1790 – 94. Ritornano i tempi di Eleonora: la Rivoluzione nel Marchesato di Oristano, di Mario Cubeddu

CONDAGHE 2.0. Condaghe significa essenzialmente raccolta di documenti di vario genere. Con questo articolo vogliamo iniziare a ospitare degli interventi sul passato, il presente e il futuro della Sardegna. Il Condaghe è aperto ai contributi che vorranno essere forniti dai lettori e si ripromette di proporre un intervento diverso ogni settimana. Documento n° 2.

Il palazzo D'Arcais, in via Dritta, ad Oristano.

Dopo il 1790 la società oristanese è una pentola da lungo tempo in ebollizione  che sta per esplodere. In quell’anno è morto don Damiano Nurra, nipote di un proprietario di Cabras amministratore di peschiera,  diventato nel 1767 Marchese d’Arcais e titolare delle rendite civili del Marchesato di Oristano. Ha dominato la vita cittadina per mezzo secolo; se ne va senza eredi, lasciando titolo e beni ai nipoti Flores che per prima cosa disattendono il suo testamento, rifiutando di assumere il cognome Nurra, troppo plebeo e soprattutto troppo sardo. Come era riuscito Damiano Nurra a diventare così ricco? Con l’intelligenza, l’astuzia, l’attivismo, la perseveranza. Ma anche col sostegno delle istituzioni del dominio, la Chiesa e il Re.  A trent’anni sposa la figlia del più importante esponente del clero oristanese, Zaccaria Porcella, un uomo di legge che si è fatto sacerdote dopo la morte della moglie. Anche grazie al suo sostegno vince l’appalto per la gestione dei beni ecclesiastici  e la riscossione delle decime; l’Arcivescovo di Oristano per ricchezza è all’altezza di quello di Cagliari e molto al di sopra di tutti gli altri prelati sardi.  Per qualche tempo la curia oristanese è stata quanto di più simile potesse allora esistere a un centro di opposizione al nuovo regime nato con l’assegnazione del Regno di Sardegna ai duchi di Savoia. Solo l’intermediazione del potente cardinale Agostino Pippia, un seneghese che è stato segretario della Congregazione dell’Indice e Generale dei domenicani, consente di superare le incomprensioni. Il primo vescovo piemontese, il nobile don Luigi Emanuele del Carretto, arriva nel 1746; piemontesi saranno i suoi successori sino alla fuga del Cusani in seguito all’insurrezione del 1794.  Il nuovo arcivescovo è anche un esecutore della politica sarda pensata a Torino: una delle esigenze ritenute più urgenti è quella di individuare nella società sarda delle figure giovani, persone capaci, da legare ai propri interessi e quindi sostenitori del nuovo regime.  Monsignor del Carretto individua in Damiano Nurra l’uomo giusto. Nel 1749 ottiene l’entrata nella nobiltà insieme alla gestione della Tappa di insinuazione, archivio dei documenti notarili del distretto di Oristano. Subito dopo nasce il progetto di ascesa nella nobiltà feudale. Nurra accompagna l’Arcivescovo a Torino e qui viene conclusa la trattativa che porta nel 1767 alla vendita da parte della corona delle rendite del Marchesato, con l’aggiunta del titolo di marchese d’Arcais. Precedentemente Damiano Nurra aveva avuto queste rendite in appalto per decenni insieme a una cordata di notabili oristanesi. Ora ne che è il titolare esclusivo esercita la riscossione in modo sempre più stringente e severo. Questa politica, che è allo stesso tempo di restaurazione feudale e di modernizzazione, provoca la ribellione delle comunità del Marchesato. E’ soprattutto il ceto di contadini benestanti che andava crescendo nella nuovo realtà del Settecento, allo stesso tempo climatica, demografica, economica e  sociale, a guidare la resistenza, sia legale, sia di confronto talvolta violento.  L’instabilità è accresciuta anche dal movimento di chiusura delle terre, sostenuto e sollecitato dall’astrattezza teorica della fisiocrazia, ma anche dalle esigenze reali proposte da produttori desiderosi di affermazione e di confronto con i mercati. Si va dalle legittime chiusure autorizzate dei terreni di medi proprietari, ai tentativi di recintare grandi estensioni di terre da parte di potenti notabili che godono la protezione del Governo. E’ quanto si verifica a Milis ad opera di don Pietro Vacca e nelle campagne attorno ad Oristano.

E’ qui che avviene l’episodio che intendiamo raccontare.  Il 5 giugno dell’anno 1793 la popolazione di Silì, piccolo borgo addossato a un’ansa della riva sinistra del Tirso, a quattro chilometri da Oristano, si raduna in massa davanti alla casa del Sindaco e con lui si dirige verso la palude prosciugata di Matta Uri. C’è tutta la popolazione: come avviene nelle manifestazioni popolari di antico regime, che possono costare anche la vita agli organizzatori e ai partecipanti, in prima fila stanno le donne e i bambini, protetti dall’immunità dell’età e del sesso. La partecipazione è molto sentita; gli abitanti di Silì rischiano di perdere una cosa molto preziosa. La palude di Matta Uri è un tratto pianeggiante che viene allagato dal fiume durante le piene. Dopo che le acque si sono ritirate e il terreno si è asciugato, l’estensione della palude fertilizzata dal limo viene divisa in lotti e assegnata per le coltivazioni dell’estate, meloni, verdure, legumi. A chi appartiene questa palude? E’ la grande questione che si pone in Sardegna per decenni tra Settecento e Ottocento, la stessa di oggi nell’Africa del land grabbing: l’appropriazione selvaggia della terra che le comunità locali hanno sempre considerata come propria. La teoria dominante sostiene che tutto appartiene al re. E’ lui a concedere in uso i terreni da coltivare ai singoli e alle comunità ed è sempre lui a garantire la proprietà quando questa è consolidata e accertata. Il re è arrivato alla conclusione che ciò che può ricavare da questi beni in termine di rendite, tasse, affitti, può decisamente crescere se le terre vengono sfruttate con un’agricoltura intensiva. Per questo si dovrebbe passare per un processo di chiusura, privatizzazione, godimento esclusivo.  A Silì invece, e in Sardegna in generale, sulle stesse terre accampano diritti sia i contadini che i pastori, liberi di utilizzare i terreni prima e dopo la semina  e il raccolto.  Qui, come negli altri villaggi sardi, si è arrivati a un compromesso: i funzionari del re autorizzano formalmente un’attività agricola che i contadini locali continuano ad esercitare negli stessi modi praticati da secoli. Ma a fine Settecento compare sulla scena un nuovo personaggio, l’aspirante borghese “imprenditore”.  E’ una figura nuova, ben diversa dal piccolo notabile, nobile o aspirante alla nobiltà, l’hidalgo di paese dei tempi della Spagna. E’ avido e spregiudicato, capace di usare le relazioni sociali come l’imposizione violenta della propria volontà. A Oristano l’ascesa spettacolare di Damiano Nurra costituisce il modello di riferimento, ma non è il solo. Altrettanto impressionanti era stata nella generazione precedente l’ascesa e l’arricchimento del mercante Pietro Ibba, socio anziano del Nurra negli appalti, che l’intendente di Viry definisce nel 1743 l’uomo più ricco della città. Questa ricchezza si basa in gran parte sul contrabbando di ogni tipo di merce, consentito dalla corruzione diffusa dei funzionari. A una generazione successiva appartiene Giuseppe Carta, un oscuro avvocato, cresciuto anche egli con il contrabbando e gli appalti, “un pescecane del suo tempo”, lo definisce il Pola. Gli abitanti di Silì hanno a che fare con un personaggio che non ha avuto altrettanta abilità o fortuna. Il notaio Giovanni Antonio Fadda è benestante, ha una casa degna vicino alla chiesa di santa Chiara e un reddito che lo colloca al vertice della piramide dei cinquanta notai e consulenti legali della città. E’ ben lontano però dal livello raggiunto dal notaio Serafino Angelo Pistis, venuto giovanissimo ad Oristano da Riola per porsi al servizio di Damiano Nurra. Dopo la morte di quest’ultimo Pistis si stacca dagli Arcais per mettersi a disposizione del Vicerè Balbiano. E’ a lui che il Governo fa riferimento quando scoppia il caso della palude di Silì.  Qui il notaio Fadda aveva ottenuto dal demanio regio il diritto di coltivare un terzo dei terreni che sovrabbondavano rispetto alle esigenze del paese.  Constatata la fertilità di quelle terre e intascato il guadagno, il notaio Fadda progetta di impadronirsi di tutta l’area della palude. Naturalmente non è lui a gestire in prima persona la coltivazione delle terre. Peregrinando per i villaggi della piana di Oristano, Fadda va alla ricerca di contadini senza terra interessati ad affittare terreni da coltivare e non ha difficoltà a trovarne. Avvisa però i contadini che potrebbero avere qualche difficoltà con gli abitanti di Silì, per cui consiglia loro di recarsi nel campi armati di fucile. Per riuscire a fare propria la palude deve però  riuscire a indirizzare in suo favore le decisioni della comunità. Per fare questo fa eleggere nel Consiglio Comunitativo uomini di fiducia che votano la concessione a suo favore di una parte del territorio conteso. La comunità ignara, trovatasi davanti al fatto compiuto, tenta dapprima le vie legali. Sembra che il reclamo presentato a Cagliari abbia successo: il notaio Pistis viene nominato rappresentante dell’Intendenza e incaricato di recuperare le terre e gli affitti. Ma il Fadda ha conoscenze a Cagliari e soprattutto ha legami stretti con il veghiere di Oristano don Giomaria Mura. Ignora ingiunzioni e sollecitazioni, sostenendo di avere l’autorizzazione necessaria.

Ai primi di giugno i terreni si sono asciugati ed è tempo di arare. La mattina di mercoledì cinque giugno il Fadda dà appuntamento ad alcuni braccianti agricoli con buoi e aratro. Sfida gli abitanti di Sily passando disarmato a cavallo nella strada principale. Poche ore dopo una folla composta in prevalenza di donne lo raggiunge sul campo. Si gettano su di lui con le corde pronte, lo legano e si preparano a condurlo in paese dal Maggiore di giustizia come un delinquente. Quando lui e un suo amico protestano, le donne accettano di slegargli le mani, gli mettono la corda intorno alla vita  e lo trascinano in paese come un animale da fatica.  Davanti alla casa del maggiore di giustizia la folla cresce di numero. Arriva il sindaco e viene messa in scena una finzione che si ripete di frequente in un tempo in cui si poteva essere condannati a morte per aver guidato una dimostrazione di popolo: la folla urla che il delinquente catturato, il notaio Fadda, deve essere condotto alle prigioni di Oristano e processato per tutte le sue malefatte. Se il Sindaco si rifiuta di mettersi in prima fila nel corteo che porta il prigioniero in città giurano di ammazzarlo. Il Sindaco accetta e si mette in marcia verso la città, scortato stavolta non più da donne ma da una cinquantina di uomini armati protetti dalla sua autorità. Il corteo sfila lungo la strada che attraversa il Borgo dei Balli prima di entrare nella  città murata. La gente si affaccia alle porte di casa, il notaio ha modo e tempo di scambiare qualche battuta con le madri di famiglia che lo compassionano. Il prigioniero varca Portixedda e arriva infine alle carceri di Oristano, ospitate in ciò che resta dell’antico palazzo dei Giudici. Nel cortile del carcere cinquanta uomini armati di fucile presentano il prigioniero al carceriere e al Sostituto Procuratore Fiscale, Giuseppe Maria Casu, rappresentante degli interessi del Demanio a Oristano: eccovi il delinquente, attestatelo.  I due non sanno cosa fare, per cui si rivolgono all’autorità superiore, don Giomaria Mura, che ricopre l’ufficio di Veghiere, sintesi del potere esecutivo e giudiziario, una sorta di Prefetto e Presidente di Tribunale  allo stesso tempo. E’ parente e amico del Fadda e lancia una sorta di allarme generale: ordina che le porte siano chiuse e che vengano tenuti in carcere sia il Fadda sia il Sindaco e i consiglieri di Sily. Ma questi risultano introvabili quando comincia la reazione, condotta, più che dalle autorità, dalla “giustizia” privata di familiari e clienti. I figli del notaio Fadda chiamano a raccolta i loro amici e un gruppo di gente armata va alla caccia dei siliesi. Penetrano nelle case, perquisiscono, minacciano. Un altro gruppo parte a cavallo verso Silì, spara in aria nelle strade del paese per terrorizzare la popolazione. Il notaio Fadda viene liberato e se ne torna a casa, così come fanno i manifestanti di Silì.

Calmatisi gli animi, arriva il turno dei ricorsi, degli avvocati e delle carte bollate.  Per averla vinta è indispensabile demolire la buona fama dell’avversario, il patrimonio più prezioso di un uomo in quel tipo di società. I suoi avversari accusano il notaio Giovanni Antonio Fadda dei peggiori misfatti, dall’omicidio al tentato omicidio, all’abuso di potere nell’esercizio dell’incarico di Ufficiale nel Campidano Maggiore, carica che comporta i delicati compiti di gestione dell’ordine pubblico e della giustizia. Ma l’accusa per noi oggi più interessante è un’altra: il Fadda sarebbe stato il “mandante della ribellione della comunità  di Nuraqui accaduta nel giorno 11 dello scorso febbraio , essendosi detta comunità avanzata all’eccesso di gridare pubblicamente e ad alta voce  “Viva la libertà francese”. L’accusa è gravissima: l’11 febbraio coincide con il giorno dello sbarco delle truppe rivoluzionarie francesi, inviate a conquistare la Sardegna, sulla costa di Cagliari. La vicenda di Silì avviene quindi a pochi mesi di distanza dalla vicenda clamorosa che dà inizio al triennio rivoluzionario. La mobilitazione di tutta la Sardegna, l’arruolamento di migliaia di miliziani, la convocazione degli Stamenti, le riunioni e la formulazione delle cinque domande, sono vicende notissime. In questo caso abbiamo un’eco del clima vissuto nell’oristanese nel corso dei primi mesi del 1793. Cosa di preciso sia avvenuto a Nurachi non sappiamo. Può essere che, per compromettere l’avversario, a una vicenda privata sia stato attribuito un significato stravolto. Appare assurdo che in un giorno di mobilitazione generale antifrancese si possa inneggiare alla sua libertà in un piccolo paese del Campidano di Oristano. Ed è curioso che chi ha manifestato armi in pugno con gesti “rivoluzionari” accusi la vittima dell’aggressione di adesione alle pericolose idee d’oltralpe. Ma non c’è da meravigliarsi: il Fadda esprime con la sua azione la realtà nuova di modelli economici e sociali che si propongono di superare la vecchia società sarda. La situazione conflittuale nell’oristanese sarebbe sfociata nei moti dell’agosto 1794, quando la popolazione della città dà l’assalto alla casa del Commendatore Giuseppe Carta e nelle campagne del Campidano Milis si distruggono i muri divisori delle tanche  e si bruciano le carte di concessione delle chiusure.  Nelle terre del Marchesato la rivoluzione sarda si manifesta con vicende che anticipano i temi della rivolta antifeudale guidata due anni dopo da Giomaria Angioj. Anche ad Oristano compare una situazione di grave tensione tra le autorità locali e il drappello di dragoni di guarnigione in città, in buona parte piemontesi, comandati da Monsieur Bava. I soldati sono accusati di richieste esagerate, imposte con prepotenza, e di furto di letti e suppellettili dalle case in cui sono ospitati. Alle proteste per il comportamento dei soldati che si sono scontrati col capo della ronda notturna cittadina, il loro comandante Monsieur Bava risponde che niente gli importa di quanto dicono i “sardi molenti”. Quando viene sostituito dalle autorità cagliaritane, il suo successore è altrettanto arrogante nel pretendere una sistemazione in una casa degna di lui. E’ comprensibile che “sa die de s’acciappa” cagliaritana abbia avuto quindi ripercussioni importanti anche ad Oristano.

 

Bibliografia:

Archivio di Stato di Cagliari, Segreteria di Stato, Seconda serie, volume 1867, fascicolo n° 6.

Dizionario Angius-Casalis alla voce “Oristano”.

Pierpaolo Medda: La “fronda” oristanese dell’estate del 1794”, Bollettino dell’Archivio Storico del Comune di Oristano, n° 6 giugno 2011, pp. 139-158.

 

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