Sotto l’ombrello di Giovanni Battista Tuveri. Conversazione fra la storia e l’attualità, discutendo di “cattolicesimo federalista” e della “politica sugli extracomunitari”, di Gianfranco Murtas

Nel pomeriggio dello scorso 14 dicembre a Guspini, nel salone del cine-teatro Murgia, si è svolto un incontro per onorare la memoria grande di Giovanni Battista Tuveri, nel 130° anniversario della morte, e riflettere insieme sugli aspetti del suo federalismo che, forse, oggi meriterebbe di essere declinato, originalmente, sul piano tutto sociale, idealmente riferendolo – come hanno suggerito gli organizzatori del convegno – al movimento migratorio in corso, muovendo dal mondo povero o in guerra, e con destinazione l’Europa opulenta (tale nonostante la crisi).

Titolo della manifestazione richiamato in qualche locandina di lato alla grande immagine del filosofo di Collinas: “Il cattolicesimo federalista e la politica sugli extracomunitari”. Pochi i partecipanti e non importa; non inutile l’iniziativa assunta dall’onlus Piccoli Progetti Possibili, che del federalismo “ideale” e del federalismo “umanitario” – nel senso delle relazioni di promozione sociale, economica e produttiva – s’è fatta ormai da oltre un decennio protagonista, allacciando ponti virtuosi dalla Sardegna verso l’Africa e l’America centro-meridionale.

Mi era stato chiesto di mettere insieme qualche riflessione in materia e di portarla a chi fosse interessato. Mi ci sono provato. Ed ho parlato, inevitabilmente, per gran parte a braccio, data anche la… intimità (dimensionale) dell’occasione – quasi una conversazione in famiglia –, che non consentiva alcuna lezione ex cathedra. Così di seguito riporto quanto poi sono riuscito a mettere, prima e dopo, sulla carta – appunti magari, talvolta, estemporanei e da meglio affinare – e lasciare come prova di adesione morale alle iniziative della Caritas della diocesi di Ales, così come più specificamente ai Progetti e alle spinte operative nel segno della solidarietà internazionale promosse dalla Chiesa locale.

Una relazione, o brani di una relazione ipotizzata e futura, in cui non mi sono comunque privato del piacere di insistere su alcuni riferimenti storici precisi, coinvolgendo nell’affabulazione, e di necessità, tanto più il nostro Tuveri e anche il neoguelfismo del tempo che fu, quello dei Gioberti e dei Rosmini nella ingrata stagione della resistente teocrazia di papa Gregorio e papa Pio (Mastai Ferretti).

Ecco di seguito questi appunti sparsi e qui appena appena riordinati, per funzionare come traccia di una futura conversazione. Sono stati di fatto come la introduzione, o premessa di un possibile (ma mancato) dibattito sul federalismo umanitario nella concretezza dell’oggi. Che dovrà avere i suoi argomenti.

Per un inquadramento generale

I titoli di questa conversazione mi pare che, dai primi contatti con l’associazione organizzatrice fin qui, siano, o siano stati, un po’ ballerini, perché dentro doveva starci Tuveri, ma anche il cattolicesimo federalista (o magari il federalismo cattolico – che non è il federalismo di Tuveri, che pure era cattolico, ma semmai quello di Gioberti o Rosmini, preti entrambi, nella metà dell’Ottocento, prima dell’unità d’Italia) e doveva starci anche la questione degli extracomunitari, che diventa un elemento che esce dalla storia del passato e ci fissa all’oggi, se capisco bene: ci fissa a ragionare più su quello da costruire che su quello costruito.

E si tratta forse di immaginare qualche collegamento fra l’idea federalista in quanto tale e l’idea associativa o integrativa o inclusiva, nella nostra comunità nazionale e anche in quella locale, guspinese o cagliaritana o genericamente sarda, riferita a soggetti estranei, per nascita e cultura, alla nostra comunità.

Federare significa legare, legare i diversi ovviamente, promuovere e stringere alleanza, sottoscrivere un patto impegnativo e di reciproca responsabilità, trovando dei comuni denominatori fra diversi che intendono vivere in una relazione attiva la loro esperienza.

Il che potrebbe portarci anche a lunghe divagazioni, e chissà che le divagazioni non siano state il motivo che hanno spinto gli organizzatori a promuovere questa serata.

Perché se poi deve vincere un riferimento ideale d’ordine ecclesiale, o religioso in una qualche misura, il federalismo che noi potremmo approcciare – non ideologico ma umanitario – sarebbe, non più quello da evocare in chiave storica, del Gioberti o del Rosmini in faccia a papa Gregorio o a papa Pio IX, il papa (tremendo beato) che benediceva le ghigliottine, ma il federalismo delle intese fra nazioni e fra stati perfino di continenti diversi.

Perché noi come Unione Europea una forma di federalismo già la viviamo: una forma direi meglio di confederalismo (da intendersi come derivato da intese internazionali fra soggetti sovrani, non da intese costituzionali infrastatuali che sono quelle più propriamente federali);

la dico meglio: noi già la viviamo una forma di convergenza politica vincolante sulle materie stabilite dai trattati firmati dai governi e ratificati dai parlamenti: per esempio sull’agricoltura, sulla concorrenza, sull’energia atomica, sulla moneta, le banche e i bilanci statali, sulle politiche dei diritti umani e di cittadinanza, sull’applicazione della giustizia, ecc.;

noi come Unione Europea siamo una comunità confederale per larga parte, mentre gli extracomunitari sono quelli fuori dai nostri recinti sia fisici che politici e fuori anche dai recinti culturali e civili, fuori dai recinti religiosi (se qui entrano ormai musulmani dell’Africa e del medio Oriente e sikh o induisti o buddisti dell’Oriente estremo).

Da tutto questo dovremmo poter pensare a come una federazione/confederazione già sperimentata e attiva fra paesi-stato, che sono anche paesi-stato di relativa elevata opulenza (seppure con enormi problemi interni, con disuguaglianze sociali rilevanti), possa farsi partner, o addirittura più larga federazione “ideale”, con quei paesi-stati che generano oggi, per povertà crescenti e guerre in atto, il problema delle migrazioni;

oppure come possa un tale nostro sistema accogliere e riconoscere giuridicamente status valoriali altri dal nostro, in capo a soggetti-individui di correnti migratorie lontane per origini e sviluppo e risultanze dalle nostre tavole culturali, civili e costituzionali: dico una specie di federalismo sociale interno, disciplinato dall’ordinamento ma realizzato nel concreto da noi stessi, nel rapporto interpersonale e nella vita ordinaria, magari cominciando dalla scuola.

Tutto questo, se ho capito il senso dell’invito che mi è stato rivolto, entrerebbe nelle complessità di una conversazione forse troppo ardita per me oggi: di trattare cioè di Il cattolicesimo federalista e la politica sugli extracomunitari nel maggior quadro offerto, almeno in quanto spunto di storia nostra, dal tema scelto per la presente sessione convegnistica Giovanni Battista Tuveri e la questione sarda.

Troppo ardita ma certamente non improvvisata, anche perché, vedendo fra gli organizzatori maggiori l’onlus Piccoli Progetti Possibili (ora già quasi al suo dodicesimo anno di vita), tutto il pensiero mio si rivolge ad una delle personalità che dal Villacidrese e dal Guspinese, dal territorio diocesano di Ales dunque, di più ha contribuito alla mia formazione umana, dico don Angelo Pittau: personalità che, fin dall’esordio del suo sacerdozio cattolico (ma direi anche prima, dagli anni di studio giovanile), ha incarnato una vocazione mondialista, tanto radicata in Sardegna quando espansa veramente fra meridiani e paralleli (prete nel 1965, 25enne, due anni trascorsi a Tuili cuore marmillese come la Collinas di Tuveri, poi tre anni in Vietnam – prete fidei donum e professore e giornalista free lance –, e poi quattro anni operaio e parroco di periferia fra Marsiglia, Lione e Torino, a vivere tutto quel che si poteva in chiave solidaristica, e poi ancora altri quarant’anni fra Villacidro e Guspini e Villacidro ancora.

Il pensiero volge alle sue attività che sono più che di patronato, e comunque mai paternaliste ma semmai promozionali (di promozione umana, per dirla con Paolo VI), da lui e dai suoi diretti aiuti avviate con i continenti, con l’America latina: Argentina e Honduras, e con l’Africa nera: Ciad, Camerun, Tanzania.

Da questo impasto, fra il nostro Tuveri federalista sardo dell’Ottocento, il federalismo cattolico variamente declinato nel tempo – nel risorgimento nazionale italiano e dopo, si pensi al regionalismo che fu uno dei cardini della visione politica di don Luigi Sturzo e del popolarismo prefascista – e l’attualità bruciante delle correnti migratorie, possono venire molte suggestioni e, forse, nessuna conclusione. Ripeto: nessuna conclusione. Al massimo potrebbe venire soprattutto una passeggiata fra meridiani e paralleli ideali, per scorgere qualche nesso fra ambiti intimamente molto diversi e anche distanti fra loro. E far lavorare la mente prefigurando il futuro, noi stessi personalmente partecipi di un federalismo realizzato dal basso.

Ma ancora, e chiudo così questo prologo, pensando – dato il luogo, dato questo teatro – ai Murgia delle dinastie guspinesi: ai Murgia dai quali viene, come donazione sociale, questo stesso teatro e il circolo qui sotto;  al notaio sì, notaio storico; ma soprattutto ai medici, al dottor Bruno e prima ancora a suo padre dottor Luigi – benemeriti entrambi della salute pubblica e della democrazia amministrativa di Guspini nel Novecento, prima e dopo la dittatura (Luigi fu perfino sindaco del paese). Mi viene ancora di tornare al federalismo e mostrare come tutto si regga ancora in coerenza: i Murgia padre e figlio erano mazziniani nel midollo, e il loro Mazzini era il Mazzini ispiratore della Giovine Europa (suo simbolo l’edera tripartita riferita alle genti latine, anglo-sassoni e slave), che era – nel 1834 – la prima formulazione associativa, o chiamala proprio federativa, fra compagini profetiche e testimoniali del patriottismo democratico in tempo di autocrazie, di dittature regie e imperiali in Europa: la Giovine Italia, la Giovine Germania e la Giovine Polonia si legavano reciprocamente, per rispondere, dalla parte del popolo, all’unione repressiva dei governi illiberali, fra loro alleati, del continente, in Italia, in Prussia ed Austria, in Polonia e anche altrove.

Fu una grande partita politica, con molto sangue sparso, con molta testimonianza offerta con persecuzioni e carcere dai democratici vittime delle autocrazie nell’Ottocento, e molti perseguitati li avemmo anche noi in Sardegna – migrantes anche loro – perseguitati dagli eserciti del papa e dell’Austria. I più ottennero le patenti per gli scavi nell’Iglesiente, altri presero lavoro e residenza nel Marghine, nel Cagliaritano ecc., e fecero famiglia. Ne dirò poi.

Eccoci qui: ho cercato di definire il quadro glocal, fra il nostro qui d’oggi e il vasto mondo delle correnti migratorie intercontinentali, e anche il quadro diacronico, che combina passato e presente, e combina democrazia repubblicana e religione.

E Tuveri fu cattolico e fu un democratico repubblicano.

 

Giovanni Battista Tuveri

Primo protagonista del nostro viaggio intorno alle idee federaliste italiane e sarde dell’Ottocento è dunque questo intellettuale di Forru/Collinas, filosofo e scrittore politico, pubblicista e direttore di giornali.

Dobbiamo esplorare la sua umanità prima che il suo ingegno.

Senza caricare di troppi dati, si tratta di fissare, in prima battuta, l’arco temporale della sua vita: egli nasce nel 1815, muore 72enne nel 1887.

Della sua prima formazione dirò soltanto, traendola dagli appunti biografici che egli lasciò, che orfano di padre da piccolissimo, fu cresciuto ad Oristano a casa del nonno materno, un Licheri: magistrato conservatore che ospitava in casa sua belle discussioni in cui ogni tanto si affacciava taluno che portava qualche idea nuova. Il piccolo ascoltava attento e forse intimorito, sempre zitto.

Dodicenne, nel 1827, fu iscritto al seminario Tridentino di Cagliari (dove oggi è la Biblioteca universitaria): vi rimase sei anni e studiò in un clima da “caserma”, molto severo.

Sei anni dopo, nel 1833, ebbe il suo bravo diploma di magistero e fu allora iscritto alla vicina facoltà di giurisprudenza (in quello che oggi è il palazzo del Rettorato): vi rimase soltanto due anni, fino al titolo di baccelliere – diciamo la laurea breve – non essendo granché interessato a diventare avvocato (anche se poi nella sua vita un giurista competente, sempre aggiornato, lo fu di fatto).

E invece se ne tornò in paese a coltivare la terra di famiglia, a campare di quella, sforzandosi anche di ammodernare le tecniche produttive. E prese a leggere molto, procurandosi libri di difficile reperimento, anche perché censurati, come quelli degli enciclopedisti francesi. Rafforzò così la sua cultura filosofica: il sogno era sempre una società libera e democratica, tutta il contrario di quella che aveva conosciuto fino ad allora.

Nel 1848 la storia cambia in Europa, pur senza troppe illusioni. I sovrani debbono concedere le costituzioni che riconoscono i limiti nell’esercizio dei poteri da parte dello stato e i diritti del cittadino.

La Sardegna che, per effetto della cosiddetta “fusione perfetta”, da qualche mese è anche formalmente parte integrante del regno che ha capitale a Torino, e gode ormai della stessa legislazione della terraferma e gode di tale nuova stagione da noi inaugurata dal rilascio dello statuto albertino.

Tuveri esordisce come uomo pubblico proprio allora: valga al riguardo la bella seppure rapida biografia scritta nel 1973 dal mio amico Gianfranco Contu, federalista e tuveriano: egli era un medico professore di ginecologia, da ragazzo nell’immediato dopoguerra s’appassionò alla politica e alla figura di Emilio Lussu, dunque al sardismo socialista combinato al federalismo. (E valga anche quest’altro riferimento: il maggior interprete del pensiero tuveriano, così da quando aveva appena 18 o 20 anni, io ritengo sia proprio il figlio di Contu, da lui cresciuto evidentemente al meglio, Alberto Contu – un genio autentico autore di un’infinità di saggi).

Ad aprile egli si candida alla deputazione, a Cagliari, contro Giovanni Siotto Pintor, un magistrato liberale, cattolico e liberale, di origini moderate ma mostratosi avanzato nella gara elettorale. E’ allora che Tuveri pubblica un articolo intitolato “Rivista” in cui denuncia un certo trasformismo, appunto quel moderatismo trasformatosi all’improvviso in progressismo pur di vincere la gara elettorale.

Pur perdendo, egli si fa conoscere ed apprezzare. Ne nasce allora una polemica fra lo sconfitto e l’eletto: Tuveri viene censurato dal nuovo giornale diretto dal fratello del Siotto Pintor – L’Indipendenza Italiana – e anzi viene accusato di non essersi dichiarato lui democratico prima del rilascio della costituzione, e risponde con un opuscolo in cui, lui sì lealmente, riporta le tesi dell’avversario per contestarle a sua volta. La cosa gli fa gioco, si fa ancor più conoscere ed apprezzare.

Viene spinto a ricandidarsi alle suppletive di novembre. E’ riluttante ma si presenta al voto e viene eletto. I deputati non hanno indennità ed egli – allora e anche dopo – faticherà ad estraniarsi dal suo lavoro collinese (di agricoltore) e poi cagliaritano (di giornalista) per trasferirsi a Torino per le lunghe sessioni parlamentari.

Si dimette presto, spiegando le sue ragioni, con molta confidenza, agli elettori.

Sciolta la Camera pochi mesi dopo, eccolo però nuovamente candidato ed eletto: gennaio 1849. (Siamo a metà della prima guerra d’indipendenza che, alla ripresa dei combattimenti contro l’Austria finirà con la sconfitta piemontese a Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto. Il governo in carica e dimissionario è quello presieduto da Vincenzo Gioberti, prete e filosofo teorico del neoguelfismo, autore di un saggio Del primato morale e civile degli italiani che ipotizzava l’unità italiana in chiave confederale e con presidenza onorifica del papa).

E’ proprio allora che Tuveri si fa conoscere alla Camera dove presenta una mozione di censura contro Gioberti il quale nelle polemiche del momento aveva perfino criticato l’istituto parlamentare.

I deputati, con gran fracasso, si schierano tutti in difesa di Gioberti e contro il povero deputato sardo, che quindi nuovamente si ritrae. E deve anche combattere contro i rivoli di polemica a Cagliari, contro i conservatori riuniti attorno al giornale L’Indicatore Sardo dei fratelli Martini (fra essi Pietro, lo storico e direttore della Biblioteca governativa o universitaria).

Come poteva rispondere il solitario Tuveri – tutto pensiero e moralità, allora 34enne – alla pressione degli avversari, uomini potenti nella società e nelle amministrazioni? Non ancora con un giornale tutto suo, ma con una serie di opuscoli – saranno quattro in tutto –­ chiamati Specifici. In uno di essi (il terzo) l’autore difende le posizioni di Mazzini, purtroppo appena uscito sconfitto con la sua più bella creatura: la Repubblica Romana, quella durata appena sei mesi, e per la quale morì Goffredo Mameli, l’autore del testo dell’Inno degli Italiani. La Repubblica aveva abbattuto la teocrazia di Pio IX, aveva abolito la pena di morte e di confisca che era cosa ordinaria nello Stato Pontificio, ma poi era stata umiliata dalle armi francesi chiamate da Pio IX rifugiatosi a Gaeta.

Data la fragilità del sistema, i turni elettorali si susseguono l’uno all’altro. Sconfitto a luglio, Tuveri viene rieletto a dicembre, sempre a Cagliari.

Press’a poco allora, in città, inizia le sue pubblicazioni un nuovo giornale che si proclama democratico: è la Gazzetta Popolare (di Giuseppe Sanna Sanna), e Tuveri ne è la firma più prestigiosa. Siamo ancora dieci-undici anni prima dell’unità d’Italia.

In parlamento, incaricato dal Cavour di presentare una relazione sui Monti di Soccorso isolani, vi provvede ma non si sente di prendere la parola, memore di quando fu zittito per la mozione di rimprovero al Gioberti.

Rientrato a Cagliari, nel 1851 pubblica il saggio (teologico-filosofico) Del diritto dell’uomo alla distruzione dei cattivi governi. Che è un po’ un ripresa della teoria della scolastica di San Tommaso d’Aquino sul regicidio/tirannicidio.

Rieletto due anni dopo, rinuncia di fatto al mandato, formalizzando però le dimissioni soltanto nel 1857: il mondo parlamentare non fa per lui.

Da questo momento e per vent’anni, fino alla morte, si occupa soltanto di giornalismo, fa politica attraverso il giornalismo: dopo la Gazzetta Popolare va alla Bussola e poi, come direttore, nel 1871, al Corriere di Sardegna, iniziando anche a collaborare con testate continentali: il Dovere ed anche Libertà e Associazione di Genova, il Popolo d’Italia di Napoli, e poi ancora scrive sul Movimento, su La Roma del Popolo, sul Pungolo, sul cagliaritano La Cronaca, ecc.

Oltre che di giornalismo, si occupa di questioni amministrative sarde (anche da consigliere provinciale per il mandamento di San Gavino – ad esempio sulla questione della nuova rete ferroviaria – e da consigliere comunale di Collinas e da sindaco dal 1870 al 1887). Sostiene i principi di autonomia amministrativa, spende molte energie a favore di una riforma dell’ente locale che esprime in prima istanza l’interesse materiale e morale della cittadinanza.

E continua a scrivere di filosofia politica: pubblica, fra l’altro, La libertà e le caste (1871), fortemente antimonarchico. Verranno poi (1882) I Sofismi politici. Lascerà incompiuta un’opera di riflessione religiosa, forse mistica: Della presenza di Dio.

Tratta di questioni di interesse generale, dal fisco alla scuola, all’economia: sempre contro il governo perché umilia i comuni isolani con l’imposizione di un certo catasto che ha finito per raddoppiare le imposte e per i frequenti arbitri dei funzionari pubblici sulle popolazioni rurali.

Siamo adesso in un periodo, ormai a ridosso dell’unità d’Italia, in cui anche Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini difendono la Sardegna: l’uno, sul Politecnico, per le condizioni socio-economiche, l’altro su L’Unità italiana, per stornare il pericolo di una vendita dell’isola alla Francia.

Al di là delle teorizzazioni filosofiche, il federalismo tuveriano gioca su questo doppio teatro della Sardegna e dell’Italia continentale.

Diciamola così: se è vero che la storia è sempre evolutiva, certamente vi sono delle fasi che possono definirsi epocali, tanto più quando segnano il passaggio da una situazione sostanzialmente stabile, o stagnante, di lungo periodo ad un’altra.

Nell’arco di vita di Giovanni Battista Tuveri noi vediamo che la Sardegna esce dal “medioevo” – tale era ancora il primo Ottocento sardo – per entrare nella modernità, razionalista e laica.

Medioevali erano rimaste, sotto aspetti sostanziali, la sua economia e la sua società, perché feudali, anche nei secoli del dominio spagnolo (secoli che nella penisola corrispondevano magari agli splendori del rinascimento) e feudali restarono perfino nel primo secolo del dominio piemontese/savoiardo, cioè nel Settecento

Moderno, ancorché con tutte le sue contraddizioni, era il quadro nuovo che si era andato realizzando sul continente italiano, con prossime graduali ricadute nell’Isola, costituito esso, dopo la conquista costituzionale del 1848, dalla unità territoriale e delle popolazioni regionali nel 1860-61

mentre sotto il profilo culturale, valoriale ma anche sociale, dalla fine del temporalismo ecclesiastico, in piedi ormai da millecinquecento anni, nel santissimo 20 settembre 1870.

Tuveri fu testimone di questo lungo e complesso passaggio: lo fu da pensatore, da filosofo, da pubblicista, da parlamentare, da sardo e da italiano che si collegò con le correnti più avanzate del pensiero politico del suo tempo.

La scena nazionale ed europea

Egli nasce d’estate, in agosto, in quel 1815 data dalla quale i manuali di storia delle scuole sogliono far partire, convenzionalmente, l’era contemporanea, il tempo più recente della storia moderna cioè (che invece daterebbe, sempre convenzionalmente, dalla scoperta dell’America, nel 1492).

Allora era forse giunta notizia anche a Forru – chissà come, non ancora dai giornali che neppure a Cagliari ancora uscivano (c’era stato qualche tentativo a fine Settecento) – che i grandi dell’Europa avevano appena finito i loro lavori, durati sette-otto mesi, per riordinare politicamente il continente, dopo la rivoluzione francese e tutti i travagli napoleonici.

Sconfitto Napoleone, padrone della scena europea per quasi vent’anni, i sovrani spodestati tornavano nei loro palazzi – anche i Savoia, che fuggiti da Torino erano riparati in Sardegna –, riprendevano il governo dei loro stati, facevano reciproca alleanza contro i possibili nuovi sovvertitori liberali, magari carbonari o magari mazziniani.

E facevano alleanza armata con il papato. Giustamente si parlava allora del binomio trono-e-altare.

Si era celebrato a Vienna, fino a giugno, quel congresso delle case regnanti (per il più imparentate reciprocamente): aveva vinto l’idea della preminenza della diplomazia, e l’idea della forza militare come supporto (sempre pronto) alla diplomazia, per assicurare un equilibrio duraturo nel continente.

Dell’Italia uscita dal congresso di Vienna sappiamo: erano una decina gli stati e staterelli che componevano, come un mosaico, lo spazio della penisola e delle isole maggiori:

il regno sardo-piemontese (comprensivo anche della Liguria, che prima era una repubblica) ai Savoia;

il regno Lombardo-Veneto, anche con i territori del Trentino e del sud Tirolo e, ad oriente, del Friuli e della Venezia Giulia, sotto il diretto governo degli imperiali Asburgo Lorena;

i ducati di Parma-Piacenza-Guastalla,

di Modena e Reggio,

di Massa e Carrara,

e di Lucca,

rispettivamente ancora agli Asburgo Lorena (poi Borbone Parma), agli Austria Este, agli Este, ai Borbone Este;

il Granducato di Toscana agli Asburgo Lorena;

il regno delle due Sicilie, unificando i regni di Napoli e di Sicilia, in capo ai Borbone Napoli.

Nel mezzo lo Stato Pontificio al tempo affidato alla teocrazia di Pio VII Chiaramonti (già prigioniero di Napoleone), cui sarebbero succeduti

Leone XII della Genga (quello della ghigliottina riservata ai carbonari Targhini e Montanari nell’anno santo 1825, com’è raccontato nel film “Nell’anno del Signore” con Nino Manfredi),

Pio VIII Castiglioni (papa per un anno soltanto),

Gregorio XVI Cappellari (un camaldolese fior di reazionario, che represse con le armi austriache le istanze libertarie di bolognesi, romagnoli, umbri e marchigiani, e anche dei parmensi e dei modenesi sotto regime ducale: per due mesi nel 1831 essi avevano resistito costituendosi come “provincie unite italiane”),

infine – dal 1846 – Pio IX.

Non era una bella Italia – 15-20milioni di abitanti in tutto, in larghissima parte dediti all’agricoltura e al manifatturiero artigianale, analfabeti per i tre quarti, al 90 per cento nel sud e nelle isole, un’Italia religiosa e devota ma non spirituale, anzi perfino pagana in certo suo devozionismo;

non era una bella Italia quella della cosiddetta “restaurazione” (quel trentennio e più che dal congresso di Vienna arriva alle prima costituzioni strappate dalla piazza ai monarchi nel 1848).

Era una Italia, peraltro, non riconosciuta tale se non, oltre che dai profeti della politica visionaria, quelli che si chiamavano patrioti, dagli idealisti, dai poeti. L’aveva detto nella metà del ‘300 il Petrarca (“Italia mia, benché ’l parlar sia indarno…”), l’aveva detto cinquecento anni dopo il Leopardi (“O patria mia, vedo le mura e gli archi / E le colonne e i simulacri e l’erme / Torri degli avi nostri, / Ma la gloria non vedo”).

Non era una bella Italia, perché, non dico democratica, ma neppure liberale, in cui fossero riconosciuti gli elementari diritti dell’uomo e civili, il diritto di libertà di pensiero, di stampa, di corrispondenza, di associazione.

Esistono delle descrizioni cittadine – anche di Cagliari (per mano di Carlo Brundo), proprio negli anni in cui, al seminario Tridentino di Castello, viveva il giovanissimo Giovanni Battista Tuveri. E il buio della città (che pure sarebbe stata giustamente chiamata città del sole) era allora determinato dalle mura alte che chiudevano separando i quartieri l’uno dall’altro, anche la via Roma era chiusa e il mare non si vedeva. E le strade erano feritoie di terra battuta e sporche, alla mercé del vento e della maleducazione dei più.

Buio l’ambiente fisico e buio il sistema sociale e politico. E infatti furono qua e là, nella penisola, una infinità i moti detti liberali per strappare concessioni: era il tempo della Carboneria, della Giovine Italia (poi Giovine Europa) mazziniana, ecc. Tutto finiva sempre nel sangue e negli arresti e nelle dure carcerazioni. Fra le vittime sarde il sassarese Efisio Tola, affiliato mazziniano sassarese, ufficiale dell’esercito regio, fucilato nel 1833, trentenne.

La Sardegna

Cos’era la Sardegna in quel periodo precedente alla stagione delle costituzioni (1848) e poi alla stagione della unità politica (1861)?

Se al primo censimento della popolazione, nel 1861, ci contavamo in 609mila, possiamo immaginarli meno ancora i sardi, fra capo di sopra e capo di sotto, Barbagie e zone interne, per larghissima parte lavoratori della campagna, fra agricoltura e allevamento.

Rientrati i Savoia a Torino e ceduto il trono da Vittorio Emanuele I a su fratello Carlo Felice – che ricordiamo effigiato in vesti di senatore romano nella piazza Yenne di Cagliari – vennero in Sardegna diverse riforme, sviluppate poi da re Carlo Alberto, per avvicinare la condizione isolana a quella più avanzata della terraferma: sul sistema giudiziario, con l’introduzione del sistema metrico decimale, ecc.

La maggior riforma fu, nel bene e nel male, l’editto delle chiudende che, del 1823, che nella sua pratica attuazione, una decina d’anni dopo, determinò fortissime resistenze e opposizioni nelle nostre campagne.

Se il quadro della terraferma – Piemonte e Liguria – aveva scontato che là i feudi erano pressoché scomparsi e al loro posto era venuta su una piccola e media proprietà fondiaria, in Sardegna ancora si tardava.

Là si era formato, in capo ad una giovane borghesia modernizzatrice, un capitalismo agrario, il che aveva favorito lo sviluppo agro-zootecnico per investimenti e miglioramento delle tecniche produttive.

Qui la piccola proprietà era limitatissima; la gran parte delle terre appartenevano ai feudi ed ai comuni, l’agricoltura era estensiva ed arretrata e l’allevamento era brado: i pastori utilizzavano i pascoli pubblici, o feudali o comunali.

La chiusura dei fondi in lotti e la loro messa in vendita ai privati – l’affermazione cioè del principio della “proprietà perfetta”, come in Piemonte – volendo favorire la nascita di un ceto proprietario borghese e modernizzatore, capace di sviluppare la produttività delle aziende, privava i pastori dei campi fino ad allora da essi utilizzati ed invece ora messi a coltura, oppure imponeva ad essi, per il pascolo, affitti più salati.

Dall’altra parte toglieva ai feudatari una fonte importante dei loro redditi, originando così una specie di alleanza d’interesse fra pastori e, appunto, feudatari (i quali per di più nel 1836 perdettero per legge i loro “diritti feudali”, un vero e proprio diritto di esazione tributaria, anche se va detto – e questo addirittura rovesciava di segno il vantaggio degli attori in scena! – che il diritto revocato veniva compensato con generosi riscatti in danaro o in cartelle pubbliche, che a loro volta erano finanziate con nuove e salate imposizioni statali): per qualche tempo durò quell’alleanza contro la nuova piccola e media borghesia agraria, titolare dei fondi chiusi dai famosi “muretti”. E vennero allora numerosi episodi di ribellione e anche di banditismo.

La cosa si assorbì nel tempo, appunto con i riscatti dei fondi, e la collocazione dei ceti espropriati (ed ora fatti capitalisti) negli altri ranghi tanto dell’amministrazione quanto dell’economia.

Nel 1847, le rappresentanze delle maggiori città, con a capo l’arcivescovo di Cagliari, invocarono in delegazione recatasi a Torino la “perfetta fusione” dell’ordinamento giuridico della Sardegna con quello della terraferma, rinunciando anche a quelle autonomie antiche di cui essa godeva da secoli in quanto Regnum Sardiniae.

Può dirsi che nel 1847-48 la Sardegna si fece anche giuridicamente tutta italiana.

La storiografia fornisce giudizi diversi e anche opposti circa la convenienza venuta alla Sardegna da un tale processo. Forse il limite di questo genere di contrasti fra scuole di pensiero è nella interpretazione di… cosa sia la Sardegna, che non è un soggetto unico, ma – al di là ovviamente del dato puramente morale – è un sistema di interessi che, nello stesso range territoriale, sono contrastanti ed avversari: i braccianti non sono l’aristocrazia, i pastori non sono i borghesi delle città, i bisogni di una classe e anche di un’area geografica non coincidono con quelli di un’altra né è diverso per le aspettative, e l’utile dell’uno è sovente danno per l’altro… (Argomento interessantissimo, meritevole di ripresa e contestualizzazione storica).

La visione federalista di Tuveri è tutta interna alla sua riflessione di sardo: c’è la sardità alla base del suo universalismo; sì repubblicano (scriverà, lui cattolico, un capitolo dei suoi Sofismi dal titolo “Cristo repubblicano!!!”) ma non tanto per dottrine ricevute dal continente (come fu per Asproni, o Brusco Onnis) quanto per una sua elaborazione che rimonta allo studio addirittura degli stessi pensatori cristiani dei secoli remoti.

Per lui sia l’indipendenza nazionale che la unità interregionale della patria – valori assoluti per il repubblicanesimo storico risorgimentale – sono subordinati a quelli della libertà, e nel concreto vitale della Sardegna, ma in generale delle comunità territoriali, la libertà è assicurata da un sistema di autogoverno territoriale nelle materie di immediata ricaduta. Studia a lungo, Tuveri, la costituzione americana e quella svizzera, e si rende conto di come il federalismo possa conciliare in pace e progresso ogni differenza sociale ed economica, culturale e perfino etnica e linguistica.

Nei suoi numerosi scritti non mancano, da questo punto di vista, neppure i riferimenti federali sul piano europeo oltre che italiano. Teorizzando le sue formule egli coglie le interdipendenze fra stato e stato, fra nazione e nazione, così nel continente come addirittura nel rapporto fra l’Europa e gli Stati Uniti d’America. Perché, appunto, il federalismo è tutto il contrario del separatismo. E’ il gusto di stare insieme, essersi reciprocamente utili.

Aggiungerei qui un altro flash da riprendere, anche per comprendere come e perché resiste un certo federalismo o autonomismo municipalista (quello mazziniano, tutto il contrario dell’accentramento statalista) nella stagione post unitaria: almeno fino al 1865 – per quattro-cinque anni dopo l’unità – si lavorò infatti alla armonizzazione dei sistemi politico-amministrativi portati dagli ex stati, cioè da ciascuna delle componenti territoriali dello stato nuovo. Fu la legge Lanza assolutamente centralizzatrice, qualcuno disse “piemontesizzatrice” dell’Italia. Ciò avvenne in contemporanea con il trasferimento della capitale a Firenze (dove sarebbe andata nel 1865 e sarebbe rimasta fino al 1871, sei anni). Fra l’altro rinacquero le province e i comuni ebbero la delega di varie funzioni statali in tema di sanità pubblica e anagrafe.

Fu soprattutto allora che si pose il problema dei rapporti fra unitari e federalisti, all’interno della unità statale già compiuta. E fu soprattutto allora che dalla Sardegna salirono le voci invocanti spazi di autonomia politica dai ministeri.

E peraltro la Sardegna (come la Sicilia) avrebbe meritato un riguardo tutto suo sotto questo profilo. Ciò era nei disegni dello stesso Mazzini.

 

Il neoguelfismo

L’opzione pregiudiziale libertà-repubblica pone l’elaborazione federalista di Tuveri in contrasto con quella che fu di pensatori cattolici dell’Ottocento italiano, come il Gioberti e il Rosmini. Essi ancora si muovono in uno schema che paga al papa il prezzo della mancata unità nazionale italiana, perché da loro viene, inquadrato nel cosiddetto neoguelfismo, la proposta di una federazione fra gli stati italiani com’erano negli anni ’40 – autonomi l’uno dall’altro – con una presidenza onoraria riservata al papa.

E non il papato in quanto tale, ma lo Stato Pontificio in quanto entità giuridica e soggetto di diritto internazionale, con tanto di esercito e di ambasciatori, di burocrazia ed istituzioni e magistrature ecc. costituisce invece, nel disegno politico dei pensatori liberali e dei pensatori democratici risorgimentali, un problema o “il” problema insieme con quello dell’Austria, padrone diretto o indiretto (per parentele dinastiche) della quasi totalità degli stati italiani preunitari.

Il religioso Gioberti vuol risolvere il problema italiano non con la guerra, che ripugna alla coscienza cristiana, ma con la diplomazia, e prima ancora con la riscoperta delle millenarie comuni basi spirituali dei popoli italiani. Per lui (e per gli altri coinvolti nel suo neoguelfismo) il primato degli italiani si esprime in questa consapevolezza delle radici e nella fierezza della loro assunzione in termini etico-politici come carta risolutiva della questione presente: allo spezzettamento cioè della nazione in tanti stati. L’Italia federale, o meglio confederale, come modello al continente, per un’Europa federale (o meglio confederale). L’Austria imperiale avrebbe alleggerito la presa, interessandosi più delle popolazioni slave (magari in chiave antiRussia ed antiOrtodossia) che di quelle italiane protette e garantite dal papa.

Per Gioberti, che pure lui si era interessato agli studi di Alexis de Tocqueville su “La democrazia in America”, occorreva dotare la federazione italiana di un forte potere di governo e di un parlamento da far sedere a Roma e far presiedere al papa. Un papa italiano ed arbitro, invece che un papa universale… a ben riflettere! e contro la storia che sarebbe venuta!

Gli stati partecipanti avrebbero vista confermata la loro guida in capo ai sovrani legittimi, e il parlamento centrale (la cosiddetta Dieta) si sarebbe occupata delle materie di comune e superiore interesse, come forze armate e moneta, politica estera e doganale ecc. Questo parlamento non sarebbe stato democratico, popolare cioè, ma costituito dagli aristocratici di lunga schiatta e da cavalieri di nomina regia, borghesi premiati dal sovrano.

Poi ci ripensò il Gioberti. E ritenne che sarebbe stato il regno Sardo-Piemontese a doversi fare catalizzatore delle forze disperse nello stivale, in vista della unità.

Con Gioberti, ma dopo Gioberti, e dopo la concessione delle varie costituzioni in Europa, gioca Rosmini, oggi beato e già profetico autore di quel testo sulle “cinque piaghe della Chiesa” che fu messo all’indice dalla Chiesa stessa, libro proibito.

Rosmini era stato attivato anche dal governo piemontese, al tempo della prima guerra d’indipendenza e prima del golpe della Repubblica Romana, per contatti col papa e con i rappresentanti toscani, alla ricerca di una qualche soluzione pacifica al problema unitario; e teorizzò sulla linea giobertiana.

Quel che emerge è sempre un disegno originale: l’Italia insegnerà all’Europa, di cui non deve mutuare i modelli precostituiti, essa ha radici religiose e morali e culturali condivise che debbono fondare la nuova realtà politico-costituzionale federale: anche qui, una Dieta permanente dovrà sedere a Roma sotto la presidenza pontificia con rappresentanze di ciascuno stato partecipante (che avrebbe conservato il proprio parlamento), e fra essi anche espressioni dei ceti bassi della popolazione.

Rosmini pensa anche a dei tribunali di giustizia che ricompongano eventuali dissidi fra gli stati e i cittadini, così da rendere meno pesante l’assolutismo del potere governativo. Ma comunque in un sistema neppure liberale (santamente laico) siamo e restiamo.

Si sarebbe potuto partire con una federazione a tre: regno Sardo-Piemontese, Granducato di Toscana, Stato Pontificio. Nel medio periodo si ipotizzava l’ingresso del regno delle Due Sicilie, mentre il Piemonte avrebbe inglobato auspicabilmente la Lombardia e il Veneto, e la Toscana i ducati minori dell’area padana.

La storia del neoguelfismo nelle sue evoluzioni è lunghissima ed interessantissima. Ma va detto che il neoguelfismo si muove entro coordinate monarchiche e non repubblicane, e con la permanenza della ipoteca pontificia, il che stride con la visione federale di Tuveri e in generale della famiglia politica repubblicana, che è altresì democratica, e fonda tutto sul binomio suffragio universale/repubblica, come anche la vicenda della Repubblica Romana insegna.

Quel che rimane da tali esperienze intellettuali e politiche è la suggestione del superamento della stagnazione assolutista, la considerazione che fu del Gioberti come del Rosmini dell’Italia assimilata ad un corpo umano dalle molte membra, ognuna con la propria funzione spesa per l’utile del tutto.

Quando noi estendiamo o applichiamo le suggestioni del federalismo quali furono vissute nella nostra Sardegna e nella nostra Italia nei passaggi epocali del XIX secolo, e poi con certo regionalismo, anche nel XX, alla realtà delle correnti migratorie extracomunitarie, come ho già accennato, possiamo avere un campo illimitato di declinazioni.

Le correnti migratorie nell’attualità politica

La cooperazione internazionale – che da un certo punto di vista potrebbe rappresentare una formula moderna di federalismo fra mondo ricco e mondo povero – è essa stessa oggi costituita da un numero elevatissimo di sigle che rimandano ad accordi intergovernativi oppure a soggetti – le cosiddette ong – che operano su una prospettiva puramente umanitaria, come volontariato planetario.

Ma sarebbero ipotizzabili e praticabili forme più incisive in logica di partnership?

Andrebbe intanto detto se parlando di extracomunitari noi facciamo riferimento alle persone e alle masse che qui da noi arrivano fuggendo, o se il discorso deve fare riferimento alle relazioni fra gli stati. Perché allora si potrebbe mettere nel discorso una formula del tipo del “commonwealth delle nazioni”, per una circolazione ordinata o regolata dei flussi che entra nel piatto delle più complessive relazioni intergovernative. Ma da dove partire? Dalla condivisione di landmarks come il rispetto dei diritti dell’uomo e del cittadino, come il rispetto costituzionale delle libertà e delle rappresentanze parlamentari quale che ne sia il livello. E quanto possibile in un mondo che è “globalizzato”?

Si pone da noi, nell’accoglienza, il discorso dei principi costituzionali che sono inderogabili: rispetto della persona e rispetto della legge coerente alla costituzione. Dentro questo range possono esprimersi tutte le individualità, tutte le culture, tutte le religioni.

Da qui si può partire per vedere le modalità possibili del fare.

 

Flashback sardo

Nel giogo diacronico di cui avevo detto, potremmo ricordare la Sardegna terra di ricezione di correnti migratorie nell’Ottocento. Ovviamente i contesti e i presupposti sono tutt’altri che quelli di oggi: anche se si era… come interfaccia internazionali allora, fra romagnoli o toscani o laziali e sardi…

I ricordi di scuola ci riportano ai cosiddetti emigrati politici: perseguitati nei loro stati del continente perché liberali nel senso della democrazia piena (e anche repubblicani più spesso) essi ottennero – tanto più negli anni ’50, fra la prima e la seconda guerra d’indipendenza, inseguiti dalle condanne a morte firmate dal papa – di salvare la pelle in Piemonte, od ottennero dal re di Piemonte (il Savoia sovrano) delle patenti di rifugio in Sardegna.

Invero la cosa tornava comoda al governo Savoia che offrendo l’ospitalità di residenza e lavoro della Sardegna si liberavano di elementi scomodi anche per esso.

E bisognava che lavorassero perché altrimenti, girando qua e là e contattando ambienti i più vari, i giornali inclusi, potevano anche diffondere il loro credo politico troppo avanzato per i tempi.

I nomi sono noti, se n’è occupato particolarmente nei suoi studi il professor Del Piano e, prima di lui, s’è occupato della materia anche il professor Boscolo: un capitano Beltrame, proveniente dalla Legione italiana d’Ungheria, Eugenio Besson, Giovanni ed Anastasio Sulliotti…

Verso Macomer ci fu un’azienda industriale e agricola che ebbe concessioni di disboscamento per le ferrovie, e comprendeva numerosi emigrati politici; Pietro Beltrame, Enrico Guastalla, Gaspare Finali e suo fratello Amilcare, Francesco Calvi, Giuseppe Budini, un riminese soprannominato Balena che faceva il cuoco, e ancora Giuseppe Galletti, Ippolito Pederzoli, Bonaventura Ciotti, Enrico Serpieri

Dopo la seconda guerra d’indipendenza – mentre restavano fuori dalla annessione italiana – i territori soggetti al governo del papa e il Veneto, furono appunto soprattutto i laziali e i veneti a restare nell’Isola che erano molte e molte decine, cui venne offerto riparo in ex conventi o caserme improvvisate: gli altri andarono via.

Avemmo poi un’altra importante corrente di ospiti, di immigrati dal continente: erano quelli accusati (per il vero o per il falso) di brigantaggio, ma comunque non così chiaramente colpevoli da dover essere fucilati. Costretti al domicilio coatto giunsero nell’Isola a centinaia: erano militari, c’erano avvocati e anche baroni antiborbonici e garibaldini.

 

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