«Di Sardegna sono effettivamente intriso». Quella volta che Montanelli «parlò da sardo». Era il 1963 (Prima parte), di Gianfranco Murtas

Dedicato a Lello Puddu, alla sua Nuoro, alla sua Sardegna.

«La Sardegna di ottant’anni fa era il Texas, la libertà assoluta. I banditi allora non toccavano i bambini, io avevo la passione dei banditi, sono scappato tre volte per andarli a raggiungere sull’Ortobene». Mesina? «E’ un testone. Gli hanno fatto una trappola ma lui c’è cascato come un allocco, gliel’avevo detto». «A me piaceva cacciare coi cani nel bosco, prendere quattro o cinque capi, non di più. Sbagliavo difficilmente. Avevo cominciato a Nuoro. Facevo da cane a mio padre». Storie di un mondo fa. A rispondere alle domande di Maria Paola Masala è, nel 1994, Indro Montanelli, appena insediato nella stanza di direttore de La Voce, il quotidiano messo su dopo il golpe (chiamalo politico) del pessimo ed inimmaginabile Silvio Berlusconi, editore che editore non poteva essere de Il Giornale. Ricorda: «Dove ho imparato che bisogna accettare le sfide? A Nuoro. Da bambino ero già lunghissimo, ossuto, e di un anno più piccolo dei miei compagni. Mi picchiavano e mi rispettavano perché non scappavo. Finivo sempre in terra, gonfio e pesto». (Così su L’Unione Sarda del 3 marzo 1994 “La Voce della ragione”).

Andrebbe detto subito, per giusta rettifica, che purtroppo i banditi i bambini li toccavano anche allora, prima dei Locci e dei Kassam o dei Petretto ecc. – com’era capitato, o sarebbe capitato a Maria Molotzu, sette anni appena, figlia del podestà di Bono, sequestrata e uccisa dalla banda Pintore nel 1934. Una pretesa di riscatto rimasta senza esito, e l’anno dopo il ritrovamento dei resti della povera vittima, e l’anno dopo ancora l’impiccagione del capobanda e anche la morte di crepacuore dei genitori della piccola.

Appena appena più grande, adolescente ancora, era Luigi Polo, nel 1922 anch’egli sequestrato da malviventi isolani, questi di Sarule, Osidda ed Ozieri, ed assassinato senza pietà pochi giorni dopo il rapimento. Grano d’un rosario forse non infinito, ma bruciante quanto anche vien difficile immaginare.

Bambino di nove anni, nel 1917, Indro Montanelli prese residenza, con la sua famiglia, da noi, in Barbagia, a Nuoro. Vi restò cinque anni, il tanto da frequentare le ultime due classi delle elementari fino alla licenza, ed i primi tre anni del ginnasio, all’Asproni, così intitolato proprio nel 1921 e presto associato (per l’intervenuta promozione provinciale e la conseguente emancipazione dall’Azuni sassarese) al triennio liceale.  Il padre – a motivo del cui lavoro anch’egli s’era dovuto fare sardo – era lui stesso uomo di scuola, preside della Normale – quella che sarebbe diventata l’istituto Magistrale –, con sede nell’antico convento francescano della città.  A pensarci bene, quella di cui Montanelli avrebbe scritto e detto molte volte, era ancora la Nuoro ritratta, con i suoi personaggi e i suoi ambienti, ne Il giorno del giudizio di Salvatore Satta. E, per taluni aspetti almeno, anche nelle opere di Bachisio Zizi e Maria Baldessari, che volgono per il più ai compimenti degli anni ’30. Cadevano alcune delle tessere di quel mosaico letterario-artistico che avevano fatto del capoluogo barbaricino (capoluogo di circondario sottoprefettizio, poi appunto di provincia) l’Atene sarda – e tale fu realmente, a mio avviso, pur fra mille contraddizioni –, altre ne resistevano, di tessere, o addirittura ne sbocciavano. Perché Nuoro, universo a sé, forse non ha mai avuto piena consapevolezza dei suoi talenti spontanei, raffinati nel vasto mondo, ma zampillati per grazia di natura fra Santu Predu, Seuna – «nugolo di casette basse, disposte senz’ordine, o con quell’ordine meraviglioso che risulta dal disordine, tutte a un piano, di una o, le più ricche, di due stanze» (a dirla con Salvatore Satta) – e il Corso. Fino ai grandi avvocati, ai Mastino ed ai Pinna, e Offeddu, ed agli altri più giovani. E con memorie anche di vergogna, a pensare quanto il giovanissimo Francesco Ciusa aveva dovuto patire per avere dal Comune un soccorso ai suoi studi continentali, o la Deledda un riconoscimento di lealtà paesana.

Ma direi anche di più, anche se non ho potuto compiere alcune verifiche per meglio precisare il calendario: nello quello stesso torno temporale dei Montanelli a Nuoro, in quel subcapoluogo della grande provincia di Sassari erano vissuti ed avevano lavorato altre due grandi personalità della futura storia culturale italiana: il piemontese Attilio Momigliano ed il laziale Igino Giordani (oggi servo di Dio), entrambi allora insegnanti di lettere al ginnasio municipale.

In quel quinquennio egli – Montanelli – visse intensamente, come può un bambino o ragazzino di quell’età, la vita dei suoi compagni, dei suoi coetanei vicini di casa, di quella divertita marmaglia rurale ancora, preideologica e pretecnologica, che sapeva accontentarsi di poco e nutrire la fantasia giocando su tutta la scena del paese e dei dintorni, interpretando e reinventando il reale, fino ad essere stanca, la sera, e ben pronta alla rapida cena ed al sonno ristoratore. La famiglia, che veniva dalle finezze fiorentine, aveva preso casa al corso Garibaldi, a mezza strada fra la piazza di San Giovanni – zona di mercato – e il Ponte di Ferro, in basso, in direzione delle Grazie secentesche (e di quelle future giuseppine): cinquecento metri costituenti – così mi pare l’avesse definita una volta Nannino Offeddu – l’attraversamento cittadino della Trasversale sarda, vale a dire della Strada Statale n. 125 Bosa-Orosei. Era, il limite longitudinale di Santu Predu, il «cuore nero di Nuoro», il «prolungamento cittadino dell’ovile» (definizione ancora di Salvatore Satta), il quartiere della Deledda ma anche di Gian Pietro Chironi, di Sebastiano Satta e di Francesco Ciusa: il quartiere che dominava per morfologia forse più che per estensione la Nuoro che era la Nuoro anche di Antonio Ballero il pittore e il “Nino de Nugor” delle corrispondenze al giornale di Cagliari, di Attilio Deffenu e dei suoi fratelli tutti eccellenti, dei poeti dialettali, dell’onorevole Giuseppe Pinna… Prendendolo in salita si sfociava, alla fine, alla cattedrale di Santa Maria della Neve – opera d’oro (ma quanto faticata anch’essa!) del vescovo-arcivescovo Bua, mentre sul fianco destro s’aprivano i giardinetti, in quel tempo belli soltanto per gli amanti di quel «nido di corvi» ma destinati, in specie dopo l’intitolazione (nel 1935) delle elementari a Ferdinando Podda, il sergente sassarino caduto sull’Altopiano di Asiago proprio in quel 1917 dell’arrivo dei Montanelli in Barbagia, a miglioramenti decisivi.

In un suo articolo del 24 luglio 2001, uscito anch’esso su L’Unione Sarda – un giornale che negli anni ’10 del Novecento, nella Nuoro “sassaresizzata”, faticava a reggere la concorrenza de La Nuova Sardegna ma ben riscattatasi negli anni fra ’60 e ’70 e anche dopo –, Angelo Altea recuperava, da un discorso proprio nuorese di Montanelli allora più che 70enne, alcuni flash memoria confidenziale: «Mio padre era un borghese fiorentino, e io andavo a scuola vestito come un ragazzo della buona borghesia fiorentina, seduto a fianco ai figli dei pastori, rustici e austeri nel carattere e nell’abbigliamento. Mi prendevano in giro, anche in maniera pesante, e io ne soffrivo molto, sentivo quel mondo così lontano dal mio. Finché un giorno, di fronte a una presa in giro più violenta delle altre, mi voltai e diedi uno schiaffo al più prepotente. Quello non solo non reagì, ma mi considerò da quel momento in avanti come uno di loro. Capii la lezione, avevo dimostrato di avere coraggio e quindi potevo stare nella società barbaricina. Una lezione che porto ancora dentro e che mi serve nelle sfide più difficili: più forte è l’aggressione, più cresce la mia capacità di reazione». (Così su L’Unione Sarda, 24 luglio 2001).

Di Sardegna aveva scritto, Montanelli, una certa volta, o anche una certa volta – l’8 giugno 1999 – sul Corriere, rispondendo a un lettore sardo che gli aveva confidato di aver trovato il suo nome in un numero de Il giornalino della domenica dei primi anni ’20, compreso fra quello di ragazzini coinvolti in una questua civica a favore degli orfani dei soldati della Brigata Sassari, l’eroica brigata protagonista positiva della grande guerra.

Dal Corriere, nella circostanza triste della morte – onorata con una pagina speciale da L’Unione Sarda – il quotidiano di Terrapieno aveva estrapolato una certa organica riflessione del giornalista (e scrittore) circa la Sardegna e la sua estraneità ai problemi di mafia: niente a che fare, la nostra, con la struttura sociale della Sicilia, con le sue cupole proprietarie e a scendere le sue parassitarie gerarchie di vassalli e valvassori – i massari – chiamati a gestire, per conto del feudatario latifondista, rendite e rapporti di lavoro: «In Sardegna non è mai avvenuto nulla di simile. Latifondi non ce n’erano nemmeno ottanta o più anni fa, quando io ragazzo ci vivevo e crescevo. La ricchezza (si fa per dire) non si misurava dagli ettari di terra quasi tutta a pascolo, ma caso mai dai capi di bestiame. La sua popolazione era fatta di solitari pastori, che non conoscevano né padrone né massaro, vivevano la vita delle loro pecore, nutrendosi dei loro prodotti e a casa ci tornavano ogni due o tre mesi.

«Il banditismo nasceva quasi esclusivamente dall’abigeato, non diventava mai brigantaggio e non contaminava la società creandovi centri d’infezione perché il bandito (rispettosamente chiamato “latitante”) dalla società si separava per vivere alla macchia fidando sulla solidarietà del pastore, anche lui “fratello separato”. A spingerlo a questa vita libera e solitaria era quell’infuso di orgoglio e di coraggio che fa obbligo al sardo di non lasciare impunita nessuna offesa e che nel suo linguaggio si chiama balentìa.  Almeno finché resta nel suo ambito naturale il banditismo sardo non ha nulla di contaminate. E’ quando emigra in continente che diventa brigantaggio e delinquenza come quella dei sequestri di persona. Ecco la mia diagnosi, se così possiamo chiamarla. A differenza della mafia che come un cancro infetta e corrompe la società, il banditismo sardo era soltanto una casistica di vicende individuali senza nesso tra loro. I latitanti di Orgosolo, i più genuini di tutti non hanno mai ricattato né sequestrato nessuno. Ci sono cresciuto in mezzo. E mai mi sono sentito più sicuro come fra loro». (Cf. “La mafia e il banditismo”, L’Unione Sarda, id.).

Del rapporto di Indro Montanelli con la Sardegna si è scritto – magari con qualche ripetitivo di troppo – in più circostanze, ma è stato soprattutto lui a parlarne, tanto più nelle diverse occasioni in cui nell’Isola è tornato, dopo gli anni della sua prima formazione a Nuoro. Quella relazione è rimasta sentimentalmente salda nel tempo, nell’un verso e nell’altro, e il Montanelli giornalista del Corriere della Sera e più ancora, per il pubblico sardo, de La Domenica del Corriere – per non dire delle ultime stagioni, fra Il Giornale nuovo e La Voce cioè – s’è sempre confermato una delle penne “nazionali” più amate da noi. Sia quando ci andava di condividere, sia quando le opinioni contrastavano ma pur si trattava, come per necessità, di togliersi il cappello davanti a tanta capacità argomentativa e, ancor più, a tanta bella scrittura.

Vorrei ripassare qualcuna di queste tappe d’interesse per arrivare infine – sarà quando sarà – ad un articolo che egli pubblicò, come editoriale, nel maggio 1963, su L’Informatore del lunedì.

Il columnist fra una visita e l’altra

Forse si potrebbe tenere un’agenda delle visite montanelliane nell’Isola. Non ho fatto una ricerca specifica e non ne conosco il numero né tutte le circostanze. Mi limito così a quelle che ho avuto modo di annotare, a parte quella della primavera 1963, compiuta per dar conto al pubblico dei lettori del Corriere dei primi passi attuativi, o soltanto d’impostazione, del Piano di Rinascita.

Ricorderei la visita del giugno 1965, a Sassari, all’università, per presentare il suo Dante e il suo secolo (già alla seconda edizione): occasione buona per la coincidenza con il sette volte centenario della nascita del Sommo Poeta. Fu allora ad iniziativa del provveditore agli studi Angelo Antonicelli e del Centro didattico provinciale che si costituì un comitato dantesco nel capoluogo turritano dove – si osservi anche questo – teneva la cattedra episcopale don Paolo Carta, studioso appassionato e competente di Dante e pienamente coinvolto, anche come padre conciliare, nelle celebrazioni fiorentine che avrebbero goduto della partecipazione ideale dello stesso papa Paolo VI. Fu allora – valga questa digressione – che il pontefice firmò la sua lettera apostolica Altissimi cantus e donò una croce d’oro per la tomba ravennate dell’“Esule fuggiasco”.

Molti i giovani sassaresi (ma invero molti di più se ne aspettavano) accorsi all’aula magna – affollatissima – dell’ateneo sassarese per la conferenza di Montanelli, sabato 26 giugno: sì conferenza, ma più ancora dibattito, ordinato e pertinente nelle domande, ovviamente brillante e acuto nelle risposte. Nessuna mitizzazione del Poeta, il contrario anzi, con qualche forzatura addirittura, forse, sui limiti e le debolezze dell’uomo di genio, esposto al rischio della faziosità e dell’estremismo, nella vita spesa tutta dentro la passione politica della sua Firenze.

Nel giugno 1982 tornò Montanelli, al Palmasera di Dorgali, per ricevere il “Cala Gonone Libro d’Oro” (ormai alla terza edizione), giusto premio riconosciuto dalla Pro Loco (e consegnato dall’attrice, raffinatissima, Bianca Toccafondi) a un autore capace di vendere a milioni di copie le sue fatiche letterarie. E il cronista (cronista? inviato speciale ed editorialista!) del Corriere della Sera di copie della sua Storia d’Italia ne aveva collocate, perfino con file in libreria, già più di tre milioni… Parlando liberamente, al suo solito, disse della «piena libertà, scavallando alla ricerca di nidi di merli sulle falde dell’Orthobene», in cui i genitori lo lasciavano vivere, in quella piccola città di sottoprovincia che era l’«epicentro del banditismo» isolano.

Naturalmente non sono mai mancati, sulla stampa isolana di un capo come dell’altro, le pronte recensioni ai suoi cinquanta libri. L’elenco sarebbe lungo e, qui, fuori obiettivo, anche se a firmare gli articoli sono stati fior di giornalisti nostri, come – tanto per fare due nomi soltanto – Aldo Cesaraccio e Gianni Filippini, tanto più al tempo in cui, prima di assumere la direzione de La Nuova Sardegna o de L’Unione Sarda, essi curavano la terza pagina o fungevano da redattori capo. Fra i più remoti ricorderei su La Nuova Sardegna del 24 agosto 1949, un lungo articolo di “gmb” (Giuseppe Melis Bassu) sul Morire in piedi montanelliano, appena uscito per le edizioni di Longanesi. Titolo del pezz: “La rivelazione giornalistica 1949 in un libro di Indro Montanelli”. Potrei ricordare, un po’ più recente, un bellissimo articolo a firma Arnaldo Satta, ancora su La Nuova Sardegna del 20 dicembre 1969, su L’Italia dei Seicento, pubblicato presso Rizzoli da Montanelli con Gervaso. Titolo: “Italia e Sardegna nel Seicento”, con qualche amichevole rimprovero per non aver gli autori incluso a sufficienza i tormenti spagnoli o spagnoleschi dell’Isola nostra che, nel secolo, non furono poca cosa (si pensi soltanto alla vicenda Castelvì-Camarassa, ai negoziati fra la feudalità sarda e la Corona di Madrid, e agli assassini e ai processi e alle sentenze di morte…). Ricorderei ancora, sul quotidiano sassarese del 14 novembre 1971, di Aldo Cesaraccio, sulla nuova uscita L’Italia giacobina e carbonara, la recensione “L’appuntamento con Montanelli”…

Qualche articolo, perfino il profilo di Grazianeddu

Spererei che un giorno qualcuno lavorasse a un repertorio degli scritti di Indro Montanelli sulla Sardegna e/o sui sardi. A parte quelli che ho già affacciato o citerò nello sviluppo di questo articolo, potrei qui menzionarne una parte certamente minima di quel che sarebbe il risultato di uno scavo ragionato. Ricorderei, fra gli altri, in terza sul Corriere, datato 12 agosto 1958, un reportage sull’ambiente naturale dell’Isola assolutamente da preservare, alla vigilia di quel che sarebbe stato, da noi, il grande (e problematico) sviluppo del turismo soprattutto costiero: “La Sardegna ha un tesoro che sciupare sarebbe delitto”. Occhiello: “Una natura ancora intatta da difendere”.

Ricorderei, degli ultimi, la prefazione, che è de 1993, a Io, Mesina, che ha per sottotitolo Dal Supramonte ad Asti. Un ergastolo, nove evasioni, una prigione: una autobiografia raccontata dal noto bandito a Gabriella Banda e Gabriele Moroni e pubblicata dalle cosentine Edizioni Periferia. Ricorderei anche, seppure relativamente eccentrico rispetto ai nostri maggiori temi, la prefazione al libro Saras di Sarroch, prefazione tutta puntata sulla figura di Angelo Moratti capitano d’industria: «Ceduta la Rasiom alla Esso, sempre con eccellenti profitti, dalla Sicilia Angelo Moratti si spostò in Sardegna, e in quattordici mesi vi realizzò una monumentale raffineria a Sarroch, in provincia di Cagliari, con una capacità che nel 1969 aveva raggiunto i 18 milioni di tonnellate annue…».

Di uomini del Nuorese che ben aveva conosciuto, e di banditi e carcerati – altra razza né migliore né peggiore di certi petrolieri e capitalisti –, scrive dunque Montanelli riferendosi a Grazianeddu: «Da parecchi anni desideravo incontrare Graziano Mesina. Ci provai sette od otto anni fa, quando trasformò una libera uscita in evasione, o meglio in scappatella per amore di una ragazza. Salvo poi tornare sette giorni dopo in galera. Ci sono finalmente riuscito nell’autunno scorso [1992] quando andai a trovarlo ad Asti nella casa dei suoi ospiti: una famiglia sarda che gli ha regalato un tetto e un lavoro dopo la concessione della libertà condizionale.

«Grazianeddu è esattamente come l’avevo sempre immaginato: un uomo ruvido e orgoglioso, l’ultimo scampolo di un banditismo sardo che appartiene ad un irripetibile passato. E qui lasciatemi aggiungere un purtroppo. Non per mitizzare un fenomeno criminoso e cruento, che di sangue ne fece scorrere a fiumi. Ma per dire che al suo posto, oggi, ce n’è un altro che ce lo fa sinceramente rimpiangere: il banditismo della droga, dei sequestri di persona, delle imboscate ai carabinieri, del denaro facile, del riciclaggio dei soldi sporchi. I nuovi banditi (ma non vorrei neppure chiamarli così, sono gangster e basta), circolano col telefonino, viaggiano in Mercedes, bazzicano casinò e grand hotel, trescano in Borsa per lavare i loro miliardi.

«Quelli di un tempo erano tutt’altra cosa. La loro gente li chiamava, pudicamente e rispettosamente, “latitanti”. Ed essi lo erano diventati perché – un po’ per sfiducia nelle leggi di uno Stato lontano, un po’ per orgoglio e balentìa – si facevano giustizia da soli. Gli unici delitti che conoscevano erano la vendetta personale e l’abigeato. Dopo i quali prendevano la via accidentata del Supramonte e si davano alla macchia. Lupi solitari che badavano perlopiù a difendersi e a farsi dimenticare, pronti però a tutelare la propria libertà a suon di schioppettate. Il vecchio e vero bandito, di cui Grazianeddu è l’ultimo ed unico esemplare rimasto, non aveva padrini o sponsor, non si metteva al servizio di organizzazioni malavitose o eversive. A differenza del mafioso o del terrorista, non tentava di incunearsi nella società per inquinarla, corromperla, pervertirla. L’unica complicità che sollecitava ed otteneva era quella dei pastori che, nella sua randagia e selvatica esistenza, gli garantivano un tetto e un pezzo di pane.

«Con questa razza di balentes, ormai pressoché estinta, io trascorsi i migliori anni della mia infanzia nel cuore della Barbagia. Ogni domenica mio padre, preside al liceo di Nuoro, mi portava a caccia in quel di Mamoiada, Bitti, Orune. E capitava spesso che proprio i banditi, ospiti di qualche pastore della zona, pranzassero con noi, cucinando il capretto o il porceddu arrosto. E poi ci indicassero i luoghi più propizi per impallinare lepri e pernici, volpi e cinghiali. Sulla propria condizione, non lasciavano trapelare nulla. Ma noi sapevamo benissimo chi erano. E quando la marcia era troppo lunga, mio padre mi lasciava in custodia proprio a questi uomini tutti coppola e doppietta, quasi sempre condannati all’ergastolo in contumacia. Non avevo che sette-otto anni, eppure mai mi sono sentito più sicuro come sotto la loro protezione. Erano pronti a far secco chiunque avesse tentato di rapirmi (adesso i loro sedicenti successori, i bambini li sequestrano e li mutilano). Per raggiungerli sul Supramonte, per ben tre volte fuggii di casa e costrinsi mio padre a mobilitare i carabinieri per riacciuffarmi. Ecco: Mesina appartiene a questa razza, anche se a quei tempi non era neppure nato (ha poco più di cinquant’anni). E la storia pluricentenaria di quelle ataviche faide famigliari la conosce tutta, come se l’avesse vissuta. Perciò non mi ha deluso.

«Abbiamo parlato, ad Asti e poi a Milano, della mia e sua vecchia Sardegna, degli anni eroici e gloriosi del banditismo, delle casàte orgosolane perennemente in lite, delle vendette tra i Succu e i Corraine, che in tre generazioni lasciarono sul campo una quarantina di cadaveri. Rivedo ancora una delle ultime Corraine quando, a cavallo, veniva da mio padre. Nera in tutto: occhi, capelli e vestiti, per i lutti di tre generazioni. E ricordo le parole del senatore Antonino Monni: “A Orgosolo a qualsiasi famiglia, anche la più blasonata, può capitare un parente latitante; basta un po’ di sfortuna…”. Di questo abbiamo parlato a lungo con Grazianeddu. Ma anche della sua vita. Di come inaugurò, suo malgrado, la carriera di fuorilegge: un omicidio per vendicare il proprio fratello, un tentato omicidio nei confronti di un vignarolo, che gli uccise il suo cane che sospettava di mangiargli l’uva (e un vero balente, in nome dell’onore, non può accettare l’assassinio del proprio cane). E di come, una volta arrestato e condannato, riempì di buchi e di tunnel buona parte delle carceri italiane, tentando di fuggire una ventina di volte e riuscendovi sei. Insomma, di tutta la sua avventurosa vita che è al centro di questo bel libro di memorie.

«Grazieneddu ha pagato: nessuno, in Italia, è rimasto come lui trent’anni nelle patrie galere. Ha sempre rifiutato di chiedere la grazia (lo fece per lui l’anziana madre). Fosse durato ancora qualche mese, Cossiga gliel’avrebbe concessa: in fondo anche lui, con “un po’ di sfortuna”, poteva diventare un altro Mesina. Non ha fatto in tempo a mantenere la promessa. Spero che, ora, ci pensi Scalfaro. Ma se e quando Grazianeddu tornerà completamente libero, non credo che si ristabilirà in Sardegna. Non vi si ritroverebbe. Della sua isola non è rimasto che il nome, e poco altro. Sulle montagne ora imperversano i criminali, nemmeno lontani parenti dei banditi d’antan. E son convinto che lui, l’ultimo lupo solitario, li disprezza. Anche se non me lo dirà mai. Il fatto è che ha sbagliato secolo. E’ l’ultimo reperto vivente di un mondo che non c’è più. Se potessi, lo metterei sotto vetro. Come una reliquia».

Impressioni ed opinioni forse non tutte condivisibili, ma non importa. Conta qui la scrittura.

In principio era Sestilio

Preside della Normale nuorese venuto nell’Isola, con i suoi, nell’anno, direi anche nei mesi e forse nelle settimane dure e drammatiche di Caporetto, che erano press’a poco anche quelle della rivoluzione russa, quella leninista: il professor Sestilio segnò la strada. Di biografie di suo figlio Indro ce ne sono ormai diverse – da quella, forse la prima, di Tommaso Giglio all’ultima di Giancarlo Mazzuca, passando per quella di Marcello Staglieno e altre dieci – e dove più dove meno, giustamente, il professore ha avuto il suo spazio. A cominciare da quello che lo inquadra fra i residenti dei due quartieri avversari, in permanente distacco e diffidenza, compresenti in quel di Fucecchio, a mezza strada fra Firenze e Pisa: Fucecchio di su, castellana, aristocratica e clericale, e Fucecchio di giù, piuttosto popolare per il più. Ne dice con abbondanza lo stesso suo erede in quel libretto che è una chicca vera e preziosa dal titolo Mi chiamo Indro: «Mio padre era ingiuese e di famiglia oscura, sebbene ci siano, a Fucecchio, dei Montanelli, abbastanza celebri per via di un rivoluzionario del ’48 cui i fucecchiesi hanno dedicato un monumento. Ma i Montanelli cui mio padre apparteneva erano di un altro ramo, il ramo povero evidentemente, e mio nonno Raffaello aveva un forno. Io non l’ho conosciuto perché morì prima che mio padre si sposasse. Dicono che gli somiglio e, siccome aggiungono che era un bello e brav’uomo, non ho niente da obiettare. So che non faceva nulla dalla mattina alla sera, che era malinconico e taciturno e che gli piacevano i bei vestiti. Al forno ci stava sua moglie Edvige, detta Edvige, che gestiva anche una trattoria e che, attiva e avara, mandava avanti la famiglia composta di quattro figli: una femmina e tre maschi.

«Dei maschi, mio padre Sestilio era il più promettente, studiava bene e con ottimi risultati; perciò su di lui si concentravano le speranze e le risorse della famiglia che decise di farne un professore di lettere. Sestilio fu infatti mandato a dozzina da sua sorella Maria andata sposa a un usciere di tribunale a Firenze e qui fece il ginnasio, il liceo e l’università a furia di zuppa di fagioli e di dieci in pagella. A scuola fu compagno di Alberto Dòddoli [degli insuesi] che, intelligentissimo e sfaticato, si lasciava fare i compiti da Sestilio. A quest’ultimo, tornato per le vacanze in paese, l’amicizia con Alberto consentì di scendere a palazzo Dòddoli e di conoscervi mia madre [Maddalena]…».

Il racconto (che è del 1939, ma rilanciato nel 1955 e in ristampa ancora nel 1977) prosegue, gustoso in ogni pagina, con le complicate strategie e le furbesche tattiche di “conquista” di Rosmunda [futura suocera], in esse comprendendo il calmiere imposto al proprio socialismo, sentimentale (all’inizio) forse più che dottrinario, e con le cronache della prima stagione di coppia e famiglia. Sestilio infatti, «che insegnava allora alle tecniche del paese, si portò la moglie per in giù, in una villetta con giardino e, ottenuta la grazia, riabbracciò in pieno le sue idee sovversive. Poco dopo – sono ancora parole di Indro Montanelli – mia madre rimase incinta. Subito Rosmunda calò dal poggio a riprendersi la figliola perché l’erede nascesse per in su. Infatti nacqui per in su, il 22 aprile 1909. Ma poco dopo, essendosi Rosmunda ammalata, mio padre venne e riprendersi la consorte e la prole e, per vendicarsi, si mise con ostinazione a cercare per me un nome che non fosse né nella famiglia, né nel calendario. Lo trovò».

Nel bel libro di Tommaso Giglio, ormai vecchio di 36 anni (è del 1981 per i tipi della Sperling & Kupfer), c’è un bel focus su quella relazione piuttosto problematica che sarebbe andata aprendosi fra padre e figlio. Ne recupero alcune righe riflettendole sull’esperienza nuorese, poiché il contesto temporale me lo consente, ma con una premessa: «Aveva [Indro] solo sette anni quando scoppiò la prima guerra mondiale. Questa guerra seccò molto il nonno, che era giolittiano e favorevole alla neutralità dell’Italia. I suoi figli invece erano tutti interventisti. Il padre di Montanelli stesso era socialista della corrente di Bissolati e quindi interventista anche lui. Visto che i figli avevano avuto ciò che desideravano, la guerra, il terribile vecchio li invitò a trarre le conseguenze dalle idee che avevano professato. Mentre tutti erano a tavola, li apostrofò: “Voi ve la siete voluta e voi adesso ve la fate. Domani mattina, tutti al distretto e tutti al fronte, perché ora le ciarle sono finite e si devono fare i fatti. E tu”, disse rivolgendosi al minore dei figli, “tu presenti la tua domanda di volontario e te ne vai sotto le armi. Capito?”.

«Più difficile è stato il rapporto di Montanelli con il padre. Un rapporto più di soggezione che di affetto. E qui è l’inizio del trauma infantile che inutilmente lui cerca nella sua infanzia. Il padre è stato il primo a essere di un’intransigenza severa con il figlio e il figlio ha lottato inconsciamente contro di lui, ha sempre temuto di non poter superare l’esame al quale il padre continuamente lo chiamava. “Mio padre era un preside di liceo severo, chiuso nel suo ‘sacerdozio’. Da buon padre all’antica teneva più al mio rispetto che al mio affetto. Non che non fosse comprensivo. E’ che lui osservava rigidamente certe norme di vita e voleva che anch’io le rispettassi. Tra me e lui c’è sempre stato distacco”».

E a dir di Cottone

A Sestilio Montanelli con riferimento specifico all’Isola mi riporta anche un articolo che mi capitò tempo fa di trovare nella Summa Sardoa di Pasquale Marica, donata qualche decennio fa, dal suo raccoglitore e ordinatore, al Consiglio Regionale della Sardegna. Si tratta di un articolo, a firma appunto del professor Sestilio, uscito su Il Giornale d’Italia nel marzo 1957. Titolo: “Carmelo Cottone” e occhiello: “Un educatore degli educatori”.

L’articolista scrive del professor Cottone, una figura cui anch’io, per marginale che sia il mio approccio alla sua figura, sono legato per la parentela stretta, in discendenza, che aveva con quel Giuseppe Cottone, medico di origini siciliane e garibaldino, amico di Giorgio Asproni e presentissimo nel Diario, benemerito della medicina nuorese (in specie al tempo del colera del 1855) e fra i protagonisti delle vicende massoniche della loggia Eleonora al tempo dei moti di su Connottu. Allora… insieme con don Gavino Gallisay (e magari l’avvocato e sindaco e poi parlamentare Salvatore Maria Pirisi Siotto), in guerra permanente con il carmelitano fra Salvator Angelo Demartis, vescovo di Nuoro dal 1867 e grande amico e confidente di papa Pio IX.

Cottone junior era un pedagogista, e sotto questo profilo lo ricorda nel suo contributo giornalistico il professor Sestilio. Il quale, in apertura di articolo, giustamente si sofferma a illustrare le circostanze della reciproca conoscenza. Scrive: «Arrivai a Nuoro, a dirigervi la Scuola Normale, nel 1916 [parrebbe invece il 1917]. Continentale novellino in terra di Sardegna, ero un prevenuto, un molto mal prevenuto contro l’isola. “Per nove mesi e basta” avevo risposto al Direttore generale che mi pregava di trasferirmi là a raddrizzare le gambe a quella scuola che zoppicava assai. Vi arrivai la sera del 30 settembre. Piovigginava. Tenevo per mano, stretto stretto come se temessi che me lo rapissero, il mio piccolo figliolo, Indro, che cominciò proprio da Nuoro quel suo noto bighellonare per il mondo. Guglielmo, il proprietario dell’“Albergo Italia” mi accolse cortesemente; ma la sala era strapiena di gente in mastruca che fissava il nuovo arrivato e bisbigliava parole che non capivo e io mi sentivo a disagio. Ed ecco che mi si presenta un brigadiere dei carabinieri: “Mi manda il signor capitano, mi disse, a chiederle di quanti militi ha bisogno domani per gli esami”. “Quanti militi?… per gli esami?… non capisco”. “Sa? Il suo predecessore teneva due carabinieri all’ingresso della scuola e due di piantone alla porta della direzione…”. Guardai sbalordito il brigadiere e la gente in mastruca che mi fissava e, in modo che tutti udissero, risposi: “Senta, brigadiere: ringrazio il signor capitano: ma gli dica che io so di essere arrivato in una città di gente perbene, la quale desidera soltanto questo: che le cose si facciano con giustizia. Le cose saranno fatte con giustizia, non ho dunque bisogno di carabinieri”.

«Fu questo il mio primo contatto con Nuoro e con la sua Scuola Normale e, a dir la verità, esso non valse davvero a sradicarmi dall’animo le prevenzioni. A sradicarle valsero, invece, fin dal primo giorno degli esami, gli alunni; e ci riuscirono così bene che a Nuoro ci restai, di mia elezione, non i nove mesi pattuiti col Direttore generale, ma più di cinque anni. Non ero soltanto “su direttore”, ero anche l’insegnante di pedagogia. Una mezza generazione di giovani ne seguì, con ammirevole attenzione, le lezioni, nelle quali mettevo tutto il meglio di me, perché la Sardegna aveva, allora, un bisogno urgente non tanto di maestri quando di educatori nuovi, aggiornati, per i quali la professione fosse non un mestiere ma una missione, un sacerdozio. E da Nuoro, allora considerata l’Atene sarda, e da quelle famigerate celle del suo vecchio convento Francescano dove era istallata – istallato: etimo esatto! – il suo Istituto magistrale, uscirono insegnanti, che ho potuto seguire nel loro magistero educativo e che forse ancora mi ricordano, i quali fanno onore all’isola natale. Ma, fra essi, uno più di ogni altro si distingue e spicca e si impone all’attenzione sia dei pedagogisti e sia degli uomini della scuola militante, e non soltanto in Sardegna e in Italia: uno che, oltre che educatore di alunni, è un educatore degli educatori: Carmelo Cottone…».

(A Cottone, si sa, è intitolata la scuola elementare di Siniscola: qualcuno propose di disbattezzarla, qualche anno fa, ricordando una certa adesione del nominativo al regime, fortunatamente però senza successo. I meriti sono meriti, e credo che Cottone l’adesione, perfino intensa e certo sempre discutibile sul piano suo professionale, cioè pedagogico, che dette al fascismo l’avesse motivata con quell’intimo processo che muoveva assai più dalle sensibilità nazionali e perfino nazionaliste di taglio postrisorgimentale che non dalle impossibili acquiescenze alle rozzezze e anche crudeltà mentali della dittatura).

Monte d’Oliena e monte Gonare

Un flash di memoria sarda è presente nelle pagine anche di Marcello Staglieno, pubblicate – con il titolo Montanelli, novant’anni controcorrente – per i tipi di Mondadori nel 2001. Fa riferimento a un malessere rivelatosi nell’infanzia, in quella casa del Corso nuorese «con un piccolo balcone da cui si vedeva a sinistra l’Orthobene, in fondo il monte d’Oliena, a destra il monte Gonariu», e destinato a riprodursi nel tempo: «Fu in quella casa che a lui, undicenne, si manifestarono per la prima volta i sintomi della malattia psicosomatica… quasi una sorta  d’oscuro contrappasso, irrazionale e impenetrabile, della sua pragmatica e spavalda lucidità.

«Così la rievocò, quasi con pudore: “La prima volta che fui malato, avevo undici anni. Mi svegliai d’improvviso la notte con un gran tremito che faceva ballare il lettino di ferro sul quale giacevo.  Quel tremito mi spaventò, lo spavento mi fece galoppare il cuore in gola, gridai: ‘Muoio! Muoio!’. Accorsero mio padre e mia madre, mi presero nel loro letto, cercarono di quietarmi… Cosa avessi, non sapevo nemmeno io… Durava qualche ora; poi, d’improvviso, il pianto scioglieva il nodo. Piangevo a lungo. Poi mi sentivo rasserenato… ‘Guarda il monte di Oliena’, diceva mio padre rapito, ‘guarda che colori meravigliosi!’. Oh, io conoscevo quel colore notturno che sfaceva in grigio il violetto del monte di Oliena, lo portavo in me, lo vedevo riprodotto su tutto ciò che guardavo. Era il colore della morte e mio padre – che non sapeva – lo trovava meraviglioso! Guardavo mio padre con compassione e anche su di lui, nella sua chioma grigia, nelle sue rughe della fronte, vedevo passare l’ombra della morte”». (Così dall’originario racconto La morte, del 1939).

Il «mi ricordo anch’io» di Massimo Pittau

C’è, di quel tempo, coinvolgendo insieme il professor Sestilio e suo figlio Indro, anche la buona memoria nientemeno che di Massimo Pittau il quale, nuorese di nascita (classe 1921) e di prima formazione, partecipò, coprotagonista bambino, alle vicende paesane di passaggio alla dittatura. Di qualche anno soltanto più giovane della “marmaglia” di cui avrebbe però conosciuto tutte le imprese, abilità e inventiva… per renderne un domani la testimonianza. Ne ha scritto in L’era fascista nella provincia italiana. Il Littorio a Nùgoro e in Sardegna, uscito nel 2011 per i tipi della Edes. In tale opera un capitolo è appunto dedicato ai Montanelli. A parte qualche minima imprecisione, la testimonianza vale molto. Eccola nel capitolo “Attilio Momigliano e Indro Montanelli”:

«Il prof. Sestilio Montanelli, padre di Indro, era stato mandato a fare il preside della Scuola Normale di Nuoro […] nel 1920 e vi rimase per cinque anni. […].

«Forse mio fratello Francesco non fu propriamente compagno di scuola di Indro, ma di certo fu un suo compagno di giochi. Infatti il futuro grande giornalista italiano fu compagno di scuola di uno degli Offeddu, Orazio, e con lui mantenne sempre buoni rapporti di amicizia. Il figlio di Orazio, Luigi Offeddu, in seguito, entrò nel mondo del giornalismo appunto dietro la scia del grande Indro Montanelli.

«La famiglia Offeddu abitava in via Giorgio Asproni, accanto alla cattedrale di Nùoro, ed i ragazzi del vicinato avevano come normale campo di giochi il “piazzale” di Santa Maria della Neve, alla cui parte opposta, nel rione di Lollobeddu abitava la mia famiglia, in una casa posta nell’angolo tra la piazza e via Guerrazzi. Ebbene, proprio nel “piazzale di Santa Maria” il più grande dei miei fratelli, Francesco, ebbe modo di giocare con gli Offeddu e con Indro Montanelli ragazzi, e tutti parteciparono alle scorribande che la banda effettuava oltre Monte Jaca, nella direzione di Isporósile e di Sutta ‘e Crèsia, fatte per rubacchiare ciliegie, mele appie e mandorle ancora verdi (sa cucuja).

«Una trentina di anni fa mi è capitato di assistere a Dorgali alla cerimonia di consegna ad Indro Montanelli di un premio, uno degli innumerevoli che gli sono stati assegnati durante la sua lunga vita e carriera. In risposta alle parole di saluto e di motivazione del premio, egli ebbe modo di parlare della sua fanciullezza passata parecchi decenni prima a Nùoro e, con nostro grande stupore, egli parlò con commozione di quel suo soggiorno nuorese e soprattutto della formazione di carattere che ne aveva derivato dalla frequenza coi ragazzi di Nùoro. D’altronde, in un incontro che Montanelli ebbe con l’ex-bandito di Orgosolo Graziano Mesina nel 1992, il giornalista ritornò sul tema della formazione del suo carattere ricevuta tra i ragazzi di Nùoro esprimendosi testualmente in questo modo: “Ricordo che a Nuoro si faceva a botte per un nonnulla. Per guadagnare un certo credito non bisognava mai subire, ma rispondere colpo su colpo. Se uno non reagiva era considerato un mezzo uomo, umiliato, massacrato. Io ero gracilissimo, ma presi ottime lezioni di botte, e quando lasciai la Sardegna avevo un discreto stato di servizio” (Venerdì de La Repubblica del 3 agosto 2001).

«Non mi ricordo esattamente se da mio fratello Francesco oppure da Orazio Offeddu io sia venuto, molto tempo dopo, a conoscenza di uno dei primi “insegnamenti” di furbizia e di formazione del carattere che il ragazzo Montanelli subì appena arrivato a Nùoro ed appena venuto in contatto coi ragazzi del “piazzale” di Santa Maria. Egli fu sottoposto allo scherzo detto del «Re zoppo», sa brulla de su Re thoppu. Al malcapitato veniva prospettato un gioco, nel quale il ruolo del ragazzo gabbato appariva un altro, mentre in effetti lo era soltanto lui. Un ragazzo dunque doveva fare la parte del cavallo, sul quale sarebbe montato il Re, che risultava essere zoppo. Invece il ragazzo da gabbare si doveva semplicemente prestare a fare il palafreniere e quindi doveva aiutare il Re a montare sul cavallo sollevandone il piede con le sue mani unite. Il Re dunque si avvicinava al cavallo aiutato da un compagno, anche perché zoppicava fortemente, con un piede sollevato dal terreno. Arrivato il Re zoppo vicino al ragazzo-cavallo, il ragazzo-palafreniere gli porgeva le due mani unite per aiutarlo a montare; ed il Re faceva strisciare sulle mani del palafreniere la pianta della sua scarpa, che in precedenza, non visto, aveva ampiamente intriso di sterco umano, materiale che in quei tempi era ampiamente diffuso negli angoli delle piazze e delle strade di Nùoro, dato che non era stata ancora fatta la rete fognaria. Ed il palafreniere – in questo caso il ragazzo Montanelli – restava allibito e mortificato con un bel gruzzolo di materiale schifoso e puzzolente attaccato ad entrambe le mani.

«Comunque, circa quarant’anni dopo, nel suo libro Tagli su misura (Milano, Rizzoli, 1960, pag. 176), parlando del costume morale dei Nuoresi, lo aveva definito “il più austero, il più nobile, ma anche il più difficile e duro della Sardegna”. Ed io, nato a cresciuto a Nùoro, mentre dico di condividere appieno la seconda parte di questo giudizio di Indro Montanelli, a quattr’occhi e sommessamente faccio scorrere nelle orecchie dei miei soli concittadini qualche mia riserva sulla sua prima parte.
D’altronde è un fatto che nella pagina precedente Indro Montanelli, parlando dei Sardi in generale, aveva scritto: “Forse i Sardi, che sono tra i pochissimi Italiani ad avere un ‘carattere’, lo stanno perdendo”….

“Tagli su misura”

Effettivamente, nel 1960 -  dopo un ritorno, appunto uno dei tanti e vissuto forse come “pellegrinaggio” di memoria ricreatrice – il grande Montanelli dava alle stampe, da Rizzoli, il suo Tagli su misura – sottotitolo, fra parentesi, Incontri – costituito da trentatré capitoli, per il più biografici (sul fronte nazionale ed internazionale, da Giovanni XXIII a Salazar, da Ben Gurion e Golda Meir e Moshe Dayan a Mollet e Mendès-France, da Labriola e Moro e Paratore a Rizzoli ed Eduardo e Gassman ecc., e qualche riferimento alle categorie: Protestanti, I tifosi…). Nel meglio – prova di scrittura assolutamente godibile – le scene e i personaggi della Sardegna: “Nuoro” e “Calvia Gavino”. Una ventina di pagine in tutto, della miglior qualità. E tanto più quelle direttamente dedicate al capoluogo barbaricino – rivisitato dopo tanti anni, ma destinato ad ulteriori ritorni di chi vi era cresciuto bambino per un lustro intero a scavalco fra il secondo e il terzo decennio del secolo – capaci, nella stretta autobiografia, di rendere vivida, plastica, l’immagine e le cadenze di una società riscoperta cambiata, e in meglio e in peggio, nella stagione ormai detta del “miracolo” e del “consumismo”, e ancora però di vigilia della “Rinascita”.

Incredibile ma vero, il solo esemplare disponibile nel sistema delle biblioteche pubbliche della Sardegna si trova a Nuoro – che ne ha, peraltro, pieno diritto – non a Sassari né a Cagliari. A Nuoro, alla biblioteca Consorzio “Sabastiano Satta” (che spero abbia risolto la sua crisi del tutto assurda, trascinatasi tanto a lungo, per colpa di neghittosità variamente distribuite in capo a molte sedi istituzionali vicine e lontane). Qualche anno fa me ne sono procurato la fotocopia, che ho delittuosamente diffuso, anche per la mancata ristampa del volume.

Eccoli, in sequenza, i due capitoli sardi del libro:

Di Raffaele, ziu Dionisiu bumbum, Fileddu e Turuddone

«C’erano molte persone che volevo rivedere a Nuoro. Ma la più importante era forse Raffaele, che del resto fu il primo a venirmi incontro, quando ci arrivai bambino, tanti e tanti anni fa, non oso dire quanti.

«Il treno, che da Golfaranci, dove allora si sbarcava, aveva impiegato una intera giornata a giungere sin lì, fece un’ennesima sosta a una casa cantoniera, e io fui attirato al finestrino da un lungo nitrito. Attraverso la fuliggine che mi velava gli occhi e mi anneriva il volto, guardai di fuori, ma cavalli non ne vidi. Vidi solo un uomo che girava su se stesso, ogni tanto raspando col piede per terra, e con una mano si sculacciava. Anche lui mi guardò e mi sorrise d’un sorriso ebete, scoperchiando due file di denti da erbivoro divaricati e giallastri. Poi, quando il treno si rimise in movimento, fece un salto e prese a trottargli di fianco, sulla scarpata, sempre più accelerando finché, con un lungo nitrito, ruppe in galoppo. “Iiiiiih!… Iiiiii ! …”. faceva in falsetto, e doveva averci un lungo allenamento perché l’imitazione era perfetta.

«Chiamai mia madre a vedere. Essa, frastornata dal lungo viaggio (ci si metteva due giorni e una notte, allora, per venire da Pisa) e spaventata dal giallo deserto in mezzo a cui dall’alba si avanzava, sbarrò gli occhi e, afferratomi alla vita, mi riportò dentro la carrozza come se quel bizzarro cavallo avesse potuto rapirmi in groppa come l’Ippogrifo. Ma io presto mi svincolai per tornare al finestrino e rispondere coi nitriti ai nitriti di Raffaele. Nuoro era alle viste, lassù al termine di un’ultima salitella. E il trenino tossicoloso e ansimante, impennacchiato di fumo e di scintille perché andava a legna, non aveva più fiato per tener dietro al bipede destriero, che trionfalmente lo batté sul traguardo della stazione, dove lo accolsero gli osanna di un branco di ragazzacci. Schiumante di sudore, egli caracollava tra loro, mentre mio padre e mia madre radunavano il bagaglio, ogni tanto fermandosi a raspare con un piede la terra e a lanciare un nitrito di tripudio e cli stanchezza.

«Fu di nuovo quel nitrito a risvegliarmi l’indomani sotto le finestre dell’albergo Italia, l’unico di Nuoro, dove ci s’era accampati. Aveva cinque camere in tutto e sorgeva sulla piazza del Mercato, in alto, dove prendeva l’avvio, snodandosi verso il basso, il “corso”, la sola strada pavimentata del paese. Il matto vi trotterellava in mezzo, fra ceste di verdura e turbe di bambini scalzi e vociferanti, poi al galoppo si buttò giù, roteando la testa sul collo e lasciandosi dietro una scia di “Iiiiiih!… Iiiiiih!”.

«Non erano trascorsi molti giorni che anch’io facevo parte della clamorosa marmaglia in attesa ogni sera, alla stazione, della sfida di Raffaele al treno. E Ia mattina economizzavo sullo zucchero nel caffelatte per portarne una zolla in premio a vincitore, con il cespo di lattuga ch’egli mi strappava di mano con la bocca, proprio come fanno i cavalli. Mio padre era andato prima a informarsi dal maggiore dei carabinieri se il matto, oltre a quella ippomorfa, avesse altre e più pericolose manie. No, era più innocuo d’un cavallo vero. Una volta il sindaco aveva voluto farlo prendere e internare in manicomio a Sassari. Ma tutta Nuoro era insorta contro quel tentativo di privarla del suo unico divertimento, e Menotti Gallisai, in un infiammato discorso, aveva minacciato le barricate. E così io, per amore di Raffaele diventai seguace del suo protettore ch’era un repubblicano socialista, andava in giro col cappellone, la cravatta nera e il tabarro, e predicava che tutto, anche la malaria, era colpa del re e dei capitalisti.

«Il mio secondo amico fu Ziu Dionisiu, il banditore, che ogni tanto mi lasciava suonare il suo tamburo. Lo portava sempre a tracolla, ogni venti passi lo rullava, e gridava in dialetto: “Due vacche nella tanca hanno sa sgarrettate. La carne a buon prezzo da Gavino trovate. Bumbum, bumbum, burubumbum”, oppure: “Zia Peppedda Porcu ha perso la sporta. Due soldi di mancia a chi la riporta. Bumbum, bumbum, burubumbumbum”. Perché Ziu Dionisiu fu la stazione-radio di Nuoro prima ancora che Marconi avesse perfezionato la sua scoperta. Egli volgeva in rima le notizie che gli davano da diffondere e imprimeva loro, con la sua voce baritonale, un crescendo altalenante da canto gregoriano.

«Ziu Dionisiu era stato carabiniere e concedeva con più facilità l’indulgenza che la confidenza. Quando non aveva nulla da bandire, montava la guardia al giardino pubblico, il che lo metteva fatalmente in conflitto con noialtri che ne eravamo i saccheggiatori. Ziu Dionisiu non ci chiedeva affatto di rinunziare alle nostre piratesche attività. Ci chiedeva solo di non costringerlo ad accorgersene. Egli teneva al proprio prestigio quasi quanto al tamburo che seguitava a portare a tracolla, anche quando non lo usava. Passeggiava in su e in giù, lungo le aiuole da preservare dalle nostre incursioni e dentro le quali non c’era più nulla da difendere, lentamente e con le mani dietro la schiena. E i carabinieri, passando, lo salutavano, perché sapevano ch’era stato appuntato. Ziu Dionisiu teneva molto a quel saluto, che contribuiva immensamente al suo prestigio. E una volta che una recluta si dimenticò di farglielo, venne da mio padre a chiedergli di parlarne discretamente al maggiore. “Capirà”, disse, “in che condizioni mi mettono, di fronte alla cittadinanza, se non mi salutano?”.

«Un nuorese solo odiava profondamente Ziu Dionisiu: ed era, per ragioni di tamburo, Fileddu, che il suo lo suonava nella banda municipale e non ammetteva che in paese ce ne fossero altri a fargli concorrenza. Fileddu aveva il viso giallo, i polmoni un po’ sinistrati dalla tubercolosi, gli occhi miopissimi e un cuore appassionato. Si capiva quando era innamorato dal modo come rullava il suo strumento, fino a soverchiare perfino la cornetta. Poco dopo il nostro arrivo, la banda di Nuoro dovette limitarsi a suonare sulla “piazzetta” rinunciando alla consueta sfilata nel “corso” perché quando giungeva sotto le nostre finestre, Fileddu s’impuntava e, invece di continuare con gli altri, restava lì a rullare forsennatamente in onore della giovane professoressa Clementina Mirabelli, che abitava nella nostra stessa casa. La intravedeva sul balcone, e non s’accorgeva ch’ero io, vestito nei panni di lei, con la complicità di altri birbaccioni. Quando Io seppe, sporse al questore una denunzia che cominciava così: I sottoscritti Indro Montanelli, Martino e Vincenzo 0ffeddu, Graziano Guiso, Nino Zuddas, Nino Mannu e Michele Daddi hanno invidia che le donne vogliono a me e dicono che vogliono a loro, e invece vogliono a me. In considerazione di ciò, chiedo che i suddetti sottoscritti… E siccome non ottenne giustizia, appiccicò alla porta della cattedrale una lista coi nomi dei suddetti sottoscritti preannunziandone la imminente eliminazione, come facevano i banditi di Orgosolo, prima di mandare all’altro mondo un nemico.

«Ma a proteggerci dalle sue vendette noi potevamo contare su Turuddone, il miles gloriosus di Nuoro, di cui sapemmo che in realtà si chiamava Cherubini Antonio solo quando lo processarono perché rivendeva i cani, di cui il sindaco lo aveva designato accalappiatore. Turuddone trascorreva le sue giornate a raccontare gli episodi di eroismo che gli avevano valso le quattordici medaglie ch’egli portava sul petto in due lunghe file tintinnanti. Ed era sempre reperibile nella bettola di Ziu Conchedda, dove noialtri, di quando in quando, s’affacciava la testa per cantare questa quartina: “Ziu Conchedda – Vino e liquori – Scritto a colori – Virgola nera”. Nessuno ha mai capito perché questi quinquenari innocenti e puramente descrittivi dell’insegna della bottega ne mandassero tanto in bestia il titolare che, appena ci vedeva apparire, s’avventava su di noi e Dio sa cosa ci avrebbe fatto, se Turuddone, balzando dal tavolo, non gli avesse regolarmente sbarrato la strada coprendoci con le sue larghe spalle e le quattordici medaglie.

«Tutti sapevano ch’erano false, ma aureolavano di prestigio il titolare come se fossero state vere, perché Turuddone le aveva accreditate a furia di vittoriose e massacranti cazzottate con gl’increduli. Ogni volta che si apprestava a raccontare qualcuna delle sue imprese guerresche, traeva di tasca un pugnale da ardito e, a mo’ di ammonimento, lo piantava in mezzo al tavolo. Poi ci stendeva una mano sopra e diceva solennemente, in sardo: “Giuro che lo ficco nella pancia a chi muove obbiezioni”. Era l’idolo di noi ragazzi, e ci teneva. Per questo era sempre pronto a difenderci contro chiunque, anche contro i professori che ogni tanto si prendevano la libertà di sospenderci o di bocciarci. Quando Fileddu appiccicò la famosa lista coi nostri nomi sulla porta della cattedrale, Turuddone andò dal parroco e gli chiese l’assoluzione per lo strangolamento di Fileddu. “Lo hai ucciso?”, chiese il parroco atterrito. “No”, rispose Turuddone, “ma lo uccido stasera e mi prenoto. Quante Avemarie devo dire?”.

«Ora Raffaele è morto. M’hanno raccontato che cominciò a spegnersi il giorno in cui, per la prima volta, non riuscì a battere il treno sul traguardo della stazione. Il suo nitrito di sconfitta fu così disperato che nemmeno la marmaglia in attesa ebbe il coraggio di corbellarlo. Cercarono di spiegargli che non era lui ad andare più piano, ma il treno ad andare più forte ora che lo avevano sostituito con la littorina. Non ci credette, e una mattina si presentò al mattatoio per essere abbattuto. Lo rimandarono indietro, e la sera stessa lo trovarono stecchito sulla scarpata della ferrovia.

«Anche Ziu Dionisiu e Fileddu son morti e ambedue hanno chiesto di essere seppelliti col loro tamburo e sono stati contentati. Per lungo tempo a Nuoro rulli non se ne udirono più, perché nessuno osava prendere il posto degli scomparsi. Poi un giorno si udì invece uno squillo di tromba, che annunziava l’avvento d’un nuovo banditore. E costui era, e tuttora è, Turuddone, sempre vivo e con tutte le sue quattordici medaglie tintinnanti sul petto. Egli ha meno prestigio, ma un senso pubblicitario molto più sviluppato del suo predecessore. Fra una notizia e l’altra interpola non soltanto gli sgrani della cornetta che non sa suonare ma anche le imitazioni dei maggiori divi della televisione, di cui è un appassionato.

«La gente ne sorride, ma appena. Non è come quando minacciò le barricate in difesa di Raffaele perché era l’unico divertimento del paese. La vecchia Nuoro è finita. Al suo posto c’è una città moderna, importante, dove il corso non è che una delle tante strade lastricate e dove, di mio, non ho ritrovato che un aggiornato e invecchiato Turuddone. C’è perfino una strada che conduce in cima all’Orthobene, dove fra poco sarà inaugurato un grosso albergo con una settantina di letti.

L’Orthobene con l’h e l’eloquente silenzio

«Ai miei tempi c’era soltanto una mulattiera dove s’inerpicavano i carri tirati da buoi, di cui qualcuno riusciva ad arrivare sulla vetta: gli altri si rovesciavano e restavano per via. Ma ad affrontare quella difficile scalata s’era in pochi, e quasi tutti forestieri: noialtri, il sottoprefetto, il presidente del Tribunale, il ricevitore del Registro eccetera con le loro rispettive signore, per sfuggire alla noia della domenica. E in cima non c’era nulla, salvo la grande statua in bronzo del Redentore, ai cui piedi, seduti sull’erba, si consumava la colazione al sacco. Solo qualche pastore ogni tanto veniva ad offrirci un agnello arrosto o un cesto di ricotta. E non voleva soldi. Accettava soltanto un sigaro e un bicchiere di vino.

«Ora è tutto un fiorire di ville, fra le quali ce n’è anche una chiamata “degli Angeli”, che in realtà è uno chalet costruito da alcuni buontemponi nuoresi per farne la loro Capocotta. Una Capocotta, intendiamoci, per famiglia, dove il massimo della sregolatezza è rappresentato da qualche strippata di porchetta, da qualche bevuta di vernaccia e da qualche torneo di “ramino”. Ma dovunque s’incontra gente che fa merenda all’ombra dei lecci, e dovunque si odono i ritmi delle canzoni alla moda, trasmesse dalle radio aperte, more italico, a pieno volume. Perché gl’italiani non amano la musica: amano il rumore.

«Sull’utilità di questa strada, che dev’esser costata fior di milioni, e sulla vitalità dell’albergo che ne costerà, a conti fatti, pochi di meno, ancora si discute e si litiga, qui in Sardegna. Io dubito molto che nell’isola possa svilupparsi un turismo di montagna. Ma capisco anche come Nuoro, tagliata fuori da tutte le attrezzature che si stanno sviluppando sulle coste di pertinenza dello altre due province di Cagliari e Sassari, abbia voluto anch’essa qualcosa e abbia puntato sull’Orthobene. Forse avrebbe fatto meglio a spendere quei soldi per dare l’avvio a qualche albergo fra Orosei e Siniscola, dove ci sono delle spiagge che danno dei punti alla Versilia, e nessuno le conosce perché non c’è da alloggiarvi. Ma i nuoresi, evidentemente, hanno preferito qualcosa più a portata di mano, che favorisce non la provincia, ma la città. Essi hanno un debole per I’Orthobene, forse perché somiglia a loro, così severo e maestoso, nonostante le sue modeste proporzioni. Infatti il panorama che si può ammirare dalla sua vetta è il più sardo fra quelli che si possono vedere in Sardegna, drammatico, ma non melodrammatico, con l’immensa vallata che gli si spalanca ai piedi e, sullo sfondo, i solenni roccioni cinerini e tristi del Monte d’Oliena e del Gennargentu, continuamente trascoloranti dal rosa al violaceo.

«Però non c’è dubbio che un effetto, almeno psicologico, questa contaminazione turistica dell’Orthobene lo ha avuto: quello di dare alla domenica dei nuoresi, che sono i più sardi di tutt’i sardi, un contenuto sagraiolo e campestre che prima non aveva. Quarant’anni fa (tanti ahimè ne sono passati da quando per la prima volta ci venni bambino), la domenica di questa gente, più che a quella dei cristiani, somigliava al sabato degli ebrei, per la casalinga austerità in cui la si celebrava. Fuor della messa di mezzogiorno, per cui tutti, uomini e donne, tiravano fuori i fastosi costumi, la giornata era dedicata a riti domestici, soffusi di segretezza. Le case restavano chiuse, cioè più chiuse del solito, perché lo erano sempre, costruite com’erano a guisa di fortilizi con l’immancabile muretto, spesso rinforzato da una proibitiva barriera di fichidindia, che le separava dalla strada, e le finestrelle a mo’ di feritoie, tappate dagli scuri di legno, e la porticina, da passarci solo di traverso e a capo chino, sbarrata dal lucchetto e da una pesante stanga di ferro.

«Cosa si dicessero babbi, figlioli, fratelli e nipoti, accucciati sui talloni intorno a su faghile, come chiamano il braciere, in quelle settimanali assise di famiglia, mentre le donne in cucina, vestite di nero, confezionavano la “carta di musica” e le sebadas, oppure quei meravigliosi bianchissimi pani decorati di barocche raffigurazioni che costituivano il rito principale di quella liturgia, non l’ho mai saputo, in cinque anni di vita con loro. Perché sebbene mi ci ammettessero con accogliente ospitalità, al mio entrare i conversari assumevano quel tono lievemente imbarazzato di quando vogliono sembrare disinvolti. Ma forse non si dicevano nulla. Forse, semplicemente, tacevano, il silenzio essendo l’espressione più alta dell’eloquenza sarda. Forse si riunivano appunto per stare zitti, cioè più zitti di sempre.

«Comunque, la domenica di questa gente si celebrava al chiuso, invece che all’aperto. Era una domenica di pastori, anelanti, dopo tante giornate di solleone e tante notti all’addiaccio, all’intimità di un tetto e al raccoglimento d’un orizzonte angusto. Si beveva il vino di casa mangiando il pane e il formaggio fatti in casa. E le donne, spicciata la cucina, tessevano la lana del proprio gregge. Una stretta economia autarchica sottolineava ancora di più la regola monastica di questi microcosmi familiari, la loro segretezza e segregazione. E la domenica era appunto il giorno in cui la forza centripeta e coagulante della domus, come qui, alla latina, si chiama la casa, trionfava sulla strada svuotandola e lasciandola morta.

«Ora, dacché hanno costruito la strada dell’Orthobene, il costume si è capovolto. I nuoresi sono tutti lì, chi in automobile, chi in motoretta, chi in torpedone, chi addirittura a piedi, e non più soltanto a famiglie, ma anche a branchi di giovanotti e di ragazze, promiscuamente, com’è normale in tutto il resto del mondo, ma rivoluzionario in Sardegna, e soprattutto a Nuoro. Le nuove case, sorte nel solito italico disordine, senza piano regolatore, senza criterio urbanistico, anzi senza criterio tout court, della vecchia domus non hanno più nulla: né il muretto a secco, né la barriera di fichidindia, né le porticine con la stanga, né le finestrelle a mo’ di feritoie. Tirano al longitudinale, cercano l’aria e la luce, e accolgono sotto lo stesso tetto sette otto o dieci famiglie, che hanno in comune le scale, le cantine, le soffitte, i pianerottoli, i gusti e le abitudini.

«E’ da questi appartamenti che sbucano fuori, la domenica, i cultori del week-end all’aria aperta. Non so se amino proprio la natura e se sia per gustarne i benefici che si lanciano alla conquista, ormai così facile, dell’Orthobene. Ma certo hanno smesso di averne paura e di considerarla soltanto dispensatrice di caldo e di freddo, d’insolazioni, di sete e di reumatismi. Solo qualche vecchia famiglia forcaiola, di quelle che sono restate nel rione di San Pietro, dentro casupole a mo’ di fortilizio, centrate sull’immensa cucina, celebra ancora la domenica al chiuso, con l’antico rito del pane. Ma son poche e non hanno più la forza di trattenere i figli che sciamano, se non verso il sole e la montagna, almeno verso il caffè e la televisione, e non vogliono più tacere, per ascoltare in silenzio il silenzio. Vogliono parlare e udir parlare. Vogliono vedere altra gente e mescolarsi con essa. C’è, in tutte le città sarde, e probabilmente anche a Nuoro, un Club Claudio Villa E il divo, capitato l’altro ieri da queste parti, ha benignamente raccolto l’ovazione dei suoi fans, accorsi da tutta l’isola per sventolare i gagliardetti (possono mancare, i gagliardetti, in Italia?) imblasonati dai titoli delle sue più celebri creazioni: Scalinatella, Guaglione, ecc.

Modernità socialitaria (anche rivoluzionaria?)

«Che tutto questo mi abbia entusiasmato, non potrei dire. Quando, sul corso della mia vecchia Nuoro, ho visto sfilare due uomini in costume e mi hanno detto ch’è l’Azienda del turismo a stipendiarli perché facciano color locale, ho provato una stretta al cuore. E quando, transitando con la macchina a mezzanotte da Silanus, che conterà a dir molto duemila abitanti, ho visto giovanotti e ragazze, vestiti come a Livorno o ad Abbiategrasso, ballare per le strade perché era la festa del paese, ho rimpianto i tempi in cui per uno sguardo avventato sorgeva automaticamente un dilemma: o il matrimonio, o una coltellata.

«Ma, a parte questi aspetti deteriori e mortificanti del cosiddetto progresso, debbo riconoscere che qui, dove ce n’era bisogno più che altrove, la vita e il costume hanno subito un rivolgimento profondo e senza possibilità di ritorni. La Barbagia, che aveva resistito a tutte le invasioni, si è arresa alla televisione e agli elettrodomestici. E chi l’ha conosciuta, come me, arcaica e pastorale, di mondi chiusi e d’impenetrabili solitudini umane, è fatale e istintivo che se ne dolga. Ma non si può non riconoscere che tutto ciò che a noi continentali piaceva non era che il risultato di sofferenze senza fine e senza nome, di silenziosi sacrifici, d’ingiustizie e di mortificazioni.

«Certo la rottura del vecchio costume patriarcale e l’irruzione di quello nuovo, socialitario, se non socialista, in nessuna parte d’Italia è così visibile e conturbante come qui. Certo, col cattivo anche del buono andrà perso, e col buono anche del cattivo sarà adottato. Ma in complesso questa fuga dei sardi dal chiuso dei loro monastici microcosmi, questa loro sostituzione di una domenica festosa all’austero sabato di un tempo, rappresenta per essi una bella liberazione. Per la prima volta dacché li conosco, ho sentito dei sardi parlare ad altri sardi, anche senza dir nulla, solo per il gusto di comunicare. E Dio solo sa che rivoluzione sia questa, per gente avvezza sin qui a ricacciarsi dentro pensieri e sentimenti fino al giorno in cui esplodevano in crisi di follia o in colpi di fucile.

«Forse i sardi, che sono certo fra i pochissimi italiani ad avere un “carattere”, lo stanno perdendo. Ma chi ha potuto misurare che cosa questo carattere costasse loro, di desideri insoddisfatti, di lacrime represse, di rinunzie a tutto, anche alla confidenza; chi ha ascoltato i loro impenetrabili silenzi e assistito alle loro macerazioni, a quelle vite consumate nella solitudine e nel rodio dei lutti e dei rimpianti, non ha il diritto di lamentarlo.

«Perciò sia benedetta anche la strada dell’Orthobene, per molto che sia costata e per poco che possa rendere. Sia benedetta per la rivoluzione che ha portato nel costume dei nuoresi, il più austero, il più nobile, ma anche il più difficile e duro della Sardegna. Essa ha regalato la domenica a questa gente che non ne ha mai goduto e ne aveva tanto bisogno».

Ecco Montanelli il nuorese, perfetto, infinitamente grande. Gli ambienti che entrano nel suo racconto, i personaggi che danno luce alla memoria di giornate, di anni anzi! lontani, ritornano fortunatamente anche nelle pagine di nostri autori sardi. Mi viene adesso, per farla breve, la rappresentazione che ne fa Nannino Offeddu, tanto più nel primo dei due volumi del suo Immagini di Nuoro paese (Nuoro, Devilla, 1991 -1993): Ziu Diunisi e Turuddone “imbonitori commerciali”, Fileddu, e quel Bumbuddu evocato dallo scrittore toscano con il nome arcangiolesco, e di battesimo, di Raffaele. Così l’Ortobene – od Orthobene che voglia scriversi – vissuto come il paradiso di casa, paradiso di tutti e di ciascuno, fuori dalle classi sociali e dai particolari credo dell’anima.

Ad Offeddu, senza dover arrivare, almeno una volta, alle cime rappresentative di Salvatore Satta, accosterei Onorato Zizi e in particolare i suoi Appunti per una storia di Nuoro, pubblicato dalle edizioni Solinas nel 1992, ma accosterei anche Mario Corda, le sue “stanze” nuoresi uscite per alcuni anni, fra il 1987 e il 1991, su L’Unione Sarda e in parte riprese in Corso Garibaldi. Frammenti di cultura nuorese, da lui dato alle stampe, nel 1994, per i tipi de Il Maestrale. (Ma quant’altro non dovrebbe riportarsi alle memorie di Mario Corda – quelle affidate alle pagine di libri come La piazzetta, o Elogio del microcosmo, o ancora Un treno coi finestrini oscurati – che, pur centrando gli anni successivi alla stagione barbaricina vissuta dai Montanelli, di essa recupera le atmosfere senza tempo, quelle di un luogo senza coordinate spaziali riscontrabili in alcuna cartina…).

Gavino Calvia, i presidenti, i re e il duce

L’altro capitolo sardo montanelliano, non meno spumeggiante del precedente in Tagli su misura (Incontri), descrive la storica personale monumentalità del guardiano d’un monumento vero e proprio, di pietra, poco a nord di Nuoro, diciamo proprio nel Sassarese, in territorio di Torralba: il nuraghe di Santu Antine. La penna leggera dell’autore trafigge il potere comunque declinato, liberal-notabilare o regio tardottocentesco, quello autoritario del regime come quello democratico della repubblica. Sardegna negletta? O negletti i poveri? Questione di geografia o di classe?

Ecco Montanelli:

«Gavino Calvia, anzi Calvia Cavino, è il custode del più importante nuraghe della Sardegna, o   per lo meno del meglio conservato, quello di Santu S’antine [Santu Antine], che vorrebbe dire San Costantino, e gli fa quasi concorrenza come età perché ha novant’anni suonati. E’ uno dei pochi che portano ancora sa beretta, ha un bel paio di baffi bianchi sul viso cotto dal sole, e quando gli chiedo come ha fatto a mantenersi così bene in salute, mi risponde: “Non mi sono mai impicciato dei fatti altrui”.

«In Sardegna è questa la miglior ricetta per non finire prematuramente nella fossa, specie quando si fa il custode di un nuraghe solitario dove qualche viandante ogni tanto può cercar rifugio durante la notte e dove qualche carabiniere può venire a chiedere se qualche viandante  vi ha trovato rifugio. Di questi “fatti altrui” Gavino non si è mai accorto. Egli non ha visto passare che branchi di corvi, greggi di pecore e stormi di pernici. Per questo è invecchiato così bene e a lungo. La dieta non c’entra.

«Gli danno di stipendio quattromila lire al mese per questo immobile lavoro che tuttavia comporta quattro chilometri di marcia all’alba per andare al nuraghe e quattro la sera per tornare a casa. Non tutti i giorni, da un po’ di tempo in qua, egli si sente di batterli. Ogni tanto vi manda suo nipote che ha vent’anni, ma che già fornisce garanzie di resistenza alla tentazione d’impicciarsi dei fatti altrui. Buon sangue non mente, e quello dei Calvia è ottimo.

«Gavino non ricorda con esattezza in che anno iniziò il suo mestiere. Ricorda soltanto che in quel momento al Governo c’era Crispi, il quale un giorno venne a visitare il nuraghe. Ci venne a cavallo, perché a quei tempi non c’era nemmeno una mulattiera, seguito da uno stuolo di personaggi minori fra cui anche un archeologo che gli fece una lunga spiegazione. Crispi ascoltò con molto interesse, e nell’andarsene strinse la mano a Gavino e gli chiese quanto guadagnava: “Sei lire e cinquantaquattro centesimi al mese, meno le trattenute”, rispose il custode. “Così poco?”, sobbalzò il presidente del Consiglio. E, rivolgendosi al segretario, gl’ingiunse di prendere nota della, cosa e di sviluppargliela in un appuntino “per i necessari provvedimenti”.

«Trascorsero giorni, settimane, mesi, ma i necessari provvedimenti non giunsero. Giunse invece, alcuni anni dopo, re Umberto che, venuto in Sardegna a raccogliere l’omaggio dell’isola fedelissima, fu condotto anche lui a vedere il nuraghe. Lo seguivano a cavallo centinaia di notabili in costume, e in costume, a cavallo, c’era anche la regina Margherita che con la sua bellezza imbambolò Gavino. Essa si accorse della stupefatta ammirazione di quel giovanotto che, guardandola, non riusciva a spiccicar parola; e a un certo punto gli chiese di dov’era e quanto guadagnava, “Sette lire e venticinque centesimi al mese, meno le trattenute”, rispose Gavino. “Così poco?” sobbalzò Sua Maestà e, fatto cenno al suo gentiluomo di Corte, gl’ingiunse di prender nota della cosa e di sviluppargliela in un appuntino da sottoporre al re “per i necessari provvedimenti”.

«Trascorsero giorni, settimane, mesi, ma i necessari provvedimenti non giunsero Gavino ne fu sinceramente stupito e, ricordando che la regina aveva parlato di fronte al sovrintendente alle Belle Arti da cui egli dipendeva, andò da costui rammentargli l’episodio. Il sovrintendente promise di scrivere alla regina per rammentarle a sua volta la promessa, ma pochi giorni dopo fu trasferito in continente, e Gavino non seppe più nulla di nulla.

Re Umberto dopo Crispi e prima di Savoia-figlio e Giolitti

«Un giorno si sparse la notizia che il nuovo capo del Governo, Giovanni Giolitti, sarebbe venuto a visitare il nuraghe. Stavolta Gavino pensò di prevenirne le domande, e l’appuntino che doveva servire di base ai “necessari provvedimenti” se lo fece compilare per conto proprio dal maestro elementare del paese in modo da averlo bell’e pronto quando l’illustre ospite ne avesse ordinato al segretario la redazione. Ma Giolitti all’ultimo momento disdisse la visita. Aveva saputo che mancava la strada per arrivare al nuraghe e che quindi era necessario andarci a cavallo. E lui a cavallo non sapeva o non voleva andarci.

«Gavino si fece, per quel rifiuto, un’idea molto scarsa del presidente del Consiglio, ma la corresse quando vide che quello stesso anno si poneva mano a una mulattiera. Forse il presidente del Consiglio non c’entrava per nulla in quell’iniziativa, ma Gavino gliel’attribuì e si convinse che, quando la mulattiera fosse finita, Giolitti sarebbe venuto, avrebbe letto l’appuntino e preso i necessari provvedimenti. Purtroppo invece Giolitti cadde prima che la mulattiera fosse finita, e altri anni trascorsero a sette lire e venticinque centesimi al mese, meno le trattenute.

«Finché fu annunziato che stava per arrivare il nuovo re, Vittorio Emanuele III, da poco succeduto al padre assassinato. Gavino tornò dal solito maestro elementare e fece tradurre l’appuntino in una supplica bell’e buona che, a scanso di equivoci, venne anche sottoposta all’approvazione del maresciallo dei carabinieri. Ma il re non la prese. Egli s’interessò al nuraghe molto più di quanto avevano fatto tutti i suoi predecessori, discusse a lungo col sovrintendente e con l’archeologo, mostrandovi grande erudizione e competenza, tutte le teorie che si sono formulate intorno a quelle ciclopiche costruzioni. E quando, al momento di andarsene, Gavino gli si parò davanti con la supplica in mano, gli chiese come si chiamava, di dov’era e che campagne aveva fatto. Alle prime due domande Gavino rispose, ma alla terza dovette confessare che campagne non ne aveva fatte punte, perché, come figlio unico di madre vedova, lo avevano esentato dal servizio militare. L’ombra della delusione calò sul volto del re che passò oltre, senza che il postulante trovasse il coraggio di porgergli il foglio.

«L’anno dipoi Giolitti, ridiventato capo del Governo, venne davvero. Venne in carrozza, con un gran cappello a larghe falde, visitò il nuraghe fumando il sigaro, ascoltò distrattamente le solite spiegazioni dell’archeologo, e alla fine chiese al sovrintendente quanto costava il mantenimento del nuraghe. Il sovrintendente dovette ammettere che costava solo lo stipendio del custode, lire sette e novantasei centesimi al mese. “E’ poco”, disse Giolitti senza guardare Gavino, che aveva bruciato la supplica perché si era convinto ch’essa gli portava sfortuna, e senza ordinare a nessun segretario di prendere il solito appuntino. Ma il mese dopo lo stipendio fu elevato a lire nove e trentotto centesimi, meno le trattenute che pur-troppo si erano un po’ elevate anch’esse.

«Per parecchi anni più nessun grande personaggio venne al nuraghe di Santu S’antine [Santu Antine]. Passò la guerra di Libia, trascorse quella mondiale, e Gavino sentì dire che l’Italia era diventata un grande e forte Paese, ma non se ne accorse. Per quanto con rapidi sbalzi il suo stipendio fosse aumentato a quarantasei lire e quarantacinque centesimi, non aveva l’impressione di vivere in condizioni più floride di prima. Anzi. Per cui quando gli fu annunziato che il nuovo capo del Governo, Mussolini, avrebbe visitato il nuraghe, si propose di dirglielo.

«Ma Mussolini non gliene lasciò il tempo. Arrivò in divisa, tanto che Gavino lì per lì pensò di essersi sbagliato e che quello fosse un nuovo re. Volle percorrere l’ultimo tratto a piedi, con passo di bersagliere, salì d’un fiato in cima alle mura, disse agli astanti: “Dall’alto di questi massi quaranta secoli di Storia ci guardano”, ridiscese, spiegò lui all’archeologo che cos’erano i nuraghe, e chiese a bruciapelo a Gavino se era fascista e quanto guadagnava. Gavino rispose candidamente che per essere fascista non guadagnava abbastanza. “Quanto?”, incalzò Mussolini. Gavino glielo disse. “Così poco?”, tuonò il duce, che ancora non era tale, ma tale già si sentiva. Chiamò non uno, ma tre segretari che si piantarono sull’attenti sbattendo i talloni e ingiunse loro di prender nota e di svilupparla in un appuntino “per i necessari provvedimenti”.

Eccellenza Mussolini, i tedeschi e gli americani, poi Einaudi

«Gavino capì che quella non era come le altre volte, e corse a iscriversi al fascio, convinto di guadagnare ormai abbastanza per poterlo fare. Ma le quarantasei lire e quarantacinque centesimi restarono quarantasei lire e quarantacinque centesimi ancora per un pezzo, e quando cominciarono a salire fu quando anche tutto il resto era già salito, e molto più impetuosamente.

«Poi trascorsero di nuovo molti e molti anni senza visite di personaggi di rilievo da cui si potessero sperare aumenti. Un giorno nel nuraghe si accamparono dei soldati tedeschi, ai quali Gavino accese il fuoco e arrostì un capretto. Un altro giorno al nuraghe fecero sosta dei soldati americani, ai quali Gavino accese il fuoco e arrostì una porchetta. Come si fossero svolti i fatti Gavino non lo sapeva, ma considerandoli “altrui” teneva fede alla sua regola di non impicciarsene, e quindi nessuno seppe mai né del capretto né della porchetta.

«Finché un giorno venne un nuovo re, che non si chiamava re, ma presidente della Repubblica. Arrivò in macchina perché ora c’era la strada, e Gavino vedendolo pensò che somigliava all’altro re. Come l’altro re infatti s’interessò molto al nuraghe, sebbene zoppicasse ne ispezionò con cura tutti gli anfratti, discusse a lungo col sovrintendente e l’archeologo, mostrandovi grande erudizione e competenza, tutte le teorie che si sono formulate intorno a quelle ciclopiche costruzioni, e alla fine chiese a Gavino da quanti anni era lì e quanto guadagnava. Gavino rispose ch’era lì da sessant’anni. “Perbacco!”, fece con ammirazione il presidente. Poi Gavino aggiunse che il suo stipendio era di tremilasettecentosettantadue lire e cinquanta centesimi. “Perbacco!”, ripeté il presidente nella stessa intonazione.

«E’ stato l’ultimo grande personaggio che ha visto. E da allora si è formato la convinzione che anche i fatti propri, per gli altri, sono fatti altrui».

In accompagnamento (o in contrasto?) del primo centro-sinistra moroteo

Fra il 1963 ed il 1965 il Corriere della Sera ancora a direzione Alfio Russo promosse una larga inchiesta sulla complessa realtà territoriale e sociale dell’Italia. I programmi del centro-sinistra moroteo – quello sorto, in quanto a documento di base, dalla famosa Nota aggiuntiva al bilancio dello Stato 1962, di cui fu autore il ministro Ugo La Malfa – ipotizzavano ampie riforme cosiddette di struttura onde conseguire il risultato, oltreché della piena occupazione, del graduale assorbimento dello storico gap fra il nord soprapadano e il centrosud appenninico con le marginalità pugliesi e calabresi. La Sicilia e la Sardegna vantavano un’autonomia speciale che (ben diversa nelle due formulazioni) avrebbe dovuto favorire ancor meglio la loro emancipazione. La fine delle migrazioni interne (oltreché quelle continentali, particolarmente intense negli anni ‘50) doveva essere la prova provata, insieme con il miglioramento generale delle condizioni civili degli abitati sia rurali che urbani, dell’efficacia delle politiche messe in atto dalla nuova maggioranza parlamentare aperta alla sinistra politica e sindacale.

In tale contesto si collocò anche l’ampia inchiesta del Corriere, secolare fiore all’occhiello della borghesia produttiva lombarda. Essa si prese comodi due anni circa ed impegnò intensamente cinque fra le maggiori firme del giornale: con Montanelli anche Alberto Cavallari e Piero Ottone (entrambi destinati alla direzione del giornale, fra anni ’70 e primi ’80), Gianfranco Piazzesi e Giovanni Russo. Diciannove gli ambiti regionali andati all’analisi, configurazione della prossima articolazione politico-amministrativa, in piena (e ritardata) attuazione del dettato costituzionale, del regionalismo nazionale. La Sardegna (in compagnia della Toscana, Emilia Romagna e Lombardia) fu affidata al genio scopritore e interrogante di Indro Montanelli.

Egli affrontò l’esame, insieme analitico e sintetico, dello stato attuale, sociale ed economico, dell’Isola rifacendone la storia quanto meno dall’immediato secondo dopoguerra e lungo un ventennio circa: fino all’esordio della Rinascita, degli esecutivi cioè della legge 588 dell’11 giugno 1962, il provvedimento che stanziava 400 miliardi in tredici annualità (fino al 1974) con il criterio della “aggiuntività” e non della “sostitutività” dei finanziamenti correnti dello Stato. Si era allora alle prime fasi di quella complessa e non tutta felice (anzi!) stagione dello sviluppo turistico e industriale della regione, con l’industria di base petrolchimica e relativa illusione della verticalizzazione produttiva, e in assenza quasi totale di infrastrutture avanzate. La classe dirigente isolana, non soltanto quella politica, si presentava allora al giudizio della storia… Le circostanze associarono temporalmente l’approvazione finale della legge (Piano straordinario per la rinascita economica e sociale della Sardegna) alla elezione alla presidenza della Repubblica del sardo Antonio Segni.

Nella sua bella e recente tesi di dottorato di ricerca dal titolo Il giornalismo in Sardegna dall’istituzione della Regione Autonoma ai giorni nostri. Tra conservazione e innovazione, Andrea Corda ha ben tratteggiato le linee prevalenti dell’inchiesta Montanelli. Di essa peraltro si ricordi peraltro che esiste la raccolta, così come dei testi a firma degli altri colleghi del Corriere, nel volume Italia sotto inchiesta, pubblicato nel 1965 dalla fiorentina editrice Sansoni e prefato da Montanelli.

Potrebbe aggiungersi che pochi anni dopo, fra il 1969 ed il 1970 – alla vigilia dunque della prima conta elettorale autonomistica nelle quindici regioni a statuto ordinario – un nuovo ciclo di articoli d’inchiesta fu promosso dallo stesso Corriere passato ormai alla direzione di Giovanni Spadolini. La pubblicazione dei testi avvenne, in tre volumi dal titolo complessivo Italia 70. La carta delle regioni, fra il 1971 ed il 1972. (La Sardegna venne allora inchiestata da Alfredo Todisco, Angelo Conigliaro, Antonio Cederna e Giuliano Zincone, con il supporto locale di Franco Porru – direttore de L’Informatore del lunedì e vice direttore de L’Unione Sarda – e di Manlio Brigaglia, storico sassarese e collaboratore di prestigio del quotidiano cagliaritano).

Così, quasi nell’incipit della sua ricognizione, Montanelli: «quest’isola di 24.000 chilometri quadrati, a viaggiarla, sembra vasta come un continente e suggerisce il senso dell’infinito. Il paesaggio è solenne e drammatico. Fra paese e paese, fra villaggio e villaggio, corrono trenta, quaranta, cinquanta chilometri di deserto bruno-giallastro, che uno steppico vento perennemente spazza, e che solo sparse greggi animano di un bianco palpito di vita».

Salvo errore sono sette gli articoli a firma Montanelli riguardanti l’Isola, usciti fra il 7 ed il 16 giugno 1963. Eccone i titoli: “Sardegna, arcipelago di uomini” (7 giugno), “Il blasone del pastore e lo scettro del contadino” (8 giugno), “I campi in Sardegna soffrono ancora la sete” (9 giugno), “Il carbone è un ammalato grave che può contagiare la Sardegna” (11 giugno), “Strano gioco delle parti tra Stato e Regione in Sardegna” (13 giugno), “L’oro della Sardegna è l’uomo” (15 giugno), “Ora la Sardegna cammina” (16 giugno).

Con titolo parzialmente mutato essi compaiono nella raccolta in volume. Eccoli di seguito: “La grande svolta”, “Pastori e contadini”, “Il Piano di rinascita”, “Sete e esodo”, “La Supercentrale”, “Missione senza missionari”, “Presente e futuro”.

Nella sintesi di Corda

Come detto, Andrea Corda, nel suo bello studio dottorale di storia moderna e contemporanea del 2014, entra nel dettaglio del reportage pubblicato, giusto mezzo secolo avanti, dal quotidiano di via Solferino, diffondendosi a stralciare da esso, con coerente ed apprezzabile indirizzo interpretativo, il giudizio montanelliano sul presente (ed il recente passato) isolano, prefigurando opportunità ma forse più ancora rischi dallo sviluppo promesso al neppure un milione e mezzo di abitanti fra plaghe costiere e zone montagnose dell’interno.

Ecco così la sintesi che egli propone (ometto io qui, per correntezza, i riferimenti particolari agli articoli sopra elencati in rassegna).

«Secondo Montanelli, l’anno della “grande svolta” per la Sardegna fu il 1946: “E a provocarla – questa la ricostruzione testuale del giornalista – non fu la politica, ma la chimica. La Fondazione americana Rockefeller aveva deciso di tentare un esperimento integrale di disinfestazione dalla malaria col D.D.T., in un bacino chiuso del Mediterraneo, e aveva scelto Cipro. I quadrimotori erano già in viaggio con il loro carico, quando un esponente sardo del partito liberale, Sanna-Randaccio, riuscì in extremis a convincere il comando alleato a dirottarli sulla sua isola. Non so a quali argomenti ricorse. Forse bastarono le statistiche. Quell’anno, di malaria, c’erano stati settantacinquemila nuovi casi. Il flagello dilagava. Gli uomini della ‘Rockefeller’ riconobbero lo stato di emergenza e gli concessero la priorità. Su due piedi fu costituito un Ente regionale per la lotta antianofelica o E.R.L.A.A.S.”».

Ancora Montanelli: «la convenzione geografica vuole che la Sardegna faccia parte del Mezzogiorno e del suo “problema”… Ma le differenze sono sostanziali e decisive. Anzitutto, manca nell’isola il fenomeno delle città congestionate e traboccanti. Cagliari e Sassari non sono state fino ad oggi che dei villaggi cresciuti, e solo ora cominciano ad acquistare una fisionomia metropolitana. La società pastorale sarda non era in grado di sviluppare una civiltà urbana. [...] Ma c’è, a differenziare la Sardegna da tutto il resto del Sud, anche un altro fatto, di ordine sociale: la mancata sovrapposizione di una casta conquistatrice, aristocratica e latifondista. [...] Altro carattere distintivo dal resto del Mezzogiorno: appunto la mancanza di una società feudale in decomposizione, in Sardegna non c’è nulla di decadente, di corrotto e di degradante. [...] questa terra povera non è “depressa” nel senso in cui lo sono le altre terre del Sud. È soltanto primitiva; ma compatta e sana, senza nulla di dissolvente e di putrefatto. Altra particolarità che la differenzia dal Sud: la sua bassa pressione demografica. La Sardegna rappresenta l’otto per cento della superficie nazionale, ma meno del tre della popolazione. Ciò vuol dire che, mentre in Italia la media è di 168 abitanti per chilometro quadrato, in Sardegna è di 59».

Sulla questione della criminalità indigena, in specie rurale, pasto quotidiano della cronaca dei giornali locali e nazionali: «Il banditismo, quando si fa un’inchiesta sulla Sardegna, è tema d’obbligo. Ma io intendo sbarazzarmene in poche parole, perché non c’è nulla di nuovo da scoprire, se non il fatto ch’è circoscritto a una sola provincia e non riesce a dare alla Sardegna nessun primato nella delinquenza. Per strano che possa sembrare, la Sardegna occupa uno degli ultimi posti nella graduatoria nazionale della criminalità. Ce n’è molta di più in Lombardia o in Toscana. Quello che rende sensazionale il delitto sardo è il suo carattere primitivo e elementare. Esso nasce dalla sfiducia nelle leggi dello Stato, dall’impegno morale di farsi giustizia da sé, come avviene in tutte le civiltà arcaiche, e quasi sempre ha come pretesto iniziale il furto di bestiame. È tutto qui. Intorno ad esso non si sviluppano speculazioni, come accade per esempio in Sicilia. Non c’è in Sardegna una industria della delinquenza, una associazione per il suo sfruttamento, come lo sono la mafia e la camorra, che poi contaminano per metastasi tutta la società».

Interessante la descrizione dell’organizzazione della Regione autonoma, significativamente confrontata con quella della Sicilia: «La Regione venne istituita nel ’48. Anch’essa ha uno statuto speciale, ma i suoi poteri sono meno larghi (e i suoi fondi meno cospicui) di quelli riconosciuti alla regione siciliana. Nelle loro rivendicazioni i sardi si sono mostrati molto più prudenti, cauti e misurati. Non hanno conteso allo Stato la funzione di garante dell’ordine pubblico, non hanno preteso di sostituirglisi nel campo dell’istruzione, dell’agricoltura, dell’industria, del commercio, come hanno fatto quelli di Palermo, che poi hanno spiegato in tutti questi settori la competenza e il rigore che purtroppo abbiamo visto. Hanno soltanto chiesto e ottenuto di “amministrarsi” da sé. [...] Il traguardo dell’autonomismo era l’eliminazione di una categoria di “notabili” che si ponevano a intermediari fra il cittadino e lo Stato. [...] Alla regione sarda giova molto il confronto, che viene spontaneo, con quella siciliana. I nove assessori del piccolo governo di Cagliari e i settantadue consiglieri che ne compongono la assemblea non forniscono lo sconcertante spettacolo di fasto, di arroganza e di disinvoltura manovriera che offrono i loro colleghi di Palermo. [...] Ma, quanto a vero rinnovamento politico in senso democratico, passi avanti non mi pare che se ne sia fatti. Prendendo il posto del vecchio “notabile”, il dirigente regionale lo è diventato a sua volta, e lo dimostra la sua perennità. [...] Se si facesse un plebiscito sulla regione, credo che, a differenza della Sicilia dove il “no” sarebbe massiccio, essa verrebbe riconfermata. Ma più per un viluppo di interessi costituiti che per convinzione ideologica. L’uomo della strada in Sardegna si sente lontano, estraneo alla Regione, come per secoli lo fu allo Stato centrale. [...] In tutto questo, la responsabilità dei partiti è grave».

Il pastore – a giudizio di Montanelli – era il vero protagonista della vita socio-economica dell’Isola: «È lui il solo essere umano che s’incontra traversando le solitudini del “profondo Sud” [...], la provincia di Nuoro: ritto su un sasso, appoggiato al bastone di vincastro, in un’immobilità quasi minerale». Seppure statisticamente in calo, restava immutato il peso da lui «esercitato sulla mentalità, sul costume, sulla socialità, o per meglio dire sulla asocialità della Sardegna».

Nella sua percezione, anche la borghesia professionale doveva fare i conti con le proprie ascendenze pastorali, con la conseguenza di una certa «allergia alle iniziative», l’«inesausta sete di libertà e di solitudine», il «forsennato individualismo». «È lui che ha dato un carattere ai sardi. [...] È lui [il pastore] che campeggia nei componimenti della scarsa letteratura sarda, i romanzi della Deledda e le poesie di Sebastiano Satta». E «nella difficile coabitazione della tradizionale pastorizia con una agricoltura in sviluppo e che, bene o male, si va modernizzando, sono compendiati molti dei più annosi e difficili problemi dell’isola».

Ecco una più mirata disamina: «Eppure, la Sardegna non può fare a meno della sua pastorizia, che fornisce il quarantacinque per cento al suo complessivo prodotto agrario; e ci sono intere province, come quella di Nuoro, che, senza la pastorizia, letteralmente morrebbero. Bisogna quindi trovare delle condizioni che le consentano di convivere con l’agricoltura in sviluppo. Ma il problema è di difficile soluzione […]. Il bestiame sardo è composto quasi tutto di pecore. Ce ne sono circa due milioni e mezzo, che rappresentano un buon trenta per cento del patrimonio complessivo nazionale. [...] La condizione del pastore non è, come molti credono, delle più misere, almeno sul metro sardo. A diecimila lire a pecora, il proprietario di duecento pecore ha un reddito annuo lordo di due milioni. [...] Ma gran parte del guadagno se ne va nell’affitto dei pascoli, che cresce col restringersi delle zone ad essi adibite. [...] Al crescente costo dei pascoli si aggiunge un altro motivo di crisi: l’abigeato, eterna piaga della Sardegna che non accenna a guarire. Il derubato non denuncia il ladro, nemmeno se lo ha riconosciuto, per paura della vendetta. Preferisce rivalersi su un terzo, che a sua volta si rivale su un quarto. E ne deriva un generale stato d’insicurezza, in cui ognuno è alla mercé di ognuno. […] Tutto questo ha creato un fenomeno assolutamente nuovo per la Sardegna: l’esodo in continente. I sardi non sono mai stati migratori. E meno di tutti lo era il pastore, legato alla sua terra da un vincolo quasi di consustanzialità. Ora ha imparato la strada del mare e della Maremma, dove i pascoli sono più a buon mercato, e l’abigeato non esiste. S’imbarca con l’armento, col cane, col giaccone di velluto, col mantello d’orbace, e forse con la disperazione nel cuore. Ma si imbarca».

Comparto turismo. Così nella sintesi proposta da Corda: «Secondo la prima firma del Corriere della Sera, la Sardegna non era ancora stata assaltata dalla massa di villeggianti a basso costo, proprio a causa del suo isolamento geografico. Nemmeno i sardi sembravano però consapevoli dello splendore del loro paesaggio costiero. Il turismo, che nella regione aveva conosciuto un boom fin dallʼinizio degli anni Sessanta, sarebbe dovuto essere disciplinato. Il rischio, paventato da Montanelli, era che le incantevoli riviere sarde potessero fare la fine di Ostia e Fregene, prese d’assalto dai turisti. E già si avvertivano i segnali delle devastanti lottizzazioni a venire, con il loro corredo di brutture architettoniche e scempi paesaggistici». Ecco Montanelli: «È curioso che in questa classe dirigente assetata di “piani” non ce ne sia uno per il turismo, la più promettente e sicura di tutte le industrie, che provveda almeno a impedire la distruzione della sua materia prima: la natura, contro cui si vanno perpetrando autentici delitti architettonici».

Circa lo stato delle campagne e l’incubo permanente (e rischio e danno per il reale tanto spesso) della siccità, ecco ancora Montanelli inviato speciale nella… extraterritorialità di Arborea: «i grandi nemici della Sardegna, quelli che per secoli ne hanno reso stento [sic] e ritardatario lo sviluppo, erano la malaria e la siccità. La malaria, grazie agli americani, è stata combattuta e debellata in quattro anni di battaglia. La lotta contro la siccità continua da quasi mezzo secolo. Siamo alle porte della vittoria. Ma ci siamo da un pezzo. Quanto dovremo rimanerci?».

Certamente invasi e condotte lunghe chilometri avevano alleggerito la storica sofferenza delle campagne e dunque delle comunità rurali, ma pure restava in dubbio se la tardiva risoluzione di annosi problemi potesse rappresentare, per il vero, la svolta tanto attesa: «Ma non sarà troppo tardi? Ci saranno ancora le braccia necessarie per sfruttare la nuova ricchezza, in una Sardegna, che nell’ultimo lustro ha registrato un esodo di massa di circa 50.000 persone emigrate, ossia circa il 10% delle 430.000 unità lavorative totali?». Scettica la risposta: «Siamo sicuri che prima o poi l’acqua ai campi arriverà. Ma non siamo altrettanto sicuri che ci trovi ancora le braccia necessarie a sfruttarla. Il ritardo potrebbe rivelarsi catastrofico e irreparabile».

A dire poi di industrializzazione. Ecco nuovamente la sintesi offerta da Andrea Corda: «Montanelli sosteneva che Il carbone è un ammalato grave che può contagiare la Sardegna. Nel sommario si legge: “La sua qualità è cattiva e il costo di produzione e di trasporto molto elevato. L’ultima terapia escogitata, la Supercentrale elettrica di Porto Vesme, è il campo in cui i partiti politici si stanno dilaniando in un duello all’ultimo sangue”. Su questi temi, egli citava Salvatore Cambosu». Ed eccolo infatti l’inviato del Corriere riferirsi all’autore di Miele amaro: «la nonna dei minatori sardi, Vincenza Urru, è morta nella convinzione che il carbone del Sulcis fosse oro, che in carbone si tramutava per sortilegio, appena tocco [sic] dalla mano avida dell’uomo. Se è vero, bisogna attribuire a nonna Vincenza un certo potere divinatorio perché infatti quel carbone sarebbe stato più prezioso dell’oro solo se lo si fosse lasciato dov’era. [...] La Sardegna è la terra italiana più ricca di minerali. Suoi sono tutto il nostro arsenico e antimonio, il novanta per cento del piombo, il settantacinque del rame, il settanta dello zinco, il cinquanta del bario [...] Ci sono, è vero, nelle viscere del Sulcis, milioni di tonnellate di carbone. Ma di cattiva qualità e di costosa estrazione».

Ancora: «L’opinione che mi sono fatta (e spero di sbagliarmi), è che, com’è avvenuto per l’irrigazione, anche per l’industrializzazione si sia messa troppa carne al fuoco, che rischia di arrivare in tavola a commensale già morto di fame. Anche in Sardegna la classe dirigente mostra tanta intelligenza dei problemi generali quanto negligenza di quelli particolari. Vede la montagna, ma ignora il muretto e v’inciampa. Non pensa che alla palingenesi, e disprezza quelle riforme spicciole e graduali, che sole possono avviare un sano e organico sviluppo. Si preoccupa delle “riforme di struttura” e delle “industrie di base”, ma non ha ancora istituito dei semplici caseifici per razionalizzare l’unica sua produzione sicura: quella del latte e dei formaggi».

Quasi in conclusione del suo reportage Montanelli cercò di approfondire i temi particolari della legge di Rinascita, così presentata nel sommario: «Solamente un dialogo più ordinato fra Cagliari e Roma potrebbe colmare certe gravi lacune e contraddizioni. Il piano della rinascita deve avere carattere veramente aggiuntivo e non sostitutivo delle spese ordinarie». Premessa e monito che avrebbe coinciso con gli addebiti allo Stato – addebiti generali e generalizzati –, a cose fatte, di non aver adempiuto agli impegni.

Così analisi e riflessioni, fra esperienza e aspettative: «Dal ’50 ad oggi lo Stato ha speso in Sardegna qualcosa che oscilla sui seicento miliardi. Non si può dire che li abbia buttati al vento. Nello stesso spazio di tempo la produzione agricola è più che raddoppiata. Il reddito pro capite è aumentato del trenta per cento. La disoccupazione effettiva non supera le diecimila unità. L’industrializzazione ha preso l’avvio. Dei risultati insomma ci sono. Ma c’è da chiedersi se non se ne sarebbero raggiunti di migliori e più decisivi, se si fosse agito in maniera un po’ più ordinata. Gli interventi sono stati arruffati, discontinui e talvolta concorrenziali. Lo strumento principale è stata la Cassa del Mezzogiorno, che qui ha operato molto bene e con grande serietà in tutti i settori. Le faraoniche dighe sul Flumendosa sono merito suo. Dei duecento miliardi che la Cassa ha investito in Sardegna, non ho visto nulla, o quasi nulla, che si presti a critiche. Si capisce solo ch’è mancato un certo coordinamento, una rigorosa scala di priorità. E a questa carenza si deve lo squilibrio fra le troppe cose iniziate e le troppo poche concluse. Ma di ciò non ha colpa la Cassa. Ne ha colpa la mancanza di un organico “piano”. Eppure, questo “piano” era stato previsto nello stesso Statuto del ’48, che istituiva la Regione. [...] Questo solenne impegno fu preso la bellezza di quindici anni fa. E, se si fosse attuato subito, ora avremmo sotto gli occhi il primo esempio di “programmazione” su scala regionale. Invece si è trascinato fino ad oggi […] e sotto gli occhi ci mette la prova del disordine, della confusione e degli sprechi, in cui queste programmazioni sono destinate a gettare il Paese».

Nel 1961, in vista delle elezioni regionali, la Democrazia Cristiana – storico partito di governo anche nell’Isola – intendeva presentarsi come il garante dello sviluppo socio-economico della Sardegna, «e così – ecco Montanelli – il Piano di rinascita della Sardegna assolse il suo principale compito; che non è tanto quello di far rinascere la Sardegna, quanto di mantenervi al potere la D.C. Ma se questo fu il discutibile atteggiamento del partito di maggioranza, non meno discutibile fu quello dei partiti di opposizione. I quali risposero non con una critica al piano per l’impostazione che dava ai problemi e i mezzi che indicava per risolverli, ma mobilitando demagogicamente le passioni isolane contro quello che essi definiscono un attentato allo spirito dell’autonomia e alle prerogative della regione».

Il problema più annoso – nel rilancio della sintesi proposta da Corda a questo riguardo – «era dato dall’ambiguità dell’articolo 13, secondo cui il Piano doveva essere “predisposto dallo Stato con il concorso della Regione”. Tuttavia, “lo Stato aveva fatto tutto per conto suo. Si era fatto il progetto, se l’era approvato, e ora si preparava a realizzarlo. Il ‘concorso’ della Regione era solo la platonica presenza del presidente della Giunta, ma senza sostanziali poteri d’iniziativa e di veto, nel comitato dei ministri per il Mezzogiorno, supremo organo deliberativo. Questa non era più autonomia. Questa non era più democrazia. Questo era soltanto uno schiaffo alla dignità dei sardi, un disconoscimento del loro diritto di fare da sé”. Un quesito fondamentale si imponeva: il Piano di Rinascita “è un intervento straordinario aggiuntivo, cioè un ‘in più’, non un ‘invece’. Ma abbiamo la certezza che lo sia effettivamente?”. Ogni anno, infatti, lo Stato deliberava, settore per settore, ministero per ministero, gli stanziamenti in tutte le regioni, Sardegna compresa. Queste spese però non potevano essere programmate su vasta scala e a lungo termine, giacché i ministeri avevano un bilancio annuale e quindi potevano impegnarsi per un anno solo. Ebbene, il Piano era nato proprio per rimediare a questo difetto, come investimento aggiuntivo e non sostitutivo di quelli eventualmente previsti».

Altro sommario delle argomentazioni montanelliane circa il vero “oro” della Sardegna, il fattore umano cioè: «Purtroppo tutti i piani per il suo sviluppo si preoccupano unicamente delle “cose”. Perché quelli che emigrano ritornano difficilmente. La vita delle donne fuori dell’uscio di casa è un salto molto difficile. I problemi dell’istruzione. Una regione che ha bisogno di pionierismo».

E qui, appunto, le considerazioni del giornalista: «Uno studioso sassarese di recente scomparso, il dottor Alivia, sosteneva che tutti i guai della Sardegna, perfino la malaria, erano dovuti allo spopolamento. È fatale, egli scriveva, che il posto abbandonato dall’uomo sia occupato dalle zanzare; e che là dove si consuma poco ci sia anche poco stimolo alla produzione. Il rigoglio delle iniziative è inversamente proporzionale alla disponibilità di spazio. La tesi mi sembra più suggestiva che persuasiva. Conosco paesi spopolati e floridi come il Canada, e ne conosco altri gremiti e miserabili come la Cina e l’India. Tuttavia è vero che in Sardegna il fenomeno rischia di diventare patologico e impone qualche misura profilattica [...]. La gente se ne va, dicono, perché ancora non c’è una industrializzazione che offra alternative a un’agricoltura povera e disagiata. Il giorno in cui i sardi potranno fare vita di fabbrica e di città nella loro stessa isola, smetteranno di emigrare, e coloro che lo hanno fatto vi torneranno».

Sull’istruzione: «nel ’51, su cento ragazzi sardi, erano ventidue quelli che non andavano a scuola; ora si sono ridotti a dieci. Il successo è notevole, ma avrebbe potuto essere definitivo se ci si fosse impegnati un po’ di più. Tranne che nell’ambiente dei pastori, il ragazzo sardo ci va volentieri a scuola e il padre ce lo manda. Ma le condizioni sono dure. Nella media nazionale, lo Stato spende per ogni scolaro quindici mila lire al mese. In Sardegna, tremila. Si economizza sulla refezione, sulla matita, sul quaderno, sulla disponibilità di insegnanti e soprattutto sulla edilizia scolastica. Se Dio guardi tutti i ragazzi sardi assolvessero l’obbligo della frequenza, sarebbero costretti a accatastarsi in cento per ogni aula».

Il settimo ed ultimo articolo del lungo reportage (quello “Ora la Sardegna cammina”) è così sintetizzato nella presentazione: «In ogni centro abitato sono finalmente arrivate la luce e l’acqua; cade in pezzi la vecchia economia basata sulle piccole autarchie familiari; circolano merci e idee. Il pericolo è quello di perdere di vista i termini concreti dei nuovi problemi, per la tendenza a politicizzare tutto».

Scrive Montanelli: «Il progresso dell’isola è innegabile, e lo si coglie a occhio nudo. Le strade non sono più piste nel deserto. In dieci anni le automobili sono cresciute da tremila a oltre quarantamila, le campagne [...] stanno perdendo la solitaria solennità di una volta, si animano di uomini, di case, e anche di alberi. In tutti i centri abitati sono arrivate la luce e l’acqua. Vi è arrivata in massa la televisione: in un quinquennio gli abbonati sono passati da sette a sessantamila. Gli analfabeti sono ridotti a un dieci per cento. La vita dell’isola si sta liberando della sua millenaria sclerosi. Cade in pezzi tutta un’economia basata sulle piccole autarchie familiari e sulla compressione dei consumi. Circolano le merci, circolano le idee. I sardi, che non ne avevano mai sentiti, cominciano ad avere dei bisogni. Non si contentano più di vivere e di morire come sono nati. Stanno scoprendo che il denaro non è la ricchezza, ma solo lo strumento della ricchezza. E comprano. Comprano anche il superfluo. Un abile piazzista di elettrodomestici è riuscito a vendere dei magnetofoni a dei poveri contadini di Dorgali. Il volume delle importazioni dal continente cresce, malgrado la difficoltà e il costo dei trasporti. Cresce sproporzionatamente al volume delle esportazioni, aggravando lo squilibrio della bilancia commerciale dell’isola».

Problematiche gravi ed esigenti risposte tempestive e adeguate: «la forza centrifuga dell’esodo, che aveva assunto dimensioni massicce soprattutto dal 1960 al 1963; il monopolio “strangolatore” della Tirrenia, il cui effetto era stato quello di paralizzare i traffici della Sardegna, oberando le merci di un costo di trasporto che aveva posto l’isola in condizioni di inferiorità rispetto alla concorrenza. Inoltre, secondo Montanelli, tutta la produzione agricola e casearia sarda risultava alla mercé di oligopoli continentali che la sfruttavano senza scrupoli».

L’apprezzamento di Frumentario

Giunge tempestivo dal caporedattore/vice direttore de La Nuova Sardegna, Aldo Cesaraccio in arte Frumentario, il consenso alle tesi montanelliane. Così nella rubrica quotidiana “Al caffè” del 15 giugno 1963:

«Se non sbaglio, il fatto del giorno, in materia di “moda” della Sardegna, sono gli articoli di Indro Montanelli sul Corriere. E’ giusto che sia così. Anzitutto si tratta pur sempre del maggior quotidiano italiano. In secondo luogo si tratta di un’inchiesta nazionale che s’inizia in Sardegna, non, putacaso, nella solita Sicilia o nella obbligatoria Puglia, e per elezione, non per suggestione dall’alto. In terzo luogo si tratta di quello che, per me e per molti altri, è il “nome” più prestigioso del giornalismo italiano contemporaneo, se prestigio è per un giornalista il “farsi leggere” sia con trasporto sia con dispetto. E potrei continuare con altre “pezze”: sicurezza che parecchie centinaia di migliaia di altri italiani si interessano alle cose sarde, riconferma che la Sardegna si sottrae al bilancio segretamente covato dai capoccia di certa politica nazionale sui “pesi morti” veri e presunti della Nazione, energiche e amichevoli strigliate per taluni difetti dei miei conterranei (e anche miei, si capisce) che finiscono per fare miglior figura di certe virtù vantate da altri connazionali. Ma preferisco qui aggiungere uno di quegli “eccetera” che lo stesso Montanelli sa così avvedutamente collocare, sempre al posto giusto, nel suo fluido racconto delle cose viste.

«Io non so se sia vero che Indro Montanelli intenderebbe stabilire qui, in Sardegna, un suo “buen retiro”: significherebbe che, tirate le somme, egli vorrebbe divorziare dalle virtù della Penisola per sposare i difetti della nostra isola, e cioè confermare il brevetto di preminenza di questi su quelle. Certo, si comporta nei suoi articoli come se dovesse diventare uno di noi, anzi come se già lo fosse (e non è legittimata tanta amicizia dal non più recente trascorso a Nuoro, valido tutt’al più per scriverci un libro ma non per sentirsi qui ancora di casa), vuoi quando, con ammirevole semplicità diagnostica, sottolinea certi pregi ancora schietti della nostra gente, vuoi quando, con la franchezza del vero amico, ne esalta certi difetti. Insomma, è un avvenimento importante, questa inchiesta del Corriere, e per le ragioni che sono riuscito a citare, più qualche altra che tutti noi sardi possiamo agevolmente individuare leggendo i singoli articoli.

«Inchieste sulla Sardegna non ce ne sono mai mancate, da Cicerone a Quintino Sella, e se ce ne fossero mancate nel passato quelle contemporanee suffragherebbero egregiamente due millenni di silenzio. Ci sono le inchieste ufficiali che, quando non arrecano danno, non smuovono un granello di trachite dai severi nuraghi; e ci sono quelle giornalistiche che quando non sono pure esercitazioni di stile o ossequioso corrispettivo di certa ospitalità ufficiale, finiscono per consolidare certi schemi fotografici della nostra isola (bellezze naturali, banditi e carabinieri, pecore e formaggio, nuraghi e avvocati) dai quali è difficile liberarci più di quanto lo fosse dalla malaria. Prendere, invece, l‘articolo di presentazione dell’inchiesta di Montanelli che s’occupava proprio della malaria e della sua felice dipartita. Avete subito un quadro essenziale di quel che è oggi la Sardegna, e la dimostrazione che l’isola è tale (e potrà domani essere talaltra) esclusivamente perché la malaria (della quale, dice Montanelli, “morivano anche le zanzare”) se ne è andata.

«Che cosa dice Montanelli più di quegli altri (pochi, invero, e io mi ci metto in mezzo con un certo presuntuoso orgoglio), che considerano nella giusta misura questo evento storico? Dice che è vergogna che esso sia maturato come frutto di dollari e iniziative dell’America anziché come prodotto della considerazione e della solidarietà dell’Italia. Che poi questo non abbia mai, neanche attraverso dispettosi borbottamenti, alterato lo spirito nazionale dei Sardi né abbia acceso certi furibondi pretesti separatisti allegramente divampati per molto meno in altre regioni “depresse”, Montanelli non lo dice, ma lo fa intendere assai bene, quando interpreta come acquiescenza anziché come vocazione l’ordinamento regionale di cui i Sardi sono stati dotati.

«Si capisce, quando un’inchiesta giornalistica ha tali dimensioni e tanta importanza, è fin troppo facile a quei causidici nati che sono i miei conterranei (e soprattutto i miei concittadini) trovare le anche minime mende d’informazione storica e statistica, che secondo un pittoresco proverbio dialettale sassarese – forse originario toscano – è un modo di rimediare una “cordula” con le budelle di una mosca. Ma poco importa rilevare l’evidente svista dell’aver negato l’esistenza in Sardegna di un ordinamento feudale (anzi, esso s’iniziò nell’isola quando altrove era finito, fra le risse dei Comuni o i vertici delle Signorie: arrivò in ritardo, come tutto in Sardegna, il bene e il male): poco importa che si sia attribuita ai Sardi la facoltà di assorbire 800 milioni annui di kilowattore di energia elettrica al posto degli effettivi 5-600 milioni (l’errore per eccesso dà, però, maggior forza alla tesi di Montanelli): e importa anche meno che non sia stato sottolineato il primato sardo di mortalità, non come blasone ma come termine di paragone in rapporto alla scarsa densità della popolazione e alla crudezza dello sbilancio migratorio. Quel che conta è l’aver presentato una Sardegna quale è realmente, nel buono e nel suo contrario, con un’interpretazione, una sintesi, un giudizio che sono, secondo me, documenti di prima importanza per chi, di casa, non si accontenti di vedersi allo specchio ma abbia il gusto e senta il bisogno di sapere con esattezza come lo vedono gli altri: requisito che, per i Sardi e per la loro così detta classe dirigente, è stato sempre una necessità ma è adesso una urgenza.

«Quando si fanno distinzioni altamente onorifiche, come le fa Montanelli, fra sardi e altri meridionali; quando si discorre con tanta serietà dei rapporti fra “blasone del pastore” e “scettro del contadino”; quando si “centra”  in pieno la relazione fra certo “forsennato individualismo” e quella “anarchia” che induce il pastore ad amare la pecora perché ne è la figlia (dell’anarchia); quando si condensa il dramma spaventoso dell’abigeato nel dire che esso “mette ognuno alla mercé di ognuno”; quando con spietata onestà si denuncia il vergognoso sperpero di miliardi nel Sulcis e si ammonisce sul rischio di sperperarne molti altri ancora; quando non si esita a spiattellare bell’è grosso che gigantesche dighe rischiano di non servire a niente o, peggio, a nessuno (ricordino i miei lettori questo e altri argomenti, e ricordino per le dighe l’analogo avvertimento di Segni, almeno quello); ebbene, quando, senza impicci né di riguardi né di opinioni verso la politica, la troppa politica che si fa in Sardegna prima delle “cose” anziché dopo, vi assicuro che un’inchiesta giornalistica assume a giusto diritto il valore di un documento. E’ quello, appunto, che volevo dire».

Obietta Dessanay

A fronte delle espressioni di consenso venute da Frumentario si pongono, nel… durante delle uscite delle sette puntate, quelle critiche, tutte ben argomentate anch’esse, a firma di Sebastiano Dessanay, consigliere regionale del PSI e intellettuale di punta della sinistra isolana, che ne scrive sul periodico Sardegna oggi (n. 28 dello stesso 1963). Il commento è molto lungo ed argomentato. Eccone alcuni stralci particolarmente significativi:

«Montanelli, scrivendo per conto del neocapitalismo lombardo, parla di cose concrete, con un’apparenza di anticonformismo. Diciamo apparenza perché non ci si deve lasciar distrarre da alcune verità dette, quando esse servono a coprire, a velare, un obiettivo sostanzialmente conformista. E’ nella tecnica di Montanelli di guardare alla realtà da due angolature diverse, quella spregiudicata e quella del “ben pensante”. Da ogni suo articolo, con un lavoro di espunzione di frasi, si potrebbero ricavare due articoli distinti, l’uno in contrasto con l’altro: il primo condivisibile da ogni democratico di sinistra, il secondo buono per i reazionari più spinti…». Così l’incipit che insiste anche nella rappresentazione delle contraddizioni, vere o presunte, dell’inviato del Corriere.

«Oggi egli si professa socialdemocratico – aggiunge Dessanay – , ma è contro le Regioni, contro la nazionalizzazione delle fonti d’energia, contro la politica di piano… La tecnica di Montanelli è in sostanza di mettersi a cavallo tra due aspetti, tra due interpretazioni diverse della stessa realtà, ed ha appena finito di dire cose sgradevoli per i lettori di destra, e quindi anticonformiste, quant’ecco l’altra campana, ma suonata con strepito così forte da coprire il primo suono. In Sardegna la produzione d’energia elettrica è a un livello molto basso, ma sarebbe da sciocchi rimproverare alla Società Elettrica Sarda d’essersi regolata secondo la legge del profitto. Il potere mette la classe dirigente sarda in grado di formare una clientela, cioè di ripiombare la vita sarda nel suo vecchio vizio, ma Corrias, Melis, Dettori, Filigheddu sono uomini esemplari. L’Etfas sperpera i quattrini in stipendi per la sua pletorica burocrazia, ma i soli villaggi rurali puliti e moderni che è possibile visitare nell’isola sono dell’ente di riforma. Si è pensato a invasare l’acqua in grandi dighe e non ai lavori di canalizzazione a scopi irrigui, e ciò deriverebbe dalla mania pianificatrice degli enti pubblici. E se qualcosa di buono in Sardegna si è fatto, questo è merito dell’iniziativa privata (vedi Arborea, bonificata dalla Società Elettrica Sarda). E se la Rockefeller, dopo aver vinto la malaria, non è rimasta per altre grandi iniziative, la colpa è della Democrazia cristiana che, temendo i socialcomunisti, ha vietato ad un organismo americano di continuare ad operare nell’isola. Un liberale, Raffaele Sanna Randaccio, ha chiamato in Sardegna gli americani e la malaria non c’è più; poi gli altri a sinistra del partito liberali li hanno cacciati via».

Ancora: «Montanelli, si capisce, è un grande giornalista, e se ha da spingere avanti un gioco, lo fa con rara intelligenza. Confessiamo dunque che, dopo i primi tre articoli, ci era venuta la tentazione di esprimere un giudizio perlomeno non negativo. Perché Montanelli alcune verità scottanti le ha dette, e bisogna dargliene atto. Infine, è stata la lettura del quarto articolo a illuminare gli antecedenti e a mettere nel giusto posto anche quelle che sembravano denunce coraggiose.

«E’ vero che la malaria e la siccità hanno esercitato una malefica influenza sulle popolazioni della Sardegna, ma da questo a sostenere che a queste due calamità e ad esse sole si deve la mancanza di spirito di iniziativa dei sardi ci corre. La mancanza di iniziativa ha ragioni storico-politiche assai più profonde di quanto Montanelli non sospetti. La malaria ha cacciato il sardo dalle coste e “ha fatto di lui un nemico del mare”, sì, ma soprattutto lo hanno ridotto alle montagne i vari conquistatori e le incursioni barbaresche.

«E’ vero che in Sardegna non “ci sono ville signorili” e non c’è traccia del classico latifondo di origine feudale; ma concludere da questo che il feudalesimo non è passato su questa terra e che la Sardegna “non ha sofferto di prepotenze baronali e quindi non conosce il ribellismo”, è voler ignorare la nostra storia, è dimenticare tutti i moti antifeudali, dimenticare la gloriosa rivolta delle ville del Logudoro e la lotta di G.M. Angioy contro la prepotenza dei feudatari del secolo XVIII…».

Più oltre: «Esatto e da condividere pienamente è il giudizio di Montanelli sul banditismo: “Esso nasce dalla sfiducia nelle leggi dello Stato […]”. Ed è ver che tra il Meridione d’Italia e la Sardegna esistono sostanziali differenze: “Non c’è in Sardegna una industria della delinquenza […]. Ma è anche vero che i problemi di fondo della Sardegna si risolverono, pur differenziatamente, all’interno del grande problema meridionale concepito come il problema dei problemi dello sviluppo economico e sociale della nazione. E’ vero che la Sardegna “non può fare a meno della sua pastorizia e che bisogna provvedere a risolverne la crisi”, che “si potrebbe rimediare migliorando il prodotto” mediante “uno sforzo cooperativistico”; ma pensare che il problema sardo non è quello industriale, sebbene quello di “istituire dei semplici caseifici per razionalizzare l’unica produzione sicura, quella del latte e dei formaggi”, è come non aver mai pensato all’avvenire della Sardegna in un mondo progredito e moderno.

«Anche sul problema dell’agricoltura Montanelli dice cose giustissime. E’ vero che l’ordinamento fondiario della Sardegna è tale da impedire ai sardi di manovrare l’acqua dei bacini mediante la costruzione dei canali di irrigazione. Ed è vero che il problema più grave è quello dell’emigrazione, che ci fa mancare la manodopera proprio nel momento in cui potrebbe avvenire la trasformazione, cioè proprio quando il fabbisogno di manodopera agricola si moltiplica. La situazione della proprietà fondiaria è tale che realmente, come dice Montanelli, non esistono attualmente in Sardegna “zone omogenee”. Ma le illazioni che trae da tutto questo non si possono in nessun modo condividere. Che queste siano “le sorprese che riserbano i piani” non si può onestamente sostenere. Come non si può onestamente sostenere che i sardi non siano mai stati affezionati alla terra e che in Sardegna non ci siano mai stati movimenti contadini…».

Impressionante e condivisibile, in generale, il quadro tracciato di Carbonia. «Ma come si fa ad accogliere gli errori madornali che sono disseminati sulla questione delle elettricità? Chi ha detto a Montanelli che “nel campo dell’energia elettrica, la regione ha precorso la nazione, sottraendola alle società private”? Chi gli ha sussurrato che alla fine la Regione fece il colpo grosso di assorbire anche la Ses? Certamente su questo punto è stato male informato. Ma il sugo di tutta l’inchiesta è nella conclusione della quarta puntata. La supercentrale per Montanelli avrà, in campo industriale, lo stesso destino dei grandi bacini in campo agricolo. Tutto “rischia di arrivare in tavola a commensale già morto”.

«Si è “messa troppa carne al fuoco”. “Sono le sorprese che riserbano i piani”. La classe dirigente sarda “vede la montagna, ma ignora il muretto e vi inciampa”, disprezza quelle riforme spicciole e graduali che sole possono avviare un sano e organico sviluppo. Si preoccupa delle “riforme di struttura, ma non ha ancora istituito dei semplici caseifici per razionalizzare l’unica sua produzione sicura: quella del latte e dei formaggi” […]. Montanelli non crede, dunque, alla industrializzazione della Sardegna. Crede ai formaggi. Perché il sardo è pastore per natura, oltre che per tradizione storica. Ha fatto della pastorizia una categoria spirituale, oltre che economica, del popolo sardo. Mi scuserà Montanelli, ma tutto ciò è assurdo».

In conclusione: «Quanto al giudizio sulla classe dirigente sarda, quella del passato e quella del presente, così come risulta da queste prime quattro puntate dell’inchiesta, riconosciamo che esso è pesante, ma giusto. Ed è pesante soprattutto perché viene da destra. Gli attuali dirigenti della vita democratica sarda dovrebbero riflettere seriamente sul rimprovero di Montanelli. L’appunto che a loro muove Montanelli non è quello di essere a destra, ma quello di non costituire una classe dirigente abbastanza evoluta, tale, cioè, da essere sopportata appunto come classe dirigente».

E’ ben credibile che, a sviluppare la ricerca, diversi altri interventi pro-o-contro i giudizi di Montanelli e del Corriere si troverebbero sulla stampa sarda, tanto più quella periodica politica (Rinascita Sarda, ecc.) o nelle sedi politiche. Può essere impegno per il futuro.

Le riserve di Botticini

Varrà la pena di chiosare riferendo che, in un articolo dal titolo “La Sardegna di Montanelli”, su L’Unione Sarda del 1° febbraio 1966 Rinaldo Botticini commenterà il corposo lavoro del columnist del Corriere quando esso sarà ormai impaginato nel corposo volume di cui ho detto (Italia sotto inchiesta, 1965): commenterà piuttosto criticandolo (talvolta quasi caricaturandolo) che approvandolo, naturalmente. Ne voglio dar conto, pur se si tratta di commento conclusivo di un testo non ancora qui esposto nel suo lungo dettaglio, e soltanto anticipato nel merito.

Scrive Botticini, dopo aver fornito un quadro complessivo dell’inchiesta multiregionale: «Ma quando siamo arrivati alla Sardegna, forse anche perché abbiamo la pretesa di sapere di lei più di Montanelli che ci è vissuto nei suoi teneri anni, ma l’ha dimenticata, mentre noi ci viviamo e ci soffriamo in questi nostri duri anni che s’avviano a maturità, abbiamo fatto una serie di osservazioni critiche non sempre favorevoli al grande nume del giornalismo italiano.

«Per Montanelli la storia della Sardegna incomincia nel 1946, quando c’era il caos, cioè la malaria, con i suoi 75.000 colpiti, che sono rimasti per questo decurtati nel fisico e atteggiati a stoicismo passivo. Così è frutto della malaria il fatto che il sardo si sia asserragliato sulle montagne e che non abbia alcuna iniziativa. Così l’introversione sarda prima che un fatto storico e psicologico è, per lui, un fatto geofisico.

«La Sardegna non ha città: Cagliari e Sassari sono ancora villaggi cresciuti; non ha architettura checché ne dicano Corrado Maltese e Vico Mossa; non ha storia, ma solo leggenda; non ha politica, ma clientelismo; non ha classe aristocratica o borghese, perché i sardi sono tutti pastori (“che faccia il medico o l’avvocato, o il negoziante, gratta un sardo e ci troverai un babbo o un nonno pastore”). E il pastore è visto “ritto su un sasso, appoggiato al suo bastone di vincastro, in una immobilità quasi minerale”.

«E se la agricoltura sarda è in ritardo lo si deve alla pecora che ha divorato quasi tutto e al pastore che ha appiccato fuoco al resto. In agricoltura la manodopera manca, ma il motivo non è politico, né economico, né sociale. Il motivo è soltanto di ordine comportamentistico: la manodopera manca perché le donne non lavorano e gli uomini se ne vanno.

«Insomma Cristo stavolta s’è fermato a Civitavecchia, se Carlo Levi ci permette di parafrasare un suo fortunato titolo, perché i sardi non meritavano di essere visitati essendo tutti matti e disuniti…

«Quando gli articoli riguardanti la Sardegna, ed ora raccolti assieme agli altri riguardanti le altre regioni in questo grosso libro (928 pagine), apparvero sul massimo organo di stampa milanese, suscitarono da noi reazioni e commenti sfavorevoli, addirittura di irritazione.

«Forse perché, come notava allora un settimanale di estrema sinistra, l’ideologia dei gruppi di cui il Corriere è portavoce era troppo distante dalla realtà effettiva del Mezzogiorno e della Sardegna, e dal complesso di idee, di principi, di aspirazioni che prevalgono nella coscienza della gente sarda e del suo movimento democratico e autonomistico.

«E può essere vero, come può essere vero che la storia sarda, quando Montanelli la sfiora, diventa una favoletta che potrà soddisfare i petrolieri lombardi, ma non ha niente a che fare con la vera storia nostra che è di oppressione baronale, piemontese e capitalistica. Ma è soprattutto vero che la realtà sarda è composita e spesso cruda e che non basta, a penetrarla, soffermarsi in Sardegna alcuni giorni per far scintillare poi frasi suggestive o ironiche sulle colonne dei giornali.

«La civiltà sarda non è una civiltà di pietra, come da alcune parti si vuole, ma neanche una civiltà di cartapesta, fatta di onorevoli o di pastori ieratici. E’ prevalentemente una civiltà di lacrime e di sangue, si sacrificio e di morte: la civiltà di un popolo che ha sofferto ed ha goduto forse ancora nulla e che, ora, è teso nel suo faticoso riscatto».

Come un’anticipazione: cos’era L’Informatore del lunedì

Ed ora Montanelli editorialista de L’Informatore del lunedì. Una tantum, ovviamente, ma un evento, senza dubbio alcuno, per la stampa isolana.

Presente sulla scena editoriale ormai da quasi due decenni, L’Informatore era ancora, nel 1963, la testata settimanale sorella de L’Unione Sarda: affacciatosi la prima volta il 27 maggio 1946 con, in quarta, il notiziario sportivo curato dai cronisti di Rossoblù, come a saldare la presente stagione redazionale a quella avviatasi nelle stanze della stessa SEI nel dicembre dell’anno precedente (ma con radici fin negli anni ’30!), e con una bella terza pagina aperta ai temi dell’arte e della letteratura, era stato fondato da Giuseppe Susini. Professionalmente funzionario del Banco di Napoli, ma con una vocazione e una esperienza importante di critico letterario, e dal 1945 anche con una pratica di redattore capo di Rivoluzione Liberale, il settimanale cagliaritano del PLI a direzione Francesco Cocco Ortu, egli era allora prossimo ad assumere in abbinata, ancorché per breve tempo, la direzione della stessa Unione, venendo questa finalmente dismessa (il 2 giugno referendario) dalla gestione straordinaria del CLN.

Una testata, L’Informatore del lunedì – qui ne accennerei appena –, che forse ingiustamente è stata sempre relegata al rango delle ancelle pro tempore del maggior quotidiano, ma che aveva un suo orgoglio di squadra, un sentimento chiamalo autonomista (pur nella coscienza della impegnativa parentela!), così nella successione di tutti i suoi direttori: dopo Susini – in carica fino al numero del 22 agosto 1949 – e Nando Sorcinelli editore/direttore in sequenza fino al 26 novembre 1951, per breve tempo (dal 3 dicembre 1951 al 26 maggio 1952) Giulio Spetia responsabile anche de L’Unione, e Sergio Valacca dal 2 giugno 1952 al 2 gennaio 1956, era toccato a Franco Porru fino al 15 gennaio 1973 di confezionarne menabò e pubblico appeal. Dopo ancora sarebbe venuto il turno di Gianni Filippini, responsabile per due numeri soltanto (quelli del 22 e del 29 gennaio 1973 assumendo allora egli, nel quotidiano, le funzioni vicarie che erano state di Porru stesso, prematuramente e improvvisamente scomparso), e Vittorino Fiori, dal 5 febbraio 1973 al 5 settembre 1982.

Né, alla vigilia dell’acquisto del capitale azionario dell’editrice da parte di Nicola Grauso (e dell’uscita di scena, come conseguenza del fallimento della SIR di Nino Rovelli, anche della finanziaria… liechtesnsteiniana detta Pausania, formale proprietaria del giornale fin dal dicembre 1969, con l’avv. Salvadori del Prato nella carica di amministratore unico oltreché di consigliere delegato dell’editrice L’Unione Sarda), si sarebbe potuta dire esaurita la storia del settimanale, allora ricollocato, anche ufficialmente, nello spazio della maggiore testata.

Così, lungo tre lustri pieni, dal 13 settembre 1982 al 27 dicembre 1999, una sequenza di testate o testatine rimodellate nella grafica, nel font e nella dimensione, avrebbero accompagnato, il lunedì, quella tradizionale – ma progressivamente chiamata anch’essa al restyling – del quotidiano. Una decina le riformulazioni tutte concentrate in un lasso temporale relativamente breve, segno evidente della febbre ora alta ora bassa d’un giornale purtroppo destinato – è storia dell’ultimo ventennio e dell’ultimo editore, e del penoso affiancamento a Forza Italia –, ad una crescente perdita di autorevolezza.

Quando il linotipista di Terrapieno venne chiamato a comporre l’articolo di fondo di Indro Montanelli, era però ancora il bel tempo del legittimo e giustificato orgoglio di redazione. Il Cagliari si accingeva a giocare il suo ultimo campionato di serie cadetta (con il 18enne Gigi Riva in squadra) e ad iniziare – sarebbe stato di lì a giusto un anno – l’avventura in A. L’Informatore accompagnava, entusiasmava, esprimeva un sentimento collettivo interclassista ed interpartitico, associava le generazioni e le culture, interpretava i dati elementari di una regionalità del cuore e della mente.

Quella de L’Informatore era allora gloria vera, respirata e rilanciata, non soltanto per la tipologia della foliazione che consentiva oltretutto sperimentazioni di libera grafica, invero sempre indovinata e nel gusto dei lettori, fra titoli e corredo fotografico, tondi e corsivi, ma anche per le note di cronaca cagliaritana – storiche quelle siglate B, Antonio Ballero Pes cioè – e per le collaborazioni speciali d’un Francesco Alziator o d’un Marcello Serra o d’un Francesco Masala, nonché per le inchieste tutte sue su argomenti generali (fra essi trionfante il banditismo e il turismo costiero in decollo). C’era poi quella sperimentazione delle firme, destinate un domani al quotidiano: c’erano quei cronisti che lì avevano scritto e ancora scrivevano, non più in anonimato redazionale: da Tarquinio Sini a Giorgio Melis, per dire nomi importanti del futuro che sarebbe presto venuto, c’era la signoria di Mario Mossa Pirisino e quella in marcia accelerata di Franco Brozzu.

L’Informatore era la scuola giornalistica di molti redattori prossimi venturi nella storia del “grande giornale” a direzione Crivelli e Filippini: fra i tanti ricordo adesso – perché mi riprometto di onorarne pubblicamente la memoria di giovane tanto talentuoso quanto sfortunato – Vladimiro Marchioni, enfant prodige e professionista che consumò tutte le sue possibilità di vita nell’arco breve, brevissimo, di neppure ventott’anni, un decennio dedicandolo proprio a L’Informatore e poi a L’Unione Sarda.

L’editoriale sardo del 20 maggio 1963

Ritorno al 1963. Ha tutta l’apparenza del “colpo grosso” l’articolo editoriale che Franco Porru propone all’illustre suo collega fiorentino/milanese di scrivere per L’Informatore del lunedì, anticipando di un mese circa la prima puntata dell’inchiesta svolta e, presumibilmente (e al di là della retorica redazionale), già conclusa, in attesa soltanto della pubblicazione dalle rotative di via Solferino.

Montanelli aderisce all’invito, né la cosa sorprende sia per il cameratismo corrente fra i giornalisti, sia per quel certo dato sentimentale che è una costante nella personalità del grande columnist, a far da pendant al suo (apparente) cinismo professionale.

Ecco il testo del suo articolo uscito, su due colonne, il 20 maggio 1963 sotto il titolo di “Della Sardegna parlo da sardo”, con breve (e scontato) occhiello: “Un articolo di Indro Montanelli”. E un sommario su tre righe: «Un progresso rapido e sostanziale anche se tumultuoso e disordinato – Il tempo e lo Stato nemici della Regione».

«Gli amici di Cagliari mi pregano di riassumere in poche parole l’impressione che mi ha fatto la Sardegna. Purtroppo, non posso contentarli: la Sardegna a me non fa nessuna impressione per il semplice motivo che l’ho nel sangue, ci venni da ragazzo, ci sono cresciuto, non sono mai riuscito a staccarmene, e ogni mia gita qui è in realtà un “ritorno”.

«Stavolta tuttavia ho uno scopo ben preciso: un’inchiesta approfondita sull’isola e sulle sue condizioni economiche, politiche e sociali. La sto svolgendo per il mio giornale, il Corriere della Sera, e non sono ancora in grado di anticipare le conclusioni. Posso soltanto dire che mi trovo di fronte a problemi più complessi di quanto avevo preveduto, che mi richiamano al dovere di una certa cautela nei giudizi.

«Come tutti gli italiani, anche i sardi hanno la critica facile. Ne ho sentite fare molte, dacché sono qui. E probabilmente ce ne sono anche di fondate, o almeno di plausibili. Nessuna di esse però riesce a intaccare la sensazione complessiva che si riceve, tornando in Sardegna a scadenze dilazionate, di un progresso rapido e sostanziale, anche se tumultuoso e disordinato.

«E’ molto difficile dire se questo progresso sia dovuto esclusivamente alla Regione e alle sue iniziative. Forse no. Tuttavia confesso che, mentre l’esperienza regionale siciliana rafforza i miei convincimenti antiregionalisti, quella sarda li fa vacillare. Forse sarò stato fortunato nei miei contatti. Ma in tutti i dirigenti con cui ho parlato ho notato molta serietà, una notevole preparazione e soprattutto una totale mancanza di demagogia e di retorica. Almeno nelle conversazioni che hanno avuto con me.

«E’ probabile che molti lettori non condividano questa opinione, che del resto formulo a malincuore perché – ripeto – non sono un regionalista. Ma temo che la maggior parere di loro non abbiano una misura esatta delle difficoltà in mezzo a cui i loro dirigenti si dibattono. Essi devono far fronte a due terribili nemici: il tempo, che non giuoca a loro favore; e l’inefficienza di uno Stato con cui non è più possibile intavolare un dialogo. Una Regione funziona quando a farle da interlocutore c’è uno Stato efficiente. Quello italiano non lo è più. Un esempio che lo dimostra clamorosamente: la situazione dell’isola in fatto di porti e di comunicazioni in genere. E’ un autentico scandalo, e ricade sullo Stato. Tuttavia non so se la Regione lo abbia affrontato con la dovuta risolutezza. Forse se si fosse discusso un po’ meno sul “Piano di Rinascita” e ci si fosse battuti di più sulle tariffe dei trasporti, si sarebbe raggiunto qualche risultato. Ma chi mai toglierà agli italiani – sardi compresi – il vizio dilettantesco delle discussioni astratte e dei puntigliosi dottrinarismi?

«Altro immediato e vitale problema sacrificato alle cosiddette “riforme di fondo” (necessarie, intendiamoci, ma non in senso esclusivo): quello del turismo. Attenzione, amici sardi: il turismo può essere una delle vostre grandi fortune, ma anche una delle vostre grandi disgrazie. Se continuate a lasciare all’iniziativa privata piena libertà, compresa quella di costruire a vanvera e a capocchia, come ho visto in più punti delle vostre splendide coste, compresa quella cagliaritana, finirete per ridurle a una immensa Ostia, cioè le avrete per sempre declassate.

«Avanzo queste riserve, perché sentirei di far torto ai sardi e di offenderli prodigando loro soltanto dei complimenti convenzionali. Non ho bisogno di documentare qui il mio vecchio affetto per la Sardegna. Sono cinque lustri che, nella mia attività di giornalista e di scrittore, non perdo occasione di dimostrarlo.

“Io, della Sardegna, parlo da sardo, non da continentale. E come tale voglio essere considerato”.

 

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