Senza Patria: l’8 settembre dei sardi a Roma, di Mario Cubeddu

CONDAGHE 2.0. Condaghe significa essenzialmente raccolta di documenti di vario genere. Con questi articoli ospitiamo degli interventi sul passato, il presente e il futuro della Sardegna. Il Condaghe è aperto ai contributi che vorranno essere forniti dai lettori e si ripromette di proporre un intervento diverso ogni settimana. Documento n° 6.

Antonio Feurra fu uno dei tanti sardi che si trovarono a confrontarsi con le tragiche giornate e settimane successive all’armistizio dell’8 settembre 1943. Erano molti, in situazioni e posizioni diverse.

Il fascismo aveva in un certo senso “valorizzato” il mito del sardo eroico combattente, disposto a sacrificarsi nel servizio. I sardi, a loro volta, sembravano aver trovato finalmente la “patria” che andavano cercando e di cui sembravano avere tanto bisogno. Con l’8 settembre ebbero l’impressione che fosse stato tutto un inganno.

Il più intelligente e il più tormentato dei sardi che si trovarono a vivere quelle esperienze, Salvatore Satta, parlò di “morte della patria”:  La morte della patria è certamente l’avvenimento più grandioso che possa occorrere nella vita dell’individuo, si dice nelle prime pagine del suo “De profundis”, scritto a partire dal 1944 e pubblicato nel 1948.

Anche a Roma i sardi non erano certo assenti in quelle prime settimane del settembre 1943. Come loro solito, non mancarono di segnalarsi. Nei tentativi di difendere la città si era distinta la Divisione Sassari, che comprendeva i famosi reggimenti  151 e 152, e i Granatieri di Sardegna. Furono tentativi sporadici e disperati e poi ci fu lo sbandamento, le divise gettate, il “tutti a casa”.

Facile, si fa per dire, per chi poteva salire su un treno, come fece Beppe Fenoglio lasciando Montesacro per Alba, o poteva prendere un autobus, o anche percorrere a piedi strade e sentieri della penisola. Impossibile per i sardi. Per loro il mare era diventato ancora una volta un abisso invalicabile.

Migliaia di giovani soldati affluirono ai porti di Civitavecchia e di Genova sperando in un imbarco per Olbia o Porto Torres. Erano soli, lontani da casa, chi poteva aiutarli?

Emilio Lussu era tornato a Roma ad agosto, qualche settimana dopo la caduta del fascismo. Le vicende dell’esilio lo avevano collocato ai vertici di uno dei partiti nazionali, il Partito d’Azione, che sembrava destinato a costituire la colonna portante della democrazia da costruire. Gli si prospettavano i compiti importanti e gravosi di governo dello stato italiano da rimettere in piedi dopo le distruzioni materiali e morali di venti anni di fascismo e quattro anni di guerra, per cui la Sardegna e i sardi passavano in secondo piano; trascorse un anno prima che egli rimettesse piede nell’isola soprattutto per far tacere i sostenitori dell’indipendenza.

Ancor meno ci si poteva aspettare che dei sardi allo sbando si preoccupasse Giaime Pintor. Il giovane e brillante ufficiale dello Stato Maggiore era rientrato a Roma  dopo il 25 luglio 1943, alla caduta del fascismo, da Vichy, dove faceva parte della delegazione militare italiana che teneva i collegamenti con quel governo collaborazionista. Dopo l’8 settembre la sua preoccupazione principale fu quella di raggiungere il re e lo Stato Maggiore a Brindisi.  Sentendo l’urgenza di un’azione che non era consentita agli ambienti che si erano appena staccati dalla contiguità con i nazisti, Giaime Pintor prende contatti con gli inglesi e  da questi viene mandato in missione oltre le linee. L’esplosione di una mina causerà la sua morte il 1 dicembre 1943. E’ comprensibile che non si preoccupasse dei soldati sardi e della loro situazione a Roma , dal momento che i suoi rapporti con l’isola erano evanescenti sia sul piano pratico che su quello sentimentale e ideale.

Sembrava che solo i fascisti si “preoccupassero” dei sardi allo sbando. Anche durante il regime temi sardisti diventati puro folclore si erano acclimatati tra gli uomini e le ideologie della destra, per cui i fascisti non ebbero difficoltà a usare idee, slogan e personaggi cari all’immaginario dei giovani sardi.

A Roma c’era in quei giorni anche Antonio Putzolu, entrato in una sorta di clandestinità per sfuggire alla caccia al fascista. A lui, e alla rivista Mediterranea che aveva fondato, si doveva in gran parte il tentativo di conciliare una concezione subalterna e vittimistica della civiltà dei sardi con il nazionalismo straccione e brutale dei fascisti.

Tra i fascisti che si occuparono dei sardi sbandati intorno a Roma i primi furono Francesco Maria Barracu e il sacerdote saveriano Luciano Usai. Il primo, meglio noto come la medaglia d’oro Barracu (conquistata nella guerra coloniale in Abissinia, si badi bene, non sui fronti della Grande Guerra a cui non aveva partecipato), sarebbe diventato sottosegretario con Mussolini e con lui sarebbe finito a Piazzale Loreto; il secondo, giovane e fanatico cappellano militare che in Africa aveva combattuto da soldato più che da religioso, era fascista e amico di fascisti e nazisti.

I due proposero ai soldati sardi di arruolarsi in un battaglione della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, da costituire con uomini provenienti esclusivamente dall’isola. Per esso veniva proposto il nome di Giomaria Angioi, eroe della libertà e della lotta per la giustizia sociale nella Sardegna del Settecento.

L’idea fu accolta con entusiasmo; sembrava di aver trovato un rifugio, uno strumento di difesa. Quando invece fu chiaro che li si voleva utilizzare per continuare la guerra a fianco di fascisti e nazisti buona parte di loro disertò immediatamente.

Fu quello che fece Gavino De Luna. Nato a Padria nel 1895, partì volontario durante la prima guerra mondiale e fu ferito al fronte nel 1915. Fu il più importante cantadore a chiterra della sua generazione, ben documentato dalle incisioni su disco che dimostrano la sua attenzione agli strumenti di diffusione moderna di quella che allora non era folclore ma canto vivo conosciuto e praticato da un popolo intero. Dopo la guerra trovò impiego alle Poste ma, pur essendo dipendente statale, non mostrò simpatia per il fascismo e non volle prendere la tessera, attirando i sospetti dei superiori che lo trasferirono dalla Sardegna a L’Aquila.  Il suo comportamento coraggioso durante il terremoto in Abruzzo del 1933 gli consentì comunque di trasferirsi alle Poste Centrali di Roma, sede che preferiva. Alla caduta del fascismo era rimasto confuso e incerto come quasi tutti e, forse pensando di potere essere utile ai suoi conterranei, aveva deciso di arruolarsi con il Battaglione Giovanni Maria Angioj. Gavino De Luna, come tanti giovani sardi arruolati dai fascisti, si ricredette subito e disertò. Posto di fronte al ventaglio di scelte politiche proposte in quei mesi per una democrazia da costruire, decise di aderire al Partito d’Azione, il partito di Lussu, partecipò ad azioni di sabotaggio, fu arrestato come antifascista nel febbraio 1944 e finì fucilato alle Fosse Ardeatine un mese dopo.

Gavino De Luna costituisce un esempio eroico di uomo che, come Antonio Feurra, fa le scelte giuste e ne paga il prezzo.

Gli ex soldati sardi vissero sino alla Liberazione diciotto mesi terribili. I soldati che avevano disertato dal Battaglione Angioi si rifugiarono a Capranica dove furono raggiunti dai nazisti. Come nel caso di Antonio Feurra, furono traditi da italiani e uccisi da tedeschi. Il 17 novembre 1943 diciotto di loro venivano fucilati sulla strada tra Sutri e Capranica.

Il resto dei soldati sardi che si trovavano nel Lazio e nell’Italia centrale passarono un inverno alla macchia protetti da famiglie contadine che li nascondevano e proteggevano. Nella primavera successiva Roma veniva liberata e si riprendevano i collegamenti con la Sardegna.

A nord della Linea gotica il destino dei sardi li costrinse a scegliere, o di combattere con i nuclei di resistenza partigiana, o di mettersi al servizio della Repubblica di Salò.

 

Riferimenti:

1. Beppe Fenoglio, Primavera di bellezza Einaudi. Fenoglio, nato nel 1922, si trovava a Roma a Montesacro, a due passi dalla casa di Antonio Feurra, per seguire i corsi di allievo ufficiale. L’opera racconta lo sbandamento dell’esercito, la confusione, il viaggio di ritorno a casa. Tra i personaggi ci sono due sardi, il capitano Vargiu, smarrito e senza punti di riferimento dopo l’armistizio, e un giovane carabiniere che contesta il suo maresciallo e vorrebbe unirsi ai partigiani ad ogni costo. Ma i partigiani non si fidano di lui, che appare quasi certamente un sardo, troppo fosco e nevrastenico.

2. I giovani martiri sardi uccisi a Capranica.

https://www.youtube.com/watch?v=mjM4Xyq_Ab8

Un bel documentario realizzato per la RAI da Dino Sanna contiene la vicenda dei militari sardi fucilati dai tedeschi a Capranica il 27 novembre 1943. C’è il racconto bellissimo fatto dall’unico sardo sopravvissuto, Rinaldo Zuddas, in bilico tra tragedia e magia, con un cavallo bianco che appare alla fine, simbolo di una miracolosa salvezza da ciò che è nero. Come sembra accadere spesso, sono i fascisti italiani a tradire e a mettere le vittime nelle mani dei tedeschi. La vicenda viene enfatizzata e romanzata in Aldo Pavia, La resistenza a Roma, dove si parla di una “banda di sardi” che avrebbe affrontato duecento tedeschi uccidendone cinquanta. Ben diverso il racconto dei testimoni che vissero quei fatti, a partire dal soldato sardo sopravvissuto, Rinaldo Zuddas.

 

 

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