SARDEGNA e CATALOGNA, vicende storiche ed attualità a confronto. Intervista (1) a CHRISTIAN SOLINAS, segretario del PSd’Az, di Pier Sandro Pillonca

L’EDITORIALE DELLE DOMENICA,  Le interviste della  FONDAZIONE.

Questo sito ha seguito e commentato con costanza ed attenzione la vicenda catalana perché considerata esemplare della questione dei popoli senza stato, che cercano la propria realizzazione istituzionale all’interno dell’Europa…proponendosi di raggiungere l’obiettivo attraverso il metodo democratico. Le elezioni della Generalitat catalana del prossimo 21 dicembre rappresenteranno la riedizione finalmente libera di  un referendum boicottato dalle forze dell’ordine spagnolo. Nessuno, nella situazione presente – con una significativa parte della dirigenza indipendentista catalana in prigione o in ‘esilio’ – è in grado di prevederne l’esito. Di sicuro esso sarà importante per tutti.

Questo sito, con i giornalisti che compongono l’associazione che lo promuove, ha dato appuntamento ai politici ed ai militanti più impegnati nella vicenda autonomistica-sovranista-indipendentista della Sardegna ad un incontro seminariale, che si svolgerà nella settimana tra il Natale e il Capodanno,  in vista di un approfondimento collettivo di quell’esperienza.

Al fine di alimentare il confronto – sicuramente più ampio di quelli sollecitati nei servizi di altri organi di stampa ed audio televisivi –la redazione di questo sito ha deciso di intervistare le figure significative delle organizzazioni politiche più vicine ed interessate a queste tematiche (S. C.).

Iniziamo con l’on. Christian Solinas, segretario del Partito sardo d’Azione, che viene intervistato da Pier Sandro Pillonca.

La vicenda catalana è destinata a rappresentare, nel bene e nel male, uno spartiacque per i movimenti e i partiti indipendentisti di tutta Europa. Niente sarà più come prima, cosa cambia per le aspirazioni delle forze che si battono per l’autodeterminazione?

I fatti della Catalogna assumono un valore paradigmatico, in positivo e in negativo. Da un lato, evidenziano una consapevolezza popolare diffusa che ha permesso ai partiti indipendentisti catalani di avere la maggioranza assoluta prima nel Parlamento e poi nel Governo. Dall’altro, ha certificato che in questa Europa, per come è congegnata, non c’è spazio per il diritto all’autodeterminazione dei popoli. L’Unione Europea non ragiona come un’entità plurinazionale, i suoi confini continuano ad essere quelli disegnati dai trattati di pace del dopoguerra che non rappresentano più la situazione reale del Continente.

 

Unione Europea e Stati Uniti si sono ufficialmente schierati dalla parte del governo Rajoy. Altrettanto hanno fatto Italia, Francia, Germania e Inghilterra. Ve lo aspettavate?

Un grande intellettuale sardista, Antonio Simon Mossa, aveva prefigurato questa situazione in tempi non sospetti. Negli anni ’60, discorrendo a Santulussurgiu sulle ragioni dell’indipendentismo, disse con chiarezza quali fossero i grandi limiti strutturali di questo disegno europeo: un progetto fondato su basi economiche e tecnocratiche che non riconosce l’Europa vera, quella politica, fatta dai popoli e dalle etnie. Temevamo un esito di questo tipo. Personalmente mi ha colpito la violenza con la quale è stato affermato questo principio.

 

Il sogno di un’Europa dei popoli è definitivamente tramontato con i fatti di Barcellona?

Non credo. L’esito della vicenda catalana fa emergere con chiarezza che l’Europa va rifondata ponendo al centro i cittadini e non le tecnocrazie. Solo così si potrà favorire un vero processo di integrazione. Noi sardisti non vogliamo la separazione o l’isolamento. Siamo convinti che ci dobbiamo integrare a livello europeo ma ciascuno con la consapevolezza di essere un popolo. Questo è il grande valore aggiunto dell’Europa, esistono tanti popoli, tante culture, tante tradizioni che si incontrano ciascuna con la propria libertà.

 

Contrariamente a quanto avvenuto nel resto d’Europa le istituzioni della Sardegna, Consiglio e Giunta, hanno espresso solidarietà alla Catalogna. Lo stesso hanno fatto tutti i movimenti di area nazionalitaria. Giudica sufficiente questa presa di posizione?

Viviamo un tempo in cui è difficile affermare certi concetti senza correre il rischio di essere fraintesi. Noi abbiamo dei valori storici in cui crediamo, abbiamo un profondo rispetto della dignità umana e della libertà. Per questo ho proposto in Consiglio regionale un ordine del giorno di solidarietà alla Catalogna e ho votato, con convinzione, quelli presentati da altri colleghi. Qualcuno ci ha accusato di andare in soccorso di un popolo che in passato ci ha invaso e dominato. Il problema è proprio quello: se un errore fecero i conquistatori, noi oggi, in condizioni diverse, non dobbiamo commettere lo stesso errore: abbiamo il dovere di essere solidali come popoli, perché il principio di libertà e autodeterminazione è irrinunciabile. E’ una garanzia per tutti.

 

Che riflessi avrà l’esito della vicenda catalana nello scenario politico sardo, favorirà le posizioni neounioniste o invece rafforzerà le istanze indipendentiste-sovraniste?

Credo che costringerà il rivendicazionismo e l’indipendentismo ad un affinamento della strategia. C’è un lungo percorso da fare: per raggiungere l’indipendenza politica, occorre prima conquistare quella economica e culturale. L’obiettivo sarà centrato solo quando ogni cittadino sarà davvero libero di poter scegliere il proprio destino. Non credo che si possa ritenere libero chi oggi dipende economicamente dal sussidio o dall’aiuto statale. Il grande obiettivo dell’indipendentismo europeo e mondiale è quello di costruire un miglioramento complessivo della condizione economica dei propri cittadini. Per il Partito Sardo d’Azione va riparametrata la strategia proponendosi al popolo sardo come forza politica rassicurante, affidabile, che dia buona rappresentazione di sé nel governo. I sardi devono poter credere che scommettendo sulla nostra opzione saranno ben amministrati.

 

La Catalogna ha scelto la via della dichiarazione unilaterale di indipendenza. Questa scelta è quella giusta o, come sostengono molti osservatori, sarebbe stato meglio intraprendere un percorso costituzionale?

Noi siamo per le soluzioni pacifiche, crediamo che le guerre non siano lo strumento per la soluzione dei conflitti, il percorso istituzionale è quello che va privilegiato. Semmai, vista l’esperienza catalana, ci rendiamo conto che se non vi è un consesso internazionale pronto a ricevere queste istanze si rischia di fare più danni. I tempi, nella politica come nella vita, sono molto importanti: cogliere il frutto prima che sia maturo riserva un retrogusto acerbo. La costruzione dell’indipendenza passa attraverso un percorso economico e culturale e attraverso una condivisione da parte della comunità internazionale. Negli ultimi decenni si sono formati altri stati, ma tutte le volte vi è stata una preparazione diplomatica all’altezza della sfida.

 

Proviamo ad immaginare uno scenario simile a quello catalano in Sardegna. Quale sarebbe, in questa fase storica, la reazione dello stato italiano?

Lo stato italiano, in altri tempi, è stato capace di azioni forti e violente, basta ricordare i fatti di Bronte o quelli di Buggerru. Credo però che ci sia una differenza sostanziale tra la nostra situazione e quella iberica: la Spagna è ancora una monarchia costituzionale, l’Italia ha fatto una scelta repubblicana e democratica irreversibile, non penso che ci sarebbe una contrapposizione violenta. Mi aspetterei comunque una reazione statuale assolutamente contraria e avversa, se non altro per un principio di autoconservazione. In questo può essere molto utile la lezione dei padri fondatori del Partito Sardo d’Azione, Bellieni e in parte Lussu. Quando loro parlavano di autonomia assoluta la vedevano sempre in un quadro di ricomposizione internazionale federale. Bellieni era stato molto influenzato dal pensiero di Spinelli e dagli altri sottoscrittori del manifesto di Ventotene. Aveva in testa, quando ancora nessuno ne parlava, gli Stati Uniti d’Europa. Noi crediamo che si debba tornare ad approfondire la via del federalismo come strumento per individuare tante patrie con una propria soggettività nazionale ed internazionale. Non c’è solo la fase della rottura ma anche quella della ricomposizione che può essere maggiormente affidabile e rassicurante.

 

Il 21 dicembre prossimo, dopo lo scioglimento del Parlamento, la Catalogna tornerà alle urne. Che previsioni si possono fare?

Il voto presenterà alcune criticità: da una parte radicalizzerà la militanza, dall’altra, invece, i partiti indipendentisti rischiano di perdere una quota importante dell’elettorato moderato che si era avvicinato all’indipendentismo di governo.

 

Contrariamente a quella catalana, la situazione sarda non sembra interessare i grandi media. In questi giorni la Sardegna è stata cancellata dalle cartine che rappresentano i fermenti indipendentisti europei. Debolezza della proposta o sottovalutazione da parte dei giornali?

Non credo sia un caso. Ci sono due ragioni: la prima è l’eccessiva folclorizzazione della proposta che ha portato i partiti più responsabili e governativi ad ammorbidire le proprie posizioni. La seconda è che la Sardegna non entra più nei radar dei media nazionali e internazionali perché da tempo ha adottato una scelta non violenta. Credo che questa opzione vada rafforzata, occorre dare un’immagine credibile, rassicurante,  puntare su un modello alternativo con uno sbocco possibile. Fare dell’indipendentismo un semplice slogan, oltre che un esercizio sterile, rischia di diventare pericoloso.

 

A Barcellona i partiti indipendentisti marciano insieme, in Sardegna regna invece il frazionismo. La lotta catalana ha visto una grande partecipazione popolare, cosa che è mancata da noi. Perché sul principio di autodeterminazione non si riesce a mobilitare le grandi masse?

Credo che il principale fattore sia il ritardo nel raggiungimento di un’indipendenza culturale. La Catalogna ha costruito attorno a una lingua una consapevolezza popolare diffusa. Noi ancora riusciamo a dividerci sulle politiche linguistiche, non si riesce a comprendere che la lingua è un elemento fortissimo di identità attorno al quale costruire un punto di partenza culturale. In secondo luogo c’è una forte responsabilità politica: i partiti hanno smesso di fare il loro mestiere, non sono più presenti nel tessuto sociale come lo erano un tempo. In Catalogna abbiamo un esempio importante, sono nate le associazioni di categoria per l’indipendenza, ci sono sindaci indipendentisti, avvocati, manager. In ogni settore si è costruita una condivisione. Qui purtroppo quel che vedo è la tendenza di qualcuno a voler mettere sulla propria giacca qualche gallone di merito senza capire che il problema non è chi arriva prima ma quanto riusciamo a coinvolgere la società sarda rispetto a questi temi.

 

Gli intellettuali unionisti rimproverano proprio questo allo stato spagnolo: aver lasciato troppa autonomia alle istituzioni di Barcellona in ambito scolastico e formativo. In Sardegna questo aspetto è stato invece trascurato per decenni. Non si è mai creduto alla lingua come strumento di conquista dell’egemonia culturale.

Qui c’è una responsabilità diffusa in capo ai partiti e alle istituzioni culturali. A me fa specie che una larga parte delle Università sarde, finanziate con importanti risorse dalla Regione per compensare le mancate entrate statali, abbia per larghissimi tratti quasi ridicolizzato la questione della lingua. Oggi è più facile trovare corsi di sardo nelle università tedesche che in quelle isolane. Rinunciare alla lingua significa rinunciare al fondamento stesso del nostro essere. Uno dei più grandi best seller scritti nella storia dell’uomo inizia dicendo che in principio era il verbo, il verbo è anche creatore. E’ chiaro che ci manca un principio creatore se rinunciamo al verbo sardo.

 

Un altro punto su cui si gioca lo scontro tra stati centrali e periferia è quello finanziario. La Catalogna, regione più ricca della Spagna, reclama spazi più ampi. La Sardegna, regione tra le più povere d’Italia, si batte da anni per il riconoscimento dei propri diritti. Il governo non risponde, anzi: ha da poco impugnato la legge che istituisce l’Agenzia sarda delle entrate, non rispetta gli accordi sulle compartecipazioni erariali, chiede alla Sardegna uno sforzo immane sugli accantonamenti. Che fare?

Ne siamo fermamente convinti. L’asticella dello scontro istituzionale va sollevata, andava sollevata. Lo abbiamo denunciato a più riprese in Consiglio regionale quando la Giunta decise di sottoscrivere l’accordo sulle entrate fiscali ritirando i ricorsi davanti alla Corte Costituzionale. Sulle stesse vertenze, altre regioni sono andate fino in fondo e hanno risolto il problema perché hanno visto riconosciuto il loro diritto a trattenere gli accantonamenti. E’ successo in Valle d’Aosta e la stessa trattativa fatta dal Trentino Alto Adige ha consentito di chiarire che il concorso delle specialità rispetto al risanamento delle finanze pubbliche trova un limite. Poi ci sono altre questioni tecniche da chiarire.

 

Cioè?

Occorre andare a verificare nei dettagli il metodo di calcolo delle compartecipazioni su Iva e Irpef. E’ una questione complessa che però determina la capacità di spesa della Regione. Pochi sanno che i 7/10 di Irpef vengono calcolati sull’imposta netta. E’ lo stato italiano che decide detrazioni e deduzioni. Esempio: nelle regioni a statuto ordinario gli oneri per le ristrutturazioni sono a carico dello stato che rinuncia alle proprie entrate, in Sardegna le paga per i 7/10 la Regione. Lo stesso accade nel sistema di calcolo dell’Iva. A noi non spettano i 9/10 dell’Iva generata in Sardegna ma i 9/10 decimi calcolati sulla base dei consumi delle famiglie.  Questo indicatore tiene conto dei flussi turistici? Ci sono una serie di ragionamenti vitali da approfondire. L’optimum sarebbe ribaltare il criterio: raccogliere con l’Agenzia sarda delle entrate il prelievo fiscale e trasferire le quote a Roma. Questo porterebbe a sfatare alcuni miti. Sento da più parti parlare di residuo fiscale, di Regione Sardegna che vive sulle spalle dello stato italiano. Ebbene, anche lì ci sono una serie di semplificazioni piuttosto grossolane: quando si va a calcolare il residuo fiscale non si tiene conto che qualora avessimo una finanza tutta nostra le quote di compartecipazione che noi versiamo resterebbero per intero in Sardegna, non i 7/10 ma i 10/10 di tutto. Non è inoltre calcolato il fatto che il sistema sanitario e quello dei trasporti sono a totale carico della Regione.

 

I fatti catalani, secondo alcuni, anziché ridare fiato alle aspirazioni indipendentiste, potrebbero invece rafforzare in Sardegna l’opzione autonomista. Alcuni acuti osservatori hanno letto così l’iniziativa del referendum per il riconoscimento del principio di insularità. E’ così?

Noi sardisti, lo ribadisco, vediamo l’indipendenza come un percorso. Fino a che non sarà definito, bisogna adottare una strategia per evitare di rimanere sospesi nel tempo e nello spazio. Occorre pensare ad azioni concrete, direi quasi pragmatiche. Oggi, a livello internazionale, viviamo una  fase post-ideologica. Il tramonto delle grandi ideologie ottocentesche ha provocato un disorientamento complessivo generando reazioni diverse: da un lato ha lasciato campo alla protesta con il proliferare di fenomeni neo civici, dall’altro ha riscoperto uno spazio identitario. In questo spazio c’è, a mio avviso, un risveglio delle istanze indipendentiste e autonomiste. E’ la reazione della società contemporanea alla globalizzazione, fenomeno che non si riesce più a governare. L’affermazione dell’insularità è un momento, se vogliamo, di riscoperta di temi già più volte affrontati. Il fatto che la Sardegna sconti gli svantaggi dell’insularità è presente in Costituzione e nei trattati europei. Lo stesso articolo 13 dello Statuto di autonomia della Sardegna, che è legge costituzionale, riconosce i deficit strutturali della nostra isola. E’ stata questa la norma sulla quale si è costruito il Piano di Rinascita. Non dobbiamo per questo rifugiarci in battaglie di retroguardia. Non vogliamo elemosine da nessuno, vogliamo essere messi nelle condizioni di poter competere alla pari.

 

Se il percorso deve essere graduale, la necessità di buone pratiche per l’indipendenza si fa ancora più stringente. Ai partiti nazionalitari si rimprovera di trascurare questo aspetto tra un’elezione e l’altra…

Il tema è annoso e complesso allo stesso tempo. La posizione del Partito Sardo d’Azione viene vissuta in alcuni casi come unionista, in altri come filogovernativa. Penso che l’indipendenza si costruisca rendendola credibile. Se la limitassimo alla testimonianza senza rappresentanza noi avremmo sicuramente sempre una quota di sardi assolutamente convinti ma, temo, mai sufficiente per realizzare l’obiettivo. L’esercizio del buon governo da parte delle forze indipendentiste è uno strumento indispensabile per creare l’abbrivio giusto. Ecco perché il Psd’Az da anni cerca, con accordi strettamente ancorati a punti programmatici, di costruire esempi di governo positivi.

 

Le ultime “collaborazioni” con i poli italiani non hanno però permesso di raggiungere i risultati sperati. Questo non rischia di rallentare il processo di autodeterminazione?

E’ chiaro che questo espone a un rischio oggettivo di perdita di consenso,  ma le regole del gioco purtroppo non le decidiamo noi. L’alternativa è tra testimoniare o governare. Noi, per lungo tempo, ci siamo presi carico di cercare di fare sintesi tra queste due opzioni. E’ vero, non sempre si riesce a portare a casa un risultato. Mario Melis è considerato il presidente della Regione per antonomasia, diede forma a un governo regionale facendo alleanze con i partiti che allora occupavano gli spazi istituzionali. Non si pose mai il problema “questo è un partito italiano, questo è un partito sardo”. Puntava invece a un programma che mirasse al benessere della Sardegna. Qualcosa è riuscito a fare, quella è stata la legislatura che, nella storia dell’autonomia, ha espresso il maggior numero di norme coordinate e di discipline di settore, ha fatto tante cose: dal Corpo forestale alla continuità territoriale. Su molte altre ha pagato purtroppo un prezzo salatissimo: brucia ancora la legge sulla lingua affossata sul finire della legislatura o la legge sulla zona franca non portata a compimento. Tutto questo però rappresenta oggi un patrimonio culturale, ideale, programmatico che il Partito sardo d’Azione generosamente ha messo a disposizione dell’intero sistema politico sardo.

 

Questo sardismo diffuso non riesce però a fare massa critica. Che cosa impedisce a queste aspirazioni di stare insieme? Qual è l’ostacolo?

Non c’è nessun ostacolo reale, concreto. Noi sardisti, avendo quasi un secolo di vita e rappresentando un pezzo di storia sarda, abbiamo una responsabilità in più rispetto agli altri. I temi del sardismo rappresentano un patrimonio ideale che appartiene a tutti. Nessuna forza politica si dichiara antisardista, l’idea è molto più ampia del Partito sardo d’Azione. C’è bisogno di ricomporre il quadro. No c’è più l’esigenza di contaminare tutti come quella che aveva il Psd’Az negli anni ’80. Una volta raggiunto il risultato, il problema è ritracciare il perimetro politico. Come si fa? Noi stiamo cercando faticosamente di riaprire le porte partendo dagli intellettuali, dal mondo della cultura, da quei partiti nati dalle diaspore sardiste.

 

Il Psd’Az, rispetto ad altri partiti e movimenti, detiene il brand del sardismo. I quattro mori sono, comunque la si pensi, un forte fattore di richiamo. Con la forza di questo brand siete pronti ad assumere il ruolo di partito guida per ricomporre il quadro e dare un’alternativa di sviluppo alla Sardegna?

Noi abbiamo consapevolezza di tutti i nostri limiti. Abbiamo però la certezza che le nostre ragioni sono più grandi di noi, non possiamo non lavorare per affermare questo progetto di ricomposizione. Lo stiamo già facendo. Come? Stiamo cercando, in tempi non sospetti, lontano dalle elezioni, di proporre un grande campo identitario che metta insieme i cocci del sardismo diffuso per guidare un progetto di riscatto nell’Isola. In questa direzione va la nascita del polo civico sardista che per il momento comprende noi, La Base e Fortza Paris.

 

Uno dei limiti dei movimenti e partiti nazionalitari è quello di aver mutuato modelli organizzativi dai partiti italiani. Leaderismo e frazionismo sono malattie della politica italiana che colpiscono in larga parte anche voi.

Rivendico con forza, in questo senso, l’esempio del mio partito che esisteva prima di me ed esisterà dopo di me. Il Psd’Az ha regole democratiche che consentono una militanza non leaderistica. Anzi, se dovessi dire tutta la verità, siamo il partito antileaderistico per eccellenza, anche un po’ anarchico. E’ difficile che si riconosca un leader, ed è un bene perché chi arriva a fare il segretario non rappresenta se stesso ma un’idea. Noi rappresentiamo tutto il continuum di persone che in questi 100 anni hanno riflettuto, scritto, regalato grandi contributi allo sviluppo della Sardegna e, in alcuni casi, hanno dato la vita per queste idee. E’ vero però che il leaderismo ha contagiato molti anche in Sardegna e che questo genera un frazionamento progressivo, una malattia veramente drammatica che andrebbe combattuta con decisione.

 

Il rimedio?

Un progetto alternativo per la Sardegna.

 

Basato su che cosa?

Noi non possiamo competere sulle produzioni di beni o servizi che siano ripetibili ovunque perché esisterà sempre, da una parte del mondo, chi riuscirà a produrre le stesse cose a costi inferiori. Il nostro petrolio è rappresentato dalle unicità della nostra terra: l’ambiente, il paesaggio, la cultura, le tradizioni, il patrimonio materiale e immateriale del saper fare dei sardi. Questo ci rende unici ed appetibili nel mondo. Pensiamo alla lingua, all’artigianato artistico, all’enogastronomia, alle produzioni primarie. Piuttosto che esportare prodotti dovremmo importare consumatori di prodotti. Consumatori di cultura, di archeologia. Abbiamo 8000 nuraghi in Sardegna, quanti sono visitabili? Ci sono eccellenze come Barumini, patrimonio dell’Unesco, che ci dimostrano che con la cultura si può fare azienda che crea sviluppo territoriale. Oggi Barumini ha 110mila visitatori pur con le difficoltà di accesso dei trasporti ma ci sono anche i giganti di Monte Prama, Monte d’Accoddi, Santa Cristina, Goni. Serve un modello di sviluppo alternativo alla chimica di base e alla grande industria, fondato sul mettere a sistema il patrimonio materiale e immateriale della tradizione e della cultura e quello primario. Significa avere un modello alternativo in grado di risollevare tutta la Sardegna.

L’organizzazione mondiale per il turismo dice che nel 2020 ci saranno due miliardi di arrivi nel mondo. Di questi, un miliardo sta già in Europa e rappresenta da solo un decimo del Pil mondiale. Io credo che valga la pena cominciare a pensare a un modello differente di sviluppo.

 

Fino a che punto siete disposti ad arrivare per favorire l’unità delle forze identitarie? Questo sacrificio comporta anche l’ipotesi di una rinuncia ad alleanze elettorali con i poli italiani?

Nella storia del Partito Sardo d’Azione sono più le volte in cui ci siamo presentati da soli alle elezioni di quelle in cui abbiamo stretto alleanze. Proprio per questo ci permettiamo di dire che l’opzione sardista può essere invece la palestra di governo anche per le altre forze indipendentiste. Chi non ha ancora trovato cittadinanza nelle istituzioni per dimostrare la propria capacità di governo potrebbe trovare nel Psd’Az un valido punto d’appoggio. Siamo disponibili ad aprire le nostre liste a chi non vuole “compromettersi” con partiti unionisti o italianisti. E’ chiaro però che non siamo in grado di decidere da soli. La norma elettorale stabilisce regole non volute da noi. Dobbiamo pensare, se vogliamo vincere il gioco, di partecipare con quelle regole. Parleremo con tutti sulla base dei programmi. Poniamo tre condizioni: l’inserimento della tutela linguistica in Statuto, la gestione autonoma delle finanze per i comuni, la realizzazione della piena continuità territoriale a partire dall’annullamento della convenzione con Tirrenia. Siamo disposti a discuterne con chiunque anche con i Cinque Stelle. L’alternativa, che non è da escludere a priori, è andare da soli. Potremmo fare una gran bella figura ma, come diceva un famoso allenatore, portare a casa zeru tituli.


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