Dalla parte di Massimo Rastelli, ripensando a Giovanni De Francesco, di Gianfranco Murtas

 

Quando a Cagliari e in molti campi del continente Reginato conquistava il suo record di porta imbattuta e Gigi Riva replicava all’inverosimile i miracoli, e tutta la squadra rossoblù mostrava cosa voleva dire… essere squadra – la squadra che valorizza le individualità, non le opprime, ma pure vive di una linfa di comunione, grazie anche ad un signor allenatore quale era Manlio Scopigno, così fino allo scudetto, e prima e dopo – il nostro Massimo Rastelli (classe 1968, mitico ’68) giocava con la palla così come poteva un bimbo della sua età.

Poi la vita, e i ruoli e le responsabilità del lavoro. Gioca al calcio, semiprofessionista e quindi professionista, è apprezzato, s’impegna sempre al massimo… massimo di nome e di generosità, di lealtà verso il club che gli ha dato fiducia, verso i compagni con cui vuol divertire il pubblico la domenica. Parte dalla serie D, arriva alla A. Gioca in squadre di molte regioni, lui come accadrà al suo pupillo Pisacane: nella sua Campania e in Calabria, in Emilia e in Lombardia, in Toscana e nuovamente in Campania, Calabria e ancora in Lombardia, la sua carriera è un saliscendi territoriale penisolano, un turnover di maglie e anche di ranghi.

In poco meno di vent’anni consuma la sua onorevole carriera di calciatore, poi prende il patentino di allenatore e riparte con umiltà dalle serie minori e man mano scala di nuovo la montagna, anzi lo Stivale tutto (Portogruaro è in Veneto, quasi in Friuli), e poi ritorna alla sua fervorosa Campania. Viene da noi a Cagliari – l’Isola dopo la Penisola – due anni e passa fa, ci prende in B e ci riporta in A. Si fa ben volere, ha aspetti umani che ricordano quelli di Ranieri, ha il talento che basta per combinarsi e organizzare i talenti atletici che la società gli mette a disposizione, nelle strutture che sono allestite meglio che dai tempi di un altro Massimo. Il pubblico talvolta è impaziente, si dà forza (e prepotenza) col numero, per massa critica, e non riesce a selezionare. Forse è così, chissà.

Ma Rastelli da noi ha motivo di restare. E’ un signore che dà esempio di sportività. Che anche nel professionismo più avanzato è risorsa e non peso. Mi ricorda un suo conterraneo che dalla stessa Torre del Greco venne da noi, nell’Isola e a Cagliari giusto centocinquant’anni fa e ci restò fino alla morte, che arrivò quando egli era già molto anziano. Si trattava da Giovanni De Francesco, era stato un garibaldino; di solidissima cultura umanistica, latinista per diletto, aveva diretto il paramassonico “Corriere di Sardegna” e poi – era il 1871 – aveva fondato “L’Avvenire di Sardegna”, il quotidiano che per vent’anni aveva coperto lo spazio che sarebbe stato successivamente de “L’Unione Sarda”.

Da gran polemista era incappato, pressoché all’esordio del giornale concorrente, in un incidente: per una eccessiva alzata di toni contro uno dei comproprietari de “L’Unione”, l’onorevole Antonio Cao Pinna cioè – un cocchiano eletto nel collegio di Serramanna, poi legittimamente mosso da ambizioni proprie, perfino di un sottosegretariato -, era stato portato in tribunale e aveva perso per sentenza, dovendo quindi sacrificare perfino la sua tipografia, paradossalmente trasferendo i macchinari al giornale concorrente. Nel 1893 chiuse definitivamente il suo “Avvenire”, che a lungo s’era messo nel passo di neutralità fra gli storici antagonisti parlamentari Francesco Cocco Ortu e Francesco Salaris (e, dopo la morte di questi, Ottone Bacaredda). S’era dato a ricerche storiche, alla pubblicazione di qualche monografia – come “Un comune di montagna”, trattandosi di Villacidro (di cui conosceva tutto, passato e presente, il senatore Loru e il professor Todde, il Fulgheri e le sue associazioni e i suoi giornali) – e infine anche alla stampa di un bel periodico – “Il Mazziere” – ottimo contenitore di notizie sulla Cagliari e la Sardegna del primissimo Novecento. Ebbe un figlio, dalla moglie cagliaritana, De Francesco: era Ferruccio, avvocato e buon musicista e cantante lirico (si esibiva nella “Gialeto”, il cui teatro era nel viale Umberto, poi Regina Margherita), purtroppo morto giovanissimo, così colpendo e direi squassando per sempre l’animo del padre.

Amico dell’onorevole Pietro Ghiani Mameli, aveva creduto, Giovanni De Francesco,  nelle sue speculazioni, fra banche sarde e miniere tunisine. Aveva visto però crollare quelle illusioni – che invero avevano abbagliato molti, il Cocco Ortu stesso – nell’assalto agli sportelli del Credito Fondiario e della Cassa di Risparmio, nel 1887, fino al processo genovese per bancarotta dell’ex deputato-banchiere che aveva pagato fino in fondo le conseguenze delle sue arrischiate imprese e s’era consegnato, in solitudine e nottetempo, con dignità, alle guardie di Buoncammino, dopo esser andato a salutare la madre – che non avrebbe più visto – in quel di Isili. Gli restò amico, De Francesco, umanità accanto ad umanità.

Era un generoso Giovanni De Francesco, garibaldino di Torre del Greco. Chissà se abbia mai visto una partita di calcio. Il football giunse a Cagliari nel 1902, con quelle prime partite giocate, nella mezza primavera, con i marinai inglesi, ma anche fra rappresentative della nostra stessa università – un po’ di Medicina, un po’ di Legge – , in piazza d’Armi, con il pubblico ammirato che… ammirava, dai bordi campo o dal rondò di Buoncammino, destrezza e buona volontà di quei ventenni, Giorgio Ballerini fra essi.

Mi piace pensarlo presente, qualche volta, in quel decennio e poco più che ancora visse fra noi, fra quel 1902 e il suo fatale 1914 – quando, dopo mezzo secolo di Sardegna se ne andò nelle Valli permanenti –, presente e divertito. Avrebbe mai pensato che un suo compaesano torrese avrebbe portato, un giorno, nella sua stessa città d’elezione, stipati nel bagaglio dello sport, talento, impegno e lealtà, fortuna e sfortuna? E avrebbe mai pensato che, nel momento delle difficoltà, fossero a lui negati gli attestati di simpatia e prossimità, e gli auguri belli e certi di un rilancio rapido e duraturo?

 

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