Lo spopolamento, la crisi della politica e il futuro della Sardegna, di Pietro Soddu

Riceviamo e volentieri pubblichiamo  il seguente saggio dell’autorevole uomo politico sardo, contando di intervenire prossimamente sul tema e sul saggio.

 

Parte prima

1. Per comprendere le cause dello spopolamento di molte aree della Sardegna e della tendenza generale alla decrescita demografica in tutta l’isola è utile fare un lungo passo indietro: guardare la storia, riandare ad esaminare le condizioni dell’isola in tempi anche lontani, perfino quelli per i quali abbiamo una documentazione molto scarsa sulla quantità e sulla distribuzione della popolazione nell’isola.

Per questo sono andato a rileggere John Day, lo storico franco-canadese che più di altri ha studiato il fenomeno, mettendo sul piano dei secoli la popolazione della Sardegna a confronto con quella delle altre parti d’Italia e di tutta l’area europea del Mediterraneo.

Day presenta un’immagine desolata dell’isola. Si alternano nel tempo brevi periodi di crescita e lunghi periodi di desertificazione umana. La condizione generale è quasi sempre molto difficile a causa delle guerre, delle carestie e delle epidemie, ma anche della cattiva amministrazione, dell’insopportabile carico fiscale, delle diverse forme di sfruttamento e delle angherie di ogni genere, praticate durante il lungo regime feudale e dopo la sua fine tardiva nell’Ottocento. Ugo Guido Mondolfo chiamava l’elenco dei tributi feudali, ancora ai primi dell’Ottocento, «il martirologio sardo».

Non è dunque la prima volta che la Sardegna si trova ad affrontare gravi fenomeni di decrescita demografica. La Sardegna è sempre stata scarsamente popolata, a cominciare dal tempo della civiltà nuragica. La diffusa presenza di circa sette-ottomila nuraghi può indurre a far pensare a una popolazione numerosa. Ma l’assenza di nuclei abitativi di adeguata consistenza intorno ai nuraghi, salvo rare eccezioni, rimanda a una popolazione diffusa ma numericamente scarsa. Tanto scarsa da non raggiungere mai, in circa millecinquecento anni di civiltà nuragica, una consistenza numerica in grado di dare vita ad agglomerati urbani paragonabili a quelli che negli stessi anni si venivano formando nel Medio Oriente, nell’Egeo e nell’Egitto. Anche i documenti del periodo fenicio-cartaginese e addirittura più estesamente quelli del dominio romano confermano che per centinaia di anni non solo le zone interne ma anche le frequentate città sul mare conobbero lo spopolamento a causa di eventi bellici, di pestilenze e di carestie.

Gli storici di un tempo alimentavano la leggenda di un’isola ricca di messi e piena di gente. Ma quello che sappiamo della realtà di quei secoli non lascia pensare a una Sardegna densamente popolata, soprattutto nelle sue aree più interne, più povere di risorse, più esposte ai rigori climatici e desolatamente isolate dalla stessa morfologia del territorio.

È vero che gli storici greci, romani e del Medioevo – quando si occupano degli eventi bellici del loro tempo – parlano di guerre con decine di migliaia di morti, feriti e prigionieri. Ma è risaputo che l’enfasi era la norma per gli scrittori del tempo. Gli studiosi moderni invece hanno messo in luce come fosse impossibile, in tempo di guerre che si succedevano a distanza di qualche decennio una dall’altra, una crescita demografica come quella che emerge se si prendono per buoni i numeri dei morti e dei prigionieri registrati – si fa per dire – negli antichi testi di storia.

Nessuno degli storici più recenti, comunque, neanche i più ottimisti, indica mai per la Sardegna una popolazione superiore a cinquecentomila abitanti perfino nel periodo di un qualche sviluppo urbano e rurale più lungo, cioè nei cinque o sei secoli che ruotano intorno ai tempi di Cesare e soprattutto nel dopo-Augusto.

Per l’Alto Medioevo e l’inizio dell’era moderna dalle cronache e ancor di più dai censimenti giudicali, aragonesi, spagnoli e piemontesi risulta che la popolazione ha oscillato sempre tra le 200.000 e le 350.000 unità.

Un’oscillazione molto alta, che viene spiegata oltre che dalle stragi delle guerre, dalla miseria e dal ricorrersi frequente di carestie e pestilenze.

Come ricorda John Day, nel Medioevo scomparvero quasi quattrocento villaggi.

 

2. La storia ci dice anche che già nel passato remoto, oltreché in quello più recente, sono stati studiati o immaginati vari progetti per migliorare l’agricoltura, la pastorizia e l’amministrazione. Ci sono stati anche tentativi per la creazione di colonie di immigrati (come li chiamiamo oggi). Già i Fenici e i Punici, ma soprattutto i Romani, provarono a introdurre nuove forme di economia e a insediare in varie parti dell’isola gruppi di popolazione esterna (ex-militari, mauri ed ebrei), che nella condizione di liberi coloni e anche di schiavi venivano impiegati non solo a combattere le rivolte locali ma usati per rimpinguare le popolazioni. Ma la condizione demografica dell’isola non cambiò molto.

Altrettanto si deve dire dei tentativi di insediare nell’isola centri vivi e attivi, perseguiti dai Bizantini, dai Genovesi, dai Pisani, dagli Aragonesi e dai Catalani che, salvo rarissime eccezioni, non hanno dato risultati apprezzabili. Forse hanno inciso sulle realtà urbane più importanti e sulle popolazioni dei presìdi militari, ma molto meno hanno operato sulla condizione demografica dell’isola nel suo complesso e su quelle delle zone interne in particolare.

Anche i Piemontesi e da ultimo tanto i governi del periodo post-unitario quanto il regime fascista hanno tentato di realizzare vari progetti di riforma e di colonizzazione, ma con scarsi risultati se si eccettuano i casi di Carloforte nel Settecento e di Arborea, Carbonia e Fertilia nel Novecento; più fragile la colonizzazione della Nurra e del Sarrabus.

In Sardegna la condizione demografica cominciò a migliorare solo a metà Ottocento, cioè quando insieme ai cambiamenti realizzati nel sistema amministrativo, scolastico, sanitario, delle comunicazioni si sviluppò l’industria mineraria e anche quella manifatturiera, purtroppo però in misura insufficiente rispetto alla crescita demografica: e ciò costrinse una parte della quota eccedente di manodopera sarda a emigrare prima verso l’Italia, la Francia, l’Algeria e la Tunisia, poi verso le due Americhe e, con il regime fascista, nelle colonie africane.

Un esito migliore, ma ancora troppo debole, ebbe la creazione della provincia di Nuoro, che immise nel sistema delle aree pastorali una componente pubblico-amministrativa e trasformò Nuoro da grande borgo agropastorale in una piccola città, senza però cambiare la realtà nuorese di fondo e tantomeno intaccare quella già consolidata delle zone più interne della nuova provincia.

In termini numerici, fino a metà Ottocento la popolazione della Sardegna non superò mai le 500.000 unità. Ma dal censimento del 1848 a quello del 1931 la popolazione sarda passò da 574.103 unità a 980.000 e continuò a crescere fino a superare, nel cosiddetto “censimento dell’Impero” (21 aprile 1936) il milione di abitanti e toccare nel 1952, a sette anni dalla fine della guerra e dopo la nascita della Repubblica, 1.270.000 unità. Nel 1971, dopo 23 anni dalla nascita della Regione autonoma e a pochi anni dall’approvazione del Piano di rinascita, il censimento degli abitanti registrò 1.474.000 unità, fino a superare qualche anno dopo il 1.600.000 abitanti.

Bisogna tenere presente, peraltro, che tutti gli sforzi fatti per creare nuovi posti di lavoro proporzionati all’incremento della popolazione non furono sufficienti a fermare l’emigrazione, che anzi proprio negli anni del primo sviluppo industriale (tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento) registrò le punte più alte.

 

3. Tralasciando tutte le leggi speciali e gli interventi di vario genere – che cominciarono con la legislazione diretta a migliorare le condizioni dell’isola promossa da Francesco Cocco Ortu e poi ripresa dagli interventi fascisti – è indispensabile parlare del tentativo più importante, cioè del Piano di rinascita.

Il Piano si basava anch’esso su una legge speciale, la 588, approvata dal Parlamento l’11 giugno 1962 dopo una lunga rivendicazione, iniziata nel 1950, un anno appena dopo la nascita della Regione, su iniziativa soprattutto, ma non solo, della sinistra.

Non è il caso di riesaminare tutta la legge, ma è importante ricordare che essa prevedeva un intervento che per avere più efficacia e provocare un più rapido cambiamento doveva essere “straordinario” e “aggiuntivo” rispetto alla normale attività di governo dello Stato e della Regione. Doveva mettere in campo una serie di misure volte a realizzare un vasto processo di modernizzazione di tutti i settori della vita associata, coinvolgere le diverse popolazioni locali nel processo di sviluppo, realizzare la massima occupazione, valorizzare le risorse dei diversi territori e soprattutto sviluppare un moderno sistema industriale.

Per realizzare gli obiettivi del Piano furono adottate procedure speciali, creati in tutti i settori nuovi strumenti, una specifica rete pubblica e privata che comprendeva cooperative di primo e secondo grado agricole, artigianali e commerciali, consorzi di bonifica, consorzi industriali, istituti di credito, la Società finanziaria regionale, i Comitati zonali per lo sviluppo, i comprensori turistici, i centri di addestramento professionale, i centri di assistenza tecnica, oltre, ovviamente, alle nuove e specifiche strutture interne all’amministrazione regionale quali il Comitato esperti, il Comitato di consultazione sindacale, il Comitato di coordinamento, l’Assessorato alla rinascita e il Centro di programmazione. In breve, si progettò e in gran parte si realizzò un apparato ricco di competenze e di esperienze, volto ad assicurare sia la partecipazione all’elaborazione e all’attuazione del Piano da parte del più vasto numero possibile di categorie e dei loro rappresentanti, sia una struttura politica e amministrativa specifica, qualificata, snella e moderna.

Oggi si fa un gran parlare di programmazione dal basso, contrapponendola a quella del Piano di rinascita, definita piuttosto sbrigativamente come programmazione dall’alto. Si tratta, come è evidente dai pochi accenni contenuti in questa nota, di una forzatura, di un travisamento che nasconde le molte deficienze dell’attuale pratica di governo nonché la più importante differenza tra l’esperienza della Rinascita e quella del periodo successivo, dalla fine degli anni ’70 in poi. Essa non consiste nella procedura ma nell’impostazione di fondo: la prima aveva come base una visione generale, nata da un lungo processo politico, sindacale, sociale, culturale e condiviso da molti sardi; la seconda si fonda sull’idea che lo sviluppo dipende soprattutto dalla capacità della Regione, degli Enti locali e delle imprese di utilizzare le tendenze del mercato, anche in assenza di una visione generale condivisa dall’alto e dal basso. Finora questo metodo non ha funzionato e da ultimo, a complicare il quadro, si è aggiunta la crisi generale attraversata dal Paese, con tutte le limitazioni e le incertezze derivate dai continui cambiamenti che hanno indebolito la dimensione e le possibilità di operative delle Regioni e degli Enti locali.

Bisogna aver presente tutto questo per capire la condizione di crisi nella quale si trova oggi la Sardegna e per cercare di uscirne senza troppi danni.

 

4. L’obiettivo primario del Piano di rinascita era realizzare la massima occupazione. Per riuscirci era necessario mettere in moto lo sviluppo di tutti i settori produttivi, ma in modo particolare e urgente quello dell’industria, considerato dai maggiori economisti del tempo il modo più efficace e rapido per rompere la stagnazione e avviare il movimento anche nelle zone meno dotate di risorse naturali agricole o turistiche.

Non si trattò di una scelta contro l’agricoltura, la pastorizia o il turismo, ma dell’adozione del modello considerato da tutti il più efficace anche per realizzare un migliore equilibrio economico, sociale e territoriale generalmente condiviso. Tutto questo emerge chiaramente dai documenti regionali del Piano, dai pareri delle Zone omogenee e dei vari comitati coinvolti già nella fase della sua predisposizione. Con le risorse straordinarie si sono realizzate poche opere pubbliche. Ma l’assenza di interventi infrastrutturali importanti a carico della legge 588 era la diretta e logica conseguenza del fatto che le risorse finanziarie dovevano dar vita, come già detto, ad interventi “straordinari” e “aggiuntivi” rispetto a quelli più tradizionali, che dovevano continuare a rimanere a carico dei Ministeri  e della Casmez, in modo coordinato con le linee del Piano per assicurare l’equilibrio e i livelli di occupazione, realizzare la modernizzazione e avviare i cambiamenti strutturali della società sarda in tutti i campi: nei settori produttivi, nella vita sociale, nella dotazione infrastrutturale, nei trasporti, nell’edilizia popolare, nella scuola, nella sanità.

Non si trattò dunque di una scelta esclusivamente industriale e neppure di una scelta di sviluppo per poli, come è stato detto e come poi il giudizio si è venuto consolidando nell’opinione pubblica (e nella stessa descrizione di studiosi forse un po’ frettolosi): al contrario, si scelse un modello di sviluppo equilibrato in tutti i settori che, partendo dalla prima e più antica presenza, quella mineraria, agroalimentare, sugheriera, lapidea, dei metalli non ferrosi, dei laterizi, allargasse ed arricchisse il settore con le più nuove attività industriali presenti sul mercato: soprattutto, ma non solo, del settore petrolchimico, che era quello che dimostrava una più di forte capacità di rapida espansione sia per iniziativa delle Partecipazioni statali che ad opera dei privati.

Fu il mercato, e non come si è affermato da più parti la politica regionale, a decidere che le industrie che si insediarono in Sardegna fossero in prevalenza quelle della petrolchimica e del settore tessile. La cartiera di Arbatax fu realizzata con un misto di volontà politica e di richieste del mercato. Solo la realizzazione delle filiere dell’alluminio e del piombo-zinco fu una scelta politica.

In ogni caso la crisi dell’intero settore industriale non era prevedibile né evitabile, perché non dipendente da fattori locali. Quella del petrolchimico fu causata dalla  “Guerra del Kippur”; quella del settore tessile, in gran parte dipendente dal primo, dopo avere resistito per qualche anno si arrese quando prese vigore in tutta Europa la scelta della delocalizzazione. La crisi dell’alluminio, oltre alla scarsa qualità del carbone sardo, è stata causata dall’eccesso dei costi energetici, quella della cartiera da cause complesse attribuibili solo in parte a fattori locali; quella dell’industria mineraria estrattiva e dei metalli non ferrosi derivò in gran parte dall’esaurimento (non previsto dagli esperti) della materia prima, la cui estrazione è stata per millenni l’unica industria sarda, i cui giacimenti venivano considerati praticamente inesauribili. Dall’estrazione dell’ossidiana fino al tardo Novecento l’industria estrattiva ha segnato la vita di larghe zone della Sardegna, ma soprattutto del Sulcis-Iglesiente guspinese.

La sua scomparsa alla fine degli anni ’70 è stata per l’isola una delle più grandi catastrofi socio-economiche di tutti i tempi e, come ogni catastrofe, fu sostanzialmente inattesa.

 

5. Sulla scelta dell’industrializzazione (in particolare di quella della Sardegna centrale) le opinioni divergono sin dall’inizio. I sostenitori del mercato e quelli de “su connottu”, stranamente accomunati, hanno sempre predicato che il fallimento era inevitabile e che l’errore era difficilmente rimediabile, come dimostrerebbero (secondo loro) le vicende successive.

I sostenitori dell’industrializzazione come fattore di rapida crescita e inclusione della Sardegna interna nel processo di modernizzazione, tra i quali ci sono anch’io, hanno invece sostenuto sempre il contrario. Hanno sostenuto, cioè, che la presenza del settore industriale nello sviluppo di un’economia moderna è stato decisivo ovunque, e che quindi la sua presenza in tutta la Sardegna, anche nella più “difficile” Sardegna interna, era essenziale. A giudizio dei critici è stata la presenza dell’industria a destabilizzare le aree interne: per me, invece, la crisi di quelle zone nasce dall’insuccesso del processo di sviluppo industriale. I critici insistono soprattutto sull’errore di collocare le industrie nella Media Valle del Tirso.

Ottana, però, non era unica anche se fondamentale: era il cuore, il motore principale della modernizzazione di tutta la Sardegna interna e doveva, non solo secondo il parere della classe politica  regionale ma anche della Commissione parlamentare d’inchiesta, concorrere a eliminare o ridurre fortemente le cause del malessere sociale diffuso nell’isola.

Al suo nascere il progetto Ottana suscitò molte speranze. I giovani della Barbagia, del Marghine, del Goceano, del Mandrolisai, del Guilcer, del Barigadu, della Planargia e di parte del Meilogu convergevano a Ottana nell’intento consapevole di poter vivere una realtà completamente diversa da quella tradizionale, praticare un lavoro moderno, conseguire una formazione professionale e sindacale in linea con quella delle aree più avanzate del nostro Paese. E infatti proprio questo avvenne, ed essi divennero sia pure per breve tempo parte della nuova classe dirigente isolana.

Un vento di forte cambiamento soffiò su tutte le zone interne. Ci fu un grande risveglio, che però durò troppo poco. E, come tutti sappiamo, lasciò molte delusioni e quasi cancellò la speranza di un futuro diverso, riportando così in campo sia la vecchia rassegnazione sia il ribellismo e l’idea – che sembra oggi prevalere – secondo cui il processo di modernizzazione fondato sull’industria non fosse allora e non sia oggi necessario allo sviluppo, sicché sarebbe stato meglio – allora e sarebbe meglio anche oggi – puntare sul vecchio patrimonio de  “su connottu” con l’aggiunta dell’espansione del turismo marino verso l’interno.

Il fatto più singolare è che in questo ormai annoso dibattito nessuno abbia risposto all’ovvia domanda del perché il sistema industriale tradizionale –  entrato in crisi in quegli anni in tutto il mondo occidentale – sia stato ovunque sostituito da altre attività industriali, tranne che in Sardegna. E perché alla crisi industriale si siano aggiunte le difficoltà del settore agropastorale, dei servizi, del commercio, dell’artigianato, della cultura, del modello di vita, della tecnologia, dei consumi: insomma, non solo del nuovo, ma di tutto quello che esisteva, si può dire da sempre, e che era stato sostenuto e rinnovato per essere all’altezza delle esigenze della società civile e del mercato.

I sostenitori del princìpio che il settore industriale non andava abbandonato ma riconvertito per metterlo in linea con le esigenze e con i tempi della globalizzazione, con i processi, le merci  e la tecnologia più avanzata, come è stato fatto in altre aree del nostro Paese dove l’industria si è rinnovata mettendo in campo nuovi prodotti, nuove strategie commerciali, nuove tecniche, nuove idee, nuovi strumenti, nuove politiche, nuovi modelli produttivi competitivi e dinamici, non sono stati ascoltati. In Sardegna solo una minoranza difese l’industria. La maggioranza della classe dirigente (qualcuno dice secondo la sua natura e la sua tradizione storica), ad eccezione di quella sindacale, ha assistito passivamente o è intervenuta con precarie tecniche assistenziali alla crisi dell’intero sistema chimico, minerario, metallurgico, agroalimentare, lapideo, sugheriero, cartario e tessile, lasciando fare al mercato. Ha chiesto aiuto allo Stato e alle Partecipazioni statali, ma di suo non ha fatto quasi nulla: non ha utilizzato il capitale umano, né gli strumenti e le diverse potenzialità create dallo stesso Piano di rinascita, non ha elaborato un nuovo progetto, non ha messo in campo strumenti nuovi per far fronte alla crisi della prima modernità e entrare nella seconda, come hanno fatto altre realtà territoriali, colpite come e più della Sardegna dalla crisi del vecchio apparato industriale. Questo atteggiamento ha fatto sì che ora la Sardegna, dopo aver conosciuto nel passato la prima industrializzazione, basata sulle miniere e sulle altre risorse locali, poi la seconda, quella cosiddetta “fordista”, promossa dal Piano di rinascita, si avvii con difficoltà a introdurre la quarta, definita 4.0, senza avere sperimentato la terza, che è stata fondamentale in tutto l’Occidente e anche in Italia.

Da questo quadro di sintesi emerge con sufficiente chiarezza che è stata soprattutto l’assenza del processo di ristrutturazione e di riconversione perseguito in tutto il mondo occidentale che ha causato la desertificazione industriale in Sardegna e contemporaneamente contribuito fortemente al processo di spopolamento.

 

6. Le cause che generano oggi lo spopolamento non sono più o solo quelle descritte da John Day: sono di più e più complesse. Tra esse c’è la crisi dell’industria ma prima ancora c’è il cambiamento della base culturale della società sarda, che si avvia ad essere totalmente allineata alla cultura dominante, che comprende uno stile di vita più individualista, una lunga interminabile adolescenza, la pratica dell’aborto e delle nuove tecniche di contraccezione, normali e di “emergenza”, e molti altri elementi non sempre conciliabili con la formazione di nuove famiglie.

Nel mondo occidentale il nuovo stile di vita si è imposto ovunque, nelle aree urbane come in quelle rurali. Ma mentre le prime compensano la denatalità con l’immigrazione interna ed esterna, le seconde patiscono, oltre all’effetto negativo della denatalità, anche quello dell’emigrazione. Se partiamo dal riconoscimento che la denatalità deriva in primo luogo da ragioni culturali e soltanto in secondo luogo da altri fattori, tra i quali la desertificazione industriale, dobbiamo purtroppo convenire che è molto difficile invertire la tendenza con provvedimenti politici o amministrativi come quelli che sono stati messi in atto fino ad ora. Dobbiamo capire che solo un cambiamento profondo che tocchi insieme il paradigma culturale dominante e la complessiva struttura produttiva e sociale può farlo.

Risolvere il problema dell’orientamento socio-culturale non è compito solo della politica, che anzi ne è essa stessa vittima: è compito della società civile nel suo complesso. Ma essa non reagisce quanto sarebbe necessario.

Perciò tutto lascia pensare che la tendenza attuale a non formarsi una famiglia negli anni giovanili e a ridurre le nascite per avere meno oneri, meno obblighi e meno responsabilità continuerà per un tempo lungo: non saranno le poche azioni messe finora in atto in campo sociale a invertire la tendenza, che secondo gli studi degli esperti determinerà una diminuzione della popolazione sarda da 150.000 a 350.000 abitanti nell’arco di 35 anni.

 

7. Ma c’è sempre l’altra causa dello spopolamento: quella attribuibile alle differenti condizioni economico-sociali delle diverse aree. Questa causa non va sottovalutata ma considerata importante come le altre e, forse, anche di più. Le forme e i modelli – di vita e di lavoro – a cui aspirano le nuove generazioni nate dopo l’evoluzione economica e dotate di un livello d’istruzione superiore si pongono infatti naturalmente obiettivi difficilmente realizzabili nelle zone di residenza. Ed è soprattutto questo che provoca l’emigrazione verso le città, dove queste possibilità esistono e talvolta aumentano, mentre sono assenti o in via di progressiva riduzione nelle aree interne.

Mentre il fattore culturale può essere modificato solo superficialmente dalla Regione, è questo secondo aspetto del problema che la politica regionale può e deve affrontare con azioni forti e risorse consistenti: azioni e risorse che negli ultimi decenni sono mancate o sono rimaste incompiute, anche nel pur importante e innovativo governo di Renato Soru. Ci fu in quel momento una notevole ripresa di fiducia da parte dell’opinione pubblica più sensibile al rinnovamento della politica, ai valori ambientali e paesaggistici, alla sostenibilità e all’innovazione, alla cancellazione degli elementi strutturali e amministrativi obsoleti e parassitari. Molto meno per le questioni di cui parliamo. Purtroppo l’esperienza è durata solo un quinquennio: troppo poco per la formazione e l’affermazione nel corpo sociale della Sardegna e, prima ancora, nella sua classe politica, di una nuova visione dello sviluppo e di un nuovo “senso comune” coerente con essa e tale da ispirare l’azione della Regione.

Dopo Soru tutto è ripreso come prima, anzi peggio, perché la triade formata da «democrazia, autonomia e rinascita», che aveva costituito fino alla fine degli anni ’70 il comune denominatore delle forze politiche di governo e di opposizione, si era esaurita e non era stata sostituita da un altro sistema di principi  e di valori necessari per governare la nuova condizione dell’isola, superando i conflitti e le contrapposizioni tra vecchio e nuovo e provvedendo all’elaborazione di una nuova visione generale condivisa.

Da allora si fa un gran parlare di patti territoriali, di sviluppo locale, di risorse ambientali, agricole, paesaggistiche, culturali, di coesione e sostenibilità sociale (tutti concetti di derivazione europea), ma gli interventi – soprattutto quelli degli ultimi dieci anni – sono stati molto modesti e scoordinati, non inutili ma non certo sufficienti ad arrestare il fenomeno e invertire la tendenza. Più che contribuire a frenare il processo in corso, essi sono serviti forse a far stare meglio chi è rimasto nei luoghi meno periferici e anche a migliorare le condizioni di vita nelle zone in via di spopolamento, ma non ad eliminare le cause dalle quali nasce il declino. Per ottenere questo risultato è necessario fare molto di più: e farlo partendo da un discorso unitario, non limitato all’economia ma esteso alla condizione complessiva della società sarda di oggi.

L’esperienza dovrebbe bastare per convincere tutti che è necessario abbandonare la politica del caso per caso e adottare un approccio unitario che includa in un unico “piano strategico” le politiche istituzionali, agricole, industriali, turistiche, ambientali, sociali, sanitarie, dell’istruzione. Che occorre impegnare l’intero sistema in uno sforzo teso a garantire a tutti i territori adeguate possibilità di sviluppo moderno e contemporaneamente operare per rimuovere le cause più profonde, che non sono solo economiche ma più immateriali, perché nascono – come ho già detto – dalla cultura dominante, che ha messo in crisi le vecchie categorie valoriali e indebolito la politica che appare sempre più stanca, senz’anima, senza cuore e senza mente.

Da una crisi così profonda si esce solo attivando un complesso processo virtuoso solo se la classe dirigente nel suo insieme si impegna a superare la crisi non con tecniche di ingegneria istituzionale (come si è fatto finora) ma cercando di recuperare un senso solidale della vita, una visione universale di eguaglianza, giustizia, dignità per tutti, ascoltando le voci dell’anima e del cuore, usando la mente per rispondere alle nuove domande della società: rafforzare la democrazia e l’autogoverno, promuovere un nuovo sviluppo.

 

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