«Di Sardegna sono effettivamente intriso». Quella volta che Montanelli «parlò da sardo». Era il 1963 (Seconda parte), di Gianfranco Murtas

Dedicato a Lello Puddu, alla sua Nuoro, alla sua Sardegna.


L’Isola fra il Dessì televisivo e gli articoli del “Corriere”

Nell’estate del 1963 ci fu anche Giuseppe Dessì – l’autore di San Silvano e de I passeri, di Paese d’ombre e di una suggestiva intera collana di narrativa proustiana – a presentare all’Italia il volto di una Sardegna che usciva dagli arcaismi – e chissà se e quanto sempre per il meglio! – per affacciarsi alla modernità del costume e dell’economia. Al tempo del Concilio ecumenico, al tempo della distensione (o dei tentativi, dopo tante nubi, e prima dell’assassinio di Kennedy) internazionale, al tempo del primo centro-sinistra riformatore in Italia, con la sinistra finalmente chiamata alla responsabilità del governo. Da noi al tempo del piano di Rinascita. Materie di studio e approfondimento per i ragazzi oggi chiamati alla loro tesi di laurea: il salto graduale, talvolta scomposto, certamente definitivo, di civiltà.

Di quel “salto” dette prova e testimonianza Giuseppe Dessì, in televisione, in una serie documentaria chiamata La Sardegna, un itinerario nel tempo; era stato lui stesso, Dessì, a battezzare, il 4 novembre 1961, il secondo canale televisivo della RAI, con un suo lavoro, con la traduzione scenica de La trincea (in un ideale accompagnamento, per soggetto, de Il disertore venuto in libreria in quello stesso 1961). Un episodio della grande guerra, quasi all’inizio di quel drammatico, tragico anzi cimento del nostro esercito contro le truppe austriache, qui per la conquista della cosiddetta “Trincea dei razzi”: come sempre a collegare il merito dei sardi negli avanzamenti italiani, allora in guerra, ora in pace.

Con Dessì, appunto, Montanelli. Ecco finalmente di seguito, come già anticipato e titolati come voluto nel tomo Italia sotto inchiesta, Firenze, Sansoni, 1965 (da cui li ho ripresi, alle pp. 887/928), i sette articoli firmati da Indro Montanelli e usciti negli speciali del Corriere della Sera fra il 7 ed il 16 giugno 1963. Essi rientrano fra i 159 pubblicati dal quotidiano di via Solferino ed affidati alla penna, oltre che di Montanelli, anche di Alberto Cavallari, Piero Ottone, Gianfranco Piazzesi e Giovanni Russo.

Ricordo qui in sequenza i titoli originari e le date di uscita sul giornale: “Sardegna, arcipelago di uomini” (7 giugno), “Il blasone del pastore e lo scettro del contadino” (8 giugno), “I campi in Sardegna soffrono ancora la sete” (9 giugno), “Il carbone è un ammalato grave che può contagiare la Sardegna” (11 giugno), “Strano gioco delle parti tra Stato e Regione in Sardegna” (13 giugno), “L’oro della Sardegna è l’uomo” (15 giugno), “Ora la Sardegna cammina” (16 giugno).

 

1 – La grande svolta

Per la Sardegna, l’anno della «grande svolta» fu il ’46. E a provocarla non fu la politica, ma la chimica. La Fondazione americana Rockefeller aveva deciso di tentare un esperimento integrale di disinfestazione dalla malaria col D.D.T., in un bacino chiuso del Mediterraneo, e aveva scelto Cipro. I quadrimotori erano già in viaggio col loro carico quando un esponente sardo del partito liberale, Sanna-Randaccio, riuscì in extremis a convincere il comando alleato a dirottarli sulla sua isola. Non so a quali argomenti ricorse. Forse bastarono le statistiche. Quell’anno, di malaria, c’erano stati settantacinquemila nuovi casi. Il flagello dilagava. Gli uomini della «Rockefeller» riconobbero lo stato di emergenza e gli concessero la priorità.

Su due piedi fu costituito un Ente regionale per la lotta antianofelica o E.R.L.A.A.S. E fu una battaglia senza quartiere che durò quattro anni, costò otto milioni di dollari, e impegnò trentacinquemila tecnici, soprattutto americani. Rimarrà sempre (cioè dovrebbe rimanere, se l’Italia non avesse l’ingratitudine così facile e la memoria tanto corta) a loro disonore e vergogna, l’atteggiamento dei dirigenti socialcomunisti.

Nel ’46 anch’essi avevano salutato con entusiasmo l’iniziativa della «Rockefeller». L’anno di poi, mutate le condizioni politiche, si appellarono sui loro giornali alla «dignità nazionale» perché insorgesse contro la «intrusione degli sporchi dollari americani» nelle faccende interne italiane che, nella fattispecie, erano un’epidemia di «perniciosa». Questo è in Italia il rigore dei grandi moralisti del P.C., denunziatori degli scandali altrui, ma pronti ad allearsi, quando gli fa comodo, con le zanzare, le febbri terzane e la cirrosi epatica.

Nel ’47 i casi di malaria, da settantacinquemila, erano scesi a meno di quarantamila. Stagno per stagno, acquitrino per acquitrino, con provvidenziale pignoleria, l’isola veniva frugata, spruzzata, annaffiata dagli elicotteri dell’E.R.L.A.A.S. I Sardi erano più ammirati dell’organizzazione che persuasi dei suoi risultati. Dopo tanti secoli che ne morivano, si erano abituati alla malaria, la consideravano una fatalità. I pastori anzi protestarono sospettando in quella nuvolaglia di liquido polverizzato e acreolente un veleno per i loro armenti e con essi si ritirarono imbronciati sulle montagne, a covarvi la loro saggezza intrisa di sfiducia e di rassegnazione. Su una spalliera di un ponte sul Cedrino da tempo memorabile si leggeva una rozza scritta: «Vincerà l’uomo o la zanzara?». Ma tutti erano certi che avrebbe vinto la zanzara.

Invece vinse l’uomo. Nel ’48 i casi di malaria scesero a quindicimila. Nel ’49 a milletrecento. Nel ’50 a quarantaquattro, e furono gli ultimi. Gli americani se ne andarono alla chetichella. Grazie a loro, la sconfitta in guerra dell’Italia si era tradotta per la Sardegna nell’inatteso e definitivo trionfo contro il suo più antico, insidioso e mortale nemico. Ma non ricevettero nemmeno un benservito che avrebbe offeso la «dignità nazionale». La «Rockefeller» offrì ancora la sua assistenza tecnica e finanziaria per continuare l’opera di riscatto dell’isola. Timorosi delle reazioni social-comuniste, i democristiani declinarono.

Cos’abbia rappresentato per i sardi la liberazione dalla malaria, solo i sardi lo sanno. Tutto ciò ch’essi sono e tutto ciò che non hanno potuto diventare lo debbono alla malaria. Le debbono il fisico decurtato, il fegato ingrossato, il sangue impoverito di globuli rossi. Il sardo ha fama di uomo robusto, e lo è. Ma la sua forza è fatta più di resistenza, che di ribellione ai malanni. È impavido, ma di scarsa iniziativa. Gliel’hanno tolta generazioni e generazioni di «perniciosa»; non c’è da prenderne, contro di essa. Colto dalla febbre, il pastore si stendeva sotto un albero ravvolto nel suo mantello d’orbace, e aspettava: di guarire o di morire, non importa. Questo atteggiamento stoico e passivo è tuttora una componente fondamentale del suo carattere.

La malaria lo ha scacciato dalle coste cariate di acquitrini, e ha fatto di lui un nemico del mare. La Sicilia ha, affacciati sul mare, ben 107 comuni; la Sardegna, con uno sviluppo costiero più lungo, neanche la metà, o non sono abitati da gente di origine sarda, ma ligure, toscana e catalana. Esclusivamente da essa vengono i pochi pescatori e marinai dell’isola, con scarso naviglio, un ventesimo circa di quello siciliano. I sardi non si sono fusi con queste popolazioni allogene, che non sono riuscite a raggiungerli nei loro «ridotti» dell’interno. I conquistatori – punici, romani spagnoli, genovesi, piemontesi – sono sempre rimasti accampati sulle frange: il nucleo sardo non si è mai incrociato ed è rimasto intatto, asserragliato sulle sue montagne e chiuso fino ai giorni nostri nei suoi arcaici e autarchici microcosmi. E anche questo è un frutto della malaria.

Per sfuggirle, avevano abbandonato le pianure, uniche zone fertili e coltivabili dell’isola. E con ciò avevano rinunciato all’agricoltura, contentandosi di sviluppare una civiltà pastorale, l’unica possibile fra gli acrocori su cui si erano ritirati. Ma essi non formano un sistema omogeneo e continuo. Sono dei blocchi di granito isolati e sconnessi, che rendono difficile qualunque contatto. L’introversione sarda, prima di diventare un fatto anche psicologico, una permanente del carattere, fu un fatto geofisico d’insediamenti umani risucchiati verso l’interno e afflitti dall’arteriosclerosi.

Queste particolarità si colgono anche a occhio nudo. Quest’isola di 24.000 chilometri quadrati, a viaggiarla, sembra vasta come un continente e suggerisce il senso dell’infinito. Il paesaggio è solenne e drammatico. Fra paese e paese, fra villaggio e villaggio, corrono trenta, quaranta, cinquanta chilometri di deserto bruno-giallastro, che uno steppico vento perennemente spazza, e che solo sparse greggi animano di un bianco palpito di vita.

La convenzione geografica vuole che la Sardegna faccia parte del Mezzogiorno e del suo «problema». Ma le differenze sono sostanziali e decisive. Anzitutto, manca nell’isola il fenomeno delle città congestionate e traboccanti. Cagliari e Sassari non sono state fino ad oggi che dei villaggi cresciuti, e solo ora cominciano ad acquistare una fisionomia metropolitana. La società pastorale sarda non era in grado di sviluppare una civiltà urbana. Non ha un’architettura, salvo il poco che vi hanno costruito aragonesi, genovesi e pisani, ma solo sulle coste. Non ha nemmeno una storia, ha solo delle leggende.

Ma c’è, a differenziare la Sardegna da tutto il resto del Sud, anche un altro fatto, di ordine sociale: la mancata sovrapposizione di una casta conquistatrice, aristocratica e latifondista. Gl’invasori, come ho detto, si fermarono sulle frange, nell’interno non si spinsero mai, e infatti non vi se ne trova traccia. Non ci sono castelli, non ci sono nemmeno ville signorili. Il feudalismo non è passato su questa terra, che ha serbato intatte le sue strutture tribali, comunitarie e ugualitarie. La Sardegna non ha mai sofferto di prepotenze baronali, e quindi non conosce i fenomeni che vi sono connessi: il ribellismo, il servilismo, il postulantismo. Anche il cosiddetto servo-pastore, che rappresenta il gradino più basso della elementare gerarchia sarda, non assume mai atteggiamenti subalterni. E non riconosce altro padrone che il suo gregge. Solo i comunisti sono riusciti a imprestare al banditismo sardo un significato di protesta sociale alla Pugacev, e di rivolta contro le angherie del «signore».

Il banditismo, quando si fa un’inchiesta sulla Sardegna, è tema d’obbligo. Ma io intendo sbarazzarmene in poche parole, perché non c’è nulla di nuovo da scoprire, se non il fatto ch’è circoscritto a una sola provincia e non riesce a dare alla Sardegna nessun primato nella delinquenza. Per strano che possa sembrare, la Sardegna occupa uno degli ultimi posti nella graduatoria nazionale della criminalità. Ce n’è molta di più in Lombardia o in Toscana.

Quello che rende sensazionale il delitto sardo è il suo carattere primitivo e elementare. Esso nasce dalla sfiducia nelle leggi dello Stato, dall’impegno morale di farsi giustizia da sé, come avviene in tutte le civiltà arcaiche, e quasi sempre ha come pretesto iniziale il furto di bestiame. È tutto qui. Intorno ad esso non si sviluppano speculazioni, come accade per esempio in Sicilia.

Non c’è in Sardegna una industria della delinquenza, una associazione per il suo sfruttamento, come lo sono la mafia e la camorra, che poi contaminano per metastasi tutta la società. Si aiuta il bandito, lo si protegge, lo si nasconde, un po’ per rispetto del suo coraggio, un po’ per paura della sua vendetta. Ma non lo si usa come un’arma di minaccia e di ricatto. Egli non contagia. E tanto poco incarna una protesta e una rivolta, che molto spesso esce da famiglie non di poveri diavoli, ma di gente facoltosa. I protagonisti della più celebre, lunga e sanguinosa faida di Orgosolo appartenevano a due dinastie – i Corraine e i Succu – che tenevano il primo posto nella piccola società locale, come proprietarie di pascoli e di armenti. In Sardegna nessuno può venire squalificato per il fatto di avere un parente bandito. Può succedere in qualunque «buona famiglia», come in continente può succedere di avere una figlia o una sorella incinte anzitempo.

Altro carattere distintivo dal resto del Mezzogiorno: appunto per la mancanza di una società feudale in decomposizione, in Sardegna non c’è nulla di decadente, di corrotto e di degradante. Neanche a frugarla fin nei suoi più intimi recessi, vi si scoprono verminai di miseria materiale e di abbiezione morale. La povertà della Sardegna ha un volto dignitoso e decente.

I villaggi sono scaratterizzati, tutti uguali e mal costruiti, ma puliti. A fermarcisi, non si viene assaliti da postulanti queruli e appiccicosi. Al contrario, si è accolti da una ospitalità generosa, ma senza abbandoni, che si ammanta di cortesia anche per mantenere le distanze. Questa terra povera non è «depressa» nel senso in cui lo sono le altre terre del Sud. È soltanto primitiva; ma compatta e sana, senza nulla di dissolvente e di putrefatto.

Altra particolarità che la differenzia dal Sud: la sua bassa pressione demografica. La Sardegna rappresenta l’otto per cento della superficie nazionale, ma meno del tre della popolazione. Ciò vuol dire che, mentre in Italia la media è di 168 abitanti per chilometro quadrato, in Sardegna è di 59. E anche questo è un frutto della malaria, che per secoli ha ucciso più sardi di quanti ne nascessero. Ora le cose cambiano. Cioè potrebbero cambiare, se gli effetti decimanti della malaria non fossero stati rimpiazzati da quelli dell’emigrazione. Di questo parleremo più tardi, perché si tratta di un fenomeno forse decisivo per l’avvenire dell’isola. Ma fin d’ora possiamo anticipare che esso contribuisce a perpetuare un tipico carattere biologico della Sardegna: la sua ipotensione. Essa è aggravata dallo sparpagliamento in centri piccoli e piccolissimi. La metà del milione e mezzo di sardi vivono in comuni inferiori alle cinquemila anime. La media è meno di quattromila. E questo spiega la povertà delle amministrazioni comunali, le angustie dei loro bilanci, la scarsezza dei servizi e delle attrezzature, e quindi la necessità degl’interventi centrali, dello Stato e della Regione. Ma questo spiega anche il ristagno e l’involuzione di una società poco articolata in ceti e categorie.

In questi particolari, che fanno dell’isola un mondo effettivamente a parte, trova la sua giustificazione l’autonomismo sardo. Esso ha nell’isola tradizioni antiche e radici profonde, ma non ha mai assunto gli atteggiamenti ribellistici eversivi e scomposti di quello siciliano. Il Partito sardo d’azione, che ne fece la sua bandiera, nacque nell’altro dopoguerra, e fu iniziativa non di forze conservatrici per mantenere i loro privilegi, ma dei ceti medi più moderni e progressisti per combattere le forze centrifughe e l’assenteismo di una popolazione rimasta sempre estranea a uno Stato troppo lontano.

Per svegliare nei sardi una coscienza di cittadini e una volontà di attiva partecipazione, bisognava dar loro un organismo in cui potessero esprimersi e selezionare una classe dirigente locale. Questo sostenevano i capi sardisti come Lussu e Mastino, uomini di valore e di avanguardia. Non dissero ai sardi ch’essi erano le «vittime» dell’unità nazionale e che i «pirati del Nord» succhiavano il loro sangue, come si sente ancora ripetere in Sicilia e un po’ in tutto il Mezzogiorno continentale. Li sollecitarono soltanto a prendere coscienza dei loro problemi e a cercar di risolverli da soli. Gli esponenti dei partiti tradizionali, una volta eletti deputati a Roma, perdevano di vista la Sardegna. Il partito d’azione riuscì i inchiodarvene qualcuno e a costituire così il primo embrione di classe dirigente isolana. Il fascismo interruppe questo processo. Lussu finì al confino, di lì fuggì all’estero e ora milita nel socialismo nenniano, purtroppo sulla sponda «carrista». Mastino si ritirò nel suo guscio di avvocato a Nuoro, e non ne è più uscito. Peccato: è un bel cervello e una coscienza pulita.

Dopo l’ultima guerra, il partito d’azione rinacque. Ma non ebbe la forza di contendere la bandiera dell’autonomismo alla D. C. che l’aveva fatta sua. Ora si sopravvive, ma è diventato quasi il feudo di una famiglia, i Melis di Oliena. Sono quattro fratelli: uno è deputato a Roma del partito repubblicano, con cui quello sardista fa blocco nelle elezioni nazionali; uno è assessore (cioè ministro) dell’Industria e Commercio nella giunta regionale di Cagliari; uno è direttore generale nella stessa giunta; e uno sindaco a Oliena, unico paese della Sardegna con amministrazione sardista.

Nelle ultime elezioni politiche, il partito ha migliorato le sue posizioni: è arrivato a trentamila voti, e coi «resti» ha potuto assicurarsi un seggio, quello appunto di Melis. Ma è condannato a un ruolo di satellite della D.C., di cui è il socio nel governo regionale. Tuttavia nessuno può contestargli il merito di essere caduto sul campo con la vittoria in pugno: meno le destre, tutti i partiti in Sardegna ormai fanno dell’autonomia Regionale la base del loro programma.

La Regione venne istituita nel ’48. Anch’essa ha uno statuto speciale, ma i suoi poteri sono meno larghi (e i suoi fondi meno cospicui) di quelli riconosciuti alla Regione siciliana. Nelle loro rivendicazioni i sardi si sono mostrati molto più prudenti, cauti e misurati. Non hanno contestato allo Stato la funzione di garante dell’ordine pubblico, non hanno preteso di sostituirglisi nel campo dell’istruzione, dell’agricoltura, dell’industria, del commercio, come hanno fatto quelli di Palermo, che poi hanno spiegato in tutti questi settori la competenza e il rigore che purtroppo abbiamo visto. Hanno soltanto chiesto e ottenuto di «amministrarsi» da sé. Con quanta avvedutezza lo stiano facendo, lo vedremo caso per caso.

Ma ad alcune domande possiamo rispondere fin d’ora. Anzitutto: ha assolto la Regione il principale dei suoi compiti: quello di interessare la popolazione sarda, rimastane sin qui estranea, ai problemi dell’isola, e di sviluppare una classe dirigente capace di risolverli?

Il traguardo dell’autonomia era l’eliminazione di una categoria di «notabili» che si ponevano a intermediari fra il cittadino e lo Stato. Ogni paese o villaggio aveva il suo, che procurava il «posto», il trasferimento o la pensione ai suoi protetti. Di solito non abusavano dell’autorità che ne derivavano. Amministravano favori e indulgenze con una certa saggezza. Ma naturalmente non rappresentavano un incentivo di progresso e di modernità. Sotto la loro protezione, il sardo non sapeva di essere un cittadino. E quando riceveva il posto, il trasferimento o la pensione a cui aspirava, era convinto di doverlo al «notabile», non alla legge e al proprio diritto.

Il fascismo non distrusse questa impalcatura clientelistica. Si limitò (e non sempre) a mutarne gli intestatari sostituendo al «notabile» il «gerarca». Non fu una trasformazione del sistema, ma solo un cambio della guardia al «vertice». La Regione, come la sognavano i sardisti del tempo di Lussu e di Mastino, doveva invece rivoluzionare tutta l’impalcatura in senso democratico, abolire gl’intermediari fra il potere e i cittadini e dare a questi ultimi il senso dell’uguaglianza e della partecipazione alla cosa comune.

Questo, non mi pare che sia avvenuto. Naturalmente, è molto difficile accertarlo e provarlo. E un’impressione che mi è stata suggerita da una infinità di contatti e colloqui con amici sardi (io sono cresciuto in Sardegna, vi conosco migliaia di persone, e credo di goderne la fiducia). Certo, alla Regione sarda giova molto il confronto, che viene spontaneo, con quella siciliana. I nove assessori del piccolo governo di Cagliari e i settantadue consiglieri che ne compongono la assemblea non forniscono lo sconcertante spettacolo di fasto, di arroganza e di disinvoltura manovriera che offrono i loro colleghi di Palermo. Per quanto abbia frugato, non ho trovato traccia di «bustarelle». Ma questo, più che alla Regione, lo si deve alla Sardegna: dove, come ho detto, non c’è una società in dissoluzione che avveleni e corroda i tessuti. L’unico miasma che vi abbia allignato era la malaria. Moralmente, l’isola è sana. E quindi lo è anche il suo governo. Ma, quanto a vero rinnovamento politico in senso democratico, passi avanti non mi pare che se ne sia fatti. Prendendo il posto del vecchio «notabile», il dirigente regionale lo è diventato a sua volta, e lo dimostra la sua perennità. Sono sempre gli stessi a fare gli assessori e i consiglieri. E – intendiamoci – fra loro ce ne sono anche di buoni. Non solo il presidente Corrias, ma anche uomini come Melis, Dettori, Filigheddu, starebbero benissimo a Montecitorio o a palazzo Madama. Però non è per questo che sono riconfermati di elezione in elezione, ma perché il potere li mette in grado di formare una clientela, cioè di ripiombare la vita sarda nel suo vecchio vizio. E siamo alle solite: col cittadino che ignora di essere tale e preferisce affidarsi alla protezione del «potente» più che a quella della legge.

Se si facesse un plebiscito sulla Regione, credo che, a differenza della Sicilia dove il «no» sarebbe massiccio, essa verrebbe riconfermata. Ma più per un viluppo di interessi costituiti che per convinzione ideologica.

L’uomo della strada in Sardegna si sente lontano, estraneo alla Regione come per secoli lo fu allo Stato centrale. La partecipazione è monopolio di una piccola minoranza che agisce in circuito chiuso. Quello di aprire le case e il cuore dei sardi a una democrazia moderna è un bersaglio mancato.

In tutto questo, la responsabilità dei partiti è grave. Fra di essi, sebbene le ultime elezioni l’abbiano anche qui ridimensionata, la D.C. conserva una posizione egemonica. Non che i sardi siano più sagrestani degli altri. Anzi. Ma alla D.C. giovano varie cose. Anzitutto, la sua organizzazione parrocchiale, che meglio conviene alla pulviscolarità della vita sarda. Poi, le posizioni di potere che occupa da quindici anni e che le hanno consentito di moltiplicare le clientele. E infine la facilità di controllarle, nei piccoli e piccolissimi centri in cui l’elettorato sardo si sparpaglia.

In comuni di mille o millecento anime è facile contare le pecore bianche e quelle nere. E mi hanno detto che, quanto a sistemi di contabilità e di verifica, non si è badato per il sottile. A Caio s’ingiungeva, per far riconoscere il proprio voto, di dar la preferenza al primo e al quarto candidato, a Tizio si ordinava di darla al secondo e al quinto. Data la varietà delle combinazioni, ciascuno si vedeva assegnata la sua. D’altronde i comunisti dove sono loro a comandare – a Carbonia per esempio – hanno fatto altrettanto. E il panorama generale rimane quello di prima e di sempre: una società divisa fra cittadini di prima e di seconda classe, priva di circolazione e di ricambi.

Ma dove non si muore più di malaria. La vera grande rivoluzione della Sardegna è stata questa, dovuta agli «sporchi dollari americani».

 

2 – Pastori e contadini

Il protagonista della vita sarda è il pastore. Non lo è sul piano strettamente statistico, perché non ne sono rimasti che trentacinquemila, sebbene il computo sia difficile per l’ambivalenza di molti che esercitano la pastorizia insieme ad altri mestieri, e quindi sfuggono al conto. Ma lo è per il peso che ha sempre esercitato sulla mentalità, sul costume, sulla socialità, o per meglio dire sulla asocialità della Sardegna. Che faccia il medico, o l’avvocato, o il negoziante, gratta un sardo, e ci troverai un babbo o un nonno pastore: con la sua resistenza passiva, con la sua allergia alle iniziative, con la sua misura lunga del tempo, con la sua inesausta sete di libertà e di solitudine, con la sua incomunicabilità, con la sua renitenza a ogni estroversione, col suo forsennato individualismo.

È lui che ha dato un carattere al sardo. È lui che lo ha assuefatto a una dieta coi suoi agnelli e formaggi e ricotte e «giunchette». È lui che gli ha dettato una moda coi tessuti tratti dalle ruvide lane delle sue pecore. È lui che campeggia nei componimenti della scarsa letteratura sarda, i romanzi della Deledda e le poesie di Sebastiano Satta. È lui il solo essere umano che s’incontra traversando le solitudini del «profondo Sud» sardo, la provincia di Nuoro: ritto su un sasso, appoggiato al bastone di vincastro, in un’immobilità quasi minerale. Fa parte del paesaggio, e vi si confonde. La sua incontrastata signoria sull’isola aveva i suoi motivi economici e perfino i suoi titoli legali. Fino a centocinquant’anni fa, la proprietà privata in Sardegna era praticamente sconosciuta. I tre quarti del suo territorio erano ager publicus, terra di tutti, ripartita in demani comunali di uso collettivo. E naturalmente la regina di questo mondo senza frontiere era la divagante pecora che bruca, passa e va, lasciandosi dietro una scia di pietrisco.

Solo nel 1820 il re Vittorio Emanuele I emanò una legge detta «delle chiudende» che ingiungeva ai comuni di recingere i fondi e di ripartirli fra i privati che potevano acquistarli. Raccontano le cronache che il primo sardo a sapere di questo editto fu un prete che si trovava a Genova. Saltò su una tartana in rotta per l’isola; e, giunto trafelato a casa, disse ai parenti «Tancadebende», che in dialetto sardo significa «chiudete». Tutta la famiglia si diede a «tancare» quanta più terra poteva con muretti a secco, eppoi vi si disposero a presidio per difenderla con gli archibugi. Questa curiosa riforma agraria avvenne tumultuosamente, all’insegna dell’arraffa-arraffa e naturalmente senza il minimo scrupolo di razionalità. Ora tutta la Sardegna è un groviglio di «tanche» che s’intersecano e si arruffano a vanvera e che, viste dall’alto, fanno pensare a un immenso campo trincerato.

La crisi della pecora cominciò allora. Essa perse la sua illimitata libertà, dovette fermarsi davanti al muretto della «tanca» e pagare pedaggio per entrarvi. Cominciò fra il contadino e il pastore una sorda guerra che fornì molte reclute ai cimiteri e al banditismo. Il contadino seminava e il pastore gli bruciava le messi. Bruciava tutto quello che sottraeva la terra al pascolo, boschi, macchie, alberi. Se l’agricoltura sarda è ritardataria, se il suo sistema forestale è devastato e ridotto a spelacchiati ciuffi di lentisco, lo si deve in buona parte alla pecora che ha divorato quasi tutto e ai suoi pastori che hanno appiccato il fuoco al resto. Eppure, la Sardegna non può fare a meno della sua pastorizia, che fornisce il quarantacinque per cento del suo complessivo prodotto agrario; e ci sono intere province, come quella di Nuoro, che, senza la pastorizia letteralmente morrebbero. Bisogna quindi trovare delle condizioni che le consentano di convivere con l’agricoltura in sviluppo. Ma il problema è di difficile soluzione.

Il bestiame sardo è composto quasi tutto di pecore. Ce ne sono circa due milioni e mezzo, che rappresentano un buon trenta per cento del patrimonio complessivo nazionale. I bovini invece non superano i duecentomila, che del patrimonio nazionale costituiscono un misero due per cento. Il motivo di questo squilibrio è presto spiegato: la pecora non ha bisogno di nulla, e in capo a ogni anno restituisce coscienziosamente, fra lana e agnelli, il proprio capitale che oscilla sulle diecimila lire. Non chiede pascoli speciali né rifugio di stalle: mangia tutto (purtroppo per badare a un gregge di duecento capi al padrone basta l’aiuto di un ragazzo, e la mungitura si fa coi soliti arcaici sistemi.

La condizione del pastore non è, come molti credono, delle più misere, almeno sul metro sardo. A diecimila lire a pecora, il proprietario di cento pecore ha un reddito annuo lordo di due milioni. Al garzone che lo aiuta dà fra le tre e le cinquemila lire al mese oltre al vitto (un tocco di pane e un po’ di cacio). Ma gran parte del guadagno se ne va nell’affitto dei pascoli, che cresce col restringersi delle zone ad essi adibite. Queste zone sono ancora vaste: un milione e settecentomila ettari, sui due milioni e quattrocentomila complessivi che formano la superficie dell’isola, cioè il sessantacinque per cento della Sardegna, sono ancora feudo della pecora. Ma rappresentano ciò che l’agricoltura ha scartato, quanto c’è di più arido in questa arida terra. Ci vogliono dai due ai quattro ettari per sfamare alla meglio una pecora.

A questa maggiorazione di costo, si potrebbe rimediare migliorando il prodotto. Ma ciò richiederebbe a sua volta uno sforzo cooperativistico cui il pastore sardo è per sua natura refrattario. Egli ama la pecora perché è figlia e madre della sua anarchia e non segue nessuna regola, nemmeno quella delle stagioni perché in Sardegna le greggi non sono transumanti secondo l’alternarsi dell’inverno e dell’estate, ma solo peripatetiche. A prezzo di grosse difficoltà si è riusciti a istituire una decina di caseifici. Ma chi ficcherà in testa al pastore sardo che il pecorino potrebbe rendergli il doppio se la produzione venisse razionalizzata e unificata e si creasse un’organizzazione di vendita?

Al crescente costo dei pascoli si aggiunge un altro motivo di crisi: l’abigeato, eterna piaga della Sardegna che non accenna a guarire. Il derubato non denuncia il ladro, nemmeno se lo ha riconosciuto, per paura della vendetta. Preferisce rivalersi su un terzo, che a sua volta si rivale su un quarto. E ne deriva un generale stato d’insicurezza, in cui ognuno è alla mercé di ognuno.

Tutto questo ha creato un fenomeno assolutamente nuovo per la Sardegna: l’esodo in continente. I sardi non sono mai stati migratori. E meno di tutti lo era il pastore, legato alla sua terra da un vincolo quasi di consustanzialità. Ora ha imparato la strada del mare e della Maremma, dove i pascoli sono più a buon mercato, e l’abigeato non esiste. S’imbarca con l’armento, col cane, col giaccone di velluto, col mantello d’orbace, e forse con la disperazione nel cuore. Ma si imbarca.

La crisi non si poteva evitare. Si può solo attenuarla e ridurla col tempo (e ce ne vorrà molto), con la pazienza, con una lenta opera di persuasione che induca piano piano i pastori ad accettare nuovi criteri di allevamento in pascoli stabili e stalle. Solo a questo patto la pastorizia potrà trovare un sistema di coabitazione con un’agricoltura in sviluppo che, bene o male, si va modernizzando.

Quest’agricoltura presenta un carattere assai vario, anche sul piano geografico. Salvo che nel Campidano, non esistono zone omogenee.  A dieci ettari di grano, ne seguono venti di macchia, poi magari viene una vigna, poi ricomincia il grano. Sul piano statistico, la terra a disposizione dell’aratro assomma a settecentomila ettari, un terzo della superficie dell’isola. Ma è un terzo sparpagliato, mosso e difforme. Non c’è unità di colture. E questo disordine contribuisce alla povertà del reddito.

Eppure, neanche prima della riforma, non c’era quella «fame di terra» che nell’immediato dopoguerra sconvolse il Mezzogiorno continentale e provocò i fatti di Melissa, le marce di conquista dei braccianti, le occupazioni violente. A risparmiare alla Sardegna queste convulsioni e terremoti fu certamente, anzitutto, la bassa pressione demografìca: la terra lavorata è poca, ma poche sono anche le braccia che la lavorano: non c’è ressa sui campi. Ma ci fu anche il diverso ordinamento fondiario. Di questa poca terra lavorata, il settanta per cento appartiene a piccoli proprietario coltivatori diretti, che rappresentano i nove decimi della popolazione agricola sarda. Solo un trenta per cento si può chiamare latifondo. Ma si tratta di un latifondo sui generis perché a goderne non è un’aristocrazia terriera come quella del Sud che dalle terre trae non soltanto i suoi redditi ma anche il suo potere politico e il suo rango sociale.

Il latifondista sardo appartiene quasi sempre al ceto medio, è di estrazione borghese e cittadina, e vive di altre professioni, soprattutto liberali. Sono medici, sono avvocati, sono funzionari, che del «feudo» s’interessano poco e ci vanno di rado. Di solito, lo danno in affitto (la mezzadria è quasi sconosciuta) e non v’investono nulla, né capitali né orgoglio. Questo proviene certamente dal fatto che le proprietà terriere, in Sardegna, si sono formate di recente e nel modo che ho detto.

Come non c’è la fame di terra da parte di chi non ne ha, non c’è nemmeno il forsennato attaccamento di chi la possiede. Manca la tradizione baronale del Sud che fa della terra la fonte e la misura di un prestigio. Non per nulla la riforma agraria è stata attuata proprio da un sardo, e latifondista per giunta, Antonio Segni, che l’applicò anche contro se stesso. I maligni (e ce ne sono anche qui) dicevano che lo fece per liberarsi dei suoi fondi meno produttivi. Ma non è vero. Di persona ho constatato che i terreni espropriati a Segni sono, sì, poco produttivi, ma non meno di quelli che gli sono rimasti.      .

È difficile dire quale sia il reddito medio dell’agricoltura sarda: dipende, si capisce, dalle zone. Si può dire solo ch’è un reddito normalmente basso, anche se negli ultimi dieci anni è salito di un buon cinquanta per cento, cioè di una proporzione quasi doppia di quella del Mezzogiorno dove però si è partiti da un livello nettamente superiore. Mi limito ad alcuni dati fondamentali senz’addentrarmi nei cosiddetti «problemi settoriali» delle singole colture. Dei settecentomila ettari coltivati, oltre duecentomila lo sono, estensivamente, a grano, con una produzione che oscilla sui due milioni e mezzo di quintali, poco più di dieci quintali a ettaro. Va bene che si tratta di grano duro, che sul mercato spunta prezzi più remunerativi. Ma siamo, come si vede, su livelli scarsi.

Se i miei dati sono esatti, la famiglia di un coltivatore diretto (e tali sono, ripeto, i nove decimi della popolazione agricola sarda) ritrae in media dalla sua proprietà qualcosa come centocinquantamila lire l’anno, cioè un reddito di fame. Tanto è vero che, per arrotondarlo alla meglio, il coltivatore diretto si fa bracciante e cerca temporaneo impiego presso il più fortunato vicino. Oppure abbandona il fondo e va a cercar lavoro in città.

Questo stato di endemica crisi proviene anzitutto dalla scarsa produttività delle terre, salvo – si capisce – là dove sono irrigate. Un secondo motivo è la difficoltà delle migliorie. Esse richiedono un investimento di capitali. Ma i capitali sono preclusi al contadino sardo da un sistema bancario che, come del resto accade in tutto il Sud, sembra escogitato apposta per scoraggiare le iniziative e mummificare la miseria. La richiesta di garanzie è puntigliosa e pesante, il tasso d’interesse oscilla fra il dieci e il quindici per cento. In Sardegna è ignota l’usura privata, che costituisce una delle piaghe del Sud. La fanno le banche con le loro durissime richieste. A questi motivi di disagio, un terzo se n’è aggiunto negli ultimi anni: la dissennata corsa alla motorizzazione. Una propaganda poco scrupolosa, o almeno poco previdente, è riuscita a persuadere il contadino sardo che un trattore può trasformare in fertile terra qualunque petraia. Poco avvezzo al calcolo dei costi e dei redditi, il contadino ha impegnato anche la camicia per comprarsi l’arnese, e nello spazio di cinque anni il parco-macchine dell’isola si è sestuplicato. Questa ingenua fiducia nell’onnipotenza della tecnica non ha trovato naturalmente compenso nei risultati, e gl’incauti acquirenti si son trovati schiacciati dai debiti e sull’orlo del fallimento. La Regione ha dovuto intervenire con una «Legge Costa», così chiamata dal nome del suo proponente, il consigliere regionale Nino Costa. La Regione si è accollata i debiti degli agricoltori, che li ammortizzeranno in dodici anni al tasso del tre per cento. Contro questa misura si sono avanzate molte critiche. Si è detto ch’ è stata varata più per guadagnar voti alla D.C. che per risolvere la crisi, e forse c’è del vero. Si è detto che essa serve più a sanare il passato che a predisporre un migliore avvenire, e anche in questo forse c’è del vero. Ma non si poteva far altro, per salvare il salvabile. Se la legge Costa non è sufficiente a risolvere il problema, era tuttavia necessaria a evitare la catastrofe. Ma un altro e più profondo motivo di disagio è l’ordinamento catastale, cioè il suo spaventoso disordine. Una stolta demagogia ha spinto gl’italiani a ravvisare il nemico dell’agricoltura solo nel latifondo, che lo è. Ma non lo è di meno il «minifondo», cioè la polverizzazione della terra. I sardi hanno portato questo fenomeno al parossismo. Vicino a Cagliari c’è una vigna che appartiene a quattro fratelli, i quali non se la sono divisa in appezzamenti, ma in filari. Il primogenito possiede il primo, il quinto, il nono, il tredicesimo eccetera; il secondogenito ha il secondo, il sesto, il decimo e così via. Presso Macomer un padre di famiglia ha lasciato la sua «tanca» al figlio maggiore. Però i trentaquattro olivi che vi crescono dentro li ha dati in proprietà alla figlia. L’origine di questo fenomeno è nella struttura della famiglia sarda che, contrariamente a quanto si crede, non ha nulla di patriarcale. L’unità del fondo si basa su quella dinastica, che il sardo ignora. Appena sposa o diventa maggiorenne, il figlio reclama la sua parte e se ne va. Così i poderi si dividono in campi, i campi in fazzoletti, i fazzoletti in strisce, una «tanca» dentro l’altra, all’infinito, sino a sbriciolare la terra in frammenti che assicurano al proprietario soltanto la fame. Nel codice ci sono due articoli, 846 e 847, che impongono il rispetto, nei passaggi di proprietà a qualunque titolo, della «minima unità colturale». Ma nessuno si è mai curato di definire in cosa consista questa unità e di predisporre i mezzi per salvarla. Se i nostri grandi riformatori sociali lo facessero, compirebbero un’opera sacrosanta. Ma forse non si sentirebbero abbastanza «riformatori». E così si va avanti a costruire un’agricoltura, cui si lascia il diritto di distruggersi da sola.

Eppure, anche quella sarda di progressi ne fa, e il suo reddito ora tocca in media gli ottanta miliardi di lire. Sono sempre troppo pochi. Ma segnano l’inizio di una civiltà di tipo agricolo al posto di quella pastorale, che ora passa in seconda linea. Il guardiano di pecore conserva il blasone, ma cede lo scettro al contadino.

 

3 – Il Piano di Rinascita

Dal ’50 ad oggi lo Stato ha speso in Sardegna qualcosa che oscilla sui seicento miliardi. Non si può dire che li abbia buttati al vento. Nello stesso spazio di tempo la produzione agricola è più che raddoppiata. Il reddito pro capite è aumentato del trenta per cento. La disoccupazione effettiva non supera le diecimila unità. L’industrializzazione ha preso l’avvio. Dei risultati insomma ci sono.

Ma c’è da chiedersi se non se ne sarebbero raggiunti di migliori e più decisivi, se si fosse agito in maniera un po’ più ordinata. Gl’interventi sono stati arruffati, discontinui e talvolta concorrenziali. Lo strumento principale è stata la Cassa del Mezzogiorno, che qui ha operato molto bene e con grande serietà in tutti i settori. Le faraoniche dighe sul Flumendosa sono merito suo. Dei duecento miliardi che la Cassa ha investito in Sardegna, non ho visto nulla, o quasi nulla, che si presti a critiche. Si capisce solo ch’è mancato un certo coordinamento, una rigorosa scala di priorità.

E a questa carenza si deve lo squilibrio fra le troppe cose iniziate e le troppo poche concluse. Ma di ciò non ha colpa la Cassa. Ne ha colpa la mancanza di un organico «piano».

Eppure, questo «piano» era stato previsto nello stesso Statuto del ’48, che istituiva la Regione. Esso dice all’articolo 13: «Lo Stato, col concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola». Questo solenne impegno fu preso la bellezza di quindici anni fa. E, se si fosse attuato subito, ora avremmo sotto gli occhi il primo esempio di «programmazione» su scala regionale. Invece si è trascinato per anni, e sotto gli occhi ci mette la prova del disordine, della confusione e degli sprechi, in cui queste programmazioni sono destinate a gettare il Paese. Perciò vai la pena parlarne.

Anzitutto, s’impiegò due anni a decidere chi doveva cominciare, come e da che parte. Solo nel ’51 si riuscì a mettere in piedi una «Commissione di studio» che dovette rifarsi da capo perché tutto mancava, compresa una carta geologica dell’isola. Nel 1878 (ripeto: nel 1878) Quintino Sella se n’era accorto e aveva dichiarato «urgente» compilarne una, visto che la Sardegna è la regione italiana di più promettenti risorse estrattive. Ma dopo settant’anni l’urgenza era rimasta inutilmente tale: solo le società minerarie avevano fatto qualcosa, ma ognuna – s’intende – limitatamente al proprio settore.

Con queste lacune, non c’è da stupirsi che la Commissione abbia impiegato altri tre anni per mettere insieme i dati necessari. Ne risultarono centocinquanta monografie, dentro le quali solo uno speleologo può calarsi con qualche speranza di raccapezzarcisi. Quindi rinunzio a trascinarvi il lettore, e salto senz’altro alle conclusioni del «Rapporto» che nel ’58 venne consegnato al ministro Pastore e nel ’59 pubblicato in tre volumi dalla Regione. Si chiedevano, da ripartire in dieci annualità, ottocentosessanta miliardi: di cui quasi seicento per i trasporti, settantacinque per l’industria, ecc. Il «Rapporto» però aggiungeva, con incoraggiante ottimismo, che di questo massiccio investimento bastava che lo Stato si accollasse la metà: il resto lo avrebbero certamente portato in Sardegna i privati, richiamativi dalle «infrastrutture» e dalle facilitazioni che avrebbero reso l’ambiente ricettivo alle iniziative.

(Detto fra noi: io capisco benissimo la passione dei piani e come tanta gente ne abbia addirittura il vizio. Essa deve procurare gli stessi afrodisiaci piaceri della droga. Dev’essere elettrizzante veder nascere così, sulla carta, un sistema economico nuovo, equilibrato, razionale, dove tutto torna alla perfezione: costi e redditi, investimenti e profitti. Hanno un poetico fascino, queste costruzioni faustiane. E forse, se fossi un politico o un sociologo, nemmeno io vi resisterei).

Il ministro Pastore diede in revisione il «Rapporto» a un’altra commissione, comunemente nota come «Gruppo di lavoro», che in capo a tre mesi ne disfece e ne rifece le conclusioni. Perché tanta fretta dopo quegli undici anni di ruminazione? Perché nel ’61 c’erano le elezioni regionali e la D.C. voleva presentarvisi, per mantenere le sue posizioni di potere, come il «partito della rinascita». Non so se la Camera fece in tempo a leggere le proposte del «Gruppo». Comunque, fece in tempo ad approvarle prima che in Sardegna si aprissero le urne. E così il Piano di rinascita della Sardegna assolse il suo principale compito; che non è tanto quello di far rinascere la Sardegna, quanto di mantenervi al potere la D.C. Ma se questo fu il discutibile atteggiamento del partito di maggioranza, non meno discutibile fu quello dei partiti di opposizione. I quali risposero non con una critica al piano per l’impostazione che dava dei problemi e i mezzi che indicava per risolverli, ma mobilitando demagogicamente le passioni isolane contro quello che essi definiscono un attentato allo spirito dell’autonomia e alle prerogative della Regione.

Il pretesto alla polemica, tuttora viva nell’isola, lo forniva quel famoso articolo 13 che, in tono con l’ambiguità di tutte le norme italiane, stabiliva che il Piano doveva essere «predisposto dallo Stato col concorso della Regione». A cosa si riduceva, chiedevano gli oppositori indignati, questo «concorso»? Lo Stato aveva fatto tutto per conto suo. Si era fatto il progetto, se l’era approvato, e ora si preparava a realizzarlo. Il «concorso» della Regione era solo la platonica presenza del presidente della Giunta, ma senza sostanziali poteri d’iniziativa e di veto, nel comitato dei ministri per il Mezzogiorno, supremo organo deliberativo. Questa non era più autonomia. Questa non era più democrazia. Questo era soltanto uno schiaffo alla dignità dei sardi, un disconoscimento del loro diritto di fare da sé. Eccetera.

Giuridicamente, non sappiamo che interpretazione si debba dare di quel dibattuto articolo 13. Ma sul piano di una realistica misura delle cose, ci domandiamo a quali riserve di tecnici e di amministratori la classe dirigente sarda avrebbe attinto per mandare avanti la propria programmazione. L’esempio, invocato a sproposito, della Tennessee Valley Authority, sta a dimostrare che perfino in America, nonostante la collaudata esperienza autonomista dei vari Stati e la loro ricchezza di materiale umano qualificato a tutti i livelli, il potere centrale, quando si tratta di riforme di struttura che impegnano l’economia nazionale, fa da sé. Gli strascichi che ho raccolto di questa rissa, in cui risuonano accenti addirittura castristi, m’induce a chiedermi cosa succederà nel nostro Paese quando le Regioni saranno venti, ognuna in funzione più o meno elettorale, e ognuna con l’ambizione di realizzarlo coi soldi, sì, dello Stato, ma di testa propria. Sarà un tam-tam da rompere i timpani. E speriamo che si rompano solo quelli.

Com’è stato ridimensionato dal «Gruppo di lavoro», il Piano di rinascita sardo prevede all’ingrosso uno stanziamento non più di ottocentosessanta ma di cinquecentotrentacinque miliardi, e non più da investire in dieci anni, ma in quindici. Siccome però ha un inizio retrodatato al ’60 per finire nel ’75, in realtà la sua durata è di dodici anni. E più realisticamente prevede che, di quei cinquecentotrentacinque miliardi, dai privati c’è da aspettarsene solo centotrentacinque. Quattrocento deve impegnarli lo Stato.

Ma anche la ripartizione degl’investimenti è programmata in modo diverso da come aveva fatto la prima commissione, che dedicava il sessantotto per cento dell’ammontare all’agricoltura e l’otto all’industria. Il Piano assegna invece il quaranta per cento alla prima e il venti seconda. Il risultato di questo sforzo dovrebb’essere la creazione di duecentomila nuovi posti cli lavoro, il raddoppio della produzione e del reddito pro capite.

Questo non è – intendiamoci – che un riassunto all’ingrosso del Piano che, dopo l’approvazione della Camera, ebbe quella del Senato e infine, dopo una ennesima battaglia oratoria, quella della Regione.

Che il Piano sia a carico dello Stato, è naturale. La Regione non ha i mezzi per realizzarlo. Essa non gode nemmeno del cospicuo «Fondo di solidarietà» di cui fruisce quella siciliana. Riceve solo in dotazione una quota dei tributi che lo Stato miete nell’isola Nel ’48 questa quota fu di cinque miliardi. Ora i miliardi sono trentatré: un introito che comincia ad essere rispettabile, ma solo per una ordinaria amministrazione.

Ogni anno lo Stato decide settore per settore, cioè ministero per ministero, degli stanziamenti in tutte le regioni, compresa la Sardegna: tanto per lavori pubblici, tanto per le scuole, tanto per la giustizia eccetera. Queste spese però non possono essere programmate su vasta scala e a lungo termine perché i ministeri hanno un bilancio annuale, e qui possono impegnarsi per un anno solo. Il «Piano» nasce per rimediare a questo difetto, cioè per dare l’aire a iniziative sottratte allo sgocciolio, e alle incertezze della spesa ordinaria. Ma non per sostituirlesi. La spesa ordinaria deve continuare. Il «Piano» è un intervento straordinario aggiuntivo, cioè un «in più», non un «invece». Ma abbiamo la certezza che lo sia effettivamente?

Quanto ho visto mesi fa nel Mezzogiorno mi rende estremamente scettico. Al grido di «Tanto c’è la “cassa” che provvede», i nostri bravi ministeri si sono disinteressati di quelle regioni, come di terre ormai sottratte alla loro giurisdizione. Non è che abbiano cercato con la «cassa» un’intesa e una collaborazione in modo da dividersi i compiti e da coordinarli ai fini dell’interesse collettivo. Non è che abbiano detto: «Questo è intervento ordinario: e lo faccio io, ministero. E questo è un intervento straordinario: e lo fai tu, “cassa”». Non c’è stato verso di creare questo fair play. Quando è andata bene, là dov’è intervenuta la «cassa», i ministeri hanno cessato d’intervenire. E quando è andata male, sono intervenuti solo per ostacolare la «cassa» con quel malinteso spirito di corpo che fa della nostra burocrazia un avanzo medievale di chiuse baronie in anarchica lotta le une con le altre.

Non vorremmo che, al grido di «Tanto, c’è il Piano che provvede», qualcosa di simile si ripetesse in Sardegna. E lo diciamo perché ci è parso di cogliere qualche sintomo sul problema, per esempio, dei trasporti. Come ho detto, lo Stato sinora ha speso nell’isola, d’interventi straordinari, oltre seicento miliardi. E si prepara a spenderne, sempre d’interventi straordinari, altri quattrocento nei prossimi dodici anni. Ma non riesce a trovarne trenta o quaranta per un intervento ordinario sui porti e sulle linee di comunicazione marittima, il cui scandaloso disservizio rappresenta la più catastrofica strozzatura della vita sarda.

La Sardegna non ha che quattro porti: Olbia, Porto Torres, Sant’ Antioco e Cagliari. Solo l’ultimo ha una certa attrezzatura. Gli altri sono inceppati da fondali troppo poco profondi, da insufficienza di banchine e di gru. Una larga zona di quello di Porto Torres è rimasta per quattordici anni ostruita al traffico per via di una diatriba fra un armatore locale e la Marina Militare. Oggetto: a chi spettasse rimuovere una chiatta di proprietà dell’armatore, ma messa lì al tempo della guerra su ingiunzione della Marina.

Le linee sono gestite monopolisticamente dalla «Tirrenia» che appartiene alla Finmare che appartiene all’I.R.I. che appartiene allo Stato. Gli scarsi e lenti piroscafi non possono partire né attraccare. A Genova, a Civitavecchia, a Olbia ci sono stati tumulti fra masse di viaggiatori lasciati a terra con regolare biglietto in tasca. Si sono istituite, per sovvenire ai bisogni, due navi-traghetto. Ma sono perennemente in cantiere per riparazioni. Negl’inospitali porti sardi s’infortunano sbattendo ogni poco contro qualcosa.

Ma peggio ancora è per le merci. La Sardegna ne importa ogni anno per duecentoventi miliardi di lire, ne esporta per ottanta. Ma sentite cosa succede. Dieci tonnellate di carciofi da Catania a Genova pagano di trasporto cinquantaseimila lire. Da Sassari a Genova, cioè per un percorso dimezzato, ne pagano centotrentamila. E mentre i carciofi di Catania sono sicuri di trovare un treno che li carichi, quelli di Sassari non sono affatto certi di trovare un piroscafo, e spesso vengono svenduti a una lira l’uno sulle banchine di Porto Torres. Solo per spese di imbarco e di sbarco, il prezzo delle merci sarde subisce una maggiorazione del quindici per cento. Non possono competere su nessun mercato.

Viene da chiedersi se, prima di mettere al fuoco dei piani così grandiosi e di decidere stanziamenti di centinaia di miliardi per interventi straordinari, lo Stato non avrebbe fatto meglio a compiere il suo ordinario dovere nei confronti dei porti sardi e dei servizi marittimi. Quando la Sardegna avrà bene prodotto il triplo di quanto produce, dove e come lo esporterà?

Qui si parla di «riforme di struttura», di «industria di base». Ma per telefonare da Is Morus a Cagliari (distanza 37 chilometri) io ho impiegato due ore, eppoi non ho sentito nulla.

Come vedete, il timore che da «aggiuntivo» il Piano diventi «sostitutivo» non è infondato. E mi conferma nell’opinione che le Regioni possono funzionare solo negli Stati che funzionano, cioè là dove c’è un potere centrale a fare da interlocutore. In Italia l’interlocutore e il giuoco delle parti ne risulta sovvertito. Qui in Sardegna io non capisco più dove finisce lo Stato e comincia la Regione, e viceversa. Vedo soltanto che ci sono delle lacune paurose, delle contraddizioni paradossali. L’unica cosa che non vedo è un dialogo fra Cagliari e Roma per porvi rimedio.

(Le cifre di questo scritto si riferiscono al 1963. Ma i termini del problema sono rimasti immutati).

 

4 – Sete e esodo

I grandi nemici della Sardegna, quelli che per secoli ne hanno reso stento e ritardatario lo sviluppo, erano la malaria e la siccità. La malaria, grazie agli americani, è stata combattuta e debellata in quattro anni di battaglia. La lotta contro la siccità continua da quasi mezzo secolo. Siamo alle porte della vittoria. Ma ci siamo da un pezzo. Quanto dovremo rimanerci?

La prima vittoria fu riportata ad Arborea, nel ’18. Era un’immensa palude, dove morivano di malaria anche le zanzare. Un ingegner Dolcetta, dirigente della Società Elettrica Sarda (5.E.S.), pensò di convertirla.

Per produrre energia, la S.E.S. aveva imprigionato le acque dei fiume Tirso con una ciclopica diga. Quella grazia di Dio poteva essere usata anche a scopo irriguo. Dolcetta creò una Società di Bonifiche Sarde (S.B.S.) e le diede in appalto novemila ettari di acquitrino. Fu una specie di Canale di Panama rapportato alle misure isolane. Ci morì, di «perniciosa», parecchia gente, ma il successo fu completo.

Il fascismo che ne aveva il potere (o che se lo arrogava), trapiantò in questo angolo di terra alcune centinaia di famiglie di contadini continentali, soprattutto veneti. E ne venne fuori, sul paesaggio bruno e brullo dell’isola, una macchia verde, che somiglia a un angolo di Val Padana.

La colonia prosperò negli anni venti, trenta e quaranta, fondò una sua piccola capitale linda e architettonicamente aggraziata, che prima si chiamò Mussolinia e ora Arborea: e i suoi abitanti crebbero fino a 4.500. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, l’area fu rilevata dall’ I.R.I., che a sua volta ne cedette il pacchetto azionario all’E.T.F.AS.

E.T.F.A.S è la sigla dell’Ente di Trasformazione Fondiaria e Agricola Sarda, cioè praticamente lo strumento della riforma agraria, che in Sardegna iniziò la sua opera con tre anni di ritardo sul continente. Lo dirige il professor Pampaloni, un toscano allievo di Serpieri. E naturalmente, come tutti gli enti di riforma, non gode di nessuna popolarità; è bersagliato dall’odio di coloro che sono rimasti vittime dei suoi espropri e dall’ingratitudine di coloro che ne hanno beneficiato. Confesso che, fra tante critiche raccolte sul suo operato, mi è stato un po’ difficile farmene un’idea. E non so se ci sono riuscito.

Anzitutto, bisogna distinguere fra le sue varie attribuzioni. L’E.T.F.A.S. non è soltanto un ente di riforma. È anche un ente di bonifica per quanto ha fatto nel comprensorio del fiume Liscia e per quanto sta facendo nella vasta palude di Sassu. E infine gestisce, come ho detto, l’azienda di Arborea. Per svolgere tutti questi compiti ha un’organizzazione composta di un migliaio fra tecnici e funzionari, e fin qui ha speso una settantina di miliardi.

La riforma in se stessa, cioè lo scorporo delle terre, è stata l’operazione più facile e a buon mercato per i motivi che ho già illustrato: mancanza di una vera e propria «fame di terra» da parte di chi non ne aveva e di una forte resistenza da parte di chi ne aveva. La ripartizione ha quindi potuto svolgersi in un’atmosfera abbastanza tranquilla senza pressioni assillanti, e ha investito novantaseimila ettari in tutto.

Pampaloni e i suoi collaboratori sceverarono subito la polpa dall’osso—cioè la porzione che prometteva di ripagare gli sforzi e i costi delle migliorie da quella che li avrebbe resi del tutto inutili. Dai loro calcoli risultò che, di quei novantaseimila ettari, cinquantamila erano irredimibili. Se ne poteva cavare soltanto dei grossi poderi silvo-pastorali dai quaranta ai sessanta ettari ognuno, da dare in appalto alle pecore, per strapparle alle loro devastatrici abitudini peripatetiche e avviarle a una ordinata esistenza sedentaria. Lo si sta facendo, ma non sono in grado di dire con quali risultati. Credo però che non ci sia da aspettarsene di rivoluzionari.

Lo sforzo fu concentrato nell’appoderamento e nella bonifica degli altri quarantacinquemila ettari. E qui la valutazione del rapporto fra il costo e la resa si presta al giuoco delle opinioni. Diamo la parola ai critici. Essi dicono che la distribuzione è stata fatta male, che i poderi sono stati assegnati non in base alle capacità e ai bisogni, ma alle «raccomandazioni» politiche.

Dicono che gli stessi assegnatari sono scontenti e lo dimostrano sia votando comunista, sia abbandonando il fondo. Dicono che l’ E.T.F.A.S. li lascia senza mezzi né difesa perché il denaro lo spende in stipendi ai propri funzionari. Dicono che ogni posto di lavoro è venuto a costare dai quattro ai cinque milioni. Dicono che, invece di produrre ricchezza, si è ripartita la miseria, e che la miseria crea soltanto miseria.

Sarà. Ma a me le cose sono apparse in una luce assai diversa. Della ventina di borgate rurali che l’ E.T.F.A.S. ha costruito, quelle che ho visitato (scegliendomele e andandoci per conto mio) erano, fra tutte quelle sarde, le più funzionali, le più moderne e le meglio dotate di servizi. Ho contato cinquantadue «cooperative aziendali» che, per il fatto solo di esistere, rappresentano, nell’anarchico individualismo sardo, un avvenimento rivoluzionario. Le sole stalle ben tenute, ben aerate e popolate di bovini ben selezionati, le ho viste nei poderi dell’E.T.F A.S. E tutte le volte che mi son fermato ad ammirare un «parco macchine» con dozzine di trattori ben lubrificati e allineati, ho saputo che apparteneva all’E.T.F.A.S. Può darsi benissimo che gli assegnatari abbiano votato comunista. E può darsi anche che un posto di lavoro costi dai quattro ai cinque milioni. Ma per crearne uno nell’industria, di milioni ce ne vogliono quindici.

Secondo me, il bilancio dell’E.T.F.A.S. è positivo. Ma certamente lo sarebbe molto di più, e in modo da tappar la bocca a tutti i suoi critici, se ai poderi arrivasse l’acqua. Che c’è. Ce n’è anzi a bizzeffe. Ma ai campi non arriva.

I motivi di questa disfunzione vanno a discredito della classe dirigente, nazionale e sarda, perché sono da ricercare non in difficoltà oggettive, mancanza di mezzi eccetera, ma in una meschina rivalità di poteri e in uno dei soliti conflitti di competenze.

Per capirci qualcosa, bisogna risalire alla vecchia faida di comuni, che divide Cagliari e Sassari. Essa si ripercuote anche in seno al partito di maggioranza, quello democristiano, e fino a poco tempo fa s’incarnava in due antagonisti: Segni a Sassari e Maxia a Cagliari. Segni è di statura nazionale, e la sua azione l’ha svolta più a Roma che in Sardegna. Ma appunto per questo Maxia riusciva a contendergli la leadership sul piano regionale, e nelle elezioni politiche spesso riusciva a batterlo come numero di preferenze.

Anche l’E.T.F.A.S. ha fatto le spese di questa guerriglia. Secondo la logica, esso avrebbe dovuto realizzare la riforma e la bonifica di tutta l’isola. Ma siccome era stato istituito da Segni quando era ministro dell’Agricoltura, veniva considerato una «creatura sassarese», cui la legge della faida impegnava a contrapporre una «creatura cagliaritana». Non è che me lo abbia detto qualcuno, ma solo così si può spiegare come mai la bonifica del Campidano, cioè della provincia di Cagliari, sia stata affidata a un altro ente, quello del Flumendosa, creato appunto da Maxia col compito d’irrigare ben centomila ettari.

Intendiamoci bene: quello che si è realizzato sul Flumendosa è un capolavoro d’ingegneria. Due spettacolose dighe hanno invasato seicentocinquanta milioni di metri cubi d’acqua, e rappresentano una delle più belle e perfette opere compiute dalla Cassa del Mezzogiorno. Quindi la rivalità, in un certo senso, è stata proficua. Ma ha dato l’avvio a una gara in cui si è finito per perdere di vista quello che doveva essere il vero traguardo di tutti questi magnifici, ma costosi lavori: e cioè l’irrigazione. In cerca di rivincita, l’E.T.F.A.S. si è buttato a sua volta ai bacini idrici, e ne ha costruito uno sul fiume Liscia, destinato a dissetare tutta la piana nord-orientale fra Olbia e Arzachena.

Anche questa, intendiamoci, è una grand’opera d’ingegneria, tecnicamente perfetta, perché è un campo in cui gl’italiani sono autentici maestri. Come perfettamente riusciti sono il lago artificiale del Coghinas e l’invaso del Taloro, realizzato in soli dieci mesi dalla S.E.S. Tutto quello che si è fatto insomma è stato fatto bene, anche se è costato qualcosa che nel suo insieme deve già superare i cento miliardi di lire, e i centocinquanta quando sarà ultimato. C’è solo da rimpiangere che in questa nobile gara a chi faceva di più e di meglio per dare da bere alla Sardegna si siano dimenticati i bicchieri, e ora non ci siano più soldi per comprarne.

Perché questa è la paradossale situazione in cui l’isola si trova. L’ingegner Martelli, presidente della S.E.S., che forse è il sardo più competente in materia, mi diceva che, secondo i suoi calcoli, ci sono, imprigionati nei bacini, un miliardo e mezzo di metri cubi d’acqua. Gli acquedotti hanno raggiunto città e paesi. Cagliari, che moriva di sete, ora deve difendersi dal flotto del Flumendosa, che mette a dura prova condutture e rubinetti, tanto è violento.

Ma fino ai campi questa grazia di Dio non giunge. Di tutta la superficie sarda, solo ventiduemila ettari sono effettivamente irrigati, compresi I novemila di Arborea, che lo erano già dal primo dopoguerra, per merito di una società privata. E ciò rappresenta un misero 0,7 per cento della irrigazione complessiva nazionale, e il 5 di quella del Mezzogiorno. Delle acque sarde si seguita a parlare come della ricchezza brasiliana sempre al futuro. Il Flumendosa irrigherà centomila ettari del Campidano, il Liscia ne irrigherà diecimila in Gallura. Sono anni che sta per succedere. E non succede.

Mancano gli ultimi ritocchi alle opere intraprese: si era troppo occupati a intraprenderne di nuove, per completarle. Imprigionata l’acqua e costruiti gli acquedotti, occorrono ancora i canali di adduzione e di ripartizione capillare. Si aspettano, per porvi mano, nuovi finanziamenti statali. Ma il controllo contabile deve passare al vaglio di tre ministeri: Lavori Pubblici, Agricoltura e Tesoro, naturalmente impegnatissimi, come sempre, a ostacolarsi e a contraddirsi a vicenda.

Ma rendiamo giustizia al patrio governo: le resistenze non vengono solo da esso. Vengono anche dal basso, cioè dagl’interessati, dagli stessi agricoltori sardi, che l’irrigazione pone di fronte al difficile impegno di una trasformazione integrale dei loro sistemi e criteri. Bisogna passare dalla coltura estensiva a quella intensiva. Ma ciò presuppone due cose. Prima di tutto delle proprietà abbastanza accorpate che rendono proficua questa operazione: e ho già detto che poche lo sono per via del frammentarismo che caratterizza la Sardegna. Che se ne fa dell’acqua il proprietario di una «tanca» in cui non crescono che trentaquattro olivi, i quali appartengono a un altro? Ma, anche se se ne facesse qualcosa, dove trova i capitali? Per fornirgliene, le banche richiedono delle garanzie ch’egli non è in grado di dare. Eppoi, lo strozzano con interessi che l’aumento di reddito, per quanto grande, non può compensare. E infine c’è un’altra difficoltà: l’incompetenza. Una volta «agganciati» all’acqua, bisogna saperla manovrare, impararne le scadenze e le dosi: ed è già arduo per un ex-pastore da poco convertito all’aratro. In un terreno irrigato, bisogna dedicarsi a colture specializzate, frutta, ortaggi, agrumi. E il contadino sardo non vi è preparato.

Quelli con cui ho parlato non mi hanno dimostrato nessun entusiasmo alla prospettiva dell’acqua. Molti, nella loro ancestrale diffidenza, non ci credono. Altri me ne sono parsi intimiditi. Gli unici che ho trovato convinti e fiduciosi sono certi italo-tunisini di Castiadas di origine siciliana che, scacciati dall’Africa, sono approdati qui a ricostituirvi i loro aranceti, di cui sono gran maestri. Hanno una collaudata esperienza di pionieri e I’E.T.F.A.S. ha fatto molto bene ad accoglierli.

Ma il problema più grave, quello che rischia di far fallire tutto il piano di bonifica, è la manodopera. L’irrigazione ne moltiplica il fabbisogno: un ettaro a ortaggi richiede più lavoro e cure e assiduità di dieci ettari a grano. E la trasformazione avviene proprio nel momento in cui l’emigrazione, da salasso, diventa emorragia e prende, quanto a effetti decimanti, il posto della malaria.

La cosiddetta «popolazione attiva» della Sardegna è sempre stata scarsa un po’ per la bassa pressione demografica, un po’ per il costume sardo che confina le donne in casa e vieta loro altri lavori che non siano domestici. Dai conti degli esperti risulta che l’isola dispone di circa 430.000 unità lavorative. Ma risulta anche che nell’ultimo lustro ne sono emigrate circa 50.000, cioè oltre il dieci per cento. Una cifra esatta è difficile farla perché molti, pur andandosene, conservano la residenza. Ma ci sono stati episodi clamorosi di esodo in massa. A Bonorva, in quel di Sassari, tempo fa è fallita improvvisamente una florida azienda basata su un bar, un cinematografo e una specie di piccola «Rinascente». Dall’inchiesta è risultato che il dissesto non era dovuto a cattiva amministrazione o investimenti sbagliati, ma solo al dileguarsi di una clientela di giovani, gli unici disposti a spendere. Da Lodè, paesetto di tremila anime, ne sono partite trecentottanta; e le ragazze, rimaste senza prospettive di marito, si avviano a far le cameriere in continente. Da un villaggio presso Olbia perfino un parroco ha levato le tende per seguire i suoi parrocchiani emigrati in massa a Charleroi.

Siamo sicuri che prima o poi l’acqua ai campi arriverà. Ma non siamo tanto sicuri che ci trovi ancora le braccia necessarie a sfruttarla. Il ritardo potrebbe rivelarsi catastrofico e irreparabile. Sono le sorprese che riserbano i «piani».

 

5 – La «Supercentrale»

Secondo lo scrittore Cambosu, la nonna dei minatori sardi, Vincenza Urru, è morta nella convinzione che il carbone del Sulcis fosse oro, che in carbone si tramutava per sortilegio, appena tocco dalla mano avida dell’uomo. Se è vero, bisogna attribuire a nonna Vincenza un certo potere divinatorio perché infatti quel carbone sarebbe stato più prezioso dell’oro solo se lo si fosse lasciato dov’era.

La città a cui esso ha dato il nome è la più triste e squallida di tutta la Sardegna. La investe e la scuote il forte vento dell’Ovest, che vi si carica di un pulviscolo giallo. Sembra qualcosa di mezzo fra un concentramento di profughi e un albergo mal costruito. Le case sono nere e sordide, con l’intonaco che cade a brandelli sotto gli schiaffi del libeccio. Unica nota umoristica, ma che evoca più il ghigno che il sorriso, l’insegna di un caffè che, da «Caffè dell’Impero», è stata epurata in «Caffè del Pero» per risparmiare la vernice.

Nata da un gesto di volontà pianificatrice, Carbonia denunzia la sua origine arbitraria e astratta. Nulla giustifica la sua esistenza, nel giallo deserto del Sulcis che la circonda, se non il carbone delle sue viscere in cui nonna Vincenza vedeva il castigo di uomini troppo rapaci per meritare altra Befana. Doveva diventare la «capitale morale» dell’isola. Ne è diventata la piaga purulenta.

La Sardegna è la terra italiana più ricca di minerali. Suoi sono tutto il nostro arsenico e antimonio, il novanta per cento del piombo, il settantacinque del rame, il settanta dello zinco, il cinquanta del bario. Tutt’insieme, ciò che si estrae dal sottosuolo del Sulcis oscilla, in valore, fra i diciotto e i venti miliardi all’anno, ma ha toccato anche i trentacinque. Il capoluogo, Iglesias, conta circa duemila operai.

Fu un ingegner Nicolay, piemontese, a scoprire un secolo fa filoni e giacimenti. I pionieri dovettero operare in una zona infestata dalla malaria, senz’acqua e senza mezzi di comunicazione. Si fecero tutto da soli, compresi un porto e una strada ferrata. E i loro successi furono alterni, come lo sono sempre quelli dell’industria estrattiva, che ha molto del giuoco d’azzardo. Ma la grande disgrazia fu quella che lì per lì sembrò una grande fortuna: l’autarchia, imposta dal fascismo. Stimolata dal governo e al riparo dalla concorrenza dei minerali esteri, la produzione poté gonfiarsi senza badare ai costi. Quattro società – la Montevecchio, la Monteponi, la Pertusola, la A.M.M.I. – assunsero strutture elefantiache, misero in valore pozzi e bacini che non ne avevano alcuno. E ora debbono rendere i conti ai conti. Che non tornano più.

Tempo fa la Regione, negandogli il «gradimento», ha provocato il ritiro dell’ingegner Audibert, direttore generale della Pertusola. Non conosco l’ingegner Audibert, né posso giudicare il suo operato. Ma quello di buttar tutto addosso a un capro espiatorio è un metodo di risolvere i problemi molto italiano, che purtroppo serve a poco. Gli operai dell’Iglesiente, è vero, vivono male. I salari oscillano fra le trenta e le cinquantamila lire al mese: scarso compenso per un lavoro duro come quello in miniera. Ma non è colpa della Pertusola se ora bisogna vedersela col piombo e con lo zinco del M.E.C. che ne possiede giacimenti molto più ricchi. Per ridurre i costi e salvare il salvabile, bisognerebbe ridimensionare tutto il settore, ma questo implica licenziamento di manodopera. Altrimenti non c’è che la compressione dei salari.

Si sono escogitati dei palliativi. La fusione della Monteponi con la Montevecchio dovrebbe preludere a una completa razionalizzazione. L’assessorato regionale dell’industria sta studiando la concessione di un grosso contributo all’impianto di stabilimenti-pilota. C’è una proposta per addossare alla Cassa per il Mezzogiorno un programma straordinario di ricerche minerarie. Io non sono un tecnico. Ma se la crisi è già così grave, ora che il M.E.C. ci concede un rinvio di sei anni all’abolizione dei dazi sul piombo e sullo zinco, mi domando cosa succederà quando il termine sarà spirato. Secondo me, in tutto il Sulcis c’è odore di morto. Esso viene però soprattutto di qui, da Carbonia. E lasciamo la parola alle cifre Nel ’40, Carbonia fornì un milione e trecentomila tonnellate di carbone; oggi ne produce settecentomila. Nel ’40 erano occupati ventimila minatori; oggi, tremila. Non cerchiamo altri capri espiatori, all’infuori del delirio autarchico che creò questa industria artificiale.

Ci sono, è vero, nelle viscere del Sulcis, milioni di tonnellate di carbone. Ma di cattiva qualità e di costosa estrazione. Nella Ruhr un minatore ne estrae in media 575 tonnellate all’anno; qui, 156. Ma c’è anche di peggio. Ormai, nel mondo degl’idrocarburi, la concorrenza non è più soltanto fra carbone e carbone, dove già siamo largamente battuti. Ma è anche fra carbone e nafta, che rende di più e costa di meno. Dal ’46 la Carbosarda, che gestiva tutta la produzione del Sulcis, ne ha venduto il carbone a un prezzo ch’è la metà esatta del suo costo. Non c’è da meravigliarsi che abbia accumulato un deficit di parecchie decine di miliardi (non sono riuscito ad appurare quanti) che vengono sottratti alle tasche del contribuente italiano e solo in parte compensati da contributi della Comunità europea del carbone e acciaio che cerca di aiutarci a risolvere questa crisi. Ma come?

Chiudere tutto significa condannare a morte Carbonia: che è una brutta città, costruita sul nulla, ma dove, dei 47.000 abitanti del ’51, ne sono ancora rimasti 35.000. Il sindaco è un professore di scuola media comunista, Doneddu, e bisogna onestamente riconoscere che, nelle condizioni peggiori, amministra nel modo migliore. Il borgo è povero. Vive di seimila occupati e di cinquemila pensionati. Eppure possiede l’ospedale e le scuole meglio tenute dell’isola. Dico malvolentieri queste cose, ma debbo dirle, a monito di tante amministrazioni democristiane che, in condizioni molto più vantaggiose, non sanno fare altrettanto (eppoi si arriva ai risultati elettorali che sappiamo).

Sono stati tentati vari rimedi e sperimentati diversi programmi. Nel ’46 si decise, dissennatamente, di andare in fondo, mantenendo tutta la manodopera, meccanizzando la produzione sino a portarla a tre milioni di tonnellate, e impiantando uno stabilimento chimico per assorbirla. Costo complessivo: 45 miliardi. Ma nel ’48 arrivò il carbone della Ruhr che impose di rivedere e ridimensionare il progetto. Si dovettero licenziare 1.200 operai, e il governo venne in aiuto con ventinove miliardi.

Nel ’50 rifiorirono le speranze e si tornò al progetto del ’46: era scoppiata la guerra in Corea. Ma nel ’52 una commissione governativa appurò finalmente che in nessun caso la gestione poteva diventare attiva. Fu nominato un «commissario straordinario» che nel ’54 presentò un ennesimo programma che ingiungeva lo scioglimento della Carbosarda e il licenziamento di tremila fra operai e impiegati. Si concedevano diciotto miliardi per ricostituire il capitale sociale e si lasciavano in attività tre sole miniere, le più redditizie, fissandone la produzione a un milione di tonnellate che non venne mai raggiunto.

La Comunità del carbone e dell’acciaio di cui ormai facevamo parte aveva già mandato nel Sulcis una commissione di studio, e ce ne aveva comunicato la diagnosi. Il carbone di Carbonia era un malato senza speranze per via della cattiva qualità e dell’alto costo di estrazione e di trasporto. Ma noi abbiamo continuato a curare quello malato, abbiamo profuso per lui sessanta inutili miliardi, e ci prepariamo a sottoporlo a una nuova terapia, che ce ne costerà molti di più.

Questa terapia si chiama «Supercentrale di Porto Vesme» e rappresenta il campo su cui i partiti politici sardi si stanno dilaniando in una battaglia all’ultimo sangue.

Il grandioso progetto nasce da un’idea, in fondo logica e coerente, lanciata dai sardisti di Melis, assessore all’Industria. Ed è questa, pressappoco: trasformare il cattivo e costoso carbone di Carbonia in una fonte di energia di alta qualità come quella elettrica, che serva di base a tutta l’industrializzazione dell’isola. Il progetto è già in fase di realizzazione. Secondo i preventivi, costerà sessantacinque miliardi. Secondo il parere dei tecnici con cui ho parlato, ne costerà oltre cento. Ma vediamo un po’ di renderci ragione delle sue pratiche possibilità.

Nel campo dell’energia elettrica, la Regione ha precorso la Nazione sottraendola alle società private. Fra queste, di gran lunga la più importante era la Società Elettrica Sarda o S.E.S., che apparteneva al gruppo Bastogi.

Non è qui il caso di discutere se la misura sia stata giusta o ingiusta e darà o no dei risultati utili. Solo, non mi pare giustificata l’acredine con cui si è combattuta quella società cui si debbono tre opere di fondamentale importanza, per la vita sarda: l’indigamento del Tirso, la stupenda bonifica di Arborea, e l’invaso del Taloro. Le si è mossa l’accusa di aver tenuto in stato di depressione la produzione elettrica dell’isola, di non aver sollecitato i consumi, anzi di averli mortificati, e quindi di aver ritardato uno sviluppo industriale, che dalla disponibilità di energia è sempre condizionato.

Effettivamente, la produzione elettrica sarda è su bassi livelli. Coi suoi 800 milioni annui di Kwh rappresenta appena l’uno per cento di quella nazionale. Ma una società privata non può permettersi il lusso di una produzione che ecceda la domanda. Forse è per questo che occorre nazionalizzare le imprese elettriche. Ma è sciocco accusarle di non aver fatto ciò che il calcolo economico non consente loro di fare. Comunque, le cose si sono svolte nel modo che ora si dirà.

Dapprima la Regione creò un suo proprio Ente sardo di elettricità, o E.N.S.A.E. con un capitale di due miliardi e mezzo. Questo partorì la Società termoelettrica sarda o S.T.E.S. che con sette miliardi costruì a Porto Vesme una centrale di 64.000 Kwh. Poi, rilevando due società private e fondendole, istituì una Azienda generale di elettricità per la Sardegna o A.G.E.S. Risultato: dopo sette anni di gestione, I’E.N.S.A.E. dichiarò una perdita di oltre 300 milioni e la S.T.E.S. di 800. Alla fine è venuto il colpo grosso: l’assorbimento della S.E.S. Ma il trionfo regionale è stato di breve durata perché la costituzione dell’E.N.E.L. ha assorbito a sua volta tutto quello che, in fatto di elettricità, la Regione si era messa in corpo.

(Stava per nascerne uno scabroso caso costituzionale. L’energia elettrica è prodotta dall’acqua. Sull’acqua della Sardegna, secondo lo Statuto dei ’48, ha potestà la Regione. Quindi la Regione poteva opporsi alla nazionalizzazione. E l’assessore all’Industria Melis ci si provò. Ma ebbe per avversario proprio il suo compagno di partito La Malfa: e fu una battaglia (telefonica) fra due nazionalizzatori ugualmente intransigenti: l’uno in nome della Regione, l’altro in nome dello Stato. Vinse quest’ultimo, ma solo facendo appello alla solidarietà ideologica e di partito. E il piccolo episodio ci dice cosa saranno le Regioni).

Ma torniamo alla «Supercentrale» di Vesme, dove frattanto sono cominciati i lavori. E di proporzioni colossali e destinata a produrre oltre quattro miliardi di Kwh in un’isola che per il momento ne consuma ottocento milioni. Questo consumo, stimolando al massimo la domanda, lo si potrà portare a un miliardo, a un miliardo e duecento milioni. Ma il resto?

Il resto, dicono i fautori della programmazione, in parte servirà a richiamare sul posto altre industrie, in parte verrà esportato in continente con un elettrodotto che, risalita l’isola, lo convoglierà attraverso la Corsica sulle coste toscane e liguri.

È un progetto grandioso, ma che desta qualche perplessità. Per ora, l’unico cliente sicuro di tutta questa produzione, è l’industria estrattiva del Sulcis, che già consuma la metà di quella attuale. Ma, come abbiamo visto, è in crisi e senza prospettive di sviluppo. Poi ci sono i clienti probabili, cioè quelli che promettono d’impiantare qui i propri stabilimenti. Uno della Rumianca per clorosoda e materie plastiche è in arrivo. Un altro, elettrosiderurgico, è alle viste in Barbagia per iniziativa della Società Fadda. Ce n’è un terzo in progetto per lo zinco e un quarto per il manganese. Ma il cliente più grosso, quello che dovrebbe da solo assorbire un miliardo e mezzo di Kwh, è la Montecatini per l’alluminio. Ma la cosa è tutt’altro che decisa per via dei costi. La società milanese non può pagare più di lire 2,70 al Kwh. Ma la «Supercentrale» non può produrne a un costo così basso. Cioè forse lo potrebbe se ricorresse, come materia prima, alla nafta. Ma essa è nata per salvare il carbone di Carbonia. E ci vogliono 2,70 litri per ricavare le 2.500 calorie del Kwh. Dopodiché restano ancora tutte le spese di ammortamento e di conduzione, stipendi, salari, eccetera.

Ecco come la piaga purulenta di Carbonia rischia d’infettare tutto l’organismo industriale sardo prima ancora che nasca. La Regione sembra decisa a mandare avanti la «Supercentrale». Melis dice che solo creando una potente industria di base come quella elettrica si può richiamarne altre nell’isola e ridare vita al suo carbone. Il discorso non fa una grinza, ma conduce a una sola conclusione: che, per salvare il carbone di Carbonia, bisognerà vendere sotto costo l’energia elettrica di Porto Vesme. E, se ne accolli il peso l’E.N.E.L. o la Regione, il sacrificio sarà sopportato dal contribuente italiano. Curare gl’infermi è una dovere di carità. Ma renderli padri d’infermi ancora più incurabili forse è un eccesso di zelo.

L’opinione che mi sono fatta (e spero di sbagliarmi), è che, com’è avvenuto per l’irrigazione, anche per l’industrializzazione si sia messa troppa carne al fuoco, che rischia di arrivare in tavola a commensale già morto di fame. Anche in Sardegna la classe dirigente mostra tanta intelligenza dei problemi generali quanto negligenza di quelli particolari. Vede la montagna, ma ignora il muretto e v’inciampa. Non pensa che alla palingenesi, e disprezza quelle riforme spicciole e graduali, che sole possono avviare un sano e organico sviluppo. Si preoccupa delle «riforme di struttura» e delle «industrie di base», ma non ha ancora istituito dei semplici caseifici per razionalizzare l’unica sua produzione sicura: quella del latte e dei formaggi.

Spero – ripeto – di sbagliarmi. Ma non ho fiducia nelle industrie che basano i loro preventivi su una vendita della merce sotto costo.

 

6 – Missione senza missionari

Uno studioso sassarese di recente scomparso, il dottor Alivia, sosteneva che tutti i guai della Sardegna, perfino la malaria, erano dovuti allo spopolamento. È fatale, egli scriveva, che il posto abbandonato dall’uomo sia occupato dalle zanzare; e che là dove si consuma poco ci sia anche poco stimolo alla produzione. Il rigoglio delle iniziative è inversamente proporzionale alla disponibilità di spazio.

La tesi mi sembra più suggestiva che persuasiva. Conosco paesi spopolati e floridi come il Canada, e ne conosco altri gremiti e miserabili come la Cina e l’India. Tuttavia è vero che in Sardegna il fenomeno rischia di diventare patologico e impone qualche misura profilattica.

I dirigenti con cui ho parlato si prospettano il problema in questi termini. La gente se ne va, dicono, perché ancora non c’è una industrializzazione che offra alternative a un’agricoltura povera e disagiata. Il giorno in cui i sardi potranno fare vita di fabbrica e di città nella loro stessa isola, smetteranno di emigrare, e coloro che lo hanno fatto vi torneranno. Inoltre, aggiungono, noi abbiamo sempre una intatta riserva da sfruttare: le donne. Fin qui, non hanno mai lavorato fuori di casa. Ora cominciano a farlo. Quest’ottimismo mi persuade solo a mezzo. È vero che i sardi sono i più restii all’emigrazione e i più difficili ad acclimatarsi in continente. Ma di solito o tornano subito, o non tornano più. Dei cinquantamila che se ne sono andati in questi ultimi tre anni, solo una metà forse è ancora recuperabile. Cioè lo sarebbe, se vi fosse la possibilità d’impiegarla subito. Ma l’industrializzazione è un processo a lunga scadenza. Solo i pianificatori s’illudono di poterne accelerare i tempi. E frattanto l’emigrato ha tutto l’agio di sbarazzarsi della nostalgia. A Alghero ne ho trovato uno in vacanza dall’ Olanda. Gli ho chiesto: «Tornerebbe, se le offrissero un posto con lo stesso salario?». Mi ha risposto scotendo la testa: «Ma qui non c’è soddisfazione a spenderlo». La risposta è illuminante. La Sardegna potrà offrire al sardo, a scadenza abbastanza breve, la soddisfazione di guadagnare. Ma quella di spendere è più lontana: presuppone tutto uno sviluppo urbano ancora di là da venire. Eppoi c’è anche un fattore psicologico che aiuta il sardo emigrato a integrarsi e a vincere la propria agorafobia: ed è che non cova diffidenze e ostilità verso gli ambienti in cui si accasa per il semplice motivo che non ve ne   suscita. Dovunque vadano, i sardi non fanno mafia, non contribuiscono alla cronaca nera, non cercano di sconvolgere l’ordine costituito dalla società che li circonda. Al massimo, ne restano per un po’ di tempo appartati: ma per lo sgomento, non per ostilità. Questo atteggiamento viene ricambiato e facilita l’acclimatazione.

Quanto alle donne, è vero che rappresentano una riserva perché solo ora cominciano ad avere una vita estradomestica. Ma ho visto coi miei occhi che cosa succede. Il salto difficile da compiere, per una ragazza, è quello di uscir di casa. Ma, una volta compiutolo, è raro che resti fuori dell’uscio, perché ancora oggi questo passo la squalifica. Di solito, con la casa, abbandona anche il paese e l’isola in cerca di un ambiente in cui il diritto a una vita indipendente è riconosciuto anche alle donne. E ci vorrà tempo prima che le cose cambino, perché il costume ha una evoluzione. Più lenta dell’economia.

Nel ’56 ci fu chi si propose di cominciare appunto di qui, dall’elemento umano il riscatto dell’isola. L’Organizzazione europea per la collaborazione economica, o O.E.C.E., stanziò per un triennio duecento milioni all’anno per un’opera di assistenza tecnica che si chiamò «Progetto Sardegna». Alcuni esperti di «aree depresse» mobilitarono un gruppo di giovani sardi e con essi studiarono a lungo i mezzi per interessare la popolazione ai nuovi sistemi di produzione e diffonderne la conoscenza. Ho parlato con uno di loro che desidera conservare l’anonimo.

Mi ha assicurato che i risultati furono sorprendenti. Ci vollero tempo e pazienza per scuotere l’antica sfiducia della gente e la sua allergia alle innovazioni. Si commisero parecchi errori, si urtarono suscettibilità, si provocarono reazioni negative. Ma alla fine pastori, contadini, artigiani cominciarono a sollecitare consigli e insegnamenti di propria iniziativa. L’informatore mi dice che, in capo a tre anni, lui e i suoi colleghi giunsero a questa conclusione: che, puntando sugli uomini più che sui mezzi e dando ad ogni comune sardo di che pagare un piccolo gruppo di tecnici animati da zelo e entusiasmo, in poco tempo la Sardegna avrebbe triplicato il suo reddito. Ma la Regione ha mostrato poco interesse per questo esperimento e non lo ha secondato.

Ho cercato di appurare informandomi qua e là nelle zone toccate dal «progetto Sardegna». E mi sono persuaso che il mio informatore abbelliva un po’, ma non mentiva. L’uomo è ancora la miglior materia prima di cui l’isola disponga. È grezzo e primitivo, ma ricco di intatte risorse, una volta che si riesca a vincere le sue inerzie. Ci vogliono dei missionari che lo facciano con un’azione capillare, umile e paziente. Non mi risulta che né lo Stato né la Regione pensino a formarli. E temo che ciò sia dovuto al vizio monomaniaco dei pianificatori che dall’uomo sempre prescindono per fissarsi unicamente sulle «cose», di cui lo considerano soltanto un prodotto e un risultato.

Il discorso ci conduce al problema dell’istruzione. Esso offre dei dati insieme confortanti e sconfortanti. Nel ’51, su cento ragazzi sardi, erano ventidue quelli che non andavano a scuola; ora si sono ridotti a dieci. Il successo è notevole, ma avrebbe potuto essere definitivo se ci si fosse impegnati un po’ di più. Tranne che nell’ambiente dei pastori, il ragazzo sardo ci va volentieri a scuola e volentieri il padre ce lo manda. Ma le condizioni sono dure. Nella media nazionale, lo Stato spende per ogni scolaro quindicimila lire al mese. In Sardegna, tremila. Si economizza sulla refezione, sulla matita, sul quaderno, sulla disponibilità di insegnanti e soprattutto sulla edilizia scolastica. Se Dio guardi tutti i ragazzi sardi assolvessero l’obbligo della frequenza, sarebbero costretti a accatastarsi in cento per ogni aula. Il povero provveditore agli studi di Sassari ha dovuto inventare i «paidobus» per raggiungere gli scolari e accasarli. Un fenomeno incoraggiante è invece l’impulso verso gli studi superiori. Nell’ultimo decennio le iscrizioni alle elementari sono aumentate del sette per cento; ma quelle alla media inferiore del centotrenta, e quelle all’avviamento professionale del centosessanta. Ciò dimostra quale sete d’istruzione abbiano i sardi e quale delitto si commetta a non soddisfarla. Le scuole sono poche e mal servite, specie quelle di avviamento che sarebbero le più necessarie. Tipica la risposta di un dirigente di Cagliari, cui ne ho chiesto il motivo: «Preparando tecnici e maestranze qualificate – mi ha detto – prima che ci siano industrie per poterle assorbire, si collabora all’esodo, invece di arginarlo». C’è del vero, purtroppo. Ma pensate a cosa siamo, in questa età del progresso: a cercar di combattere il malanno dell’emigrazione col malanno – ancor più grave – dell’ignoranza.

Questo fa sì che la tendenza sia ancora anacronisticamente orientata verso gli studi umanistici. La scuola media, che ne schiude la porta, ha circa il doppio d’iscritti di quella tecnica e professionale. La tentazione della laurea, specie in materie giuridiche e letterarie, resta grande. In Sardegna ci sono due sedi universitarie: Cagliari e Sassari. La prima ha le facoltà d’ingegneria, lettere, economia e magistero; la seconda, agraria e veterinaria. Ambedue però hanno giurisprudenza, oltre a scienze, farmacia e medicina. Quella di veterinaria a Sassari è un’eccellente facoltà. Ma ’58 non aveva in tutto che 29 iscritti, di cui uno solo al primo corso. Praticamente, funzionava solo a beneficio di venti studenti greci.

Le deficienze sono chiare, e vengono fondamentalmente da una mancanza d’impegno in quello che i sociologi chiamano, col loro brutto vocabolario, «il fattore umano». La Regione in questo campo ha fatto poco. È vero che il compito dell’istruzione spetta allo Stato. Ma, volendo, ci sono infiniti modi d’intervenirci. Ci sarebbe soprattutto la possibilità di una mobilitazione della gioventù intellettuale, che non chiederebbe di meglio che un compito da svolgere. I contatti che ho avuto con gli studenti mi hanno dischiuso un panorama spirituale sconsolante. Tutti coloro con cui ho parlato mi hanno ripetuto la stessa cosa: anelano alla laurea come a un passaporto per il continente. E ciò che li spinge alla fuga non è soltanto una carestia di «posti» nel senso materiale della parola, ma piuttosto un senso profondo e disperato d’inutilità e di frustrazione.

Uno dei traguardi che la Regione si prefiggeva era appunto d’impedito questo fenomeno creando delle prospettive ai giovani. Ma non si è curata di fornir loro altro mezzo che la politica, dove non tutti sono disposti e hanno la possibilità di imbrancarsi. Praticamente in Sardegna non c’è altra occasione di emergere che attraverso gli oligopoli dei partiti che ne hanno confiscato a proprio profitto tutte le strade e che garantiscono più protezioni e complicità che selezione e ricambi.

Ora, se c’è una regione in Italia che ha bisogno di pionierismo, che addirittura lo evoca perfino nei suoi scenari da western, è proprio la Sardegna.

Quest’isola è «terra di missione» per eccellenza. E, frugandone gli angoli più riposti, di missionari se ne trova: negli umili panni, per esempio, dei medici condotti e dei maestri elementari. Non mi sento di denunziare lo scarso livello professionale di alcuni di loro. Purtroppo, è una realtà.

Ma le condizioni in cui operano lo giustificano pienamente. Non hanno mezzi, non hanno libri, non hanno contatti. Non c’è da meravigliarsi, e ancora meno da scandalizzarsi, che soccombano all’accidia e alle forze d’inerzia dell’ambiente. Un insegnante di Cabras, Firminio Scintu, per sfuggire a questa sorte, ha abbandonato la cattedra ed è emigrato in Germania a impararvi il mestiere di fonditore. Non ne è più tornato. Ha soltanto scritto ai parenti ch’è felice, che finalmente si sente padrone di se stesso e utile a qualcosa.

Cinquant’anni fa, Firminio Scintu avrebbe affogato la propria disperazione nella «vernaccia» e sarebbe andato lentamente alla deriva. Ne conosco a dozzine, di sardi, che sono finiti alcolizzati senza amare l’alcool e senza prendere piacere alle sbornie. È semplicemente incredibile quali e quanti tesori d’ingegno, in quest’isola, siano andati sprecati così. Ora i giovani cercano scampo nella fuga. Nella fuga da una terra in cui invece c’è tutto da fare e in cui essi potrebbero fare tutto, se fossero sostenuti, accompagnati, aiutati, valorizzati. Ma non possono farlo isolatamente, ciascuno per conto proprio. Soccomberebbero. Ogni anno escono dalle università sarde circa tremilacinquecento laureati. Che la Regione non sia riuscita a creare un punto d’incontro tra loro, un coagulante di energie, e che si limiti a scremarne soltanto dei galoppini elettorali, è la più imperdonabile delle sue carenze.

L’unica che tentò fu l’ O.E.C.E. con quel «Progetto Sardegna» che i dirigenti di Cagliari commisero il grave errore di sottovalutare e di non secondare.

Non sono in grado di valutarne i pratici risultati. Ma uno l’ho constatato coi miei occhi: l’entusiasmo e le speranze che aveva suscitato nel drappello dei giovani che vennero arruolati per quell’esperimento missionario di redenzione economica, sociale e morale. Si può essere scettici quanto si vuole. Ma senza l’entusiasmo e la speranza (che non trovano posto tra le «voci» di nessun «piano») non si concluderà mai nulla, nemmeno in Sardegna.

 

7 – Presente e futuro

Non vorrei, con le mie critiche, aver suggerito un’opinione negativa della Sardegna e del suo sviluppo. Il progresso dell’isola è innegabile, e lo si coglie a occhio nudo. Le strade non sono più piste nel deserto.

In dieci anni le automobili sono cresciute da tremila a oltre quarantamila, le campagne che attraversano stanno perdendo la solitaria solennità di una volta, si animano di uomini, di case, e anche di alberi. In tutti i centri abitati sono arrivate la luce e l’acqua. Vi è arrivata in massa la televisione: in un quinquennio gli abbonati sono passati da sette a sessantamila. Gli analfabeti sono ridotti a un dieci per cento. La vita dell’isola si sta liberando della sua millenaria sclerosi. Cade in pezzi tutta un’economia basata sulle piccole autarchie familiari e sulla compressione dei consumi. Circolano le merci. Circolano le idee. I sardi, che non ne avevano mai sentiti, cominciano ad avere dei bisogni. Non si contentano più di vivere e di morire come sono nati. Stanno scoprendo che il denaro non è la ricchezza, ma solo lo strumento della ricchezza. E comprano. Comprano anche il superfluo. Un abile piazzista di elettrodomestici è riuscito a vendere dei magnetofoni a dei poveri contadini di Dorgali. Il volume delle importazioni dal continente cresce, malgrado la difficoltà e il costo dei trasporti. Cresce sproporzionatamente al volume delle esportazioni, aggravando lo squilibrio della bilancia commerciale dell’isola. Non importa: lo sviluppo è condizionato da questa prima fase, solo apparentemente negativa.

Ma tutto questo è avvenuto in maniera così subitanea e tumultuosa, dopo una stasi di secoli, da assumere aspetti rivoluzionari e porre problemi che sarebbe estremamente pericoloso evadere. La nostra critica è rivolta solo alle domande che non ci si pone, e alle misure che non si prendono (o che si prendono in direzioni che non ci persuadono).

Ti primo di questi problemi è l’esodo, che sembra aver colto di contropiede la classe dirigente sarda. Effettivamente era difficile prevedere che assumesse le massiccie proporzioni che ha assunto negli ultimi tre anni. Le strutture sarde sembravano tali da poter sfidare qualunque forza centrifuga. Non la malaria, non le carestie erano mai riuscite a crearvene. Il sardo preferiva morire dov’era nato che andare a vivere altrove. Ha retto a tutto. Non ha retto alla televisione. Voglio dire: non ha retto all’urto del mondo moderno che attraverso la televisione gli è entrato in casa con tutti i suoi adescamenti.

Tuttavia bisogna intenderci su questo esodo. Esso non è, almeno nelle intenzioni, una fuga dalla Sardegna. È una fuga dalla pastorizia e dall’agricoltura, di cui molti paesi sardi esclusivamente vivono. Ancora oggi i sardi lasciano malvolentieri la loro isola. Quella che abbandonano è la vita dei campi, la solitudine, la stagnazione dei villaggi, la mancanza di prospettive. E infatti è dall’interno che emigrano. Dalle città, ben pochi.

In questo fenomeno, il fattore economico entra fino a un certo punto. Ad Arborea i poderi sono grossi e grassi. Un contadino di lì, Milan, mi diceva che lui e i suoi cinque figli mettono comodamente da parte, ogni anno, un milione a testa. Eppure anche ad Arborea se ne sono già andate una cinquantina di famiglie. I pionieri veneti che vennero quaggiù nel ’18 lottarono contro la malaria e la fame per dissodare questa terra ed acquistare il diritto di riscattarla. I benestanti figli e nipoti, alla vigilia di una scadenza che li renderebbe definitivamente proprietari, si fanno rimborsare le «quote» già pagate, vendono il bestiame, e partono. Sono soprattutto le donne a trascinarli. Quando chiesi come mai molti poderi ricchi di foraggio non tenevano vacche, mi risposero che non c’era chi volesse accudirvi perché le ragazze si rifiutano di sposare giovanotti che «puzzano di stalla». Del resto, non succede solo in Sardegna. Anche nel Nord molti contadini ricorrono ad annunzi sul giornale per trovare nel Sud delle ragazze disposte al matrimonio. Le chiamano, non so perché, «ragazze ribaltabili».

Perché l’esodo dalle campagne non si trasformasse in una emorragia dalla Sardegna sarebbe occorso un più rapido sviluppo della industrializzazione. Nell’isola ce n’è ancora abbastanza per accogliere questi profughi della pastorizia e dell’agricoltura: ecco l’errore di calcolo che salta agli occhi. E questo errore non è per difetto, ma per eccesso di «piano»: cioè perché si sono persi quindici anni a discuterne i termini dottrinali e astratti, quando c’erano delle cose che si potevano fare subito, delle iniziative che bussavano alle porte e a cui si poteva dare l’avvio. Per esempio: al gruppo Cartiere del Timavo, che voleva impiantarsi ad Arbatax, sono occorsi tre anni di estenuanti contrattazioni con la Regione per realizzare il suo progetto. Tutti gli imprenditori continentali coi quali ho parlato sono stati unanimi nel denunziare le lungaggini e gli insabbiamenti di una burocrazia regionale che, nata appena quindici anni or sono, ha già contratto tutti i vizi di quella statale e annega nelle «pratiche».

I dirigenti discutono con molta competenza di «aree» e «nuclei» industriali, di «zone omogenee» eccetera. È giusto. Senza idee, senza un programma, non si governa, non si amministra nemmeno. Ma intanto manca in Sardegna quello che anche senza idee e senza nessun programma avrebbe potuto e dovuto svilupparsi: una industria alimentare e conserviera, per esempio, una «catena del freddo». Per quindici anni la Regione si è battuta a morte con Roma per strapparle l’iniziativa del «piano cli rinascita» e assumerne in proprio la responsabilità. Ma non s’è battuta, o s’è battuta poco e male, per liberarsi dal monopolio strangolatore della Tirrenia che paralizza i suoi traffici e obera le sue merci di un costo di trasporto che le pone in stato di inferiorità di fronte alla concorrenza. Tutta la produzione agricola e casearia sarda è alla mercé di oligopoli continentali che la sfruttano senza scrupoli. Non mi risulta che ci siano dei tentativi per liberarsene.

I motivi di queste disfunzioni sono vari. La mancanza di esperienza, anzitutto. Nessuno può pretenderne da una classe dirigente che si va formando. E appunto per formarla si è istituita la Regione. Si può pretendere però la coscienza del difetto, e non mi pare che ce ne sia. Un esempio clamoroso lo fornisce il turismo, che in questi ultimi anni ha conosciuto un autentico boom. Bastava secondarlo e disciplinarlo. Invece tutto avviene tumultuosamente, solo in grazia d’iniziative sconnesse e dominate dalla speculazione. Ho visto vicino a Cagliari una lottizzazione che, se va avanti così, trasformerà la stupenda Baia degli Angeli in una immensa sordida Ostia. Ci sono degli alberghi che sconciano il paesaggio. Ce ne sono altri (pochi), dovuti al gusto discreto di qualche architetto intelligente, che aspettano invano l’acqua da anni promessa. Nell’aula del Consiglio sono risuonati moniti di questo tenore: «Niente soldi per l’acqua dei signori!». E questa non è inesperienza; è solo bassa demagogia. È curioso che in questa classe dirigente assetata di «piani» non ce ne sia uno per il turismo, la più promettente e sicura di tutte le industrie che provveda almeno a impedire la distruzione della sua materia prima: la natura, contro cui si vanno perpetrando autentici delitti architettonici.            E la Regione non solo non la difende, ma contribuisce al massacro coi suoi alberghi E.S.I.T., la più sciagurata cli tutte le iniziative da essa prese. A Olbia ce n’è uno, per fortuna rimasto a mezzo, al cui balcone ho vista affacciata una mucca. Questi errori e carenze sono, d’accordo, il pedaggio che bisogna pagare al noviziato. Ma all’origine c’è la deplorevole tendenza a politicizzare tutto.

Ogni problema, si sa, ha un suo aspetto politico. Ma qui «politico» è spesso sinonimo di «clientelistico». Ed è uno dei grandi pericoli a cui va incontro il Piano di rinascita, che il particolarismo sardo rischia di sbriciolare in interventi sconnessi. Ogni città vuol diventare «area industriale» o almeno «nucleo». E quando proprio non può far valere nessun requisito che ve la qualifichi, si appella a un criterio di malintesa «equità» che, se viene applicato, non può condurre che a una inutile dispersione. Un altro difetto che mi è stato segnalato da più parti è la mancanza di coordinamento in molti settori: per esempio in quello, fondamentale, della politica creditizia. Tutto il Mezzogiorno è afflitto da questa piaga. Nel Sud continentale l’Isveimer e l’Irfis in Sicilia, nati per sollecitare l’iniziativa industriale e finanziaria, in realtà la paralizzano con le loro lungaggini burocratiche, con la loro renitenza a concedere prestiti e con la pesantezza delle garanzie che richiedono. Ora, si ha un bel predisporre «infrastrutture» e «piste di atterraggio» per le grandi «industrie di base » in arrivo dal Nord. Se intorno ad esse non nasce, per iniziativa locale, tutto un tessuto connettivo di medie e piccole industrie satelliti, il processo fallisce.

In Sardegna ho trovato una situazione molto migliore, cioè molto migliorata in questi ultimi tempi perché fino al ’59 era stagnante come in tutto il resto del Sud. Il Credito Industriale Sardo o C.I.S. non aveva erogato in dieci anni che una ventina di miliardi, piuttosto sparpagliatamente e a vanvera. Poi ha avuto un colpo di barra, e si è impegnato per cento miliardi, di cui trenta già distribuiti. I suoi dirigenti hanno capito che per stimolare bisogna rischiare. L’esazione di garanzie è diventata meno esosa e le «pratiche» più sbrigative.

Ma purtroppo manca l’intesa con l’Assessorato dell’Industria, che naturalmente al credito industriale è il più interessato e con cui la collaborazione dovrebb’essere intima. Colpa del sistema o degli uomini? Non lo so. Colpa, credo, dell’inguaribile particolarismo che affligge la Sardegna e che la rende ronzante di litigi come un alveare di api impazzite.

Tutto questo non smentisce il promettente panorama di una isola in risoluto progresso. Vi getta soltanto delle ombre. Resterebbe da chiarire se la Regione ha contribuito più al progresso o alle ombre. È difficile dirlo. Credo che la classe dirigente sarda amministrerebbe benissimo, se si contentasse di amministrare. Ci sono in essa degli uomini capaci e probi, ma è proprio la loro presenza che ci rende scettici sull’utilità dell’istituto. Che la Regione funzioni male nella patria dei Milazzo, può anch’essere colpa soltanto dei Milazzo. Ma per suscitare dubbi anche nella terra dei Corrias, dei Melis, dei Dettori e dei Filigheddu, vuol dire che qualcosa nel suo organismo non va.

Questo qualcosa non va ricercato nella corruzione, che non c’è. Va ricercato nella logica delle autonomie: le quali ne hanno una per conto proprio, che le conduce fatalmente a traboccare oltre i limiti. Si parla di «coesistenza pacifica», del Vietnam e di Cuba, nel Consiglio regionale di Cagliari. E per dibattere questi argomenti, si trascura quello dei porti e dei caseifici.

Stavolta non sono andato a trovare a Nuoro il mio vecchio amico Mastino, padre dell’autonomismo sardo, per chiedergli se è questa la Regione che lui e Lussu sognarono e patrocinarono nell’altro dopoguerra. Ma credo che il suo ritiro e il suo silenzio siano già una risposta.

 

 

 

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