Arnaldo, morto a Tunisi nel 1902.

Di Antonio Cerruti e Pasquale Umana

Fra le lapidi disposte sul terrapieno che innalza al livello della cappella cimiteriale, accanto a quella che riporta il nome del piemontese (di Biella) Antonio Cerruti – anche lui Fratello della Libertà e Progresso e noto, nella Cagliari postunitaria, per essere stato il fondatore, giusto nel bastione ex militare della Madonna di Monserrat, sia del teatro Diurno che dei bagni “d’acqua dolce” nonché, nel 1877, dell’hotel La Scala di Ferro, con ingressi nel viale Umberto (e Regina Margherita) e, più solenni ancora, nella via Torino – una mostra singolari rilievi bronzei: ritrae il Fratello Pasquale Umana, medico e professore di nascita sassarese, rettore dell’università di Cagliari. Lo fu, rettore, negli anni 1875-76, precedendo nell’ufficio altri colleghi che pure aveva (o avrebbe) conosciuto nel Tempio massonico cagliaritano: così il giurista Gavino Scano (1882-83), così il medico Luigi Zanda (1883-86, poi 1886-88). Altri ne sarebbero venuti, dalle logge, a guidare l’ateneo: Oddo Casagrandi – che negli anni della grande guerra si mise a disposizione dell’autorità per guidare i tram rimasti privi di conduttori per le assegnazioni al fronte – e, medico anche lui, Roberto Binaghi, rispettivamente negli anni ’10 e negli anni ’20 e successivi (Binaghi per oltre tre lustri, così anche da meritare l’intitolazione del futuro sanatorio).

Il busto in altorilievo brunito riflette le sembianze del Fratello-accademico che fu anche ripetutamente (per un decennio) deputato al Parlamento nelle fila della sinistra liberale di Zanardelli e Cocco Ortu, ma riflette altresì l’affettuosa ammirazione di molti sottoscrittori – a cominciare dai suoi ex allievi e colleghi – che, all’indomani della sua migrazione all’Oriente Eterno, dopo tanta sofferenza per un ictus devastante, vollero onorarne la memoria.

Figlio ed allievo d’uno fra i più illustri clinici dell’Isola, aveva seguito le tracce paterne, perfezionandosi in importanti università del continente e ad Parigi, per essere quindi assunto, appena ventiquattrenne, all’Ospedale universitario di Sassari e qui reggere la cattedra di Clinica chirurgica. Caposcuola originale e appassionato, si trasferì a Cagliari alla metà degli anni ’60 per passare successivamente all’università di Roma (per Chirurgia teorico-pratica e Clinica chirurgica), sempre accompagnando all’esercizio professionale la pubblicazione di importanti studi scientifici.

A Montecitorio tenne decine di discorsi su questioni della istruzione pubblica e del sistema ferroviario statale e/o complementare dell’Isola, sulla normalizzazione amministrativa e giudiziaria del Nuorese al tempo preda di scorribande banditesche, ecc. Polemiche di stampa suscitò, nei primi anni ’80, la sua ferma scelta di campo a favore dell’allestimento di un lazzaretto all’Asinara, in chiave di difesa della maggior Isola dal rischio del contagio colerico.

In Massoneria il suo nome ricorse più volte come delegato delle logge sarde alle Costituenti (da intendersi come Gran Logge o annuali congressi nazionali) convocate nelle maggiori città del continente. E’ in tale contesto ch’egli venne incaricato della rappresentanza della Mariano d’Arborea e della Leone di Caprera, officine all’Oriente rispettivamente di Oristano ed Ozieri, nonché della cagliaritana Gialeto (ma per quest’ultima almeno sarebbe stato alla fine sostituito dal Fratello, e collega parlamentare magistrato, Raffaele Garzia) all’Assemblea della primavera 1872, la prima che si riunì a Roma dopo l’impresa dei bersaglieri di Cardorna.

La sua fu una personalità che suscitava amori ed odi, mai indifferenza. Asproni lo citò più volte, nel suo Diario politico, a proposito delle concertazioni della deputazione sarda a pro di qualche provvedimento di maggioranza o di governo. Il giudizio conclusivo, come sempre franco ma per certi aspetti anche umorale, non era di apprezzamento.

La notizia del suo passaggio all’Oriente Eterno, il 15 novembre 1887, non giunse certo inaspettata in città, ma il dolore fu comunque sincero e diffuso soprattutto negli ambienti universitari e sulla stampa quotidiana.  A lui L’Avvenire di Sardegna dedicò tutta la prima pagina dell’edizione del 16, anche con un ritratto a penna – secondo l’uso del tempo –, e per alcuni giorni seguirono svariate colonne di note biografiche e di cronaca delle manifestazioni di lutto (cui partecipano esponenti delle istituzioni e amministratori locali un po’ di tutta l’Isola). Questo l’articolo-epitaffio di Emilio Spagnolo: «E’ morto un giusto: Pasquale Umana è morto! Morto!… Da dodici mesi meno venti giorni l’egregio uomo giaceva malato; morta metà del robustissimo corpo, viva soltanto e tenace l’intelligenza. Sperò a lungo che la scienza avrebbe vinto il male; da due mesi aveva bandita dal cuor suo ogni speranza… Quando non conversava cogli intimi, si dilettava di amene letture e conversava cogli antichi autori – greci e latini – che erano stati sempre il suo grande amore… Era uno stoico sereno; e come gli stoici antichi mirava la spaventosa progrediente rovina del suo organismo con l’occhio tranquillo del medico che fino ai palpiti della morte chiede i misteri della vita…».

E ancora: «Era aquila per l’ingegno, come era leone per la forza fisica. Quello pose tutto al servizio della patria, di questa non abusò mai. Cotale superiorità gli suscitò nemici ed avversari; non ne volle mai vendetta, uso ad attendere giudizio dai benefici del tempo. Fu spietato soltanto contro le vanità atteggiantesi a persona; e contro e volgarità losche declamanti – sugli angoli delle vie – precetti di morale…».

Alla bandiera abbrunata in rettorato e alla sospensione delle lezioni a Medicina, si sommarono, nel prediletto ambiente universitario, altri segni di condivisione del dolore cittadino, come la presenza in massa dei giovani studenti ai solenni funerali partiti dalla via Corte d’Appello, di mezza mattina mercoledì 17.

Tirato da quattro cavalli il feretro fu letteralmente coperto da corone di margherite e d’alloro; i cordoni erano retti da alcune delle maggiori autorità locali, fra magistrati, professori, militari ed amministratori. Tra i Fratelli, il rettore Zanda, l’ex rettore Scano, il sindaco Ravot…  Ma, quasi a compensare i livelli del notabilato, ecco anche i poveri del Ricovero di mendicità, e naturalmente, per creare l’atmosfera di pensieri grandi sulla vita e sulla morte, la banda del reggimento Fanteria…

Al cimitero, il feretro venne deposto per le onoranze di circostanza, vale a dire per la cerimonia dei commiati. Parlò per primo il prof. Campus Serra, che associò in lui i due capoluoghi provinciali: «Signori! Là, su quel colle, cui grandi e sempre verdi pini ombreggiano, e dinanzi gli risuona il mare, là dentro il Santuario di Bonaria, or sono dodici lustri, Cagliari apprestava decoroso ricetto alle mortali spoglie di Domenico Alberto Azuni, il riformatore della moderna ragion mercantile; immortale figlio della inclita Sassari. Qua, sotto questi cipressi, onorata sepoltura, degno ricordo sorgerà alla memoria di Pasquale Umana, anch’egli figlio d’adozione della nostra diletta Cagliari. Dinanzi a queste due tombe, stretti nella solidarietà del dolore, affratellati dal sentimento d’una gloria comune, trarranno i figli dell’una e dell’altra terra a deporre corone di perenne ricordanza…».

Parlò poi il rettore Zanda («diletto amico di gioventù»): «L’odio si spegne e cessano le invidie. In questo luogo, sacro alla più sacra delle religioni, davanti a un feretro che racchiude il frale di un illustre uomo letterato, scienziato, oratore, filosofo, politico, medico, chirurgo, insegnante non è lecito mentire… Era modello di cittadine e di private virtù… Iddio rimuneri le sue fatiche di questa vita…». E dopo di lui l’avv. Carboni Boy: «Uomo di parte amò il partito, perché lo ritenne mezzo per raggiungere il perfezionamento ed il benessere del Paese; però, tempra adamantina, non esitò a sbarazzarsene talvolta, quando ritenne non rispondesse ai suoi alti ideali».

Fu la volta di Angelo Roth, il miglior allievo, medico curante nel periodo di malattia, destinato anch’egli al rettorato universitario (a Sassari) ed allo scranno parlamentare (e perfino di sottosegretario), massone impegnato, prima o dopo, fra Alghero Sassari, fra la Vincenzo Sulis e la Gio.Maria Angioy, e Cagliari naturalmente. Ricordò il martirio dell’ultimo anno, tracciò minuziosamente il percorso biografico del Maestro, rievocò i momenti del fecondo scambio personale e professionale… Commosse tutti.

Altri ancora presero la parola, non Domenico Lovisato e Giovanni Falconi, fermati dall’emozione; a nome degli studenti, il giovane A. Laconi e dopo di lui il prof. Filippo Vivanet (altro Fratello dei tempi trascorsi): «Forte e muscoloso, quadrato come un atleta, con un’armonica contemperanza delle facoltà dello spirito a quelle del corpo, integrava il tipico modello del “mens sana in corpore sano”…», eppure visse la tragedia dell’immobilità, e della morte annunciata ogni giorno per un anno intero…

Commentò L’Avvenire di Sardegna: «Ed ora tutto è finito! Pur troppo! Finito? No: qualche cosa resta a farsi ancora; erigere, per tributo d’amico, nel cimitero di Cagliari, un monumento degno dell’estinto che dica come, mentre la famiglia straziata dal dolore piangeva, pensarono gli amici ad eternarne nel marmo il comune dolore». Era l’idea di un busto per il quale il giornale lanciò una sottoscrizione, cui subito aderirono gli studenti delle facoltà di Medicina e Scienze, e che per tutto un mese venne rendicontata nelle pagine di cronaca. Mentre il Municipio assunse la delibera di assegnazione alla salma di uno dei loculi di riserva dell’Amministrazione.

A margine di tale notiziario di generale riconoscenza, merita rievocare anche l’opposto atteggiamento assunto dal clero della Cattedrale. Invitato ad intervenire alle esequie, non solo esso se ne astenne ma anzi ingiunse alle Figlie della Carità – cui era affidata la gestione dell’Asilo di San Vincenzo – di non partecipare, con i loro ragazzi, alla mesta cerimonia, benché chiamate dalla famiglia.

Significative le prese di posizione polemiche per… l’irreligione dei preti, assunte ancora dal giornale. Così il 17 novembre: «La famiglia del comm. Umana, a sgravio di coscienza, e conoscendo le idee spiritualistiche del defunto, volle invitare la parrocchia a prender parte ai funerali. La parrocchia rifiutò. Essa è stata logica. Il deputato Umana non fu cattolico nel senso che volgarmente si intende. Fu liberale sincero, nemico d’ogni esteriorità superstiziosa, tenace tutelatore dei diritti dello Stato. Abbiamo ad ogni modo voluto tener nota del rifiuto, come quello che prova non esservi, per la Chiesa, anima di battezzati meritevole di preci all’infuori di quelle che, prima che italiane, sono ascetiche e cattolicamente romane».

E il 18: «Noi rispettiamo tutte le convinzioni, anche quelle dei preti che non sanno rispettare le altrui, quantunque non sdegnino poi intascare i quattrini, che paga loro l’aborrito governo italiano. Però nel caso presente le convinzioni non c’entrano. Ci troviamo di fronte ad un esercizio illecito di autorità usurpate, perché, a quanto sappiamo, l’Ospizio San Vincenzo non dipende da monsignor Berchialla e non è mantenuto dai preti della Cattedrale. I quali, giacché ebbero paura che le suore di carità si contaminassero partecipando ai funerali di un legislatore italiano, ed i ricoverati dell’ospizio perdessero una porzioncella del loro posto in paradiso, dovrebbero metter le mani in tasca e pagare del loro quella somma che, per il mancato intervento, le casse dell’Ospizio ha perduto».

Di monsignor Miglior e del Fratello Barrago

Giusto di fianco alla lapide bronzea di Pasquale Umana è quella del canonico Francesco Miglior, teologo che nel tempo che gli toccò vivere fu, a Cagliari, il maggior avversario della Massoneria, la cui stessa esistenza gli sembrava un pericolo alla salute morale e sociale della città. Fu perito al Concilio Vaticano I (assistente del vescovo di Brindisi), fu fondatore e direttore di almeno tre giornali cattolici e guida spirituale del circolo San Saturnino, fu anche capitolare del duomo e, appunto come tale, contestò – lui creazionista, lettore del libro della Genesi senza mai ricorrere ai criteri storico-critici della esegesi – le lezioni darwiniane del Fratello Francesco Barrago, giovane medico militare e dottore aggregato della facoltà di Medicina (se n’è già accennato trattando di Efisio Marini).

Anche il sepolcro di Barrago – massone in forza alla Fede e Lavoro e padre di Oliviero, pure lui prossimo medico e prossimo massone nonché membro della commissione d’indagine comunale sullo stato abitativo di migliaia di cagliaritani costretti ai sottani di Castello e della Marina, ecc. – è nei dintorni, nella cappella familiare dei Barrago e Ciarella, fra le prime dopo la sequenza di quelle in capo alle confraternite religiose. Come se tale prossimità avesse voluto tacitare la durezza dello scontro ideologico (invero mosso da Miglior versus Barrago più che viceversa), in quel tremendo 1869 italiano e cagliaritano. Fu infatti, quello, l’anno del Concilio di papa Pio, che si sarebbe concluso con la proclamazione del dogma della infallibilità pontificia e, a Napoli, della celebrazione dell’Anticoncilio di razionalisti e positivisti, cui aderirono Bovio ed Asproni e anche qualcuna delle logge sarde; fu anche l’anno, il 1869, dell’azzardata (e clamorosamente respinta quasi all’unanimità) proposta del Venerabile della loggia sassarese – quella intitolata a Goffredo Mameli – di abolire, nei Templi massonici, l’invocazione Alla Gloria del Grande Architetto Dell’Universo, così come fu l’anno, a Cagliari, della diffusione de Il Positivo, «giornale popolare di cognizioni utili sull’economia, sull’igiene, sull’agricoltura, sulle arti, sul commercio, sulle industrie e sui bisogni della vita in generale»,  opera d’indegno e cultura di Vincenzo Dessì Magnetti, segretario generale dell’università e Fratello “positivista” in forza alla loggia Vittoria. E fu appunto anche l’anno, il 1869, dei rimbalzi polemici in quattro tempi fra la cattedra della facoltà di Medicina e il pergamo della primaziale di Santa Maria. Creazionismo o evoluzionismo?

Morirono relativamente giovani entrambi, e piuttosto ravvicinati anche nel tempo, il canonico e il massone. Il primo in un manicomio campano, da dove la madre – ormai suor Crocifissa del monastero di Santa Caterina, al bastioncino – lo recuperò, per pietà e col concorso di tanti, per un seppellimento cittadino, il secondo a Nuoro, dove cedette ad un morbo contratto durante le visite sanitarie ai giovani di leva. La stampa cagliaritana del tempo raccontò queste storie per molti e molti giorni, e furono storie, quelle di entrambi, pietose oltre ogni dire…

Squadra e compasso nell’area acattolica: di Looman e della Singleton, dopo Mela

Salendo i pochi gradini che dalla piana del primissimo camposanto, quell’esordio nel 1829, portano ai quadrati attorno all’oratorio – immessi nelle disponibilità civiche nel 1835 – si trovano altri sepolcri che rimandano ancora alla Massoneria sarda e cagliaritana: giusto a pochi passi dal monumento del canonico Spano (colui che nel 1861 aveva eseguito il primo studio sul cimitero e censito oltre cinquecento lapidi!), segnalati da una stele sono i riposi di Mario Mela (1874-1949) – un Artiere della Sigismondo Arquer, funzionario prefettizio nella professione, che donò i suoi beni alle suore dell’Asilo della Marina (di cui era stato per qualche tempo amministratore) – e di sua moglie Giannetta Toro, che lasciò la vita da giovanissima, nel 1908, allora ricevendo funerali civili. Perché era, Giannetta – sorella di massone (di Efisio, altro sfortunato Artiere della Fede e Lavoro) – attiva nel movimento anticlericale d’inizio Novecento, a Cagliari. Ressero allora i cordoni del feretro, nella lenta migrazione dall’abitazione di via Baylle al monumentale, diverse signore tutte collegate per stretta parentela alla Fratellanza massonica, dalla Campagnolo alla Pettinau alla Noli, ecc. Erano tempi, quelli che furono gli stessi dello scoprimento dei busti prima di Bovio allo square, di Giordano Bruno dirimpetto alla porta dei Leoni e dei quattro risorgimentali sul cornicione di palazzo Picchi così come, ancora, di Dante a sentinella del liceo Dettori, in cui il circuito associativo di un certo laicismo radicale proponeva manifestazioni, cortei e comizi, ogni settimana coinvolgendo i giovani dell’università e i più maturi esponenti dei partiti popolari e del liberalismo critico. In quel plesso funebre, di lato alla cappella cimiteriale, anche le spoglie dei piccoli Rita e Olinto Toro – quattro anni in due – e di Gaetanina Mela, arrivata ai venti.

Negli incroci di ragione e religione colpisce, in una delle lastre, ecco gli onori resi dalle suore al massone che era stato salutato dai suoi della nuova loggia Risorgimento 354, nell’AD 1949, con un pubblico necrologio apparso su L’Unione Sarda («AGDGADU – Massoneria Universale – Ieri è passato all’Oriente Eterno il Risp. e Car. Fr. Mario Mela 18. La R.L. Risorgimento ne dà partecipazione. Or. di Cagliari 16 Settembre 5949 V.L.»): «Alla memoria / del rag. comm. / Mario Mela / le cui spoglie mortali / accanto a quelle / delle sue dilettissime / qui attendono il dì / della risurrezione e / della vita imperitura / per l’eterno gaudio / nel lume divino di Cristo».

Muovendo però da questo sito dovrà arrivarsi all’area, poco distante, cosiddetta degli acattolici. Qui riposa, fra gli altri, Johannes Hendrikus Looman, le cui spoglie erano state accolte, in un primo tempo nel camposanto cosiddetto “degli Inglesi”, nell’attuale via XX Settembre, dov’è oggi la sede della Società degli Operai.

Resta niente, può dirsi, di Johannes Hendrikus, di natali olandesi (Deventer, 24 gennaio 1841) e morte sarda, nell’anno stesso della scomparsa di Giuseppe Mazzini e, a Cagliari, di quell’Enrico Serpieri per il cui accompagnamento funebre i labari massonici sarebbero usciti dai Templi affascinando (e/o inquietando) molti cittadini d’opposto sentire.

La simbologia massonica segna la tomba anche di questo Fratello assai più giovane dell’ex deputato della Repubblica Romana: aveva compiuto da quattro giorni soltanto il suo trentunesimo compleanno quando s’involò, Johannes Hendrikus, e la sua prima inumazione avvenne appunto in un’area d’incontro fra su camp’e su rei, sa Butanica e l’allora via di Circonvallazione. Quel cimitero fu smantellato nel 1895 e permutato – d’intesa fra il Municipio bacareddiano e la comunità inglese (rappresentata dal console-Fratello Eugenio Pernis) – con un quadrato erboso sulla sinistra della cappella del monumentale.

La lastra recita: «Za Lig Zijn De Dooden / Hier Rust / Johannes Hendrikus Looman / Geboren Te Deventer / 24 Januari, 1841 / Overleden Te Cagliari / 28 Januari, 1872 / Alles Is Ydelheid / Maar / De Liefde Vergata Nimmermeer». «In pace riposano i morti. / Qui dorme… / nato a… / morto a… / Tutto passa / ma / l’amore dura in eterno».

Ai lati del nome i simboli massonici: alla sinistra la stella Pentalfa, alla destra squadra e compasso intrecciati.

A pochi metri da questo, un altro monumento marmoreo accoglie i resti di Mary Singleton, giovane moglie del pastore della chiesa evangelico-battista, e dignitario della Sigismondo Arquer dal 1919 al 1924, Francesco Giusto Lo Bue, dal 1922 in carica anche nella Piramide scozzese.

Inglese di nascita, anglicana di religione, Mary Singleton sposò a Roma, nel 1909, quel ministro di culto protestante che tanto avrebbe inciso nella vita morale di Cagliari al di là dei ristretti spazi della sua chiesa. Le loro strade s’erano incrociate fra gli studi religiosi di gioventù e, fatta famiglia, proprio in Sardegna essi avrebbero maturato le esperienze capitali… Lui anche come Oratore di loggia in quel primo dopoguerra ancora d’incertezza fra tanti sconquassi, fra smobilitazione e reinserimenti cioè, lei come sostegno necessario alla piccola comunità riformata del capoluogo, e madre dei piccoli di casa.

Originario di Palermo, classe 1884, cresciuto a sua volta in una famiglia protestante, Francesco Giusto sviluppò la sua vocazione negli anni complicati dell’adolescenza: vivendo con i suoi a Tunisi, allacciò una forte amicizia con due religiose britanniche della Missione Nord-Africa. Con loro studiò l’inglese, ottenendo anche una borsa di studio per un collegio del Regno Unito ove poi soggiornò per un certo tempo. Rientrato in Italia, completò i suoi studi alla Scuola teologica di Roma e nella capitale, appunto nel 1909 – 25enne lui, 32enne lei –, sposò Mary, che gli avrebbe dato due bimbi (uno dei quali – divenuto anch’egli pastore – sarebbe stato partigiano nelle file di Giustizia e Libertà al tempo del secondo conflitto mondiale).

Con lei condivise la guida delle comunità via via affidategli: a Noto (Sicilia), a Gravina (Puglia), a Tripoli (fra gli immigrati italiani), a Napoli infine. Nel 1919 il trasferimento in Sardegna.  L’abitazione in piazza Martiri d’Italia, dove la Pretura aveva alcuni suoi uffici e gli svizzeri (e protestanti) Tramer il proprio laboratorio dolciario, giusto dirimpetto all’abitazione e studio di Emilio Lussu. L’oratorio protestante si trovava invece in uno dei primi stabili del corso Vittorio Emanuele (civico 43), quasi all’imbocco con la via Sassari. Non era un granché, ma proprio con l’aiuto di Mary, il pastore riuscì a trasformarlo in una accogliente sala per il culto domenicale e per le altre riunioni settimanali. E anche per le conferenze che, soprattutto dopo settembre e fino alla stagione calda, attiravano molto pubblico e sovente anche molte polemiche con gli ambienti cattolici.

Già dall’inizio – a dir di queste conferenze – la scelta cadde sul crinale tematico fede/umanesimo (“Scienza e Dio”, “Originale il pensiero di Gesù?”…), né mai sarebbe mancata la trattazione dei nessi fra patria e comunità credente, con frequenti spinose allusioni alla Chiesa cattolica: da “Il XX Settembre” a “Chi fu Savonarola?”, a “L’incoerenza del prete nell’osteggiare il divorzio”. Fra i più assidui partecipanti erano i Silicani, i Sitzia, gli Imeroni, gli Orani, gli Orlando, e ancora i Clavot, i Tramer, qualcuno dunque anche degli frequentanti i lavori della loggia…

Del marzo 1923 fu un incidente di qualche rilievo: il questore negò l’autorizzazione all’affissione del manifesto annunciante una certa conferenza. «Offesa alla religione dello Stato», obiettò il funzionario. E il giornale dei popolari – Il Corriere di Sardegna – commentò parteggiando naturalmente con il questore, non con il pastore, non con la libertà di coscienza e di parola…

Instancabile, Lo Bue seminò cultura religiosa in controtendenza rispetto agli assetti della piazza cagliaritana strutturati e presidiati dalla capillare organizzazione parrocchiale. “Origini e scopi della confessione auricolare”, “Roma sotterranea”, “Scavate più sotto!”, “Buonaiuti e la scomunica”… le conferenze si susseguivano l’una all’altra, magari con repliche cicliche, del genere sempre eterodosso: “L’Opera e la filosofia del Martire Nolano”, “I Valdesi”, “Il pensiero religioso del grande filosofo genovese (Mazzini)”, “Lorenzo Valla”, “Religione d’autorità e religione dello spirito”…

Alle cure del pastore-Fratello fu affidata, dal 1923, anche la piccolissima comunità protestante di Iglesias. E naturalmente anche lì, nel centro minerario, i problemi con il clero (ed eco sulla stampa) non mancarono. Con accuse (subite) di «ignoranza» e rimbalzi polemici.

Mazziniano ed antifascista, pastore e conferenziere, Oratore di loggia e capitolare scozzese nel Tempio di via Barcellona, sempre più assediato dal malvolere di fascisti e questurini, ecco Lo Bue con le sue complessità.

Nel 1924 la malattia grave e improvvisa di Mary, infine la sua morte. La salma trasferita nella cappella evangelica, per l’ufficio funebre. Da lì partì il mesto corteo alla volta del monumentale. L’evento di dolore mitigato «dalla speranza di rivederla nella Casa del Padre», come scrisse la famiglia su LUnione Sarda del 1° ottobre, aprendo il necrologio con alcuni versetti del salmo 116: «La morte dei Santi del Signore / è preziosa al suo cospetto». La lastra marmorea, rialzata sul terreno, riprende un celebre verso di San Paolo: «Il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita Eterna in Gesù Cristo nostro Signore».

(Soprattutto per dare una madre ai due bambini, Lo Bue avrebbe sposato nell’autunno dell’anno successivo una giovane cugina, Iole, ed avrebbe lasciato la Sardegna nel 1929, trasferito alla chiesa di Altamura. Avrebbe anche lui migrato all’Oriente Eterno il 5 agosto 1964).

Mario Lay, il segretario salvatore, e Nicolò Pugliese, l’industriale amministratore dell’Ospedale

Pressoché dirimpetto ai due lati corti dell’erboso rettangolo acattolico, ecco i luoghi di riposo di altri due Fratelli, anch’essi entrambi della Sigismondo Arquer: da una parte Mario Lay (o Lai), nella cappella di famiglia (dei Lay Rodriguez e Manurrita), dall’altra Nicolò Pugliese, in un grande loculo da cui sporge il busto bronzeo del defunto.

Cagliaritani entrambi, Lay e Pugliese, rispettivamente classe 1878 e più remota classe 1845. Entrambi commercianti, di manifatture tessili nella via Manno il giovane, di «berrette di lana follate» (invero anche prodotte in proprio) fra la via Gesù e Maria e il viale Umberto l’anziano. Repubblicano fedele al verbo mazziniano il primo – figlio di quell’Agostino Lay Rodriguez rimasto nella storia cittadina come apripista dell’arte fotografica (era stato lui a fotografare, s’è detto, Pietro Martini estratto dalla sua precaria cassa sepolcrale, a quattro mesi dalla morte, nel 1866) – liberal-bacareddiano il secondo, a lungo anche consigliere comunale.

Fu, Mario Lay, il Segretario oltre che della sezione del PRI anche della loggia, che lo iniziò nel 1912 e promosse Maestro l’anno successivo. In quanto responsabile della custodia dei documenti in cui fin dalla primavera del 1890 erano fissate le vicende della Sigismondo Arquer, i verbali delle tornate rituali, la corrispondenza in partenza e in arrivo, le note dell’amministrazione, ecc. – avendo avuto notizia di una imminente perquisizione dei questurini nella sede di via Barcellona – egli diligentemente s’attivò perché, nottetempo, i locali fossero liberati dagli archivi fraternali, che allogò temporaneamente nella sua abitazione, sui dossi calcarei di Tuvixeddu ed accesso dal viale Sant’Avendrace. Cosicché, quando arrivarono, funzionari ed agenti agli ordini di questore e prefetto poterono soltanto sequestrare questo o quell’arredo ma non le carte dalle quali si ripromettavano di infilzare nomi e sorti di Artieri nuovi e vecchi. Nel saccheggio materiale finì anche il doppione del busto di Giovanni Bovio, in gesso pesante, trasferito in un magazzino del Municipio (e meritoriamente ridonato dal sindaco Paolo De Magistris, nel 1970, ai repubblicani, e da questi ultimi restituito, in epoca successiva, alla Fratellanza liberomuratoria cittadina).

Orientò tempo ed energia, invece, all’amministrazione ospedaliera, ad essa forse veicolato anche dalla sua inesauribile filantropia, Nicolò Pugliese. Dirigente della società sportiva Gialeto – attento sempre alle esigenze pedagogiche, sportive e ricreative delle giovani generazioni, lui che non aveva figli –, fu oltreché industriale delle berrette «brevettate», anche impresario edile e finanziatore di un vasto programma di costruzioni abitative, fra la via Lanusei e la via XX Settembre.

Imprenditore abile e fortunato egli fu sempre mosso da una spiccatissima sensibilità per l’interesse pubblico, servito oltreché nella rappresentanza civica anche attraverso una generosa e continuativa attività solidaristica culminata nell’oblazione, all’inizio del Novecento, di 10.000 lire per l’attrezzatura della clinica Anatomica, all’Ospedale civile di cui sarebbe stato presidente dal 1905 e per svariati anni. Una lapide affissa all’ingresso del nosocomio con l’elenco dei maggiori benefattori lo cita per una offerta di ben 150.000 lire datata 1925 (evidentemente per lascito “in memoria di”). Fu anche amministratore del Ricovero di mendicità.

In diverse occasioni, nel primo decennio del nuovo secolo, partecipò alle gare elettorali amministrative, associandosi a diversi Fratelli di loggia (Enrico Pernis, Luigi Frau-Serra, Giuseppe Sanna-Randaccio, Raffaele Aresu, Luigi Gioda) in liste che – come nel 1907, l’anno-clou della contesa clericali-anticlericali a Cagliari – avrebbero preso titolo di “liberal-democratiche” e sarebbero state additate dai guelfi come “covate” dalla Massoneria e perciò da non votare.

Se Mario Lay legò il suo nome alla parte finale della vicenda massonica cagliaritana, prima dell’ostracismo fascista, Nicolò Pugliese figura nel piedilista fin dal 1891. Scalò la Piramide scozzese fino al 18° grado e raccolse anche i riconoscimenti onorifici dello Stato: il cavalierato della Corona d’Italia e quello dell’Ordine Mauriziano. Ebbero entrambi incarichi, soprattutto vissero la lealtà della militanza.

S’involarono a più di mezzo secolo di distanza l’uno dall’altro, i due Fratelli adesso e per sempre in reciproco dirimpetto al monumentale cagliaritano. Il primo nel dicembre 1963, all’età matura di 86 anni, nel conforto della famiglia allargata ai Cossu, i quali altri massoni avrebbero dato alla città con la nuova generazione, così come avevano prodotto, con le più remote i Lay-Rodriguez e gli Schinardi nel tardo Ottocento; il secondo nella serata di un caldo 26 luglio, un lunedì, nell’AD 1909, all’età di 65 anni, e dopo le affettuose e competenti cure mediche del Fratello Angelo Garau.

Pugliese appunto. Nel necrologio d’occasione, L’Unione Sarda lo celebrò «spirito elevatissimo, che profondamente vibrava del ribelle ansito contro ogni affermazione dogmatica», «adamantina tempra, uscita vittoriosa da tutte le più aspre lotte della vita, sdegnosa di ogni viltà e debolezza, plasmata alla fiamma della più larga altruistica generosità», ricordandone anche l’intensa partecipazione – negli anni della sua presidenza – alle vicende quotidiane del nosocomio cittadino: «i degenti, che lo conobbero nelle dolorose corsie bianche, serberanno negli occhi sempre la visione della sua austera figura che passava fra loro, tutti soccorrendo».

Commemorato in Consiglio comunale che, in segno di lutto, per alcuni giorni non tenne seduta, i suoi funerali – «per espressa volontà dell’estinto in forma puramente civile» – si trasformarono, di prima mattina, in una imponente e memorabile assemblea di amici ed estimatori. Questa la cronaca de L’Unione: «Aprivano il corteo i pii stabilimenti, il plotone delle guardie municipali e la banda cittadina. La salma posava sul carro funebre di 1.a classe. Tenevano i cordoni a destra il sindaco cav. ing. Marcello, l’assessore cav. Valle e il negoziante cav. Doglio, a sinistra il cav. Enrico Pernis (esponente della Loggia Arquer, nda), il comm. Nobilioni e il cav. Concordi consigliere di prefettura.

«Intorno alla salma facevano ala d’onore i valletti del Municipio. Seguiva uno stuolo di personalità cittadine, avvocati, medici, professori, professionisti ecc. Abbiamo tra gli altri notato la giunta a completo, quasi tutti i colleghi del Consiglio comunale, l’on. Antonio Scano, Luigi Congiu, il comm. Palomba, ecc.

«Al cimitero diedero l’estremo vale alla salma il sindaco cav. ing. Marcello a nome della cittadinanza, il cav. Valle quale presidente dell’Amministrazione dell’Ospedale, il presidente della Camera di Commercio comm. Nobilioni e l’avv. Giuseppe Sanna Randaccio». Quest’ultimo a nome della Sigismondo Arquer.

Guido Algranati, la disperazione suicida di un mite professore

In trasferimento finale verso i famedi degli Operai e dei Reduci delle Patrie Battaglie, ecco cogliere visibile a distanza, da parte dei visitatori della Tetraktis, nelle cosiddette “gradinate del Cima” – in larga parte oggi inaccessibili per smottamenti e crolli dei terrapieni – la lapide che rimanda, dal febbraio 1916, la tenera memoria di un altro Artiere, giovane e infelice: Guido Algranati. «Apostolo e martire della scuola» lo chiamò sua madre Benedetta Castelli, dando disposizioni d’incidere nel marmo quella definizione.

L’Italia era in guerra da quasi un anno e Cagliari viveva nella sua ordinaria quotidianità l’obbligata emergenza dei tempi, quando Guido Algranati – docente di fisica e chimica al Dettori, nel quartiere della Marina – si suicidò. Aveva 28 anni soltanto. Il perché del suo atto restò un mistero, neppure svelato dall’inchiesta ministeriale condotta prontamente e comunicata nelle sue risultanze in risposta ad una interrogazione parlamentare.

Guido era livornese, di famiglia israelita come tante ve ne erano (e sono) nella città labronica; sua madre insegnava proprio nella scuola ebraica di Livorno. Venne a Cagliari di sua scelta, nell’agosto 1914, per insegnare materie scientifiche al liceo. Aveva avuto cattedra ad Alatri ed altrove e aveva chiesto lui il trasferimento in Sardegna, chissà se per desiderio di esplorazione di mondi nuovi (anche spirituali e intellettuali) oppure per fuggire da ambienti sgraditi.

Le cronache cittadine dei primi mesi bellici, facilmente consultabili nelle collezioni ingiallite dei giornali, lo segnalano fra quelli che, da subito, fiancheggiarono, con atti semplici di generosità, la patria in armi. Offrendo qualcosa al Comitato nazionale «pei sigari ai soldati combattenti», scrisse: «Obolo doveroso mentre quei rettili umani che stiamo ricacciando oltr’Alpe glielo fanno trovare avvelenato». Pochi giorni dopo inviò un’altra offerta «per le famiglie dei richiamati», e poi ancora dei libri per le poche ore di riposo e distrazione dei soldati al fronte.

Quella tragedia. Perché? L’ipotesi che si affacciò nelle carte della relazione ispettiva disposta dal Ministero era il cedimento psicologico del giovane docente – mitissimo di temperamento – verso le intemperanze fuori misura, e forse senza freno da parte della presidenza, dei suoi allievi. (I quali, va detto, cercarono una qualche discolpa, subito sottoscrivendo una lettera di chiarimento inviata a L’Unione Sarda: ma condividendo poi con lo stesso giornale l’opportunità di un suo ritiro, proprio per non turbare ulteriormente il clima in cui l’ispezione doveva svolgersi).

Due mesi dopo l’evento doloroso la professoressa Castelli-Algranati presentò al procuratore di Livorno (per l’inoltro alla Procura di Cagliari) querela contro «tutti gli autori o favoreggiatori di lunghe e crudeli persecuzioni» che avrebbero indotto al suicidio il figlio. L’inchiesta dell’ispettore Squinabol, che pur si prolungò per alcune settimane, non riuscì a portare risultati certi e inequivoci.

Gli Atti Parlamentari recitarono: «… è risultato in modo assoluto che la causa del tragico fatto va ricercata unicamente nella natura del professore stesso impressionabile ed eccitabile in massimo grado.

«L’ispettore ha bensì ammesso – ecco la risposta scritta del sottosegretario Rosadi – che il contegno sconveniente e spesso anche crudele degli studenti liceali verso il prof. Algranati possa avere affrettato la estrema decisione di lui, ma ha escluso che questa fosse stata proprio motivata dalla gazzarra studentesca e tanto meno da una mancanza dell’efficace sostegno dal lato disciplinare del Preside e dei colleghi.

«Certo qualche leggerezza o deficienza è stata notata nel Preside del Liceo, prof. Bruni, ma essa è apparsa giustificata dal fatto che nell’applicazione delle energiche misure disciplinari richieste dal caso, il Preside trovasse ostacolo proprio nel prof. Algranati, troppo debole e mite di animo verso gli studenti.

«Equivoco invece e scorretto è risultato dalla relazione il contegno del prof. Antonio Giunta, il quale erettosi a tutore e vendicatore dell’Algranati, accusando a destra e a sinistra, divulgando notizie esasperate o false, ha cercato di dare del fatto una versione lontana dal vero e di mettere in cattiva luce i suoi colleghi».

Conclusioni valide per l’andamento del liceo: un commissario avrebbe vigilato sugli esami di luglio e di ottobre, il Consiglio dei docenti avrebbe adottato provvedimenti disciplinari verso classi e singoli reputati scorretti, il prof. Giunta (esecutore testamentario) sarebbe stato trasferito ad Adria e il preside Bruni ad Avellino (sostituito dal prof. Bernardi).

La loggia Karales volle rendere testimonianza al suo Artiere, pubblicando un necrologio su L’Unione Sarda del 27 febbraio: per partecipare il proprio «profondo dolore» per quella morte improvvisa, per ringraziare «i pietosi» che sarebbero intervenuti alle esequie. E la mattina di domenica 27 febbraio, il funerale fu un mesto corteo che muovendo dall’Ospedale civile giunse al monumentale, nei cui colombari più recenti, costruiti nelle terrazze della mezza collina, venne deposta la bara. Parteciparono, in gran numero, i colleghi del liceo-ginnasio, gli allievi dei vari corsi, i pochi amici di qui e qualche parente venuto dal continente, i Fratelli massoni cagliaritani. Presero la parola in diversi, allora. Fra essi Armando Businco, per la Karales, che veniva essa stessa da un grave lutto: aveva perduto appena quattro-cinque mesi prima il proprio Maestro Venerabile, il giovane Ottavio Della Cà, caduto in un combattimento sui fronti di guerra del Veneto. Ora quest’altro lutto.

Da due anni soltanto la Karales, nata nel 1912 nel circuito di Piazza del Gesù, s’era regolarizzata nel Grande Oriente d’Italia. Portava alla Comunione giustinianea l’organico d’una ventina di Fratelli, altrettanti ne avrebbe iniziati nei pochi anni ch’essa ebbe in prospettiva, prima i confluire, in parte almeno, nei ranghi della maggior Sigismondo Arquer. Di essa facevano parte numerose personalità note al gran pubblico dei teatri così come agli amanti dell’arte pittorica, note all’accademia, alla scuola e alle professioni: dal tenore Carmelo Alabiso – un siciliano a lungo in cartellone a Cagliari – al filosofo Antioco Zucca, al chimico Pietro Scarafia – colui che ricevette a Cagliari, nel dicembre 1914, Cesare Battisti – al pittore Mario Delitala, al francesista Giovanni Pepitoni, al segretario della Camera di Commercio Giuseppe Cao, al direttore didattico ed esponente socialista Eduardo Pintor, all’ingegnere Davide Cova (prossimo leader sardista e, nel secondo dopoguerra, sindaco di Oristano), allo stesso, allora giovanissimo, ventiduenne appena, Alberto Silicani, segretario della Camera del lavoro e prossimo redattore de L’Unione Sarda, almeno fino alla piena fascistizzazione del giornale.

Stefano Rocca, uomo del fare, fondatore della Società Operaia

Superato il sito a suo tempo solennemente dedicato al gen. Carlo Sanna (e a sua moglie), ed onorando la sua memoria di comandante militare della grande guerra – quella di “Babbu mannu” – certamente più di quella di deputato fascista della XVII legislatura e poi di presidente del famigerato Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, ecco una nuova tappa che riporta alle riflessioni storiche sull’umanesimo massonico: il famedio sociale degli Operai cagliaritani.

Al centro del grande piazzale murato dalle sepolture degli iscritti alla Società s’alza il monumento a Stefano Rocca, fondatore del sodalizio mutualistico nel 1855, sei anni prima dell’unità d’Italia.

Imprenditore meccanico nato operaio/artigiano, genovese di origini, Stefano Rocca, classe 1818, arrivò poco più che ragazzo a Cagliari. Mise su, col tempo, una bottega artigiana – una tipica fucina di fabbro ferraio – nella via San Nicolò (poi via Sassari), a un passo dal Carmine, fra il corso Vittorio Emanuele e l’area destinata ad accogliere la Stazione ferroviaria.

Colpito dal bisogno cui erano costrette alcune famiglie di operai conosciuti – compagni suoi –, che a causa dell’intervenuta disoccupazione (magari per infortunio o malattia) del capofamiglia dovevano ricorrere alla pubblica carità, eccolo raccogliere altre dodici firme e indirizzare, il 6 dicembre 1853, una petizione all’Intendente della Divisione (il prefetto cioè) di Cagliari affinché ottenesse dal governo di Torino la prescritta autorizzazione a un società di mutuo soccorso: un sodalizio apolitico, unicamente volto a realizzare il «materiale e morale ben’essere» degli artigiani. La risposta giunse tempestiva, e subito partirono gli adempimenti per la formalizzazione della società: raccolta delle adesione, convocazione della prima assemblea (202 soci riuniti in municipio il 19 marzo 1855, giorno di San Giuseppe lavoratore), approvazione dello statuto, ecc.

Con ben 192 voti egli, Stefano Rocca – giovane ancora di 37 anni –, venne eletto presidente. Da lì la Società degli Operai avrebbe avuto sede provvisoria presso il Gremio degli Scarpari, in via San Domenico (e poi a sa Costa, quindi in via San Francesco al molo angolo via Barcellona, poi ancora in via Cavour, alle scalette Santa Teresa, fino alla via XX Settembre…).

Questa la maggior opera del Fratello Rocca, consigliere della prima Camera di Commercio e, per due lunghi e cruciali decenni, anche consigliere comunale portatore di istanze democratiche vagamente mazziniane, alla base pure del sodalizio mutualistico destinato a diventare uno dei protagonisti della vita sociale cittadina.

Nel molto altro della sua militanza civile ci fu anche l’attiva partecipazione alla Fratellanza massonica, con l’annessa ascesa agli alti gradi scozzesi. I Sovrani Principi Rosa-Croce della loggia Vittoria (nata simbolica, non scozzese, nel 1861) furono autorizzati a riunirsi in Capitolo con decreto del Supremo Consiglio del 30 agosto 1867 e del GOI del 2 maggio 1868, ma la loro non si rivelò, all’inizio soprattutto, una esperienza tranquilla. Essi risentirono delle difficoltà sofferte dalla loggia sottostante. E nel biennio 1867-68 la Vittoria patì tanto da essere costretta – a neppure sette anni dalla fondazione – a demolire le proprie Colonne, salvo rialzarle, l’anno successivo, in un maggior Tempio, comprensivo stavolta anche degli Artieri della loggia-figlia Fedeltà. Prese allora vita, infatti, un’officina unificata – la Vittoria e Fedeltà – mentre aveva già alzato le sue Colonne anche la Fede e Lavoro e stavano per farlo, sempre nell’Oriente/Zenit di Cagliari, anche la Gialeto e la Libertà e Progresso.

E’ seguendo il contrastato procedere dell’ensemble apripista che, dunque, anche il Capitolo visse stagioni di carica e altre di delusione e ripiegamento, fino a dover subire anch’esso l’onta dell’abbattimento per decreto, salvo ricostituirsi pochi mesi dopo – l’11 settembre 1869 – con altro (e stavolta beneaugurante) decreto del Supremo Consiglio e del Grande Oriente.

Personalità forte di questa fase storica – che visse le ansie del compimento nazionale con Roma capitale – fu proprio Stefano Rocca, uomo di molti talenti morali e civili, oltre che professionali. Alle accuse pronunciate da un collega consigliere comunale che l’unità nazionale la temeva invece di auspicarla, e vedeva la Libera Muratoria come protagonista di gare profane più che di inoltri spirituali, egli rispose con parole nette ed orgogliose, trovando ospitalità nelle pagine dell’Osservatore e anche della Verità – testate settimanali cagliaritane, firmandosi «presidente» (Saggissimo) del Sovrano Capitolo Rosa+Croce della Valle di Cagliari. Questi i suoi argomenti (sull’Osservatore e sulla Verità rispettivamente del 16 e 24 aprile 1870):

«La società che ho il bene di presiedere avrebbe taciuto se si fosse trattato di uno dei soliti attacchi della stampa periodica, perché, tollerante ed amante della discussione e del libero esame dei suoi atti, ritiene che i fatti siano la più eloquente risposta a tutti gli appunti da qualsiasi parte essi vengano: ma per la circostanza del luogo e per la qualità pubblica della persona che proferì quelle parole, la Massoneria sarda né può, né deve restarsi silenziosa ed impassibile. Essa quindi per mio mezzo respinge sdegnosamente quelle parole né giuste, né misurate.

«I Massoni, è bene lo si sappia da coloro che sono affatto profani alla nostra associazione, si occupano di ben altre questioni che di politica e di religione; troppo teneri della loro libertà e desiderando essere rispettati nelle loro individuali credenze, professano il più assoluto rispetto per le opinioni di chicchessia; essi non s’impongono ad alcuno, tanto meno poi con mezzi sconci e violenti. Avendo a scopo il bene – tollerando nel suo seno tutte le opinioni politiche, tutte le credenze religiose purché onestamente professate e conformi all’indefinito progresso cui aspira, l’associazione Massonica vive ed agisce in una sfera ben più elevata delle lotte di partito o di fazione –, essa non toccherà mai l’ardente arena delle gare personali, né scenderà così basso da ricorrere agli espedienti meschini che le si vollero attribuire.

«Per mezzo mio pertanto le Loggie ed officine massoniche che ho il bene di presiedere dichiarano, una volta per sempre, che, aliene dalle polemiche, si asterranno dal rispondere alle avventate asserzioni dei loro nemici, ritenendo che i risultati del loro lavoro, palesi al pubblico, siano la più adeguata risposta a tutte le accuse. I liberi Muratori continueranno per l’avvenire, qui come ovunque, il loro pacifico lavoro, confortati dalla serenità della loro coscienza, e senz’altra arma per combattere i loro nemici all’infuori della ragione».  Questo l’atto di orgoglio del Fratello Rocca Pakiodi.

Il travaglio della Libera Muratoria cagliaritana negli anni ’80 non avrebbe dato purtroppo occasioni di continuità al suo impegno associativo, anche se intatti sarebbero rimasti i suoi più intimi convincimenti ideali. Ne fu prova la partecipazione di diversi Dignitari massonici – soprattutto quelli che avevano vissuto la sua età di maggior risultato – ai funerali. La morte lo colse giovedì 3 maggio 1888, a seguito di una grave forma di gastroenterite.

Il fedele L’Avvenire di Sardegna del Fratello Giovanni De Francesco (della loggia Mazzini, obbediente all’irregolare Famiglia di Domenico Angherà) gli riservò allora il giusto spazio. «La sua vita è un libro» – scrisse un amico che preferì non firmarsi. Nell’Isola e all’Isola «ei sagrificò tutta la sua operosità – aggiunse –. Avrebbe potuto arricchire volendolo; ma il padre, al suo letto di morte, gli legò sette figli ed una vedova, ed a questi ei si dedicò costante, coraggioso, paziente, sì che in lui essi ebbero un secondo invidiabile padre. Fu esempio a tutti di lavoro, di modestia, di onestà.

«Fondatore della Società degli Operai, le diede, coi suoi coassociati, quell’impulso che valse a salvarla dalla catastrofe in cui altre associazioni dovettero infrangere…

«Cagliari non dimenticò il suo figlio… per 20 anni continui lo volle al consesso municipale, ove la sua parola franca e leale e il suo dire sempre improntato al bene dei suoi rappresentati, gli valse la stima di tutti, a qualunque partito appartenessero…

«Stefano Rocca non lascia un censo, ma lascia ai figli suoi tale eredità di virtù nella quale ed essi e tutti i suoi concittadini dovranno sempre specchiarsi. Sulla sua tomba scrivete orgogliosi: Morì povero, ma onorato da tutti».

Un funerale austero, semplice, ma partecipato. «Non gli faceano corona i blasonati signori attestanti, pure in quei momenti supremi, le divisioni di casta. Attorno a lui accorsero i suoi amici, gli operai tutti di Cagliari, e l’omonima società – accorsero la Fratellanza Commerciale e molti negozianti della città; insomma è stata una solenne dimostrazione dell’affetto che gli portavano grandissimo i figli del popolo, al quale il defunto si gloriava di appartenere»: questa la cronaca del redattore de L’Avvenire.

I discorsi, al camposanto, furono quelli di Luigi Serpi, succedutogli alla presidenza della Società Operaia, ed Enrico Fadda, pure lui passato per la guida del sodalizio: tutti ne tesserono gli elogi ed incitarono i superstiti all’imitazione.

Per ultimo prese la parola un massone di gran storia, il medico-e-letterato, professore dettorino e universitario, Francesco Stara, che improvvisò riuscendo a toccare la sensibilità di tutti. Egli lodò le virtù dell’estinto rilevando come visse «più col cuore che con la testa, tanto da non reputare buona neppure ragione alcuna, se al cuore non parlasse». Ricordò pure come la sua fede si compendiasse nella formula “Patria e lavoro, Dio e popolo” e come tale filosofia lo avesse accompagnato fino ai suoi ultimi giorni, senza aver mai temuto la morte…

Passarono due anni e finalmente lunedì 27 luglio 1890 la salma, nuovamente benedetta nella chiesa “dei genovesi”, quella di Santa Caterina alessandrina nella via Manno e portata in fasce da sei operai, venne trasferita nel recinto nel frattempo allestito, al monumentale, dalla Società degli Operai. Un busto in marmo bianco, sopra una colonna con base, celebra ancora oggi una memoria e insieme accoglie, al centro della “piazza”, il visitatore. Ivi sono oggi custodite le stesse ceneri di Stefano Rocca.

Non mancarono, neppure stavolta, ancorché non in forma ufficiale, esponenti della Fratellanza massonica. E fra essi – fianco a fianco dei rappresentanti della Società mutualistica e del sindaco Bacaredda, – Gavino Scano, già Oratore dell’antica loggia Vittoria. Confessò di aver fatto un giuramento a se stesso, di non parlare più in circostanze che avrebbero suggerito il silenzio, in un luogo «ove spegnesi ogni bassa passione, perché desso è luogo di mestizia, di raccoglimento e di pace», ma poi altri sentimenti lo avevano spinto a non trarsi indietro. E rievocò, il Fratello Scano, la figura di Stefano Rocca «lavoratore indefesso, cuore nobile e generoso, amico sincero, patriota stimato», non senza cogliere l’occasione di guardare all’attualità politica e scagliarsi contro «gli apostati che trassero a rovina il paese godendo a avvincendo», mentre – aggiunse – «Rocca, fedele ai suoi principi, non raccolse che ingratitudine». Gli operai – concluse – sapevano «quanto da essi aspetta la Patria, da essi che formano il terzo stato, l’antemurale contro cui invano si spinge la fame ed il bisogno…». E richiamò la divisa etico-civile del compianto Fratello: lavoro, onestà, fede. Spunto utile nel rinnovo della sua esortazione: «Lavorate fratelli operai – perché anche noi come voi siamo operai –, lavorate e il paese serberà per voi quella stima, quella venerazione che oggi largamente, sinceramente, sentitamente tributa a Stefano Rocca».

Anche Gavino Scano – il «Bainzu Tricchitracchi» dei “goccius”, già rettore universitario e senatore, oratore anche per lo scoprimento nel 1886 della stele per i martiri dell’Indipendenza patria, nella piazzetta Villanova, ed in cento altre occasioni, ed operaio elettivo da tutti amato – avrebbe un giorno riposato nel famedio della Società degli Operai di Cagliari. Ebbe triboli anche il suo funerale, per le polemiche sorte fra la famiglia – in specie i figli Marco e Giulio, entrambi in forza alla Sigismondo Arquer – e il clero della primaziale, nel triste 1898 delle repressioni poliziesche. La salma fu infine benedetta, ma recò con sé, e non nascose, i simboli della Libera Muratoria.

Felice Mathieu, patriota dell’indipendenza, ghibellino in Municipio

A pochi metri da quello del mutualismo operaio sorge un altro lo spazio sociale che accoglie i Reduci delle Patrie Battaglie, il sodalizio che ebbe anch’esso fra i suoi fondatori, nei primi anni ’70 dell’Ottocento, diversi massoni cagliaritani. Il busto di Francesco Salaris, avvocato e professore, a lungo parlamentare, già combattente nella prima guerra d’indipendenza e gran patron della Società, nell’organico della loggia Vittoria, s’alza al centro del piazzale, ben visibile anche quando la cancellata è chiusa. Alle sue spalle il mausoleo dei Castelli, e fra essi ecco un altro massone, Agostino Castelli medico e docente di Igiene a Cagliari e per lunghi anni in Cile, già consigliere comunale nell’ultima stagione bacareddiana.

Gigantesco timpano neoclassico, sei colonne possenti, e lungo le pareti a semicerchio oltre cento lapidi. Fra esse quella di Felice Mathieu, e l’incisione della squadra e compasso fra le date di nascita (1843, a Sant’Antioco) e di morte (1910).

Impiegato contabile alla Vieille Montagne, consigliere comunale – lungo quasi un ventennio ad iniziare dal 1890 – a Cagliari, fu fondatore e ripetutamente socio di tutta una serie di sodalizi, fra il professionale e il patriottico e lo sportivo: dal Collegio dei ragionieri (1889) alla Società nazionale del Tiro a segno (di cui sarebbe stato a lungo vice presidente della sezione provinciale), fino alla Società dei Reduci delle Patrie Battaglie. Avrebbe accennato una volta, in Consiglio comunale, ai suoi trascorsi combattenti: fu nel 1903, quando il Municipio doveva rispondere al Capitolo dei canonici della cattedrale che aveva chiesto un contributo finanziario per una messa solennissima in onore dello scomparso Leone XIII. Ghibellino coerente, egli si disse contrario all’intervento e, infastidito per gli artifici procedurali adottati onde soddisfare i monsignori, prese cappello e se ne andò. E ad un collega clericale che l’aveva accusato di fuggire, replicò: «… se non scappai alle fucilate austriache, e meno ancora a quelle dei briganti pagati dallo Stato Pontificio di esecrata memoria, non sarei scappato certo dinanzi ad un consigliere».

Personalità vivace, polemica, iperattiva. Autore di un apprezzato saggio su La colonizzazione della Sardegna (1892), che riprendeva tesi da lui sostenute in Consiglio comunale e invocava una legge speciale per la Sardegna (con statuizioni riguardo ad un porto franco «esteso a tutto il litorale sardo e isole dipendenti», alla libera coltivazione dei tabacchi e libero smercio dei prodotti, alla riduzione del 50% di tutte le imposte), fu, in Municipio, relatore sulla riforma della pianta organica (1903) e presentissimo nelle discussione d’aula.

Cavaliere e poi ufficiale della Corona d’Italia, sposò Maria Rita Piccaluga dalla quale ebbe tre figli, fra cui Edoardo – secondogenito lo avrebbe seguito nelle attività della loggia Sigismondo Arquer. E altri ancora, nelle generazioni Mathieu a seguire, lo avrebbero imitato.

Alla Massoneria dette la sua adesione trentenne, nel 1873, poco dopo che la loggia Ugolino inaugurò il suo primo Tempio all’Oriente di Iglesias (dove egli per qualche tempo risiedette e lavorò).

Dopo la sfortunata parabola dell’officina ed il sonno obbligato di quasi tre lustri, si regolarizzò nel 1890 nel piedilista della cagliaritana Sigismondo Arquer, di cui la stampa del tempo lo indicava, talvolta anche con (più o meno) gustose vignette e didascalie, fra i più entusiastici fondatori. Come fece, ad esempio, in prima pagina il Bertoldo del 13 luglio 1890: il “pupazzetto” in posa d’ordine era accompagnato dalla seguente goliardata infarcita di tanti tripuntini ed alludente alla propensione associativa del personaggio ritratto: «Infelice Mathieu / Presidente dei Giarrettisti / V. Presidente della Cooperativa / Socio del Tiro a segno / Candidato internazionale / Reduce delle patrie battaglie / Francese di Sant’Antioco / Cassiere della Vieille Montagne / Frammassone / 33. 6. 16. 20.».

Il libro-matricola dell’Arquer lo segnala fondatore e Maestro, nonché grado 18° del Rito Scozzese Antico e Accettato.

Dopo sofferta malattia, migrò all’Oriente Eterno il 24 febbraio 1910. I funerali, «in forma civile per volontà dell’estinto», si svolsero nel pomeriggio dell’indomani, muovendo dall’abitazione al civico 13 della via Manno. La partecipazione fu larghissima. «Tutti i ceti sociali della cittadinanza vollero esserci rappresentati, il che dimostra il rimpianto destato dalla sua dipartita, che fu la dipartita d’un uomo onesto, altruistico, tutto acceso d’un pensiero di bontà», scrisse L’Unione Sarda nella sua dettagliata cronaca, miscelando ai dati essenziali della biografia del «soldato valoroso», quelli riferiti alla rappresentanza municipale e alle amministrazioni della Congregazione di carità e del Tiro a segno.

«Fu finalmente impiegato modello – aggiunse il quotidiano –: sempre uguale a se stesso durante le diverse fasi della sua vita, sempre fedele al suo vangelo di bontà, di operosità, di altruismo.

«I funerali eseguitisi ieri riuscirono una prova solenne della stima che circondava la onesta e limpida figura. Al corteo parteciparono una compagnia di fanteria al comando d’un capitano e la banda cittadina. Tenevano i cordoni del carro funebre il sindaco cav. ing. Marcello, il presidente dei reduci delle Patrie battaglie (Campurra), il presidente della Società del Tiro a segno (Ballero), il cav. Sanna Serralutzu per la Congregazione di carità, l’ing. Ferraris per le miniere, il cav. Pernis per la loggia massonica». E, al seguito, amministratori e dipendenti del Municipio di Quartu Sant’Elena (dove il figlio Edoardo svolgeva le funzioni di segretario comunale), dirigenti e vecchi colleghi della società mineraria, diversi ufficiali del Comando militare dell’isola, consoci dei diversi sodalizi e naturalmente numerosi effettivi dell’Arquer guidati dal loro Maestro Venerabile.

D’Aspro e i suoi bronzi religiosi

Nei vialetti a scendere dal famedio patriottico ecco diversi monumenti religiosi. Diversi d’essi, fino ad una Pietà bronzea nel sepolcro della famiglia Re, portano la firma di Franco d’Aspro. Sono più spesso figure imponenti, che la fusione pare rendere ancor più maestose ed impressionanti: come quella che regge il corpo ormai perduto di Annina Gianeri Rossi, o il Cristo delle benedizioni offerto alla famiglia Argiolas Cao. E ancora, giusto nei dintorni, ecco anche la Madre con bambino sul frontone della cappella Spano e il bassorielievo dell’Angelo in preghiera per Marielisa Vacca.

Meritò, Franco d’Aspro, nel 2012 una speciale mostra fotografica dei suoi lavori diffusi in siti pubblici della città. Avvenne per la manifestazione di Monumenti Aperti, e l’esposizione accolta a palazzo Sanjust fu all’insegna di “Umanesimo cristiano e umanesimo massonico”. Si contarono 60 pannelli e la loro sequenza disegnò un perfetto percorso cittadino, dal Municipio alle banche del Largo, alla ex clinica Aresu, all’Ospedale civile, al viale Porcell, al Castello della Casa massonica come della Biblioteca universitaria, della Cattedrale e del Museo diocesano, alle chiese di San Domenico e di Santa Lucia fino al Conservatorio di Musica, all’ex EPT della via Cadello, alle facoltà di Lettere e di Ingegneria, al santuario di Sant’Ignazio da Laconi, al campanile svettante della chiesa del Carmine, agli interni della Chiesa del Poetto – dov’è una Via Crucis con 42 figure, vincolata dalla Soprintendenza – e appunto ai due cimiteri…

D’Aspro – che riposa nel camposanto di Elmas – fu un massone d’alto grado scozzese, dignitario della loggia brancacciana Mazzini Garibaldi e poi della Leonardo da Vinci, regolarizzato nel GOI presso la Nuova Cavour e tra i fondatori della loggia Hiram, la stessa che ebbe a lungo Maestro Venerabile Armando Corona. Mantenne intatta, sempre, la sua fedeltà alla scuola di pensiero propria della Libera Muratoria in cui si sentì inoltrato dal padre massone e dal nonno carbonaro, e i ripensamenti critici in materia di fede – egli che la fede cristiana la espresse sempre con le sue opere – in nulla investirono la sua appartenenza leale all’Ordine massonico, società ecumenica per intima natura.

Ecco la cronaca della missione compiuta dalla Tetraktis giustinianea al monumentale di Bonaria. Dieci e più anni fa avviò questa pratica, dalle valenze insieme spirituali e civiche, la loggia Alberto Silicani, pure cagliaritana e giustinianea; altre seguirono, anche di altre Obbedienze (segnatamente di Piazza del Gesù/Palazzo Vitelleschi, con appositi arrivi addirittura da Nuoro). E’ stato anche stampato a suo tempo (e purtroppo presto esaurito) un opuscolo, primo numero di una serie che si sarebbe voluto numerosa, di biografie dei massoni della città ora nei riposi del monumentale. Certo è che i cimiteri costituiscono la miglior scuola dell’educazione: insegnano i limiti della nostra storia personale ed insegnano ad utilizzare al meglio, nella virtù e nella carità, il tempo e le energie che dalla natura – o dal Grande Architetto – ci sono venuti in dono.

 

 

 

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