Celebrato a Cagliari (ad iniziativa dell’Associazione Mazziniana Italiana e della Cesare Pintus) Randolfo Pacciardi, padre della Repubblica colpito dalla “damnatio memoriae”, di Gianfranco Murtas

 

«Pacificare la destra con la società e la sinistra con la nazione». E’ uno dei passaggi che più mi hanno colpito, fra quelli riferiti alla figura pubblica di Randolfo Pacciardi, della relazione che Mario di Napoli, presidente dell’Associazione Mazziniana Italiana ha tenuto lo scorso 18 settembre nel salone delle conferenze della Fondazione Sardegna (già Banco di Sardegna), davanti ad un pubblico attento quanto poche altre volte mi è stato dato di rilevare in circostanze simili. Un pubblico che poi è ripetutamente intervenuto con domande rivolte all’oratore per precisazioni biografiche circa il «maggior mazziniano del Novecento», come – riferendosi all’eroe della guerra di Spagna, al costituente e parlamentare di lungo corso ed allo statista degli anni postbellici nell’Italia degasperiana, – lo ha definito il prof. di Napoli.

Riassumere la lunga relazione, tutta a braccio e dunque avvincente anche per questo, non mi è facile, anche perché affidata, adesso, soltanto alla memoria. Perché poi indubbiamente nelle vicende di vita, e anche di vita pubblica, di questo patriota – lo chiamerei, senza retorica, così, e democratico nel senso pieno ed antico del termine – purtroppo non conosciuto dalle nuove generazioni, le stagioni di impegno sono state numerose e tutte di grande portata. Nell’agosto 1944 egli tenne un discorso (memorabile si sarebbe detto una volta), al teatro Brancaccio di Roma, poco dopo la liberazione della capitale e l’avvio, allora, della sequenza dei governi di CLN, cui il partito del quale era il segretario, quello repubblicano cioè, non partecipò per l’insuperata pregiudiziale antimonarchica ed antisabauda. Ma che, ovviamente, vigilò e in qualche modo accompagnò in un corso parallelo di fatica e testimonianza, nella fedeltà ai principi dell’antifascismo vissuti con limpida coerenza lungo il ventennio di dittatura, quando anche il PRI era stato costretto a portare la sua organizzazione di vertice in Francia, e in territorio francese celebrare diversi suoi congressi (così otto volte, nel decennio 1928-1938, fra Lione e Parigi, Annemasse e Saint Louis, per poi emigrare ulteriormente nell’Hampshire). Pari atteggiamento fu mantenuto nei confronti della Consulta Nazionale pur a presidenza Sforza – repubblicano senza tessera, anch’egli limpida coscienza antifascista costretta all’esilio per lunghi anni –, insediata a Montecitorio dal ministero Parri come Camera appunto consultiva del governo in materia legislativa. E peraltro va detto – notandosi l’importanza della cosa (l’estraneazione formale da quei consessi cioè) perché si sta parlando di una formazione politica antica e nobile, con radici perfino nella Giovine Italia e nella Giovine Europa, per così lungo tempo antisistema – che ciò avveniva mentre la patria, uscita dalla cattività fascista, stava orientandosi verso la radicale riforma istituzionale e costituzionale proprio realizzando i postulati teorici e politici del repubblicanesimo!

A livello di province e comuni i repubblicani non mancarono, ad ogni modo, di collaborare con i comitati di concentrazione antifascista (così anche in Sardegna, e valgano i nomi dei Saba o di Gonario Pinna, ed altri ovviamente, per non citare quelli, di fede mazziniana ma militanti nell’azionismo, e poi nel sardo-azionismo, come Cesare Pintus). E collaborazioni, sui territori, si ebbero ancora in quel complesso e drammatico biennio 1943-1945, oltre che nella politica anche nel rischio militare, nella resistenza cioè, con le Brigate Mazzini sovente affiancate, tanto più fra Toscana ed Emilia-Romagna, ma anche nelle regioni del nord, a quelle di Giustizia e Libertà. Perché idealmente quella era la famiglia politica di appartenenza e di lunga storia: repubblicanesimo ed azionismo entrambi, con sensibilità diverse (per il maggior ventaglio nel Pd’A), riferibili alla scuola di Mazzini e Cattaneo. E quando si trattò di votare per la Costituente, il famoso 2 giugno 1946, il risultato ci fu e fu apprezzabile, con un 4,4 per cento visto come gran cosa per una forza nata minoritaria, e nella capitale esso fu addirittura a due cifre e furono i repubblicani i secondi dopo la DC (allora un sardo, Battista Bardanzellu, costituiva una delle personalità di maggior riferimento).

Pacciardi fu un protagonista di prima e di dopo quelle due grandi e riassuntive stagioni: prima di quel 1944 e di quel discorso al Brancaccio sul programma politico-sociale di rilancio del Partito Repubblicano Italiano, era stato – lui maremmano classe 1899 – un giovane repubblicano insurrezionale, volontario sedicenne nella grande guerra vissuta come “quarta guerra d’indipendenza” (per portare Trento e Trieste nei confini della patria), e poi – ormai laureato e avvocato – antifascista della prim’ora e della seconda, sempre, arrestato e confinato nel 1926, esule in Francia, combattente negli anni ’30 nella guerra di Spagna, comandante di una brigata Garibaldi, segnato anche lui dalle ferite e dalle azioni di ardimento. Un uomo di sinistra generoso e nutrito di un afflato sociale (invero non frequente nei capi della sinistra, o delle sinistre), portatore di una carica empatica che ancor più era vitalizzata dalle sue funzioni di comandante: di generale di brigata, avrebbero detto gli americani di Eisenhower al tempo della seconda guerra mondiale. Gli sarebbe stato riconosciuto: assumeva cioè in sé quel tanto di responsabilità che peraltro ogni capo militare, che non consideri i suoi uomini semplice massa di manovra ma persone con propria originale e irripetibile dignità, e dunque da rispettare valutando con scrupolo, obiettivi e mezzi di ogni azione, dovrebbe avere. E pietà vera mostrò sempre anche per i caduti dell’altro fronte, quello degli avversari, immaginando le ricadute umane, nei sentimenti dei familiari, per ogni evento di lutto. Insomma, fu – Pacciardi – un leader politico e capo militare che mai rinunciò a quel supplemento di anima che pareva distinguerlo da molti altri leader politici e capi militari del suo tempo. Svariate le medaglie raccolte: così anche nella prima guerra mondiale, quando collezionò gli attestati, fra argenti e di bronzi, non l’oro perché la sua identità repubblicana impediva ai comandi supremi di concedere agli “irregolari dell’antisistema” i riconoscimenti massimi.

Credente in Dio, nel Dio di Mazzini, il Dio di “Dio e Popolo”, e credente nel Popolo assunto dall’Apostolo e dai suoi come il realizzatore della missione storica di assicurare a ciascuno (a “ciascun operaio”) lo status nobile della cittadinanza, con i suoi doveri e i suoi diritti, da spendere e rivendicare socialmente. Fino a identificare il popolo nello stato, a piegare le istituzioni – mai scadute al rango di puri feticci giuridici – ai bisogni veri e strutturali del popolo, quali elementi di regolazione della socialità. Quel tanto di patrimonio etico-morale presente in Pacciardi derivava tutto intero dal mazzinianesimo: quel mazzinianesimo che considerava la riforma politica pregiudiziale e necessaria alla riforma sociale, la repubblica come base indispensabile alla giustizia distributiva, assumendo essere imprescindibile, in vista di tutto ciò, l’acquisizione dello status elettorale. (Circostanza per la quale anche in Sardegna, a Sassari ad esempio, negli spazi dell’Unione Popolare i repubblicani accoglievano e insegnavano a leggere e scrivere e far di conto agli zappatori, e non solo a loro, al termine della giornata di lavoro, perché poi superassero la prova di alfabetizzazione che li avrebbe ammessi all’elettorato attivo…).

Sotto questo profilo l’intransigenza ideale/ideologica pacciardiana era assoluta: a fronte dell’agnosticismo istituzionale di un tempo da parte dei socialisti ed a quello più duraturo e anzi permanente dei liberali, così come all’omnibus dei cattolici (invero con larga prevalenza dell’istanza monarchica fino al 1946 ed anche oltre, tanto più fra le masse rurali bianche) la posizione repubblicana era sempre stata netta e non negoziabile: senza la repubblica l’Italia non avrebbe mai avuto la democrazia piena ed i ceti più poveri non avrebbero avuto alcun sostanziale avanzamento nelle loro condizioni di vita economica e sociale. Tale determinazione avrebbe avuto piena accoglienza, per la maturità e il senso storico della classe costituente, allorché si trattò di inserire nella costituzione stessa – quella entrata in vigore il 1° gennaio 1948 – la clausola (all’articolo ultimo, il 139) dell’inalterabilità della forma repubblicana dello stato, insomma dell’impedimento di ogni revisione costituzionale a tal riguardo.

Ciò avrebbe comportato e comportava, nella visione particolare, ma anche largamente condivisa, dell’esponente del PRI, il rifiuto di ogni spazio di libertà ai liberticidi. A fronte della garanzia di ogni libertà individuale e civile ai singoli cittadini così come ai corpi associativi ed intermedi, niente sarebbe stato concesso o concedibile a chi avesse preteso di poter attentare ai fondamentali dello stato di diritto e democratico. Lo si sarebbe visto alla prova, con le leggi Scelba degli anni e ’40 e ’50.

Mazziniano, in questo, e garibaldino in quanto alla propensione all’azione, con sprezzo del pericolo, e all’adempimento di un dovere morale, la logica ideale e politica pacciardiana fu sempre insieme patriottica e internazionalista. Appunto come l’aveva intesa nell’Ottocento e nel primo Novecento la scuola democratica repubblicana, mazziniana e, ad un tempo, garibaldina. Come avvenne nei risorgimenti italiano, tedesco e polacco, come avvenne nella prima guerra mondiale, come era avvenuto nelle lontane terre dell’America latina o dell’est slavo, con i corpi militari italiani nel disegno degli eserciti ora rivoluzionari ora regolari del secolo XIX. (Anche Silvio Mastio, cagliaritano giusto trentenne, cadde nel 1931, in Venezuela, per una operazione di stampo mazziniano e garibaldino, martire per la libertà di un popolo diverso e pure lontano dal proprio).

Aveva vissuto le idealità risorgimentali, Pacciardi, non soltanto per quel ne era venuto, ai popoli degli staterelli, per di più governati da dinastie illiberali, dalla traduzione della fraternità culturale e linguistica dell’Italia, già vissuta per tale dai tempi di Dante e Petrarca, nel più elevato ambito della politica e della costituzione statuale, ma come processo evolutivo sul piano sociale, in una fase storica in cui il progresso anche tecnico-scientifico marcava avanzamenti in ogni campo. Figlio di quella stagione postrisorgimentale che ancora scontava le chiusure crispine e le crudezze della reazione antipopolare, con lo stato d’assedio e le carcerazioni decretate nel 1898, il giovanissimo Pacciardi fece esperienza concreta, in una terra dagli incomprimibili fermenti sociali, del gap esistente fra liberalismo e democrazia. Stressato dal potere liberal-monarchico prima della guerra (quando si era costretti alle celebrazioni delle proprie idealità in privato, come avveniva di norma anche in Sardegna ed a Cagliari, allorché perfino la deposizione di corone ai martiri di Mentana o alla lapide di Garibaldi al cimitero di Bonaria, o a quella di Cavallotti nella via Manno, e le poche parole di commemorazione civile erano impedite da qualche delegato di polizia!), fu vigilato dal fascismo, come detto arrestato (era il 1926, lo stesso anno della prigionia  preventiva di Lussu in quel di Buoncammino) e condannato dopo la pur valorosa partecipazione al conflitto mondiale, e fu pienamente partecipe – l’ho detto – delle rischiose fatiche della guerra di Spagna (combattuta dai nostri Dino Giacobbe, Giuseppe Zuddas, Cornelio Martis, Francesco Burrai… sardisti e repubblicani, insieme, secondo gli input ideali della scuola democratica italiana).

Il Risorgimento italiano era stato vissuto dai democratici, cioè dagli uomini delle correnti più avanzate del pensiero politico ottocentesco, combinando i valori, soltanto all’apparenza in opposizione, di nazionalità e internazionalismo. Ha insistito molto, e giustamente, il presidente della Mazziniana – alto funzionario della Camera dei deputati e docente/formatore sia in Italia che in organismi internazionali –, a descrivere la partecipazione pacciardiana alla guerra civile spagnola, un secolo dopo (una guerra che vide combattere anche numerosi italiani, e sardi fra e con loro, nelle falangi franchiste, poveri “volontari” arruolatisi per fame, come fu anche per le avventure coloniali africane). Comandò il battaglione Garibaldi costituitosi in brigata combattente a Huesca e a Villanueva del Pardillo, fino ad arrivare alla maturazione delle sue insuperate e giustificatissime diffidenze verso i comunisti (stalinisti) che s’eran resi colpevoli della strage degli anarchici, pur militanti nello stesso fronte repubblicano.

Poi l’altra guerra – dopo che in Spagna in Italia – come per realizzare il sogno o la profezia che era stata dei Rosselli, di Carlo e Nello sacrificati nel 1937 nella terra della maggior emigrazione democratica, vale a dire la Francia. Martiri della causa (a ricordare i quali – è stata una battuta felice di Lello Puddu, che ha introdotto e poi commentato la relazione del presidente prof. di Napoli – anche Emilio Lussu smetteva gli abiti lucidi, quasi algidi, del leader per mettere quelli sentimentali e teneri di chi aveva penetrato tutto il valore umano dei due fratelli gielle caduti per la causa lontano dalla terra avita e dalla propria famiglia).

Pacciardi e il secondo dopoguerra. Pacciardi mazziniano integrale ma piuttosto pragmatico nella relazione con le altre forze politiche del CLN, tanto più con gli azionisti (dai quali il PRI avrebbe ricevuto presto rinforzi di qualità, uomini tutti della resistenza: da Ugo La Malfa a Oronzo Reale, da Michele Cifarelli a Bruno Visentini), e Pacciardi deciso nella collaborazione con De Gasperi e la DC, prima e dopo la stagione costituente: vicepresidente del Consiglio e poi per un lustro intero ministro della Difesa, impegnato a defascistizzare le forze armate ed a dar corpo, per la parte italiana (e contro certo neutralismo diffuso nel mondo cattolico e anche fra gli stessi repubblicani, oltreché fra i socialcomunisti) al disegno del Patto Atlantico, di qua dalla cortina di ferro degli stati dittatoriali comunisti. Pacciardi europeista, teso a prefigurare, con i migliori, l’Europa delle comunità nazionali, gli Stati Uniti continentali, Pacciardi impegnato a pensare anche ad una difesa comune europea (la famosa CED mai decollata per l’ostilità francese).

Ecco lo statista, oltre l’uomo politico e oltre l’uomo d’armi. Mazziniano sempre, garibaldino sempre, amico e devotamente fedele a donna Clelia Garibaldi, presente numerose volte a Caprera per le celebrazioni del Generale: tanto più all’indomani della seconda guerra mondiale, quando si trattò di costruire da zero la repubblica, e nei primi anni ’60, quando si trattò di celebrare il primo centenario della spedizione dei Mille (1860-1960) e dell’unità d’Italia (1861-1961).

Maturò crescenti perplessità, Pacciardi, su certo dottrinarismo socialista – lui piuttosto propenso alla creatività del libero mercato (magari nel solco associativo di “capitale e lavoro nelle stesse mani”) e contrario al dirigismo economico – quando si affacciò, sostenuto proprio dalla nuova dirigenza del suo partito, da Ugo La Malfa e Oronzo Reale soprattutto, il quadro di centro-sinistra, che doveva essere riformatore secondo le coerenze di una politica di programmazione capace di riassorbire le maggiori diseguaglianze territoriali e settoriali dell’economia e della società italiana. Così in dialettica concertativa con le organizzazioni datoriali e quelle sindacali rappresentative delle infinite categorie lavorative. Per questo arrivò, egli rieletto deputato per la quarta volta nel 1963, a non votare la fiducia al primo governo Moro. Ciò che significò per lui la sanzione dolorosa della espulsione dal gruppo parlamentare e dal partito. Fu una causa di sofferenza per tutti: non si erano dimenticati gli altri strappi, tutti di nobili personalità, cavalieri dell’ideale, da Giovanni Conti – che era stato il vice presidente della Costituente e uno dei 75 estensori della carta fondamentale della Repubblica – a Ugo Della Seta, pure lui costituente autorevolissimo, a Ferruccio Parri nel ‘53 (per l’opposizione alla legge maggioritaria).

Dette vita allora, Pacciardi, al suo movimento Unione Democratica per la Nuova Repubblica, che marcò una sua identità presidenzialista (di stampo gaullista) e fortemente antipartitocratica. La veemenza polemica con cui aveva già portato nelle sedi ordinarie tali istanze – virtuose entrambe in sé, se è vero che furono presidenzialisti uomini e costituenti del valore di Piero Calamandrei e Leo Valiani, e se è vero che la partitocrazia già negli anni ’60 fu vista in termini critici dalle minoranze vicine al “Mondo” di Pannunzio e al radicalismo di Villabruna ed altre eccellenze liberaldemocratiche – fu forse all’origine della separazione, certo dolorosa per entrambe le parti, che si consumò nel 1963. E forse l’errore che Pacciardi compì allora fu quella di non dare rigore alla cornice nella quale egli inseriva le sue istanze, e di non selezionare adeguatamente i suoi nuovi “compagni di viaggio”, i presidenzialisti e gli antipartitocratici che sostenevano le loro tesi muovendo però da aree ideali e politiche assai lontane dalla democrazia mazziniana ed anche, più in generale, dal liberalismo democratico: gente di destra, intimamente reazionaria e perfino filofascista. Da essi non poteva venire nessun avallo credibile ad una politica di rinforzo dell’esecutivo, in miglior equilibrio con il legislativo di frequente impantanato nelle vicende particolari dei partiti e delle loro nomenclature.

Ciò indusse taluno perfino a coinvolgere il nome onorato di Randolfo Pacciardi in ipotesi golpiste assolutamente scriteriate, ben difficilmente riconducibili alla sua storia personale e pubblica. Ma tutto questo segnò da allora – poiché ogni fuoco si spense intorno al 1968, quando l’affaccio di Nuova Repubblica alle elezioni politiche non venne premiato dall’elettorato – l’oscuramento totale della figura di Pacciardi, fattosi pieno e definitivo negli ultimi decenni. Ormai anziano, ormai ottuagenario, nel 1979 fu riammesso dal PRI nelle proprie file, auspice lo stesso segretario Giovanni Spadolini, subentrato ad Oddo Biasini dopo la morte, nel marzo di quell’anno, di Ugo La Malfa, il grande avversario interno di Pacciardi.

Membro di diritto della direzione del Partito Repubblicano Italiano, questi dette il suo generoso contributo di riflessione anche nell’ultima sua stagione di vita. Che fu la stagione che vide la presidenza del Consiglio – assolutamente prestigiosa – affidata a Giovanni Spadolini, la staffetta (invero poco gloriosa tanto più per il debito pubblico) fra Craxi e De Mita, la lotta al terrorismo e un certo riassorbimento della spirale inflattiva a due cifre da tempo impostasi come droga dell’economia. Morì, Pacciardi, nel 1991, e l’orazione funebre la tenne Gustavo Raffi, gran maestro della Massoneria di Palazzo Giustiniani, l’obbedienza liberomuratoria alla quale egli aveva dato la sua adesione da giovanissimo, nel 1919 (alla loggia Ombrone di Grosseto).

Di tanta magnifica personalità, ed anche di tanta umanità (complessa e talvolta imprudente ed esposta a rischio di errori) portata nella politica italiana, così come della ingiusta damnatio memoriae che ne colpì l’immagine pubblica, associandola in qualche caso a gruppi eversivi e golpisti – senza che mai nessuna prova sia stata fornita in proposito –, si è parlato, come ho riferito in apertura, nella serata organizzata dall’AMI e dalla Cesare Pintus a Cagliari.

Ha coordinato i lavori Lello Puddu, storico leader dei repubblicani sardi (comiziante sedicenne, nel 1946, a Nuoro per la causa della repubblica!), al quale si sono uniti i presidenti dei due sodalizi promotori: Antonello Mascia per la sezione “Salvatore Ghirra” dell’Associazione Mazziniana Italiana e Giovanni Liguori per la Cesare Pintus: associazioni che costituiscono sperimentati luoghi di dibattito civile, nel nostro capoluogo, nel solco ideale della democrazia repubblicana aperta ad ogni apporto delle migliori correnti progressiste isolane, dal sardismo autonomista al liberalismo gobettiano, dal radicalismo al riformismo socialista.

Ai partecipanti è stata donata, graditissima, una sintesi biografica di Pacciardi stesa da Marcello Tuveri su un testo base di Leo Valiani, apparso sulla “Nuova Antologia” n. 2178 del 1991.

Un contributo al dibattito

Per quanto mi riguarda ho sempre ammirato la figura di Randolfo Pacciardi (ed è stata giusta l’osservazione di qualcuno, all’incontro dell’altro lunedì, circa una intitolazione stradale che il “patriota e democratico” avrebbe meritato, e meriterebbe, da noi – ma osservo che neppure Ugo La Malfa scomparso nel 1979 e Giovanni Battista Melis scomparso nel 1976, anch’essi padri della patria, possono vantare un tale riguardo pubblico dal Municipio di Cagliari, peraltro a ciò tante volte invitato). Ho cercato di onorarla a suo tempo – nel 2010 – la figura di Randolfo Pacciardi, in una relazione svolta ad un convegno internazionale, proprio a Cagliari, sull’europeismo presente nella battaglia ideale e politica dei massoni italiani fra Ottocento e Novecento – Asproni fra essi – , e appunto nei giorni scorsi con una lettera (circa i rapporti Pacciardi/Sardegna) indirizzata al presidente della locale sezione dell’AMI, Antonello Mascia (già dirigente regionale del PRI sardo e, per me e altri ex militanti della FGR cagliaritana dei primi anni ’70, un riferimento certo e costante di cultura e riflessione politica).

Ecco la lettera inviata al convegno:

«Porto come contributo-flash al convegno cagliaritano dell’AMI in onore di Randolfo Pacciardi due riferimenti fra storia e cronaca che rimandano, direttamente o meno, al suo rapporto con la Sardegna, che meriterebbe di essere meglio esplorato.

«Il primo riguarda il maggior episodio politico che lo vide contraddittore di un nostro prestigioso esponente della vita parlamentare, alludo a Francesco Cocco Ortu, dirigente del Partito Liberale.

«Il secondo alle conseguenze che ebbe da noi la sua espulsione dal PRI per il voto da lui negato al primo governo Moro-Nenni, di centro-sinistra, nell’autunno 1963. (Allora, mi è caro ricordare, il gruppo dei sei deputati ridottisi a cinque per la defezione pacciardiana, includeva anche il compianto on. Giovanni Battista Melis, direttore regionale del Partito Sardo d’Azione, in virtù del patto politico-elettorale allora sottoscritto ma coerente a una solidarietà ideale e politica già quarantennale).

«Il dibattito/contraddittorio con Francesco Cocco Ortu avvenne nella mattinata di domenica 3 dicembre 1950, si svolse al teatro Adriano di Roma sotto la presidenza arbitrale di Gaetano Martino, vice presidente liberale della Camera, e fu trasmesso da radio Sardegna in collegamento con la “rete rossa”, antecessore del secondo programma Rai. Esso fu la risposta liberale a un attacco ricevuto dall’on. Pacciardi nel contesto delle polemiche su ipotesi allora correnti circa una nuova legislazione antifascista predisposta dal ministro dell’Interno Scelba, atteso che la precedente (del 1947) aveva trovato difficoltà applicative.

«In quel dicembre 1950 Cocco Ortu era deputato liberale eletto nel 1948 (con altri 14 colleghi e 10 senatori) nonché vice segretario nazionale del suo partito, vice di Bruno Villabruna (destinato a promuovere nel 1955 la scissione radicale) mentre la presidenza era di Raffaele De Caro.

«Pacciardi, già costituente, era ministro repubblicano alla Difesa e deputato eletto anche lui nel 1948 (con altri 8 colleghi ed altrettanti senatori). Era stato segretario del partito in clandestinità e poi ancora dal 1945 a tutto il 1947 (salvo una parentesi Belloni); ora la segreteria nazionale era affidata a Oronzo Reale, un avvocato pugliese cresciuto nel movimento giovanile repubblicano prima della dittatura e, negli anni della resistenza, aderente al Partito d’Azione, riconfluito nel 1947, con Ugo La Malfa, Michele Cifarelli, Bruno Visentini e altri, nel PRI.

«Nel VI gabinetto De Gasperi – tripartito DC-PSLI-PRI – egli rappresentava i repubblicani insieme con Carlo Sforza (agli Esteri), Ugo La Malfa (senza portafoglio, dal 1951 al Commercio con l’estero) e Lodovico Camangi (sottosegretario ai Lavori Pubblici). I liberali, presenti fino al V ministero De Gasperi, erano in questa nuova stagione ministeriale, all’opposizione.

«Vado al dibattito. Se Cocco Ortu negava la necessità di alcuna nuova normativa, tantomeno straordinaria, per bloccare un certo fervore montante nei settori della destra estrema, sostenendo bastasse la legislazione vigente e derubricando l’importanza della 12.a disposizione transitoria della Costituzione, ed infine caricando sulla estrema sinistra invece che sulla estrema destra gli attuali maggiori rischi per la democrazia italiana, Pacciardi era di avviso opposto.

«Non contestava certamente la visione coccortiana secondo cui si sarebbero dovuto educare meglio le giovani generazioni anche diffondendo la conoscenza della storia dell’infausto ventennio, ma argomentava  l’esigenza e anche l’urgenza di una nuova legge su queste premesse: la legislazione vigente aveva mostrato difficoltà applicative; colpire il neofascismo era obbligo costituzionale; l’esperienza storica insegnava l’importanza della tempestività reattiva e preventiva da parte della democrazia; la libertà non poteva essere concessa a chi ne avrebbe fatto strumento per ferire quella altrui e di tutti; la pervicacia oltranzista degli estremi offendeva nelle cose ogni sforzo compiuto dal governo di superare le divisioni fra gli italiani risalenti fino agli anni della guerra e anche del dopoguerra; ove dalla sinistra comunista fossero venuti attentati contro le libertà costituzionali, si sarebbe dovuto di colpire anche in quella direzione.

«Insomma, da una parte Cocco Ortu esprimeva preoccupazioni circa il possibile configurarsi di un inammissibile reato d’opinione, dall’altra Pacciardi avvertiva la pressione estremista come un pericolo da stornare con urgenza.

«Sarebbe da dire che la stampa isolana, tanto quella cagliaritana quanto quella sassarese, riferendo del dibattito romano, marcò, a fronte della maggiore passionalità pacciardiana, una superiore capacità argomentativa del parlamentare nostro corregionale. Ma naturalmente furono libere opinioni degne di pari udienza quanto le opposte.

«In ordine a quanto derivò dalla espulsione di Randolfo Pacciardi dal Partito Repubblicano Italiano nel 1963, e dalla costituzione, da parte sua, del movimento presidenzialista denominato Unione Democratica per la Nuova Repubblica, mi riferirei essenzialmente a due circostanze:

«. alla adesione formale che ricevette dal maddalenino Giocondo Giagnoni, di cui traccia in “Difesa Repubblicana” del 18 novembre 1963.

«. a contatti con lui sviluppati dal movimento sardo fondato dall’iglesiente ing. Amilcare Tronci.

«Meriterebbe, in tale contesto, ricordare che Giagnoni, giovane e generosa anima repubblicana applicatasi già negli anni di guerra alla diffusione semiclandestina di volantini contro i Savoia e fattasi propagandista de “La Voce Repubblicana” (in arrivo quotidiano da Olbia), fui lui, prossimo segretario della sezione, ad accogliere nel 1947 Pacciardi vicepresidente del Consiglio, venuto a La Maddalena per la consueta commemorazione garibaldina e già prima ad accompagnare la lista repubblicano-sardista per le amministrative (all’insegna di “Ricostruzione maddalenina”) e poi a festeggiare pubblicamente, con Giacomo Origoni e soprattutto Clelia Garibaldi, la svolta istituzionale del 2 giugno.

«Ricorderei, qui per inciso, che nella lista repubblicana per la Costituente che si sarebbe dovuta presentare in Sardegna, e poi non lo fu, avrebbe dovuto  essere compreso anche il nome di Pacciardi insieme con quelli di Armando Businco, Ugo Della Seta, Battista Bardanzellu (e forse anche Oliviero Zuccarini e Cipriano Facchinetti della dirigenza nazionale), del sassarese Stefano Saba, del bosano Antonio Dettori, dell’oristanese Agostino Senes, del sangavinese Raffaello Meloni, dell’olbiese Alberto Mibelli. Michele Saba avrebbe dovuto essere ricompreso invece, ma egli vi rinunciò, nella lista del collegio nazionale.

«Altre simpatie ricevette Pacciardi, pur non formalizzate (almeno credo), a Carbonia dai maremmani – suoi corregionali – Galardi, Giuseppe e Ghigo, come lui molto caratterizzati nelle sensibilità mazziniane, laiche e perfino d’orientamento massonico – fu massone Pacciardi, lo fu Ghigo Galardi a Carbonia e a Cagliari –, fortemente anticomuniste, in anni di solidarietà non negate dal PCI alla dittatura sovietica.

«Contatti più significativi furono quelli, anomali da vari punti di vista, con l’ing. Amilcare Tronci, un professionista già inquadrato nel corpo “delle miniere” ed impegnato con funzioni commissariali attribuitegli dalla prefettura di Cagliari per qualche mese, fra il luglio 1943 e tutto ottobre, nel comune di Iglesias.

«A Tronci – fondatore negli ultimi anni ’40 di un movimento detto “nazionale pacificazione sociale” – dobbiamo una serie di pubblicazioni che riportano a un solidarismo di vaghi rimandi corporativi, palesemente di destra dunque: quella destra che parve all’autore il campo nel quale la politica di Randolfo Pacciardi, di lato agli aspetti prettamente istituzionali (alla repubblica presidenziale cioè), si inserisse.

«Mi riferisco – perché i titoli valgono più di un commento – a “Soluzione materialista anti-marxista del problema sociale: redenzione del proletariato, salvezza del capitalismo, pace con giustizia per tutti!” del 1949; “Il capitale vita, ovvero Soluzione pratica attuale del problema sociale” del 1955; e ancora “Capitale vita, ovvero Soluzione pratica attuale del problema sociale” del 1962, “Capitale vita: inno del Movimento nazionale pacificazione sociale”,  ed anche, in ultimo, “Il diritto legale del lavoratore, ovvero Giustizia sociale in regime capitalista” del 1972.

«Un comunicato dei primi di maggio del 1965 del consiglio direttivo del Movimento Nazionale di pacificazione sociale, sedente ad Iglesias, informava della propria adesione all’Unione Democratica di Pacciardi, riferendo a questa le proprie idealità antipartitocratiche nei seguenti termini: “riconosciuto che la parziale attuazione della Costituzione della Repubblica Italiana, a vent’anni dalla sua entrata in vigore, ha creato una situazione politica che non risponde ai principi di una seria democrazia; riconosciuto che lo strapotere dei partiti permesso dalla Costituzione della Repubblica, distrugge la democraticità della stessa Costituzione sottoponendo il popolo italiano alla dittatura delle segreterie dei partiti stessi; ritenuto che nessuna azione moralizzatrice possa essere svolta nell’ambito degli attuali partiti incontrollati dalla legge ed interessati a perpetuare il malcostume politico ed amministrativo a proprio beneficio ed a spese del popolo; considerato inoltre  come l’azione democratica di propaganda dei principi informatori del Movimento Nazionale Pacificazione Sociale non possa essere svolta efficacemente nell’atmosfera di intimidazione e clientelismo conseguente allo strapotere dei partiti; visto l’appello per una nuova Repubblica dell’Unione Democratica Nuova Repubblica delibera l’adesione in blocco del Movimento Nazionale Pacificazione Sociale […] per tutto quanto riguarda la riforma della Costituzione della Repubblica Italiana secondo i principi esposti nell’appello della stessa Unione Democratica Nuova Repubblica”.

«Tutto qui, modesto contributo alla biografia di una personalità complessa e contraddittoria ma indubbiamente di primissimo livello».

Pacciardi massone ed europeista

Ed ecco lo stralcio della mia relazione al convegno massonico del 2010 sull’europeismo dei liberi muratori italiani fra Ottocento e Novecento:

«Si insinua temporalmente fra i manifesti e saggi o risoluzioni politiche dei Fratelli Chiesa e Facchinetti, Chiostergi e Pistocchi, la testimonianza documentata del Fratello Randolfo Pacciardi.

«Toscano maremmano della provincia di Grosseto, classe 1899, volontario combattente – ancora adolescente! e pluridecorato al valore militare nella guerra 1915-18 –, Pacciardi entrò in politica, affascinato dall’idea mazziniana, già alla smobilitazione postbellica. Militante repubblicano e aderente al movimento antifascista clandestino “Italia libera”, dovette fuggire nel 1926 in Svizzera, da dove fu espulso otto anni dopo, quando migrò in Spagna assumendo il comando del battaglione Garibaldi, successivamente trasformatosi in Brigata internazionale. Divenne allora uno dei capi politici e militari dell’antifascismo europeo, non soltanto italiano, esule e combattente.

«Dopo esser riparato in Algeria e Marocco, raggiunse nei primi anni ’40 gli Stati Uniti dove svolse una intensa attività propagandistica contro le dittature del vecchio continente. Rientrato nel suo paese nel 1944, cioè alla liberazione di Roma per opera degli anglo-americani, l’anno dopo fu eletto segretario del Partito Repubblicano Italiano e incaricato della direzione del quotidiano dello stesso PRI. Deputato alla Costituente, entrò quindi come vice presidente nel IV governo De Gasperi, che portò alle elezioni per la prima legislatura repubblicana (aprile 1948). Nei tre gabinetti successivi a presidenza ancora De Gasperi ricoperse le funzioni di ministro della Difesa e restò deputato fino al 1968.

«Fu iniziato massone giusto ventenne, nel 1919, presso la grossetana loggia “Ombrone”. Passò all’Oriente Eterno nel 1991, e la sua orazione funebre fu tenuta dallo stesso futuro Gran Maestro di Palazzo Giustiniani Gustavo Raffi, che gli fu allievo ed amico.

«Da buon mazziniano l’ideale europeo è testimoniato dal Fratello Pacciardi fin dall’inizio della sua attività politica, sul fronte dell’antifascismo. Richiamerò a tal riguardo sei articoli da lui pubblicati, con sigla o pseudonimo, fra il 1928 ed il 1940: il primo su un numero unico di “L’Italia Libera”, organo di stampa dell’omonimo gruppo romano, titolo «Il programma»; il secondo, del 1929, su “Libera Stampa”, sotto il titolo di «Il moto federativo europeo»; idem il terzo, titolo «In stile telegrafico»; il quarto, del gennaio 1940, su “La Giovine Europa – La Jeune Europe”, titolo «Fini di pace»; idem per data e testata, il quinto, titolo «Dopo l’accordo Stalin Hitler»; ed il sesto, del marzo successivo, sulla medesima testata, titolo «Al di là della mischia».

«A proposito di questa ultima testata giornalistica che lo accolse, meriterà dire che il doppio riferimento italiano e continentale – “Giovine Italia” e “Giovine Europa” – intendeva segnalare la missione che attendeva, più di tutti, le giovani generazioni dell’Italia finalmente liberate dalla doppia oppressione, politica e ideologica, della dittatura e del nazionalismo imperialista.

«Presenterò rapidi stralci di tali robusti interventi del Fratello Pacciardi come parti di un unico ideale articolo di riflessione democratica e proposta europeista, lungo un decennio e più di storia drammatica (e si scorgerà in esso il prima e il dopo degli avventi hitleriano e falangista).

«“La Jugoslavia ha sempre sognato di riunire le stirpi balcaniche in una Confederazione che le conservi una specie di predominio morale. Oggi la sua crisi interna, sotto l’aspetto jugoslavo gravissima, ma in fondo un’applicazione… in casa propria del principio federativo, e il riapparire sulla scena politica balcanica di uomini di grande prestigio… e di riformatori ed organizzatori… hanno trasportato altrove il centro di gravitazione dell’idea…

«“Il giuoco di influenze fra l’Italia, la Francia e l’Inghilterra e i non spenti appetiti della Russia, ora, come prima della guerra, fanno sì che non si sposta una pedina nello scacchiere balcanico senza provocare un generale disordine nelle relazioni europee.

«“Niente di strano che a qualcuno sia venuta l’idea di affrancare la penisola dalla gara incomposta di egemonie, stringendo tutti i piccoli popoli, diversi per lingua, storia, tradizione, ma uniti nei costumi, nel grado di civiltà e negli interessi, in un grande popolo solo.

«“Si comprende anche l’avversione delle grandi potenze a questa idea… Questo sarà il secolo degli Stati Uniti di Europa… Il secolo diciannovesimo cullò, ai suoi primordi, la grande utopia di Mazzini, di Kossut, di Cattaneo, e riuscì a realizzare – e solo in parte – le unità nazionali… Il nostro secolo si è iniziato al canto dell’Internazionale… e realizzerà gli Stati Uniti di Europa…

«“Il nostro continente ha l’urgenza economica di abolire le interne barriere per sostenere la vittoriosa concorrenza degli altri continenti, e specialmente dell’America. Tutte le manifestazioni economiche e politiche, dai cartelli industriali alle organizzazioni dei lavoratori, alla Società delle Nazioni, l’Ufficio del lavoro, l’internazionale parlamentare ecc. ecc, hanno sapore continentale. La stessa crisi interna delle più grandi nazioni e la febbre politica che ne deriva è un anelito a nuove organizzazioni nazionali per rendere sempre più possibile l’avvicinamento internazionale.

«“Naturalmente, per vedere tutto ciò occorre spogliarsi della veste di uomini di parte e fare un po’ di filosofia della storia in anticipo… la storia la creano gli uomini e i popoli coi loro entusiasmi, le loro passioni, le loro virtù, i loro difetti, le loro esaltazioni, le loro fiacchezze, le loro necessità economiche, morali, sentimentali, i loro ideali e le loro utopie”.

«Così invece nel 1940, a guerra esplosa: “Un fenomeno estremamente confortante deve essere registrato. L’Inghilterra… è il paese dove si discute oggi con più slancio di Stati Uniti d’Europa e di Federazione europea… La Francia riacquista coscienza della sua alta missione europea… Le due grandi potenze d’Europa hanno esteso la loro solidarietà militare al campo politico, economico, finanziario fino a costituire di fatto un primo esempio di collaborazione interstatale che è aperta a tutti gli Stati alleati o eventuali alleati e che non deve finire con la fine delle ostilità. Mano mano che gli schieramenti politici e militari nel nostro continente saranno fatti, e le posizioni saranno prese, si preciserà sempre meglio e con più calorosa intensità il movimento di unione europea come fine di guerra, o meglio di pace…

«“Al mito barbaro dell’imperialismo tedesco, al mito russo di una palingenesi sociale sotto una ferrea e brutale dittatura imperialista asiatica, bisogna opporre la visione umana di una grande città futura nella quale tutte le genti, conservando le loro caratteristiche di razza e di genio collaboreranno costituzionalmente nella pace, nella libertà, nel progresso sociale. Del resto, dopo le rovine della guerra, non esisterebbe civiltà europea, non esisterebbe l’Europa indipendente se non risorgesse dalle ceneri guarita dalle follie nazionalistiche.

«“Chi desidera che l’Europa sia provvisoriamente spartita tra Stalin e Hitler e soffocata sotto la dittatura rossa e nera, fino alla nuova guerra per sottomettersi a un solo padrone, non ha che da dire francamente di essersi trovato per sbaglio nel campo degli uomini che lottano per la libertà… Se vince l’Europa democratica non può limitarsi ad arrestare le aggressioni, deve eliminarle per sempre. E come? evidentemente non spazzando dalla faccia della terra due popoli utili alla civiltà, ma liberandoli dalla schiavitù e associandoli a una missione più alta e più vasta di ciascuno di noi e di loro”.

«Ancora 1940: “La spedizione in Abissinia ha spezzato tutti i legami tra il nostro paese e l’Europa della Società delle Nazioni, l’Europa democratica e pacifista. La spedizione in Spagna ha portato per fatale conseguenza i tedeschi al Brennero. Isolata in Europa l’Italia fascista doveva subire la ferrea legge hitleriana. Hitler spingeva poi il governo alleato a formulare … immense rivendicazioni mediterranee e sottoponeva intanto alla legge della jungla, dopo l’Austria, i Sudeti, Memel, la Cecoslovacchia e infine la Polonia… la Germania spazzava gli Stati indipendenti dalla carta geografica… col disegno evidente di sottoporre tutta l’Europa, direttamente o indirettamente, alla propria dominazione.

«“Il nostro è stato il solo gruppo politico dell’emigrazione democratica… nettamente avversario dei comunisti… Li avevamo visti alla prova in Spagna. Avevamo ammirato centinaia di giovani di buona fede dominati da uno spirito dogmatico e capaci di sacrifici di religione, ma avevamo disprezzato la macchina burocratica ai servizi della fazione che innalzava a “capi” tutti i villani unti dal signore… Certo non potevamo rifiutare a priori il concorso e l’alleanza di alcuna forza, specialmente quando si metteva a servizio degli ideali nazionali, ma negavamo fermamente il diritto ai comunisti di dirigerla. Tuttavia, malgrado la nostra avversione e diffidenza nemmeno noi avremmo supposto che i dirigenti comunisti russi compissero un tradimento così vile e sfacciato contro l’Europa democratica, contro la pace, contro il proletariato internazionale”.

«Ancora 1940: “Repubblica, libertà, socialismo mazziniano, autonomie regionali italiane nella Federazione europea. Questa fu e resta la nostra meta.

«“Per fortuna questa orribile tragedia, questa guerra, non può avere un senso così strettamente negativo… Quando, or non è più di qualche mese, si parlava di Stati Uniti d’Europa i ben pensanti del conservatorismo e dell’oltranzismo sorridevano di quel riso che vuole essere superiore. Si assiste oggi a una vera ondata trascinante di “utopie” federalistiche che partendo dalle trincee, dalle officine, dalla stampa, dai cenacoli dei letterati, dai parlamenti, dalla piazza, non si arresta sulla soglie dei palazzi governativi.

«“L’idea dell’emancipazione totale dei lavoratori resterà e farà il suo cammino, ma cadono definitivamente le illusioni del “socialismo” dall’alto, statolatra, autoritario, accentratore tirannico e nel campo sociale come in quello politico, il proletariato si riaffezionerà alle difficili e dolorose ma sante e definitive conquiste della libertà nella libertà”.

«Ancora il Fratello Pacciardi, ma in un altro contesto. Nell’agosto 1944, due mesi dopo la liberazione di Roma dai nazifascisti, su “La Voce Repubblicana” – il giornale che, soppresso come tante altre voci libere dal fascismo, è ora tornato a circolare – esce il testo del primo discorso che gli tiene nella capitale al ritorno dall’esilio. Si tratta di un discorso molto lungo e molto impegnato sotto diversi profili. Qui interessano i riferimenti soprattutto alla causa europeistica, che dovrà essere condivisa dalle forze politiche tornate cittadine d’un paese libero e auspicabilmente repubblicano.

«“Sono uno dei tanti giramondo che nelle solitudini dell’esilio ha vivamente e lungamente pensato ai problemi della sua terra e della sua gente…”. Questo confida, in un teatro gremitissimo, il Fratello Pacciardi: non deve chiedere voti ma riflessione e impegno per la nuova Italia. Tutto si concluderà poi con il canto corale dell’Inno di Goffredo Mameli.

«Il primo suo sguardo è allo scenario mondiale: per due volte l’intervento in guerra degli Stati Uniti ha salvato l’Europa nel cui seno i contrasti fra nazioni e governi sono scoppiati allargandosi anche oltre il territorio continentale. Però adesso – egli sostiene  – “L’interesse degli Stati Uniti è di non essere obbligati ogni venticinque anni a inviare i loro figli a rischiare la vita e a profondere i loro tesori nelle pazzie guerresche di questa Europa… (Essi) hanno un supremo interesse: quello di aiutarci a guarire questo nostro continente malato e il solo modo di guarirlo radicalmente dalla sua follia guerriera è quello di organizzare gli Stati Uniti d’Europa… Se l’America accetta invece che l’Europa sia divisa ancora in zone di influenza e di rivalità, si deve aspettare che le sue future generazioni si facciano ancora scannare in guerre più tremende di quella che stiamo soffrendo”.

«“Ho sentito fare – aggiunge poco dopo – il nome di Mario Angeloni. Permettetemi che stacchi un fiore da questa ghirlanda eroica. Fu tra i primi a partire, fu il primo a morire. Era repubblicano e morì in quella atmosfera internazionalistica fischiettando l’Internazionale. Nel letto di morte comune, nella trincea comune, aveva superato i confini dei partiti e delle nazioni. La battaglia era allora come oggi superiore alle forze di un solo partito: era la battaglia dell’internazionale della libertà contro l’internazionale della tirannide”.

«Meriterà aggiungere che anche Mario Angeloni era un massone di massima virtù: andato a morire per la causa spagnola, così come facevano nel secolo precedente i garibaldini, mossi dalla convinzione che ogni patria che soffre è la propria patria che soffre. Umbro di nascita, iniziato fra le Colonne della “Concordia” all’Oriente di Perugia nel 1922, al ritorno cioè dalla grande guerra valorosamente combattuta come volontario. Quella loggia sopravvisse, in clandestinità, fino al 1931.

«Più volte aggredito dai fascisti, arrestato, confinato a Lipari e ad Ustica, processato e condannato a un anno di carcere, assolto ma nuovamente confinato per tre anni a Ponza, il Fratello Angeloni emigrò infine a Parigi, frequentando la loggia “Italia Nuova” ed attivandosi per il rafforzamento della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo che avrebbe cooperato con i partiti politici nell’azione antifascista fuori dai confini della patria.

«Fu nel 1936 che partì per il fronte spagnolo in difesa della repubblica e fu ucciso appena un mese dopo».

 

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