Bachisio Zizi e gli “uomini del fare”, qualche riflessione nel mondo di Erthole fra Zuacchinu e Leporeddu, di Gianfranco Murtas

Mille giorni senza Bachisio Zizi e la mente torna a lui e al suo mondo letterario, anzi al suo mondo morale.

Non temette la pioggia Leporeddu quando accompagnò, a qualche distanza di discrezione, le spoglie di Zuacchinu, fra le atmosfere di Erthole, lui che non gli era debitore di nulla di venale che potesse azzerarsi con una partecipazione formale in quell’ultimo giorno. Debitore di motivi morali forse, anzi senz’altro. C’era la gratuità alla base del loro rapporto, fra lui, giovanissimo casaro dipendente, e il ricco e geniale personaggio che aveva portato la economia monetaria ad Orvine ed Erthole, superando la secolare, millenaria economia del baratto. Sicché quando Zuacchinu, sfidando tutti, aveva interrogato Buleddu circa i suoi desideri, e s’era sentito rispondere «le vostre ricchezze», era stato Leporeddu a conquistare la scena rispondendo invece «la vostra testa: è la ricchezza più grande, il resto può andare e venire».

Così era e infatti erano destinati a finire quei «fiumi che confluivano nel mare grande di Zuacchinu: i negozi, il caseificio, il mulino, le terre, le greggi, gli armenti, il denaro dato a oriellu e l’esattoria delle imposte», quell’esattoria allogata in uno stanzone della sua grande casa, «un luogo triste come la prigione per chi vi si recava a contestare l’ingiustizia di un tributo o la fulmineità dei pignoramenti che colpivano le pecore e la casa». E’ vero, «Zuacchinu poteva più del Padreterno», aveva anche portato la luce elettrica derivandola «dall’acqua del Cedrino, non dal fumo della carbonella». «La sera attendeva il tramonto con impazienza; gli piaceva dare l’ordine per l’accensione delle luci, un modo per dire che lui esisteva ancora… Si compiaceva anche quando la gente usciva dalle case per ammirare il suo cavallo bianco che sfilava per le strade del paese».

Egli «era temuto e rispettato, non amato. Lo isolavano le sue ricchezze e più ancora l’inesauribile inventiva della sua mente». «Ha il catasto in testa – ripetevano i suoi contadini, ai quali sapeva dire tutto sulle terre sue e degli altri: confini, superfici, perfino il numero delle piante… Sapeva tutto delle merci che comprava e vendeva e degli uomini che offrivano e domandavano… Non aveva mai sbagliato un affare. Diceva che il comprare e il vendere toccavano gli uomini, che lui si vantava di conoscere a s’arzad’e s’ocru. Aveva fatto anche del male, per il bene di tutti, diceva lui, convinto di avere col paese un rapporto quasi carnale, da padre a figlio».

Ma il ciclo doveva finire anche per lui, oltre che per le sue cose. E «quando morì, ai funerali andò poca gente. La scusa fu la pioggia, scrosci mai visti… Passato il temporale, il paese parve rivoltarsi contro la sua memoria. Primi fra tutti i figli, quelli che gli aveva dato Natalia, la moglie mal’a maridu, dilaniati da liti furibonde per il patrimonio…». Leporeddu non aveva avuto paura della pioggia e non si era neppure posto il problema se Zuacchinu si fosse messo a commerciare anime nell’altro mondo… Partecipò, a distanza, come in un angolo, pensandolo, non pregandolo.

Come Leporeddu che onorava il suo Zuacchinu, io ritorno spesso al sepolcro cittadino, al San Michele, di Bachisio Zizi che riposa all’ultimo piano di un lotto di colombari sul fianco sinistro del piazzale d’ingresso del camposanto nuovo di Cagliari.

Di Antonino Campus e del suo sequestro

A proposito, debbo qui concedermi una parentesi. Nello stesso recinto del San Michele riposa anche Antonino Campus, alto dirigente pure lui del Banco di Napoli – istituto titolare di ben 113 anni onorati in Sardegna sul mezzo millennio nazionale –, responsabile per molti lustri della succursale di Nuoro, bancario di scienza e coscienza fattosi tutto da solo, nello spirito di lealtà e di sacrificio così nello studio come nell’esercizio, partendo dalle funzioni di ausiliario avventizio (17enne negli anni della guerra) presso l’agenzia di Lanusei, fino al grado elevato di condirettore di sede.

Il 7 marzo 1975, un venerdì, egli fu rapito, con il giovane collega Italo Murgia, dai banditi, fra Pratobello e Mamoiada. Costò molto – cento milioni di lire – a Campus, lavoratore dipendente, quel sequestro duro e prolungato che gli scassò il cuore e non fu mai sanato con l’individuazione dei colpevoli; colleghi e amici misero le mani nelle tasche e svuotarono i loro conti facendo colletta, prestandosi alle rischiose trattative con i malviventi, e patirono in proprio vessazioni e minacce nella boscaglia, nelle intricate strade barbaricine, nelle ore più impensate e nel buio terrorizzante a vile copertura degli incontri clandestini e di negoziazioni immorali – la vita umana contro il denaro onnipotente; il Banco anticipò, allora, per accelerare, il riscatto, intestandogli un’apertura di credito che anno dopo anno egli rimborsò integralmente con le trattenute dai suoi emolumenti.

Concluse la sua carriera di dirigente, Antonino Campus, presso l’Area Territoriale Sardegna, delegazione operativa della Direzione Generale del Banco di Napoli, sostituto formale di Bachisio Zizi che era il capo titolare in proprio di poteri deliberativi amplissimi. Io, molto giovane, collaboravo con l’uno e con l’altro, e intrattenevo rapporti anche personali e confidenziali, paralleli a quelli della banca, diversi naturalmente, e con l’uno e con l’altro, conoscevo luoghi importanti del rispettivo mondo interiore e valoriale, in esso anche la radice e lo spettro delle loro ansie pubbliche, civili e professionali.

Campus lasciò il Banco, dopo quarant’anni di servizio, nel 1983. Come d’uso ci salutò comunitariamente ad una cena fra colleghi. Quel pensionamento non lo avrebbe voluto, dovette rassegnarsi alle scadenze anagrafiche, sorridendo ob torto collo. S’era realizzato, oltreché nella famiglia rimasta a Lanusei – moglie insegnante e figlie ancora minori, poi universitarie a Cagliari –, nel lavoro. Aveva avuto sempre il culto del lavoro, sembrava in banca come un sacerdote all’altare, portatore della stessa necessaria purezza, lo stigma della esemplarità, la compostezza dei modi, la voce sempre pacata. Il suo lavoro consisteva certo nelle analisi critiche delle situazioni economico-patrimoniali delle aziende clienti, nelle interrogazioni alle dinamiche dei bilanci delle contropartite nuove o di quelle già conosciute e collaudate, nelle verifiche della correttezza e correntezza contabile oltreché del variabile posizionamento sul mercato di quelle imprese, di quelle ditte chiamate ogni giorno a reggere la concorrenza, più ancora consisteva nella interlocuzione con i rappresentanti di quelle stesse imprese e di quelle stesse ditte per il rinforzo del rapporto fiduciario, consisteva nella consulenza ordinaria e straordinaria offerta con gli strumenti propri di un’azienda di credito, non limitati certo all’offerta di liquidità. Consisteva anche nella supervisione di cinque, sei punti operativi strategicamente diffusi sul territorio, fra Barbagia e Baronia, Guilcer, Marghine e Mandrolisai, con sessanta, settanta impiegati al servizio del pubblico per le più varie occorrenze…

Al congedo, il discorso obbligato, ma direi meglio necessario, e per nulla retorico, fu naturalmente di Bachisio Zizi. Parlò da scrittore Zizi, celebrando il collega in uscita. Lui che si esprimeva come scorrendo un’ideale partitura musicale, tale era la proprietà del suo linguaggio, la sobrietà e l’incisività dell’eloquio che valeva, per chi ascoltava, una doppia ricca lezione (di perfetta lingua italiana in quanto alla forma e di rivelazioni puntualmente argomentate in quanto ai contenuti). Di Campus parlò come di un autentico missionario, maestro “del lavoro”, competente e disciplinato responsabile di un’area di autonomia decisionale non da poco e portata avanti, in progress e con successo, lungo i decenni nell’articolazione dei territori economici e sociali del Nuorese. Fino al sacrificio di quello sciagurato rapimento, e successivamente, in ripresa dopo la liberazione intervenuta al termine di un mese e mezzo di violenta e belluina cattività.

Per quel tanto che era ed è il ruolo della banca, che non sostituisce ma supporta i produttori di ricchezza economica e di valore sociale, anche Campus fu uno di quegli “uomini del fare” dei quali Bachisio Zizi avrebbe detto e scritto tanto.

Non riesco a collocare in un tempo preciso l’origine di questa formula felice. Certamente negli anni ’80, forse prima. Nel 1997, rispondendo ad una studentessa che si apprestava a stendere la propria tesi di laurea proprio sulla sua opera letteraria e in specifico su Erthole – quinto romanzo, il secondo della nuova serie dopo Il ponte di Marreri e prima di Santi di creta –, egli, di quell’ultimo libro, propose una lettura come di uno dei poli tematici della sua narrativa: «Io ho inseguito due temi, che poi sono diventati i poli dell’ellisse… Da una parte il paese, che ha agito e agisce come lievito delle mie invenzioni narrative, finendo per diventare metafora del mondo; dall’altra parte gli uomini del fare, gli uomini cioè protagonisti di un impegno costruttivo, che nella nostra terra diventano eroi per quel supplemento di fatica, di inventiva e di sofferenza che il fare comporta in Sardegna».

In una bella intervista rilasciata nel 1998 a Giovanni Mameli per Il Messaggero sardo – il periodico spedito dalla Regione alle comunità dei nostri emigrati nel mondo –, Zizi riprendeva l’argomento, riferendosi in particolare ai cagliaritani visti e… misurati da quell’osservatorio privilegiato quale era ed è la banca: «Posso dire che professionalmente sono cresciuto con quelli che ho chiamato gli uomini del fare. Quando sono approdato in altri contesti [riferimento alle regioni dell’Italia centrale, nda], mi sono reso conto quale supplemento di fatica, d’inventiva e di sofferenza richieda o richiedeva fare l’imprenditore in Sardegna. Gli uomini del fare che ho conosciuto a Cagliari si sono fatti da soli, dai padri hanno ereditato solo l’intelligenza e la volontà di resistere. Sto parlando di uomini che prediligono l’essere più che l’apparire». Diceva Cagliari, avrebbe potuto dire, ed avrebbe poi detto, Sardegna.

Avrebbe ripreso il tema, con cenni dispersi, nelle opere di quel tempo, sino alla fine: così soprattutto in Cantore in malas (1997), ma alcuni anni prima l’aveva anticipato in il cammino spezzato (1994), dedicato alle bonifiche idrauliche e agricole di Mussolinia-Arborea affidate ad imponenti maestranze e al genio organizzatore di Valerio Darvo, alias Giulio Dolcetta.

«Costruttori di mondi» e «narratori ineguagliabili»

A Mameli aveva confidato: «Come segno della mia riconoscenza ho pubblicato sulla Nuova Sardegna quindici “Profili” dedicati a questi piccoli grandi eroi. Nella casualità della scelta, i personaggi raccontati costituiscono un campione delle centinaia e centinaia di imprenditori con i quali mi sono confrontato, spesso anche duramente. Dialogare con uomini di questa tempra non è facile, ma è esaltante perché sono tutti costruttori di mondi. Ciò che ho apprezzato in questi personaggi è il coraggio, la creatività e la capacità di apprendimento. E con quanta dignità sanno affrontare il momento della caduta!».

Forse in questa battuta vi fu un indiretto, e forse involontario, riferimento ai Guiso Gallisai della prima metà del Novecento, i cui discendenti lo portarono in tribunale, vincendo, per la narrazione di Santi di creta. Quei Guiso Gallisai che egli invece amò nella loro umanità complessa e contraddittoria, perché umanità complessa e contraddittoria è anche quella di tutti quanti noi, non angeli e non demoni. Sicché, dandomene adesso nuova possibilità, ancora mi affianco allo scrittore nelle sue intenzioni mai malvage né maliziose, e mi rattristo per la piccineria di chi non ha saputo leggere Santi di creta nell’autenticità della simbologia che portava sulla pagina, riferendosi il romanzo alla zavorra “culturale” insita nella società di persone che pietrificava, nella Nuoro ancora degli anni ’50  e ’60, la responsabilità economico-patrimoniale dell’imprenditore sulle vicende aziendali, ignorando gli approdi del mercato aperto, invece ormai governato dalle regole della responsabilità limitata proprie delle società di capitale.

Lasciato anche lui, nel 1989, il lavoro, Bachisio Zizi si era concesso, fra i primi grossi impegni continuativi, una collaborazione con i due grandi quotidiani sardi, quantitativamente pressoché paritarie. Di più, per La Nuova Sardegna, produsse sedici articoli, pubblicati a tutta pagina nel settore “Cultura e spettacoli”, con il titolo unificato di “Gli uomini del fare”: così dal 2 febbraio al 4 aprile 1990.

Avrebbe voluto, io credo, raccogliere in volume questi scritti – vere e proprie simulazioni di intervista con gli imprenditori sardi – Bachisio Zizi. Ignoro le ragioni – purtroppo con lui non ne parlai a suo tempo – per le quali il proposito non si realizzò nel concreto. Introducendo l’articolo iniziale, il curatore della pagina del quotidiano sassarese lasciava capire che fosse stato lo stesso autore ad offrirli al giornale il quale, in omaggio alla sua autorevolezza e con evidente gradimento, accolse la proposta («La Nuova ha comunque ritenuto di ospitare molto volentieri questi scritti, nella convinzione che Bachisio Zizi, uno dei maggiori scrittori sardi e uno dei più attenti osservatori delle cose di quest’isola, abbia senz’altro il diritto di narrare le nuove scoperte del suo lungo e appassionato viaggio in Sardegna»).

Questi gli operatori economici di campagna e di città, del capo di sopra e di quello di sotto così come delle zone interne, dell’agricoltura e dell’industria (o dell’agroindustria), del commercio e dei servizi, dell’edilizia e della sanità, del turismo e del manifatturiero incontrati nel tempo e presentati come protagonisti di imprese degne di restare nella faticata storia nobile dell’economia e della società sarda del Novecento:

Gualtiero Cualbu (“Dai monti di Fonni una nuova frontiera: i prefabbricati, attività nel settore immobiliare, gli alberghi e le prestigiose commesse in Libia. Un ribollire d’idee in una vita difficile che ha conosciuto anche sconfitte molto amare”);

Ercole Cellino (“… e il senso del concreto. Nuove e antiche rotte per l’isola del futuro: all’inizio di tutto una donna alla quale disse: ‘Se la Sardegna è come te, allora io ci vengo’”);

Franco Meleddu (“… e la sua lotta tenace contro la malattia. E vincere il dolore diventa un affare: dai primi passi nell’assistenza ai ragazzi handicappati al business delle cliniche private. Dopo una brutta frattura alla spina dorsale una vita intera spesa nel campo della ricerca medica: ‘Dare speranza a chi soffre’”);

Nanni Fodde (“Una città dell’auto e il suo ‘sindaco’: la storia, i numeri e i primati”);

Antonello Onano (“Tutti i cantieri dell’ex notaio”);

Ferruccio Podda (“Sembra che i formaggi gli svelino i loro segreti: voleva un immenso forno per il pane ma poi ha scelto il latte. Due anni di esperimenti per il ‘Grana sardo’”);

Giovanni e Luigino Ladu (“A muovere ogni cosa è la voglia di tornare: il giro del mondo e un’officina. Operai e studenti hanno dialogato torcendo insieme il ferro”);

Gianni Meloni (“… pioniere dell’industria edilizia. Il mondo è fatto come un triangolo: dagli studi di ingegneria a Genova alla costruzione di un piccolo impero fondato sulla capacità di innovare”);

Paolo Marras (“… una lunga storia di alberi. In quel bosco c’è la salvezza: l’avventura del legno”);

Virgilio Vargiu (“Voglia di vincere dopo il dolore: la botte, la fame e poi i grandi cantieri”);

i fratelli Salis (“Saper dialogare, questo il segreto: con centosettanta miliardi di fatturato, l’azienda privata più importante del Sassarese guarda ai mercati esteri”);

Carlo Martelli (“Dalle idee nasce anche un albero: ‘Non so pensare né fare niente senza rapportarmi a scenari collocati al di là del nostro ambito territoriale’”);

Manlio Sechi (“… e il lavoro. Un’impresa e mille anime”);

Carlo Monni (“E’ lo spartito di un’azienda: il lavoro e il tempo”);

Gavino Cadau (“Tra industria e poesia verde: i giardini, i vivai e i sogni”).

Sono pagine monografiche vivacizzate da grandi quadri vignettistici, quelle della serie offerta ai propri lettori da La Nuova Sardegna. Titoli e sommari, distici e box, tondi e corsivi e neretti spezzano in orizzontale la fissità delle colonne, gradevolmente spalleggiando la scorsa a domande e risposte… “L’autore di Erthole e di Santi di creta scopre e racconta storie di protagonisti”, “Quando l’economia non è solo un freddo e disumano elenco di numeri”, “Dietro l’iniziativa di chi ha scelto la strada del rischio economico la storia recente della Sardegna. Il contesto istituzionale e l’elemento personale”, “Industria e futuro: sognare nel deserto. I profili degli imprenditori sardi disegnati da uno scrittore”.

Aprendo la serie, è lo stesso Zizi a dar conto dei suoi propositi e ad anticipare quanto gli è sembrato di cogliere dal profondo dei suoi personaggi con i quali è riuscito ad entrare in una empatia d’intelligenza, non soltanto di pur comprensibile orgoglio corregionale. Così scrive:

Una galleria di talenti tutti sardi

Nella nostra epoca la storia non può essere più considerata come un processo unitario con un centro attorno al quale si raccolgono e si ordinano gli eventi. La ribellione dei popoli “primitivi” e l’avvento dei mass media hanno portato all’emancipazione delle differenze e all’insurrezione dei “dialetti”, dissolvendo quelli che Lyotard chiamava I grandi racconti.

La storiografia, d’altra parte, non può continuare a tramandarci solo ciò che appare rilevante; date di battaglie, trattati di pace, rivoluzioni mancate, lasciando in ombra e ignorando i modi di vivere e gli aspetti della vita considerati “bassi” che sarebbero insignificanti.

Con più umiltà da parte di chi scrive e di chi legge si potrebbe fruttuosamente tentare di ricostruire il nostro passato remoto e prossimo attraverso le storie minime, l microstorie cioè, le uniche in grado di illuminare molecolarmente come sono mutati nel tempo i nostri modi di pensare e di vivere.
Sarebbe interessante e utile, ad esempio, scoprire e capire gli ostacoli che nelle varie epoche hanno impedito che la Sardegna potesse esprimere autonomamente e coerentemente  una sua class dirigente degna di questo nome, Tale indagine, a parte i problemi di metodo, dovrebbe fondarsi u una documentazione inedita, attinta alle fonti più disparate, non esclusa la memoria storia dei protagonisti diretti o indiretti, quando si entra nell’epoca presente.

Un contributo alla ricostruzione e comprensione di molti eventi può venire dalla testimonianza di coloro che potremmo chiamare “gli uomini del fare”, di quei soggetti cioè che, agendo più o meno consapevolmente, hanno creato qualcosa e mutato se stessi insieme al contesto di riferimento.

Nel nostro Paese è tornata prepotentemente alla ribalta l’impresa che, da mera entità produttiva, è venuta affermandosi come centro propulsore di tutto ciò che nel bene e nel male si concepisce e non solo in capo economico. Non vi è sapere o fare che direttamente o indirettamente non si ricolleghi all’impresa, categoria eterna nel tempo e nello spazio. Come non è possibile concepire nessuna società al di fuori della famiglia, così come non è pensabile nessuna organizzazione statuale senza l’impresa, la cui espansione sovranazionale sembra indicare una possibile via per la ricomposizione del mondo.

Dietro le imprese ci sono gli uomini, definiti imprenditori o produttori, dando a questo ultimo termine un significato più pregnante.

Questa premessa tende a motivare o a dare una ragione dei “profili”, riguardanti gli uomini del fare, e destinati ad essere pubblicati su questo giornale. In materia c’è qualche precedente famoso. Nel secolo scorso Pasqualine Tola col suo Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna certamente si proponeva anche scopi patriottici così come è accaduto forse al falsificatore delle Carte d’Arborea.

I “profili” che ci occupano però non hanno scopi celebrativi, anche se raccontano gli eroismi di uomini che, venuti su dal nulla, hanno sopportato rinunce e sacrifici per impadronirsi di un sapere imprenditoriale che la natura desertica della Sardegna sembrava negare. Se mai ci troviamo di fronte a frammenti di biografie dettate da un imperativo culturale per dare esistenza, secondo la concezione di Lotman, a chi è degno di restare nella memoria per aver “compiuto eccessi nel bene e nel male”. Sarebbe interessante e utile tracciare anche le biografie di coloro che sono periti nell’arduo cimento (gli uomini della caduta) e di coloro che hanno abbandonato e sono dovuti fuggire (gli uomini della diaspora); ma ora occorre dare conto degli intendimenti con cui il lavoro è stato realizzato.

Intanto si è partiti dal convincimento che la nostra storia recente l’abbiano scritta anche questi uomini con le loro gesta più o meno fortunate. Il volto della Sardegna è mutato profondamente in questi ultimi anni; non si tratta di esprimere giudizi moralistici su ciò che è accaduto, ma di capire quali equilibri sono stati salvati o sconvolti nel rapporto che lega l’uomo al suo ambiente.

I mutamenti, spesso drammatici, sono stati compiuti in una condizione di solitudine e di isolamento, anche quando ci si è mossi per imitazione. Ogni produttore sardo ha sentito fortemente il bisogno di dialogare e collegarsi al resto del mondo, ma raramente si è andati oltre il “sentimento”. I molti sardi che hanno avuto successo sembrano i superstiti di un cataclisma economico imprenditoriale, che ha travolto uomini e cose, cancellandone perfino la memoria. Vi è stata una sorta di selezione della specie dalla quale è scaturita una stirpe più risoluta e anche più aggressiva, capace comunque di guardare al di là del mare senza le antiche paure.

I racconti che verranno presentati non esauriscono certamente l’universo sardo degli uomini del fare, né lo rappresentano compiutamente. Tuttavia essi danno un’idea di che cosa è accaduto nel mondo imprenditoriale al quale sono legate le sorti della Sardegna.

Ogni frammento biografico, pur nella sua schematicità, tenta di descrivere, nel suo farsi e disfarsi, una vicenda imprenditoriale. Nelle biografie acquista particolare rilevanza l’elemento personale, a conferma quasi di quella verità antica secondo la quale dietro i fatti economici ci sono gli uomini con le loro debolezze e le loro virtù.

La grandezza di questi personaggi traspare non dalle quantità accumulate dentro e fuori delle imprese, ma dalla umanizzazione delle cose, talvolta anche da una debolezza che fa meglio intendere di che tempra sono fatti i realizzatori. “Pensate a noi con indulgenza” potrebbero dire col Poeta questi uomini che hanno voluto apprestare il terreno alla gentilezza e non poterono essere gentili.

Non è stato facile entrare nella confidenza di personaggi così complessi, che conservano i pudori delle origini, anche quanto le circostanze e le convenienze dovrebbero spingerli a gridare ciò che hanno realizzato. Se parlano però si rivelano dei narratori ineguagliabili. Più che raccontarli li rivivono i travagli delle loro conquiste e delle loro sconfitte. Nell’attaccamento alle cose, che non ha niente di meschino o di gretto, vi è quasi il riflesso di un sentire religioso proprio perché le cose diventano simbolo di creatività e di tutto ciò che innalza dall’immediato.

Leggere e ascoltare questi personaggi porta alla comprensione di un ambiente particolarissimo e anche di un tempo della nostra storia. Non è una comprensione fine a se stessa in quanto quelle vicende, pur essendo irripetibili, sono ricche di insegnamenti: non di regole e precetti, ma di altro che tocca la sostanza del fare imprenditoriale, sintesi di teoria e pratica, di sentimento e ragione, di azzardo e rinuncia. C’è più scienza e saggezza nel fare di questi protagonisti di quanta non ce ne sia nei trattati di economia aziendale.

Addenda

A conclusione di questo rimando particolare al lavoro pubblicistico di Bachisio Zizi, vorrei nuovamente richiamare le direzioni editoriali sia de L’Unione Sarda che de La Nuova Sardegna al dovere – tale lo ritengo – di onorare anch’esse la prolungata e qualificata collaborazione offerta dallo scrittore alle testate quotidiane dell’Isola, raccogliendo in volume quei tanti contributi sparsi. Ne ho presentato l’elenco in un articolo pubblicato nel sito di Fondazione Sardinia il 14 agosto dello scorso anno (“’Temprato dalla vita dura che ho vissuto’: Bachisio Zizi, come una fabbrica di umanità”), a sua volta approfondimento di altri interventi usciti nelle settimane e nei mesi successivi alla dolorosa scomparsa.

Debbo anche, per parte mia, sanare alcune annunciate omissioni proprio nell’elenco che lo scorso anno allargai anche alle più di cento recensioni ricevute dai suoi lavori editoriali.

Forse resterò ancora nell’incompiuto, ma almeno ridurrò i vuoti. E dunque alla lista, specificamente riferita a L’Unione Sarda, direi di aggiungere i seguenti articoli (estendendo a un’opera, bellissima, di Maria Baldessari, che lo scrittore volle pubblicare per onorare la memoria della moglie carissima allora scomparsa).

In quanto a contributi a firma dello stesso Bachisio Zizi:

-13 gennaio 2002, “Anziani, l’incubo d’essere inutile: La Sardegna abbonda di vecchi ma non sembra sapere cosa farne. Dovrebbero essere trattati come saggi e diventano invece inutili disagi per famiglia e società”;

-1° febbraio 2002, “Le acque perdute in una politica senza qualità: Non piove e non è una novità. Ma da sempre l’unica alternativa alla siccità sarda sono i lamenti”.

In quanto alle recensioni:

-13 gennaio 1968, “Un racconto di B. Zizi in un volume di Fossataro” (nella rubrica “Panorama” curata da Gianni Filippini, curatore della settimanale pagina speciale “Nel mondo dei libri”): riferimento a Marco e il banditismo;

-28 dicembre 1981, “Il popolo di Orvine”, di Antonio Romagnino (ne “La pagina dei libri”): riferimento a Il ponte di Marreri;

-12 gennaio 2005, “L’omaggio alla madre di una scrittrice sensibile e intensa. Esce postumo per i tipi della Demos La figlia della Taliana di Maria Baldessari”, a firma di Gianni Filippini.

 

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