Sardegna e Catalogna, vicende storiche ed attualità a confronto (4). Intervista a GIGI MULEDDA, presidente dei ROSSOMORI, di Piersandro Pillonca.

L’EDITORIALE DELLE DOMENICA,  Le interviste della  FONDAZIONE (4). Le precedenti interviste a: Christian Solinas, Franciscu Sedda, Bustianu Cumpostu.


Il voto di giovedì scorso in Catalogna ha consegnato la vittoria dei partiti indipendentisti. La maggioranza del popolo catalano non ha cambiato idea. Come giudichi queste elezioni? Te lo aspettavi?

È un grande risultato, a Barcellona ha vinto la democrazia. L’alleanza indipendentista-nazionalista ha utilizzato tutti gli strumenti possibili per portare a casa il risultato. Poco importa se Ciudadanos sia oggi il primo partito di Catalogna, alla fine si sommano i voti e i partiti dell’autodeterminazione hanno la maggioranza parlamentare. Ciò che preoccupa piuttosto è la frattura sociale che si è creata. Serve una soluzione politica: o si fa una revisione in senso federale della Costituzione spagnola o si rischia di andare incontro a uno scontro feroce.

 

La fine del 2017 segna un momento storico decisivo nella lotta per l’autodeterminazione dei popoli: in Corsica, le recenti elezioni hanno confermato la fiducia ai partiti autonomisti-nazionalisti che governano l’Isola. In Catalogna il voto ribadisce la volontà dei catalani di staccarsi da Madrid.  L’Europa però non guarda con favore a questi processi.

L’Europa è nata come un grande totem incentrato sui governi. Non ha compiuto il passo in avanti per costruire il governo dei popoli, per dar vita all’organizzazione istituzionale del popolo europeo. Altiero Spinelli, osservando il risultato dei trattati e la crescita del Continente, denunciò un deficit di democrazia. Un altro grande intellettuale come Jurgen Habermas si è chiesto: “Ma esiste un popolo europeo?”. Ci sono molti motivi di natura economica e sociale che hanno ostacolato il processo di coesione. Questa debolezza dell’europeismo ha impedito di eleggere un Parlamento capace di controllare compiutamente i governi e di individuare una maggioranza e una minoranza. La forza degli apparati e della burocrazia è rimasta in mano ai governi nazionali. L’interpretazione dei trattati non è mai andata verso un’evoluzione progressiva ma ha favorito la conservazione dei poteri.

In quest’ottica i movimenti indipendentisti si trovano a lottare contro due soggetti, gli Stati nazionali e l’Europa.

C’è un dato di fatto: la visione centralistica dell’Unione Europea. Bruxelles ritiene di dover censurare, controllare e uniformare il sistema. I regolamenti comunitari ne sono l’esempio più evidente. Si tratta di provvedimenti insensati e spesso inapplicabili che gli Stati nazionali sono però tenuti a rispettare per evitare sanzioni. È la pretesa di normare centralisticamente anche i dettagli. Faccio un esempio per tutti: Bruxelles decide di quale calibro devono essere le mele vendibili sul mercato. Dimensioni che non potranno mai essere raggiunte dalle mele dell’Appennino né da quelle dei Pirenei o di Ussassai e per questo non potranno mai essere vendute. Eppure sono prodotti che tutelano la biodiversità e il valore dei saperi locali. In questo modo, la radice del territorio va a farsi benedire. Allo stesso modo l’Europa decide sui grandi trattati internazionali senza che ci sia un minimo di partecipazione del popolo. Questa è la vera ragione dello scompenso.

Nella vicenda catalana Bruxelles, pur condannando le violenze della polizia spagnola in occasione del referendum sull’indipendenza, si è schierata dalla parte del governo Rajoy. Ti aspettavi una presa di posizione così netta?

Rispondo con un’altra domanda: ci si poteva aspettare qualcosa di diverso dopo il colpo di spugna che ha cancellato il precedente accordo in senso federalistico firmato dalla Catalogna con il Governo Zapatero? Quell’intesa riconosceva il principio di un’organizzazione statuale fondata sul federalismo interno. Poi è cambiata la maggioranza e il rapporto fiduciario tra la Catalogna e il centro è stato demolito. I catalani rivendicavano da tempo il rispetto dei patti. Ciò che preoccupa è la mancata mobilitazione a livello europeo e internazionale contro la decisione di Madrid di cancellare quell’accordo attraverso un pronunciamento della Corte Costituzionale. Eppure i movimenti europei avevano la forza per farlo: ci sono 70 milioni di persone che lottano per l’autodeterminazione dei popoli, movimenti che pur avendo una forza organizzata come l’Ale non sono riusciti a fare fronte comune per condizionare il Parlamento Europeo e i singoli governi nazionali. C’è purtroppo una debolezza del partito europeo degli indipendentisti.

Dove ha sbagliato Puigdemont?

L’errore più grave è stato quello di non aver preparato il terreno a livello internazionale. Io ho vissuto i tempi della decolonizzazione. I movimenti di liberazione nazionale, alcuni clandestini e altri no, avevano le loro ambasciate in Italia e negli altri paesi europei che li riconoscevano. Essere riconosciuti vuol dire poter esercitare un diritto. Puigdemont avrebbe dovuto creare una serie di relazioni di garanzia. Questo è stato il principale elemento di debolezza della vicenda catalana. Se nessuno ti riconosce vuol dire che c’è un problema.

Come si costruisce l’Europa dei popoli secondo i Rossomori?

La tesi dei Rossomori è uguale a quella che aveva Erc (Esquerra repubblicana de Catalogna) negli anni ’90. Siamo per il federalismo europeo che si costruisce attraverso la modifica delle costituzioni statali, degli statuti regionali e, di conseguenza, dei trattati europei. Riteniamo essere questa una forma di espansione della democrazia. Noi siamo per la costruzione di Regioni-Stato attraverso la riorganizzazione della statualità. La Costituzione italiana afferma che la Repubblica è formata da comuni, province, regioni e città metropolitane. Questo ha un senso profondo e pone le condizioni per andare a costruire un federalismo nazionale ed europeo.

Non sembrano però esserci le condizioni politiche.

Non è vero. A livello mondiale è partito un movimento che si oppone alla globalizzazione e alla omogeneizzazione delle culture, al prevalere della finanza. Questo trend ha indebolito le resistenze degli stati. È successo in Spagna e anche in Francia, stato centralista per antonomasia, organizzato per decenni secondo un schema napoleonico. Si è verificato un processo di difesa, di auto-identificazione e di esaltazione delle identità. Tutte queste cose hanno messo in evidenza una contraddizione epocale: noi vogliamo difendere la nostra identità non per isolarci, al contrario vogliamo leggere il mondo senza che a gestire questo processo siano Roma, Madrid o Parigi, vogliamo farlo da soli. L’Europa purtroppo non ha favorito la coesione interna. Non v’è dubbio che in Italia, Spagna, Francia, Belgio etc. ci sono almeno 70 milioni di cittadini europei che fanno parte dei popoli senza Stato. Messi insieme costituiscono la più grande nazione europea.

La vicenda catalana rafforzerà in Sardegna l’istanza indipendentista-sovranista o invece farà pendere l’ago della bilancia dalla parte unionista?

Il ragionamento è secondo me molto più articolato. C’è gente tra gli indipendentisti che non ha fatto un’analisi profonda della situazione. Il problema che si pone in Sardegna è l’elaborazione di un progetto di autodeterminazione che contenga la qualità sufficiente per creare ceti dirigenti capaci di navigare nei mari perigliosi della mondializzazione e della globalizzazione. Il sistema dei valori va definito. Per esempio: nella divisione del lavoro a livello internazionale quale spazio si dà alla Sardegna, a chi spetta deciderlo? Lo decide il Qatar facendoci diventare un hub del metano o lo decidiamo noi dicendo che il futuro nostro è soltanto il terziario? Rinunciamo a produrre qualsiasi cosa o ci esaltiamo sull’agroalimentare inesistente? Al contrario, se puntiamo sull’agroalimentare di qualità bisogna capire quanto può essere allargata la capacità produttiva. Se dobbiamo parlare di scienza occorre capire quale università vogliamo. Se io dico che c’è un conflitto sociale devo dire da che parte voglio stare. Se mi schiero per la pace non posso permettere che si costruiscano armi a Domusnovas. Gli esempi potrebbero essere tanti, il punto centrale è che serve un progetto capace di prevedere tutte le forme possibili di autogoverno. Non basta dire: “mi faccio una Costituzione pur che sia”, se credo nella fine degli stati-nazione di tipo ottocentesco non posso pensare a un modello analogo per la Sardegna come prevede la proposta di Costituzione sarda del Pds.

Che analogie vedi tra la situazione catalana e quella sarda?

Sono due realtà differenti. La Catalogna rispetto alla Sardegna ha meno poteri statutari ma ha un Pil da 200 miliardi di euro. È proprio questo dato economico, la quantità della ricchezza prodotta che ha in qualche modo obbligato la Generalitat a optare per l’indipendenza. Sapete cosa significa avere l’università, i centri di ricerca, i consulenti dietro a 200 miliardi di Pil? Quando sento dire che Puigdemont è un ingenuo mi viene da sorridere. Non è così, i catalani si sono ritrovati in una strettoia, ragioni di diritto e di interessi internazionali hanno portato in quella direzione.

La Sardegna è invece una regione povera nella quale oggi non si può verificare un’ipotesi ribellistica, primo perché mancano le energie, secondo perché il popolo non è d’accordo. Se qualcuno si presentasse in giro a sostenere questa opzione riceverebbe sonore pernacchie. C’è però un’altra strada percorribile che è quella del reale esercizio dei poteri statutari. Chi impedisce alla Sardegna di creare un’Agenzia per l’Energia o di controllare le dighe? Perché, nonostante diverse sentenze della Corte Costituzionale, non si chiede la rimozione della sovraintendenza scolastica? Non c’è nessun ostacolo, sono tutti poteri previsti nel nostro Statuto. Dobbiamo capire che solo con l’esercizio reale di questi poteri si possono rimettere in discussione i rapporti con lo Stato italiano e contribuire a un’evoluzione federalista dell’Europa.

In questo senso può essere considerata una vittoria l’istituzione dell’Agenzia sarda delle entrate?

No, un’ Agenzia delle entrate ha senso se ha un potere impositivo e quella sarda non lo ha. Chi non ha questo potere rischia di diventare l’organo esecutore dello Stato e di ritrovarsi a bastonare chi non vuole pagare le tasse. Per incidere sul sistema erariale, una Regione dovrebbe poter stabilire il quantum del gettito. Potrebbe persino decidere di non far pagare nulla o, per assurdo, di aumentare le tasse dell’80%. L’importante è l’affermazione del principio. L’alternativa è la prosecuzione dei contenziosi davanti alla Corte Costituzionale con lo Stato che continuerà a contestare i nostri bilanci. La Sardegna dovrebbe fare come fanno due stati americani come lo Iowa e la California. I poteri si esercitano. Soberania est indipendentzia: se non li eserciti si atrofizzano come tutti gli organi. Noi ci siamo atrofizzati.

A proposito di entrate, la vertenza con lo Stato è ancora aperta. La Giunta ha scelto la via della “leale collaborazione con lo Stato”, come giudichi questa strategia?

La gestione della partita sulle entrate è stato il principale motivo della nostra uscita dalla maggioranza che governa la Regione. Pigliaru non aveva mandato a trattare dalle forze della coalizione. La firma di quell’accordo Stato-Regione è stato un atto criminale.  Non si può rinunciare  ai ricordi o peggio ancora all’esigibilità di sentenze passate in giudicato a noi favorevoli.

La questione andava affrontata facendo leva sull’articolo 13 dello Statuto, norma di rango costituzionale che mette Stato e Regione sullo stesso piano. Questa norma dice che entrambi concorrono alla elaborazione di un progetto di rinascita economica e sociale dell’Isola. È un principio sacrosanto che da altre parti ha permesso di decidere dove investire le risorse. Trento, per esempio, ha ottenuto pieni poteri sull’Università, la Valle d’Aosta si è creata un’università regionale. Nessuno, però, è stato tanto stupido da rinunciare ai contributi dello Stato. Da noi succede il contrario, ma non da oggi. È una vecchia storia.

a raccontarla.

Faccio due esempi banali: chi va in Ogliastra e passa nel ponte che collega Muravera a Villaputzu scoprirà che quel ponte tra poco non avrà più luce. Quel sistema era prima gestito dal Servizio nazionale idrografico che successivamente è stato trasferito alla Regione. Nessuno però ha chiesto le risorse per gestirlo e neppure di poter rivalutare il servizio. Ci siamo accollati un servizio senza copertura finanziaria. Lo stesso è accaduto con la ricostruzione di Gairo e Osini. Il passaggio del Genio civile alla competenza regionale negli anni ’70 ha impedito che quell’intervento venisse realizzato da una task force nazionale. Se tu accetti una cosa di questo genere e non vai a valutare qual è l’impatto di questi interventi e di questi servizi, finisci per diventare controparte della tua gente e del tuo popolo.

Ma questo è un discorso più ampio che riguarda la gestione complessiva dei rapporti istituzionali e non solo la partita delle entrate.

È strettamente collegata. È sicuramente colpa dello Stato se mi trasferisce la sua inefficienza e non mi dà le risorse per rimediarvi. Ma la colpa è anche mia che non faccio rispettare le norme e non contratto il trasferimento di competenze. In questo modo mi autocondanno all’inefficienza.

Il primo Piano di Rinascita, che per altri aspetti ha provocato disastri, è stato uno dei pochi tentativi di applicare il principio di sussidiarietà. Ricordo che la prima legge sulla Rinascita venne presentata dal Governo italiano contemporaneamente al Parlamento nazionale e al Consiglio regionale della Sardegna.  Lo Stato riconosceva all’Assemblea sarda la funzione di elaborare un’intesa Parlamento su Parlamento, non Governo su Governo o ancor peggio niente di niente. Era ciò che prevedeva l’articolo 13 dello Statuto. Lo stesso che ancora oggi ci permette di poter definire il nostro modello di sviluppo. Se io chiedo di applicarlo non violo le leggi nazionali, i trattati europei e internazionali ma faccio le mie scelte e di conseguenza metto in piedi l’operatività. Se decido che il motore di sviluppo è l’Università posso destinare una grossa fetta del mio bilancio per avere i migliori studenti del mondo e, se non mi basta questa università di Sardegna, spedisco i nostri ragazzi sardi all’estero e gli mando i tutor perché diventino i migliori del mondo. Serve un miliardo? Un miliardo sia. Questo è possibile solo se ci credi, se eserciti i poteri. Ma se tu sostieni che il futuro dell’umanità è la conoscenza e poi non metti i soldi per le borse di studio, per gli studentati, per la formazione all’estero, stai parlando del nulla. La sovranità non è una teoria, sovranità è avere in testa gli obiettivi e creare gli strumenti possibili per raggiungerli. Nello Statuto abbiamo poteri inesplorati da questo punto di vista.

E se lo Stato fa orecchie da mercante?

Quando arrivi al limite dell’esplorabile allora apri un conflitto con lo Stato ma a quel punto lo fai in un rapporto di forza. I processi non durano mesi ma anni. Tu non puoi trattare la politica delle entrate in questo modo. Rinunciare alle sentenze favorevoli è come dire che lo Stato rinuncia alla esecuzione della pena per un condannato all’ergastolo. Ma quando mai si è vista una cosa del genere? Una sentenza passata in giudicato si esegue, punto. Noi prima abbiamo sottoscritto un accordo e poi abbiamo sollevato una questione di incostituzionalità davanti alla Corte Costituzionale. La risposta della Consulta è stata chiara: avete firmato un accordo e ve ne siete dichiarati formalmente soddisfatti, non potete chiederci di  dichiarare incostituzionale un atto che avete sottoscritto.

Torniamo alla Catalogna. Uno degli elementi che ha caratterizzato la vicenda catalana è stata la grande partecipazione popolare, perché questo non succede in Sardegna anche quando si affrontano questioni rilevanti?

La prima ragione è che c’è un grosso deficit di democrazia. La democrazia non è un enunciato, la democrazia è pratica. Non si nutre di soli valori ideali ma si nutre anche di sostanza, di saperi, di cultura, di umanità, di rappresentanza di interessi pieni. In passato ci sono stati grandi momenti di partecipazione. Pratobello, il movimento del ’68, lo stesso Piano di Rinascita hanno contribuito a coltivare la fiducia. La marcia di Michele Columbu nel 1964 suscitò emozioni, incoraggiò movimenti e fece nascere consensi perché fece intravedere una possibile evoluzione positiva. Si pensava allora di poter migliorare la nostra condizione e, se non la nostra, quella dei nostri figli o dei nostri nipoti. Persino la presenza e la nascita di Ottana e dei poli industriali va vissuta in questa maniera. Oggi tutto questo manca. Per questo i partiti, i sindacati, le associazioni di categoria e persino la Chiesa non vengono ascoltati. Se i dirigenti attuali dei partiti e nelle istituzioni sono grosso modo gli stessi protagonisti di 40 e 50 anni fa, e mi ci metto anch’io, significa che c’è un problema.

La seconda ragione è che oggi esistono altre forme di partecipazione che si sviluppano nella rete. Anche su questo fronte la Sardegna avrebbe potuto giocare un ruolo diverso.

È per questo che i nuovi movimenti politici che si stanno affermando in Italia e in Europa sono presenti in forma massiccia sul web?

Grauso fu il primo ad intuirlo 25 anni fa quando ancora Internet era agli albori.  Il suo progetto “Video On Line” nasceva da un’idea rivoluzionaria, concepiva la rete come espressione delle lingue locali. Un giorno un signore con una macchia sulla testa vide in un aeroporto della Thailandia un manifesto con la scritta: “Il cuore parla la lingua della madre, della madre, della madre…”. Quella scritta era poi replicata in inglese, francese, thailandese e tante altre lingue del mondo. Quel signore si chiamava Michail Gorbačëv, rimase profondamente colpito da quel manifesto tant’è che pochi giorni dopo fece contattare Grauso chiedendo di incontrarlo. Alcuni mesi dopo arrivò in Sardegna, l’incontro venne preparato dall’ex ambasciatore sovietico in Italia. L’ex presidente dell’Urss aveva capito perfettamente il messaggio: ogni popolo diventava protagonista della rete con la sua lingua e con la tecnologia della sua lingua. Gorbacčëv era consapevole dei cambiamenti che avrebbe potuto provocare. Un progetto inconcepibile allora per Internet, nato come dominio americano. Se la Sfirs e il Banco di Sardegna avessero sostenuto finanziariamente quell’idea noi saremmo stati probabilmente i protagonisti mondiali di questa rivoluzione. Oggi chi è che produce il consumo democratico nella rete? Quanto è il consumo democratico e come si può trasformare in partecipazione o in disvalore negativo? La partecipazione che abbiamo immaginato in altri tempi non è più possibile a meno che non ci sia un fatto traumatico come in Catalogna. Ma oggi, anche lì, c’è il rischio che l’opinione pubblica viri a  favore degli unionisti perché nella rete chi ha molti soldi può organizzare tutti gli strumenti della contro-resistenza.

Sardegna la rete non sembra però decisiva.

In Sardegna si utilizzano altri strumenti che pesano sulla partecipazione democratica. La legge n.3 “Misure urgenti a favore delle emittenti locali”, approvata dal Consiglio regionale nel 2015 è un provvedimento liberticida che tutela esclusivamente chi governa. Quei soldi non sono della Giunta ma sono del popolo sardo quindi l’attribuzione e anche la gestione del controllo dovrebbero essere di competenza del Consiglio regionale.

Hai introdotto il tema delle lingue locali. Perché, a differenza di quanto avviene in Catalogna, in Sardegna le forze dell’autodeterminazione hanno a lungo ignorato, o quasi, la questione della difesa e della valorizzazione della lingua sarda?

Sulla questione della lingua, a mio avviso, occorre tornare indietro negli anni. La cesura operata dal fascismo nei confronti del sardo è stata decisiva. Ha avuto conseguenze anche negli anni successivi. La mia maestra non era fascista ma metteva in pratica, come tutti gli insegnanti degli anni ’40 e primi anni ’50 una didattica pensata durante il Ventennio.

Anche il Pci, nonostante la lezione gramsciana, non è stato un partito amico del sardo.

Mah… Negli anni ’60 il Pci a Orani, Orgosolo, Mamoiada parlava in sardo. Io stesso con un grande dirigente del Pci come Pietrino Melis parlavo in sardo. Quando accompagnai Chiaromonte a Orgosolo in sezione si parlava in limba. Gramsci ha detto in un incontro con Emilio Lussu: “Se mai dovesse porsi la questione del governo della Sardegna, di quali forze politiche debbano gestire in Sardegna le istituzioni e le rappresentanze, questa forza politica deve essere il Partito Sardo d’Azione”. Questa era la sua idea ma in seguito il Pci e il Psd’Az sono andati nella direzione indicata da Gramsci. Torno al concetto espresso precedentemente: il fascismo ha interrotto la fecondità di Gramsci, non sono cose che passano così. C’è stata un’interruzione del flusso del gramscismo anche nel Pci. Tutte queste cose vanno lette insieme. Poi nel Pci c’è stato il centralismo e c’è stato anche il laconismo. Il sardismo ha pagato un’insufficiente elaborazione culturale e il ricercare la giustificazione all’essere popolo soltanto nelle lontane radici, nella storia di un’età dell’oro che non è mai esistita. Ma un popolo esiste solo se ha piena coscienza di sé nell’oggi e nel domani non vive solo di ricordi. La vicenda catalana lo conferma.

Per Gramsci però l’uso della lingua non era solo una questione di appartenenza ma lo strumento attraverso il quale affermare l’egemonia culturale.

Oggi credo che l’elemento centrale sia non solo il recupero di un orgoglio di popolo, ma anche la necessità di individuare una politica linguistica efficace. Sulla questione hanno pesato le troppe divisioni dei linguisti. Credo che lo snodo centrale sia rappresentato dalla scuola ma per questo occorre fare scelte e investire molte risorse. Come dicevo prima per gli studenti, vorrei per il sardo gli insegnanti migliori e, allo stesso tempo, un insieme di comportamenti per la lingua madre.

Detto questo, però, vedo una crescita della consapevolezza linguistica, c’è un uso più diffuso del sardo.

Tra poco si tornerà al voto per le elezioni politiche, tra un anno si voterà anche per il rinnovo del Consiglio regionale. I partiti identitari rischiano, ancora una volta, di andare in ordine sparso. Cosa impedisce che in Sardegna si possa formare un fronte unitario dell’autodeterminazione?

Niente. È insensato. Siamo di fronte al più grande momento di debolezza dei partiti italiani, il consenso nei loro confronti è il più basso di sempre, non c’è un precedente storico di destra e di sinistra. Ai partiti italiani si è sostituito il  Movimento Cinque Stelle ma stiamo parlando di cose diverse. C’è in Sardegna una grande aspettativa di popolo, la gente vuole che si accenda la scintilla della speranza. Vuole che finalmente si dica:  i partiti dell’autodeterminazione hanno smesso di giocare sul nulla, col nulla e tra il nulla. Quello che manca probabilmente è l’elemento leaderistico positivo. Rossomori hanno da tempo posto la questione: ci sono tutte le condizioni oggettive per dar vita a un progetto unitario, mancano quelle soggettive. Io penso che la scossa debba arrivare dagli intellettuali. È quello che diceva Bellieni: l’autonomia, e ancora di più l’indipendenza, non si può realizzare senza una spinta del ceto intellettuale e se si realizza dà vita a una forma subalterna, probabilmente folclorica.

Un polo dell’autodeterminazione comprenderebbe tutti? Non c’è il rischio, come accaduto in passato, di veti incrociati?

C’è una sola condizione ostativa: le forze che attualmente sostengono e partecipano al governo regionale non possono venire con noi. Tutti gli altri sì. Si mettano insieme perché ci sono le condizioni di aspettativa culturale, politica e sociale.

Vado oltre: io non sono un etnicista che dice sardo o muerte. Un  progetto diverso di Sardegna potrebbe riguardare anche parti del mondo progressista. Lo stesso Pd potrebbe esistere come partito della Sardegna. Per far questo però occorre sardizzare la politica e l’intera società. La Catalogna può fare quello che ha fatto perché esiste la Confederazione sindacale catalana. Questo ha permesso di portare in piazza un milione e duecentomila persone. Perché non è la chiamata alle armi di un partito o una frazione di partito, è il tessuto sociale che preme in quella direzione.

Dimmi tre cose su cui si dovrebbe fondare un programma di rilancio della Sardegna.

La riscrittura dello Statuto, l’accumulo di saperi e un grande progetto di giustizia sociale.

 

 

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