L’interazione arcana . All’origine della creativita’ dei sardi, di Nereide Rudas

  • Ora che, da due mesi ci manca, ripubblichiamo un saggio di Nereide Rudas letto nel corso di un seminario promosso dalla Fondazione Sardinia (pubblicato in ” L’ora dei Sardi”,  a cura di Salvatore Cubeddu,  EDIZIONI FONDAZIONE SARDINIA,  Cagliari, 1999, pagg. 255 – 292)

 

Proseguendo nella scia di recenti pensieri, vorrei proporre una riflessione preliminare su un argomento scarsamente trattato.

Tema di questa riflessione è la radice dell’ attività creativa dei sardi, esplorata dalla mia prospettiva disciplinare.

Sono stata sempre affascinata da questa creatività: una creatività inso­lita, per certi versi inattesa, quasi misteriosa.

Mi sono domandata come mai un gruppo umano così poco numero­so, così isolato e così disperso sul proprio territorio, avesse potuto espri­mere tanti talenti creativi nei diversi campi del pensiero e dell’ arte.

La Sardegna non si è limitata, infatti, ad essere patria di un’unica gran­de personalità creativa.

Se l’Isola avesse, ad esempio, dato i natali solo a Grazia Deledda, pre­mio Nobel per la letteratura, o ad Antonio Gramsci, uno degli autori attualmente più letti nel mondo, o a Salvatore Sarta, un grande romanziere europeo del ’900, questo unico evento sarebbe stato di per sé impor­tante e significativo.

Avremmo potuto tranquillamente riconoscere che tutti e tre questi grandi creativi hanno arricchito la cultura e la storia al di là dei confini della propria terra e apprezzarli come straordinari doni della campagna alla città2.

Ma se un grande o un gigante resta solo, può sempre sorgere il dubbio che il suo talento straordinario, quasi avulso dal contesto, possa essersi determinato in via eccezionale come evento casuale, forse anomalo, in base a un’irripetibile combinazione di variabili.

Ma così non è stato perché il “miracolo” si è ripetuto.

E la sua ripetitività, con il manifestarsi di numerose e riconosciute personalità creative, spinge a ricercare la radice del fenomeno in altri ordini di spiegazioni.

Ogni tentativo esplicativo si scontra tuttavia con l’ampiezza del campo e la complessità strutturale del problema.

Quando da prime formulazioni di ipotesi e da asserzioni generali, come quelle sin qui avanzate, ci si voglia inoltrare su un piano più approfondito e pertinente si incontrano, infatti, numerose difficoltà.

Queste riguardano sia il piano teorico-concettuale che quello metodo­logico applicativo.

Per la Sardegna, inoltre, le difficoltà sono accresciute dal fatto che non si dispone – come spesso succede – di alcun dato di base, anche prelimi­nare, di ricerca.

Benché la creatività dei sardi sia cosi evidente ed insolita e benché si dovrebbero avere molte buone ragioni per conoscerla, incoraggiarla e pro­muoverla, essa non è stata sinora specificatamente studiata.

Se nonostante questi limiti si voglia procedere nel discorso, limitando­lo, per motivi di opportunità, alla sola letteratura, già un’ osservazione empirica in superficie rivela altri aspetti del fenomeno.

La “strana” creatività dei sardi risulta ancor più sorprendente, ove si consideri che nell’ultimo secolo le personalità creative si sono per la mas­sima parte concentrate in una specifica area geografica e culturale a base demografica ancora più ristretta e a tassi di isolamento ancora più elevati.

Se, ad esempio, si scorre la lista degli autori di questo secolo raccolti nelle rassegne e nelle antologie letterarie più note e accreditate si può age­volmente osservare che gli scrittori si distribuiscono, per luogo di nascita, preferenzialmente nella cosi detta “area interna”, ove più a lungo si è con­servata la lingua originaria e una cultura autoctona.

Sebbene i diversi testi sulla narrativa abbiano adottato criteri di inclusio­ne non omogenei e siano perciò non perfettamente sovrapponibili, un gros­so numero di autori è presente e ricorrente in tutte le rassegne consultate.

Questi scrittori, unanimemente riconosciuti, assommano a circa 40 unità, di cui oltre il 63% appartiene all’ area interna.

La percentuale è destinata ad innalzarsi ulteriormente quando si prendo­no in considerazione altre variabili biografiche oltre il grezzo dato di nascita.

Poiché la denominazione di “Sardegna interna” o “area interna” è dif­ficilmente definibile e circoscrivibile e per di più è nata storicamente con esplicite connotazioni politiche, soprattutto legate ai fenomeni di crimi­nalità pastorale che vi insisteva e vi insiste, il termine “interno”, pur for­temente espressivo e di immediata comprensione, non consente una pre­cisa e inequivoca delimitazione.

Preferisco perciò riferirmi all’ “area dell’isolamento” più rigorosamente delimitabile e più specificatamente studiata”.

L’isolamenro, costante antropofenomenologica di indiscussa rilevanza, disegna in Sardegna una configurazione triangolare.

Misurato con distinte metodologie ed espresso con diversi indici, la sua mappa non subisce sostanziali modificazioni.

Il “triangolo dell’isolamento” poggia la propria base sulla costa orien­tale dell’Ogliastra e della Baronia, abbraccia il massiccio del Gennargentu con le sue propaggini e contrafforti settentrionali e meridionali, include gli altopiani centrali per poi convergere con il vertice dei suoi lati verso il Montiferro e la costa occidentale”.

La Sardegna, dunque, isolata per la sua dimensione di insularità, com­prende al proprio interno un’ area ancora più isolata.

Questa “isola nell’isola” – come è stata spesso chiamata – corrisponde nelle sue linee generali all’ area più intensamente pastorale a regime tradi­zionalmente transumante.

Potremmo chiamarla l’isola della montagna: una montagna che sciama. Questo mondo pastorale chiuso e introverso, capace però di dirom­penti vettorialità espansive, manifesta – come è noto – peculiari feno­meni a lungo studiati e che hanno anche recentemente suscitato allarme sociale.

Mi riferisco alla criminalità pastorale che nelle sue manifestazioni più tipiche e salienti (abigeato, sequestro di persona, omicidio con specifiche motivazioni, faida, ecc.) si correla strettamente agli indici dell’isolamento”.

Dalle numerose indagini svolte emerse che, oltre ai fenomeni d’inte­resse criminologico, nell’area dell’isolamento si addensavano quelli d’inte­resse psicopatologico. Le malattie mentali nel loro nucleo più duro e con­sistente (psicosi) si concentravano nelle zone pastorali isolate.

La loro distribuzione, ricavata nel lungo periodo (1901-1964) sulla base dello spoglio di 16.305 cartelle cliniche di pazienti ricoverati negli Ospedali Psichiatrici di Cagliari e Sassari, mostrava senza ombra di dub­bio, una spiccata preferenzialità per il triangolo dell’isolamento, specie nella sua parte sud-orientale. (R. Camba, N. Rudas, 1965)

In particolare, la mappa delle psicosi maniaco-depressive e dei disturbi gravi dell’umore sembra seguire in Sardegna le linee della pastoralità isolata6.

Queste risultanze, ottenute mediante ricerche sistematiche, lunghe e faticose, non facevano però altro che confermare, in un linguaggio più strettamente scientifico, ciò che intuitivamente si sapeva già. E cioè che la condizione di isolamento può favorire, slatentizzare o determinare com­portamenti di devianza sociale o psicopatologica.

Ma si poteva, invece, ipotizzare che la stessa condizione e tutto ciò che essa trascina sia alla base non solo di comportamenti negativi, ma di atti­vità creativa?

D’altra parte quel mondo pastorale, benché chiuso e isolato, appariva dotato di forti potenzialità.

Molti segnali in tal senso mi erano spesso pervenuti da numerose inda­gini, anche se non sempre ero stata in grado di coglierne completamente il significato.

Le ricerche sull’ emigrazione sarda avevano, ad esempio, confermato che i soggetti provenienti dalle aree più isolate correvano maggiori rischi psicopatologici e ammalavano più frequentemente di forme depressive”, Dalle stesse aree provenivano però anche i soggetti che durante l’espe­rienza emigratoria avevano maturato capacità creative e avevano mostrato una maggiore tendenza alla leadership.

Ma fu solo quando mi accinsi alla stesura dell’ Isola dei coralli che il mio sforzo di penetrare la cultura e la società sarde me le mostrò, forse per la prima volta, in una prospettiva più profondamente dialettica”

I romanzi e le opere d’arte che tentai d’interpretare mi sembravano trarre motivazione, forma e sostanza da un humus di grande e profonda sofferenza individuale e collettiva.

L’ipotesi che una delle radici della creatività dei sardi affondasse nell’ e­sperienza “depressiva”, non nei suoi termini psicopatologici stretti e spe­cifici, ma nella più ampia dimensione di sofferenza e dei vissuti di man­canza e di perdita, andava prendendo corpo.

Sull’onda di quei pensieri era allora possibile pensare a quell’area isola­ta come anche capace di rovesciare il malessere e la sofferenza tramutan­doli in attività e opere creative.

Seguendo questo ordine di pensieri, tenterò di approfondire i seguen­ti punti:

1)      Cenni sul pensiero e sulla personalità creativa.

 

2) Il legame creatività/depressione al vaglio della ricerca scientifica

3) Alcune interpretazioni psicodinamiche della creatività con partico­lare riferimento a quella dei sardi, colta nei suoi risvolti depressivi.

 

Prima di addentrarsi nel difficile discorso sul legame creatività/depres­sione è forse opportuno soffermarsi, seppure brevemente e insufficientemente, su alcuni aspetti generali della creatività.

Il suo studio scientifico è relativamente recente e risale ai primi decen­ni di questo secolo.

È appunto a cavallo tra le due grandi guerre che furono formulate le principali teorie generali e specifiche sulla creatività.

In base a queste teorie, che sarebbe difficile sintetizzare, si arriva ad altrettante definizioni del concetto stesso di creatività, di processo creati­vo, di personalità creativa, ecc.

Quasi tutti gli autori concordano sul fatto che la creatività è una pre­rogativa esclusiva dell’uomo ed è legata alla sua capacità simbolica.

Ogni essere umano è dotato d’una potenziale creatività, che la società dovrebbe occuparsi e preoccuparsi di promuovere e incrementare. E tut­tavia opportuno distinguere tra la creatività comunemente riscontrabile e una creatività di grado più raro ed elevato.

Solo quest’ultima è profondamente innovativa, rappresentando il fon­damentale motore delle conquiste dell’uomo e della sua società.

Benché il pensiero creativo sia stato categorizzato in maniere diverse e siano stati isolati oltre 80 tratti nella personalità creativa, molti studiosi sottolineano quale dominante del soggetto creativo la sua straordinaria capacità di trovare soluzioni insolite, originali e innovative.

Si concorda nell’ attribuire al creativo non solo una maggiore ricchezza e ampiezza di idee (“pensiero produttivo”) ma una sua specifica forma, che consiste nell’ adottare “soluzioni divergenti”.

Nel “pensiero divergente”, studiato da Guilford, la persona non segue i sentieri già battuti, né si conforma alle formule correnti, ma privilegia soluzioni nuove, inedite, prospettiche”

Proprio il pensiero divergente connoterebbe il creativo, dotandolo di una marcia in più.

 

Le principali caratteristiche del pensiero divergente sono:

- l’ “originalità” (capacità di elaborare in nuove strutture cognitive ciò che si conosce);

-la “fluidità” (capacità di fertilità di pensiero);

-la “flessibilità” (capacità di abbandonare vecchi schemi e seguire nuove direzioni di pensiero).

Anche altri Autori evidenziano nella personalità creativa un pensiero anticonvenzionale e anticonformistico, un giudizio indipendente, un pressante desiderio di scoprire aree sconosciute, nuove e problematiche.

Per Barron (1963) il creativo avrebbe una “disposizione all’ originalità” che consiste oltre che nella produzione di risposte adattative insolite e nel­l’autonomia di pensiero e di valutazione, nella preferenzialità verso la complessità.

Un altro aspetto interessante da notare è che numerose ricerche inclu­dono nella personalità creativa doti di:

- sensibilità

.          ”

- immaginazione

- tenacia

- dedizione ai temi culturali e intellettuali con un certo distacco dalle comuni contingenze di vita

- capacità di vivere in solitudine.

Quest’ultimo aspetto, che appare pertinente al gruppo sardo, merita qualche breve cenno.

Che la creatività per potersi esprimere richieda appropriate condizioni di solitudine è un fatto noto, ma solo studi specifici hanno individuato nel bisogno di solitudine un tratto saliente della personalità di chi crea. Intorno a questo bisogno ruota, seppure con un diverso taglio, il discorso di A. Storr (1989) che, in un suo noto libro, sostiene il ruolo centrale della solitudine nel processo creativo.

. Dall’ avvincente trama delle ricostruzioni biografiche di alcuni geni risulta che essi prima di produrre le loro opere avevano attraversato perio­di intensi di solitudine!”.

Qui Storr si riferisce, ovviamente, a quella che altrove ho definito “la grande solitudine”, quale scelta di vita e strada privilegiata per attingere alla ipseità e, insieme, come modalità autentica di vivere ed esprimere la propria storia.

Ma ne esiste un’ altra, penosa faccia.

L’analisi dei vissuti permette di individuare almeno due dimensioni che impropriamente accomuniamo sotto lo stesso termine di solitudine, e che hanno in realtà valenza diversa, per non dire oppositiva. C’è appunto la “grande solitudine” del poeta, dello scienziato, del mistico, ecc. che rap­presenta la via maestra verso l’autenticazione dell’Io, il suo arricchimento e la creatività.

La dimensione opposta, che potremo definire “isolamento solitario“, lede l’interpersonalità e il legame di fiducia tra l’individuo e la sua società!’.

I sardi per condizioni storiche, geografiche e antropologiche hanno spesso vissuto questa seconda dimensione: una solitudine abbandonica, non scelta ma subita.

Hanno perciò sofferto la costrizione dello “stare-soli”, dell’essere-stati­-lasciati-soli”, dell’essere-staTi-messi-da-parre” con tutti i vissuti di umilia­zione, svalutazione e vergogna dell’intera gamma frustrante d’una condi­zione difettiva ed emarginante. È chiaro che questa seconda dimensione non arricchisce l’IO, ma, al contrario, lo depaupera sino a spingerlo in un orizzonte di disrealtà.

Tuttavia proprio il discorso sulla creatività dei sardi permette di ipotiz­zare, come meglio vedremo, che la capacità e l’abitudine a vivere in soli­tudine possa essersi, in particolari situazioni, rovesciata da modalità difen­siva a modalità produttiva e prospettica.

Dobbiamo ora approfondire il discorso tentando di esaminare il rap­porto creatività/depressione.

Che i creativi, specie i poeti e gli scrittori, siano persone sensibili, pron­te a risuonare emotivamente con oscillazioni anche marcate dell’umore, individui spesso vulnerabili e fragili è esperienza comune, prima che esperienza clinica e scientifica.

Ma esiste una relazione scientificamente verificabile tra creatività e depressione?

E come la ricerca scientifica ha esaminato e valutato questa relazione? E, infine, questa relazione è applicabile alla situazione sarda?

Bisogna innanzitutto dire che lungo i secoli, durante i quali l’uomo ha osservato l’uomo, le variazioni estreme dell’umore sono state associate a quelle altrettanto estreme dell’ esperienza umana, quale appunto la creati­vità (K. R. Jamison 1994).

L’associazione tra “genio” e “follia” e, in particolare, tra creatività ed eccessi emotivi, antica e radicata nella nostra cultura, è già presente nei miti precedenti la civiltà greca.

Gli antichi culti dionisiaci ne sono un lucido esempio. In onore di Dioniso, egli stesso condannato alla follia da Hera, si celebravano riti, durante i quali i convenuti andavano incontro a un profondo coinvolgi­mento e turbamento emotivo che sfociava in un discontrollo comporta­mentale sino ad esplosioni orgiastiche e violente.

Il partecipante, privato della sua individualità e sganciato dai legami collettivi, sperimentava una sorta di alienazione mentale transitoria.

È da notare che il ristabilimento dell’ equilibrio mentale, il rinnova­mento della vitalità e l’ispirazione creativa seguivano queste fasi di ecces­so, confusione e violenza. È altresì importante sottolineare che questi rituali avessero una cadenza ciclica in rapporto all’ avvicendarsi delle sta­gioni, rappresentando così i temi della morte e della rinascita.

Dioniso è strutturalmente legato al tema della trasformazione, della creazione nella natura: è il Dio della rinascita.

Sarebbe lungo seguire puntualmente l’evolversi del binomio depressio­ne/ creatività dai tempi di Platone, Aristotele e Socrate attraverso l’epoca classica e Il Medioevo che guarda ad esso con indifferenza se non con sospetto. Nel Rinascimento si assiste, invece, a un rinnovato interesse al binomio genio e melanconia che continua nell’ epoca moderna. Per la prima volta viene usata la parola “psicologia” da Rodolfo Goeckel in un trattato e si scrive così una nuova pagina della ricerca scientifica. Nella successiva epoca dei Lumi il pensiero razionale si afferma anche come pre­messa del talento e della creatività e la malattia mentale è colta soprattut­to come offuscamento della ragione.

L’interesse per il binomio creatività e follia si risveglia nel periodo romantico in cui si disegna la figura del genio ispirato e posseduto dalle muse.

Nel tardo Ottocento avanzano posizioni più equilibrate e incomincia­no a definirsi le tendenze del nostro secolo.

Nel successivo primo Novecento si impongono indirizzi influenzati dalla nascente Psicologia sperimentale e dalla Psichiatria come branca distinta dal resto della Medicina.     ‘

Lo stesso Kraepelin, fondatore della Psichiatria moderna, osserva che i disturbi dell’umore possono liberare forze altrimenti costrette e inibite, facendo sperimentare, specie nel linguaggio poetico, sensibili progressi.

Ma è soprattutto con Sigmund Freud e l’avvento della Psicoanalisi che il rapporto tra creatività e disturbi affettivi viene posto – come meglio dirò – in una luce originale e innovativa.

Negli anni più recenti questa relazione incomincia ad essere vagliata sperirnentalmente. Le caratteristiche della malattia affettiva nonché le sue fasi in rapporto alla creatività, sono inoltre analizzate in maniera più ampia e approfondita.

. Nel complesso la nostra. epoca affronta su una base metodologica più rigorosa l’ipotesi della relazione tra malattie affettive ed esperienza creati­va, incontrando sul suo cammino notevoli difficoltà.

Per la prima volta il binomio disturbo affettivo/creatività viene guar­dato nel suo primo termine in modo più completo e ci si domanda se nella produzione creativa entri il riflesso della malattia come esperienza dolorosa, ma non del tutto sterile. In altre parole ci si interroga sul river­bero psicologico della malattia nel processo creativo.

Si può scorgere in questa ultima posizione la tendenza a considerare la sofferenza psichica non soltanto nella sua negatività, come minus, ma come vissuto complesso a cui è necessario accostarsi in modo più libero, adeguato e comprensivo.

La ricerca attuale, avvalendosi di metodologie sempre più sofisticate, tenta di districare il problematico legame tra disturbi affettivi e creatività.

La considerevole mole di risultati ottenuti non ne permettono un’ esauriente sintesi.

Al fine del nostro discorso ne richiamerò brevemente alcuni che sembrano fornire le prove scientifiche e biografiche del rapporto fra variazio­ni estreme dell’umore e produzione artistica.

Un filone di ricerche si è rivolto alla valutazione biografico-epidemiologica dei tassi dei disturbi affettivi nei soggetti creativi.

Dopo gli studi di Cesare Lombroso e Francis Galton che, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, avevano sottolineato, secon­do una prospettiva positivistica, le valenze psicopatologiche nei grandi ingegni, Adele Juda nel secondo dopoguerra affrontò in modo nuovo il tema del rischio di sofferenza mentale a cui sono esposti letterati e artisti.

In una ricerca che si estese per ben 17 anni, durante i quali furono intervistati circa 5.000 soggetti, la Juda esaminò in modo accurato e approfondito 113 scrittori, poeti, pittori, compositori, ecc. tedeschi e le

loro famiglie.

L’analisi evidenziò che, sebbene tutti i creativi presentassero tassi più elevati di malattia mentale, ne erano colpiti soprattutto i poeti. Questi in circa il 50% dei casi risultavano affetti da malattia maniaco-depressiva o da disturbi gravi dell’umore’P.

Essi erano seguiti dai compositori (38%) e dai pittori (20%).

Anche i familiari (fratelli, sorelle e figli) andavano incontro a più alti rischi di depressione, alcolismo e suicidio.

Una ricerca condotta negli Stati Uniti confermò la maggiore vulnerabilità dei poeti ai disturbi dell’umore’”.

Il piano dell’indagine prevedeva la compilazione dell’elenco dei più

grandi poeti americani del Novecento.

Il criterio di inclusione fu preciso, rigoroso e selettivo.

Ne risultò una lista di 36 grandi poeti, di chiara fama, alcuni dei quali vincitori del Premio Pulitzer.

Tutti i poeti presi in considerazione erano compresi nel The New Oxford Book of English Verse.

Si trattava dunque del Gota della poesia statunitense contemporanea. L’osservazione biografico-epidemiologica, secondo precisi parametri, mise in luce dati sconvolgenti.

I poeti americani di questo secolo presentavano elevatissime percen­tuali di disturbi dell’umore.

Sul totale di 36 grandi poeti più di 1/5 lamentava una storia docu­mentata di malattia maniaco-depressiva grave che aveva portato a uno o più ricoveri in strutture psichiatriche .

. Considerando che la percentuale media di questa malattia nella popo­lazione generale americana del periodo considerato è assai più bassa, si poteva osservare un suo elevamento impressionante tra i poeti.

Dall’ osservazione risultò che i poeti non solo erano più colpiti, ma avevano una storia di ricoveri più lunga e ripetuta rispetto alla popola­zione generale e, soprattutto, la malattia stessa si era conclusa con un esito infausto.

Ben 5 degli 8 poeti esaminati (pari al 63%) erano, infatti, morti per suicidio.

È, a questo proposito, da ricordare che la depressione è la malattia mentale che esprime il più elevato rischio suicidario.

. Uno studio condotto da Silvano Arieti può rientrare in questo tipo di ricerche, anche se se ne discosta per alcuni punti fondamentali.

Egli prese in esame un gruppo molto creativo e, purtroppo, partico­larmente segnato da malattie depressive.

L’analisi riguardava la sola creatività degli ebrei, di cui non si conside­rava specificatamente la patologia affettiva.

Arieti ricavò la loro capacità creativa, basandosi sull’assegnazione del NobeI.

La frequenza della vincita del premio dal 1901 al 1970 negli ebrei viene confrontata con quella mondiale e con quella di quattro nazioni significative (Argentina, Francia, Germania, Italia).

L’analisi statistica di tale confronto evidenziò che il gruppo ebraico era straordinariamente più premiato.

Mentre il rapporto tra vincitori argentini e il totale dei vincitori era di 1.3; quello degli italiani 1.6; quello dei tedeschi 4.4; quello dei francesi 6.3, quello degli ebrei era di 28 volte più grande del resto del mondo. .

Dalla ricerca emerse inoltre che gli ebrei, che si affermavano nel vari campi, prevalevano tuttavia in quelli della medicina e della fisica.             ,

La distribuzione mostrò inoltre che negli anni della persecuzione nazi­sta la percentuale degli ebrei vincitori, pur mantenendosi significativamente più alta (rispetto alla popolazione mondiale e a quella degli altri gruppi esaminati), aveva tuttavia subito una forte contrazione.

Sebbene la ricerca avesse esaminato unicamente la creativita di questo gruppo, senza alcun riferimento ai disturbi affettivi, i risultati così ecla­tanti sono stati qui richiamati in quanto molti ebrei – come e noto ,- esprimono alti tassi di malattie affettive, possiamo con molta libertà perciò assumere questo ultimo dato come termine indiretto in un ipotetico con­fronto con la creatività.

Un altro filone di ricerche seguì modelli sperimentali-sistematici.

Tra le indagini più rigorose si segnalano quella della Andreasen che tentò di verificare l’ipotesi del legame tra creatività e disturbi dell’umore con una metodologia strettamente sperimentale. Per evitare possibili cri­tiche la Andreasen utilizzò colloqui strutturati e precisi criteri diagnostici oggettivi. In tal modo selezionò un gruppo di 30  scrittori americani di riconosciuta fama e lo confrontò con un gruppo di controllo di 30 perso­ne, omogeneo per sesso, età e livello d’istruzione.

Il confronto tra il gruppo “creativo” e il gruppo di controllo confermò l’ipotesi fondamentale della ricerca.        .,          Gli scrittori erano straordinariamente più colpiti da disturbi dell’umo­re rispetto ai relativi controlli.

Quasi la metà degli scrittori risultò affetta da gravi disturbi dell’umore. L’osservazione della Andreasen prevedeva anche l’estensione alla famiglia sia del gruppo sperimentale che di quello di controllo.           ,

La storia dei nuclei familiari, nell’ esame comparato, confermò nuova­mente l’ipotesi di base.

Gli scrittori annoveravano, infatti, familiari (parenti di primo grado) più creativi e insieme più segnati da disturbi psichiatrici rispetto al gruppo di controllo.   ,

Un altro importante studio è quello condotto dalla Richards nell’Università di Harvard.

L’indagine non si rivolse a personalità famose ma a semplici persone creative, estendendo così lo sguardo a un concetto più ampio e meno formale di creatività.

 

La Richards e i suoi collaboratori selezionano soggetti creativi avva­lendosi di specifiche scale di creatività.

 

Ottenuto così un gruppo “creativo” lo confrontarono secondo le con­suete modalità sperimentali, con un gruppo di controllo omogeneo per caratteristiche di base (sesso, età, livello d’istruzione, ecc.).

La ricerca riaffermò il legame creatività/depressione.

 

Tra i suoi risultati più significativi emerse che il picco della creati­vità si verificava nei soggetti affetti da forme lievi o subcliniche di disturbo bipolare.

 

La capacità creativa decresceva nei pazienti affetti da gravi disturbi depressivi e nei soggetti normali.

 

Questo risultato sembra ribadire l’ormai diffusa convinzione clinica che l’attività creativa può essere incrementata da lievi gradi di depressione o di maniacalità, ma è nettamente inibita da livelli gravi di depressione.

 

Significativi sono anche gli studi di Kay R. Jamison, autrice, tra l’altro, di un famoso libro che ha avuto un grande successo editoriale.

 

La Jamison, in una sua nota ricerca, prese in esame scrittori, poeti, drammaturghi inglesi di chiara fama.

 

Tutte le personalità creative erano, infatti, incluse nell’ Oxford Book e molte di loro avevano ricevuto premi letterari e artistici importanti, non­ché prestigiose onorificenze.

 

Ai componenti del gruppo “creativo” fu chiesto se avessero precedente­mente lamentato disturbi dell’umore e se fossero stati eventualmente cura­ti per tali disturbi. Risultò che una percentuale elevatissima del campione (38%) aveva sofferto di malattia maniaco-depressiva e, in particolare, di disturbi depressivi, per i quali si era sottoposto a specifici trattamenti.

 

Il 75% dei soggetti era stato curato con farmaci antidepressivi e sali di litio (uno stabilizzatore dell’umore) e aveva subito ricoveri in strutture psi­chiatriche.

 

Altri studi confermarono la maggiore esposizione dei poeti al rischio depressivo e al suicidio.

 

Un gruppo importante di ricerche ha indagato il rapporto creati­vità/disturbi dell’umore seguendo invece una prospettiva biografico-clini­ca. Sebbene questo tipo di indagine conservi un maggior gradiente di sog­gettività e di discrezionalità interpretativa, esse hanno fornito contributi e suggestioni di grande interesse.

Le biografie di personalità creative affette da disturbi dell’umore sono state ricostruite spesso con grande efficacia e profondità.

Dopo quelli descritti da Freud, disponiamo così dei profili di molti depressi famosi (Michelangelo, Martin Lutero, Ignazio di Loyola, Van Gogh, Beethoven, Schuman, Edgar A. Poe, Pirandello, ecc.) .

Una rassegna dell’ ormai vasta letteratura scientifica sull’ argomento è impossibile.

Anche in Italia c’è stato un risveglio dell’interesse psicologico e psico-patologico verso figure di artisti colpiti da malattia depressiva.

Basandomi sullo straordinario documento costituito dalle Lettere dal Carcere, io stessa ho tentato una lettura biografica di Antonio Gramsci, la cui figura, studiata soprattutto nel versante teorico, politico e storico resta per certi versi inesplorata.

Mi sono avvalsa di un particolare metodo biografico precedentemente sperimentato l 8

Alla luce di questa ricostruzione biografica unitaria e dialettica l’uomo Gramsci nella sua creatività mi è apparso il prodotto complesso di una storia genetica e insieme extragenetica, di una biografia individuale e insieme politica e sociale, di un percorso personale e insieme familiare e collettivo.

Da questa particolare angolatura è emerso che questo grande creativo,

dotato d’un potente “pensiero divergente”, ebbe un’esistenza segnata da dolorosi life events e da situazioni estremamente negative.

In particolare egli fu costretto a essere:

- in un corpo infelice e malato

-  in uno stato di bisogno materiale sino alla fame

- in una dura detenzione.

Gramsci, già malato, con la reclusione divenne anche un malato dello spazio e del tempo, subendo un profondo perturbamento dei parametri spazio temporali e del rapporto Io-Mondo.

Obliterato nella cella, che gli vietò la libertà e gli sottrasse la natura sarda (da lui tanto amata), egli scrisse della sua lontana isola natale.

La Sardegna, simbolo e metafora, si impose allora come modello con­trapposto su cui misurare la sofferenza d’una costrizione e su cui disegna­re i contorni d’una libertà consapevolmente perduta, ma non perciò meno dolorosamente perduta.

Oltre allo spazio anche il tempo venne profondamente coartato.

La frattura delle coordinate esistenziali e dei legami interpersonali, familiari e politici sospinsero Gramsci, vittima di molteplici claustrazioni, verso il piano inclinato della tristezza e della sofferenza depressiva.

Le Lettere ci accompagnano in un itinerario di isolamento (familiare, sociale, politico, ecc.) e di solitudine (da quella produttiva e creativa a quella abbandonica e desolata), introducendoci nel carcere di Turi e in quello interiore, senza sbarre, ma non meno precludente.

Da questo tormentato percorso traspaiono numerosi segni di prostra­zione e depressione che lacerano la trama esistenziale del recluso. Gramsci stesso dice di sentirsi demotivato, abulico, insonne e depresso, né poteva essere altrimenti.

Ma l’epistolario ci aiuta anche a comprendere come egli riuscì ad anda­re oltre lo spazio, il tempo e l’isolamento detentivi e a superare la sua con­dizione costrittiva, traducendola in una libera capacità di progetto, che trovò nella sua opera piena realizzazione.

Inoltrandoci nel discorso, dobbiamo ora porci ulteriori domande.

Se la creatività è in qualche modo legata al disturbo affettivo, quali sono i meccanismi psicologici implicati che possono o potrebbero agevolare l’atto creativo?

Non esiste un’unica risposta a tale quesito che ci introduce nel diffici­le ambito interpretativo.

Terreno vasto e insidioso, poiché tutte o quasi le interpretazioni della depressione possono o potrebbero essere piegate nella spiegazione della creazione artistica.

Per comprensibili motivi mi soffermerò, seppure brevemente, su alcu­ne interpretazioni che sembrano più aderenti all’ipotesi assunta.

Il punto obbligato di partenza diviene la Psicoanalisi, l’indirizzo che ha storicamente dedicato maggiore interesse al problema della creatività.

Non si può perciò prescindere dai suoi concetti fondamentali ad ini­ziare dal suo fondatore.

Il pensiero di Freud è cosi conosciuto che esime da un richiamo più profondo e circostanziato.

Ci si limita ad osservare che l’immensa influenza del suo pensiero sul Novecento, non a caso chiamato “il secolo psicoanalitico”, si articola, per quanto riguarda la creatività artistica, in una duplice direzione. Da una parte con la Psicoanalisi avanza una dimensione ermeneutica che permet­te di leggere l’opera d’arte nei suoi aspetti simbolici, avvalendosi di una nuova tecnica.

Dall’ altra parte le teorie freudiane innervano e influenzano i movimenti e le tendenze artistiche.

Freud si colloca così in quella linea di tendenza, già iniziata nel Rinascimento, di convergenza tra scienza e arte, promuovendo un avvici­namento tra mondo letterario e artistico e mondo delle discipline psicologiche e psichiatriche.

Egli attribuisce uno statuto speciale all’opera d’arte, di cui fu un acuto conoscitore.

In suoi scritti ammette esplicitamente il suo debito nei confronti dell’intelligenza e della sensibilità artistica e letteraria.

Con la sua analisi Freud propone un’interpretazione originale dell’opera d’arte, del processo creativo e dello stesso suo creatore, fornendo così un modello nuovo, capace di esplorare più profondamente nella produzione artistica e spirituale dell’uomo.

Questo modello percorre la via della ricostruzione biografica che, nelle sue mani, si rivela capace di dare un inconsueto e straordinario spessore alla trama personale e artistica di chi crea’”.

È stato inoltre sottolineato l’allargamento da lui promosso della base secolare e “democratica” della funzione creativa. La sua concezione, infat­ti, supera alcune dicotomie classiche (bambino/adulto; primitivo/civiliz­zato; normale/anormale; ordinario/straordinario) e avvicina la produzio­ne artistica infantile primitiva e psicopatologica al solo modello sino allo­ra riconosciuto dell’ artista adulto, normale, civilizzato.

L’atto creativo finisce così d’essere quel dono unico e sovrannaturale per divenire una capacità di cui ognuno è più o meno dotato.

Freud per primo cala le radici della creatività nella motivazione inconscia e valorizza le esperienze infantili.

Nella creazione artistica attribuisce fondamentale importanza alla sublimazione. meccanismo inconscio tramite il quale una pulsione origi­nariamente sessuale subisce un cambiamento della propria natura (desessualizzazione) e del proprio scopo, indirizzandosi a fini socialmente compatibili e accettabili.

La creazione artistica per Freud si avvale degli stessi meccanismi e linguaggi che presiedono i sogni. Egli paragona l’opera d’arte ad “un sogno ad occhi aperti”.

La curiosità infantile, primariamente rivolta all’ambito sessuale, in casi rari e particolari, può essere sublimata in quell’ atteggiamento indagatore maturo che conduce alla realizzazione artistica.

Come il bambino trova nel sogno o nel gioco la realizzazione d’un desiderio e un abbellimento della realtà, cosi l’adulto nella produzione artistica ritrae analogo appagamento, soddisfacendo suoi desideri profondi.

Sulla scorta di materiali clinici e di ricordi precoci egli tenta una rico­struzione a ritroso di geni famosi, cogliendo nella loro opera l’esito subli­mato di una potente dinamica pulsione.

La motivazione conflittuale e la nevrosi depressiva, ove si contenga entro certi limiti, può quindi costituire una significativa spinta alla creazione arti­stica e rappresentare una parte non trascurabile dell’ opera d’arte.

Benché fortemente convinto della sua interpretazione, Freud riconosce tuttavia con grande umiltà che tra pulsioni primarie, con le loro vicende sublimarorie, e manifestazione artistica permane un irrimediabile salto,  un vuoto incolmabile. ‘

Il processo creativo trascende quindi sempre il disturbo depressivo: l’o­pera d’arte non ne è, infatti, il prodotto diretto e immediato, ma ciò che ne è derivato (S. Arieti, 1979).

Conclusivamente, dunque, si può affermare che con Freud inizia una nuova era nella conoscenza e nell’interpretazione letteraria e artistica, che presto si diffonde nei Paesi europei e nord-americani e si espande poi ad altri popoli e culture.

Seguendo l’indirizzo freudiano e post-freudiano anche in Italia fiori­scono, sebbene meno che altrove, ricerche su personalità dell’ arte e della letteratura.

Io stessa, avvalendomi del metodo psicodinamico, ho letto opere di grandi scrittori e artisti sardi (Grazia Deledda, Antonio Gramsci, Salvatore Satta, Francesco Ciusa, Giuseppe Dessi, Emilio Lussu).

Sempre seguendo quest’ ottica mi sono inoltre spinta a interpretare, in un itinerario di ricerca dell’identità, quella particolare forma di elabora­zione narrativa chiamata felicemente da Freud “romanzo familiare”2o.

Ma ho trasferito il discorso sul romanzo familiare da un ambito clini­co-individuale a uno collettivo, sociale e storico.

In tale ottica ho letto le false Carte d’Arborea, vero e proprio romanzo delle origini, traduzione fantastica d’una genealogia storica inesistente e, tuttavia indicativo dell’esigenza della ricerca d’una patria perduta e d’una identità mancata.

Dopo questi brevi richiami all’impostazione freudiana è utile esamina­re il contributo junghiano all’ approfondimento del rapporto creatività/ depressione.

Carl Gustav Jung eredita da Freud, dal quale poi si discosta, l’interesse per il fenomeno creativo in tutta l’infinita gamma espressiva. Egli, tut­tavia, allarga la base dell’inconscio e tende a sottolineare il carattere uni­versale della creazione artistica.

Jung legge l’opera d’arte alla luce del concetto di inconscio collettivo. La produzione artistica non è la risultante esclusiva delle esperienze e dei vissuti dell’ artista o degli schemi cognitivi e culturali del mondo in cui egli vive ed opera.

Nella creazione artistica sono coinvolti processi ed esperienze arcaiche e immagini primordiali. Queste immagini, che egli chiama “archetipi”, sono in stretta concordanza con i motivi mitologici più noti. Gli archeti­pi, sedimentati nell’inconscio collettivo e tramandati nel corso delle subentranti generazioni, riemergono nella produzione delle opere d’arte. Le sue figure, come quelle del mito, sono fatte della stessa materia – per dirla con Shaekspeare – di cui sono fatti i sogni.

Tutte originano da una base inconscia comune, da una profondità uni­ficante.

Jung ritiene che il processo artistico si estrinsechi mediante due moda­lità fondamentali: quella “psicologica” e quella “visionaria”,

Nella prima il contenuto della creazione artistica deriva dalla sfera della coscienza umana e riflette l’ambiente, la famiglia, la società, le vicende amorose, distruttive, ecc. Questa modalità, che rivela la dimensione del­l’esperienza personale e sociale, “non supera mai i confini della compren­sibilità psicologica, indirizzando i contenuti e le esperienze dell’ opera d’ar­te verso mete e finalità consapevoli”.

Ma è la modalità “visionaria” quella che maggiormente aderisce al con­cetto di creatività junghiano. Solo in essa riemergono quei contenuti inva­riabili di significato, gli archetipi, depositati in quell’immenso serbatoio astorico, in quell’oscurità senza tempo che è l’inconscio collettivo.

Solo quando fa uso di questa ultima modalità la persona creativa è dominata dal contenuto profondo comune riemergente. In tal caso l’ope­ra, quasi Gestàlt arcaica riaffiorante, è già strutturata in una forma e il suo immutabile significato vi è insito.

Essa s’impone perciò all’artista e lo relega in una posizione per certi versi passiva. Ecco perché egli non sa perché esprime quella forma, quasi ne fosse obbligato e non può apportarvi sostanziali modifiche.

L’artista sente così d’essere alla mercé di un’intenzione “aliena”, che lo compulsa al di là della propria volontà e comprensione. Questa posizione di Jung sembra conferire veste nuova alla figura antica dell’ artista ispirato

inconsapevolmente e quasi preda delle Muse.

I! pensiero creativo – diceva d’altronde Goethe – giunge alla mente come uno straniero.

In tal senso il prodotto creativo è un “complesso autonomo”, sgancia­to dal controllo psichico consapevole.

Da queste linee interpretative si disegna un parallelismo tra complesso creativo e complesso nevrotico, compreso quello depressivo. In entrambi i casi (creazione artistica e depressione) i complessi autonomi, in quanto tali, godo­no d’uno statuto d’indipendenza e di libertà dalla vigilanza della coscienza.

Si spiegherebbe così perché la grande creazione artistica, che per Jung consiste nell’ animazione dell’ archetipo, trascenda le esperienze, le circo­stanze di vita, i fattori personali e oltrepassi persino i confini del panora­ma storico in cui l’artista è immerso.

L’interpretazione junghiana nella sua espressione archetipica darebbe altresì ragione di alcuni contenuti costantemente riemergenti nella pro­duzione artistica sarda.

In particolare, l’archetipo materno con i suoi correlati simbolici (l’Isola,

la Terra) è molto insistito.

Non a caso le opere d’arte dei sardi sono affollate da madri.

Così è in Grazia Deledda, in Giuseppe Dessì, in Francesco Ciusa, ecc .. Nell’interpretazione del La madre dell’ucciso, dello straordinario scultore nuorese, ho sottolineato come la sua grande statua incarni emblema­ticamente l’essenza archetipica della maternità.

La figura materna percorre d’altronde sotterraneamente ma costante­mente la creatività dei sardi.

L’altro aspetto presente nella nostra produzione artistica è _ a mio avvi­so – quello visionario.

La modalità visionaria, invocata da Jung, è presente in molte espres­sioni artistiche sarde.

A livello più semplice questa modalità sembra, in un certo senso, nutrirsi del chiaroscuro della indiscriminazione, della difficoltà a discer­nere e separare la dimensione fantastica da quella reale.

D’altronde, al di là della creazione artistica, tende a permanere in noi sardi, accanto a una ruvida e persino spietata concretezza cognitiva, un alone fantastico, quasi rnitico, che circonfonde la percezione e la coscien­za del reale.

Sebbene cognitivamente logici, in una consequenzialità rigorosa che può sfiorare la rigidità, siamo perciò sempre sopra o sotto le righe nella consapevolezza di noi stessi e della realtà.

A livello elevato la modalità visionaria entra nella realizzazione artisti­ca di opere d’alto profilo.

Esempio della tensione visionaria in tutta la sua forza dirompente e crea­tiva è lo straordinario romanzo di Salvatore Sarta Il giorno del giudizio.

La dimensione visionaria trova qui la sua più profonda e intima essenza. È questa vettorialità visionaria, di stile junghiano, che dall’artista si tra­smette alla sua opera a conferire al romanzo la sua violenta bellezza.

Dietro la sua trama narrativa tacitianamente essenziale, dietro le sue storie nude e feroci, dietro le sue vicende senza appello – come è stato osservato – ne sentiamo l’arcaico pulsare.

Questa febbre visionaria pervade il mondo sattiano, sospesonell’attesa del giudizio, come una luce che penetra in una stanza oscura.

La gente di Nuoro con i suoi uomini e le sue donne, gli avvocati, gli abigeatari, i contadini, i pastori, i piccoli nobili, gli omicidi, le prostitute, i preti, i maestri elementari, i notai, i politici, ecc., prima di inabissarsi e scomparire per sempre nel cono d’ombra e di silenzio, viene investita da questa luce visionaria che la definisce e la rivela, quasi la folgora, renden­dola universale.

“Il sogno galoppava in quelle brulle lande”, scrive il Sarta.

La pulsione visionaria sembra perciò tanto forte da rappresentare il polo dialettico oppositivo al Thanatos, altrettanto potente che rende la stessa morte “eterna ed effimera”.

Ma i dissolventi rnorituri sognano.

In questo tendere a un’ulteriorità si potrebbe cogliere un afflato quasi blochiano, sebbene giocato su un registro irrimediabilmente diverso.é’ Un altro modulo che a mio avviso si attaglia particolarmente all’inter­pretazione di aspetti e fenomeni della cultura sarda è quello kleiniano, Benché Melanie Klein si sia poco occupata direttamente della creati­vità, il suo pensiero offre un significativo contributo alla sua comprensio­ne nelle sue dinamiche più profonde.

E soprattutto ritroviamo nella sua opera un’ originale interpretazione del rapporto tra creatività e depressione, che – a mio avviso – si attaglia al processo creativo dei sardi.

Per la Klein l’Io del futuro artista è dotato di una più intensa capacità di vivere l’esperienza con il seno della madre.

Si individua già qui uno dei grandi temi kleiniani e la preferenzia­lità accordata dal suo pensiero al seno materno e alle sue complesse animazioni interiori.

Tutto il suo concetto dell’arte ruota intorno a questo asse.

E a livello fantasmatico, nella trama delle vicissitudini distruttive e riparative che investono il rapporto tra il bambino e la madre, che si indi­vidua la chiave di lettura del binomio creatività/depressione.

Per la Klein l’impulso creativo è strutturalmente legato al vissuto depressivo e nasce in quella fase precoce di sviluppo da lei chiamata “posi­zione depressiva”.

· In quella originaria stagione, dominata dai vissuti di perdita e di colpa, Il soggetto diviene capace di una prima elaborazione simbolica, d’una pre­coce espressione creativa e dello stesso sentimento di realtà.

La capacità creativa origina, per la Klein, solo quando il bambino, superato un primo stadio di sviluppo, in cui si rapporta ad oggetti parziali (“seno buono” l” seno cattivo”), riesce ad unificare in un oggetto globale la figura materna.

Ma l’oggetto materno intero, unico e interiorizzato pone il bambino davanti alla propria irriducibile ambivalenza.

Le cariche libidiche e aggressive, prima deflettute all’ esterno e polariz­zate sugli oggetti parziali e distinti, ora sono riportate nell’interno, pro­ponendo la coesistenza del “bene” e del “male” nella propria interiorità.

Nascono cosi nuove angosce e difese, i primi vissuti di colpa e i preco­ci segnali d’un nascente Super-Io.

. Il bambino teme ora che il suo totale oggetto d’amore possa essere distrutto non ad opera di forze esterne ma di attacchi interni.

E quindi spinto a ripararlo e reintegrarlo.

L’attìvirà creativa si lega dunque per la Klein alla tendenza a riparare l’oggetto d’amore originario che, nei fantasmi infantili è colto come

minacciato da distruzione e deterioramento.                    ‘

Il. concetto .di riparazione dell’oggetto costituisce pertanto il cardine del pensiero kleiniano sulla creazione artistica.

· Latta creativo è il frutto d’una dinamica riparativa del Super-Io che s’ oppone alle vettorialità distruttive e sadiche dell’Es. Queste vengono rimosse e controinvestite.

La creazione artistica assume il significato d’una “formazione reattiva’. ’22.

  • ·Il.desiderio di creare nasce quindi nel fuoco dei primi vissuti depressi­vi  e SI l~g~ alla capacità di riparare 1′oggetto originario perduto. Ogni crea­zione e m realtà una .ri-creazione di un oggetto, un tempo integro e amato, ma pOi andato incontro a perdita o degrado.

In altre parole, nell’impulso a creare un’ opera si ripercorrerebbe la via antica di ri-creare un mondo interno e un Sé frantumati.

La creazione dell’ opera d’arte nella sua dinamica riparativa non è, ovviamente, l’unico modo per alleviare il sentimento di perdita e di colpa per l’oggetto distrutto, ma ne costituisce una modalità privilegiata.

Il creativo è dunque una persona pienamente (o più) capace di ricono­scere, esprimere e soprattutto superare le proprie fantasie e ansie depressive.

La creazione artistica è in tal senso una sorta di riuscita metabolizza­zione del lutto.

Al termine di questo processo, l’artista ricrea nella propria interiorità

un mondo armonico, che proietta nella sua opera d’arte.

Specularmente il fruitore dell’opera d’arte, identificandosi con l’artista, sperimenta a sua volta l’esito favorevole d’un lutto.

Anche egli ristabilisce così i suoi oggetti interni ed esce reintegrato e arricchito dalla fruizione artistica (valore terapeutico, educativo e sociale dell’ opera d’arte).

Se l’atto creativo, per la Klein, ripara l’oggetto fantasmatico originario e lo ricompone armonicamente nell’interiorità dell’ artista, l’estensione della sua teoria permette di individuare un’ulteriore dinamica riparativa, rivolta al soggetto che crea. O. Chasseguet-Smirgel, 1984).

L’attività creativa non si limita a riparare l’oggetto, ma ripara lo stesso artista. In tal senso l’oggetto artistico assumerebbe per il suo creatore il signi­ficato d’una protesi (valore autorerapeutico dell’arte).

Ciò potrebbe spiegare perché il manifestarsi d’una nuova stagione arti­stica o del suo rifiorire, dopo gravi e dolorosi eventi di vita, agisca favore­volmente sullo stato psicologico di chi crea, indipendentemente dal suc­cesso dell’ opera creata.

La complessa teoria k1einiana suggerisce, anche nello specifico campo della creatività, chiavi inedite di lettura per le opere letterarie e artistiche sarde.

Innanzitutto la KIein riporta l’atto creativo al referente primario del

seno materno, sorgente di vita e fonte originaria di creatività23.

La madre non solo rappresenterebbe la nostra prima storia e la nostra prima geografia, ma anche, per la Klein, la nostra prima arte.

L’ impostazione kleiniana, che comunque rimette al centro del sistema emotivo-affettivo e cognitivo-simbolico il ruolo dominante della figura materna, sembra convergere con elementi portanti della cultura sarda nella sua dimensione matricentrica.

È indubbio che il seno è nella realtà sarda tradizionale superinvestiro e sovrarrappresentato24.

Sia reperti archeologici antichissimi (Madre mediterranea), sia scultu­re, sia figurazioni pittoriche, grafiche e folkIoriche, sia racconti, fiabe e poesie della tradizione orale tendono a privilegiare il seno nella sua con­notazione materna.

La cultura sarda appare dominata dalla simbologia materna.

La donna, nella Sardegna tradizionale, è soprattutto madre. D’altronde la creatività dei sardi si rivolge preferenzialmente e costantemente a un oggetto femminile simbolico (la propria terra, omologabile alla madre).

L’oggetto Sardegna è nella narrativa sarda e nelle altre espressioni crea­tive straordinariamente insistito.

Come ho già avuto modo di scrivere, l’isola, nel romanzo sardo, non si limita a fungere da “sfondo” d’ambientazione narrativa. La Sardegna non è un luogo, ma è il luogo, che s’impone come oggetto-forma polarizzante e totalizzante, come vera protagonista del romanzo-”,

Lopera letteraria e artistica rivela dunque, a livello contenutistico, un bisogno inesaudito di madre.

Particolarmente suggestivo appare in tal senso il messaggio kleiniano dell’ oggetto perduto.

Noi sardi, nella nostra vicenda storica e nel nostro percorso individua­le e collettivo, abbiamo una lunghissima storia di oggetti perduti.

Se kIeinianamente assumiamo che l’atto creativo è una ri-creazione d’un oggetto originario minacciato da perdita, possiamo intendere la nostra creatività come una modalità di risposta, una metabolizzazione di un lutto antico.

L’”oggetto” Sardegna, fortemente investito, desiderato e amato, ma sempre a rischio di detrimento e distruzione, non solo fantasmatiche ma storiche, verrebbe reattivamenre ricreato in forme armoniche nell’interio­rità dei numerosi artisti e quindi proiettato nelle loro opere.

Seguendo questa linea interpretativa si potrebbe altresì ipotizzare che molti artisti sardi, amitti da una coscienza individuale e collettiva parti­colarmente “infelice”, trovino nell’esperienza artistica una sorta di moda­lità autoterapeutica che li conforta, sostiene e compensa da sofferenze,

frustrazioni e ingiustizie.                                          .

Se in un orizzonte storico, culturale e sociale così connotato non può certo stupire che molti scrittori traducano nelle loro pagine questo clima di deprivazione, a me pare che soprattutto l’opera di Gramsci, che si rea­lizzò in una situazione di estrema sottrazione della libertà, sia massima­mente espressiva dell”‘oggetto perduto”.

In tal senso la sua produzione creativa appare simbolica d’una condi­zione più ampia e generalizzabile.

Nel saggio, già ricordato, ho sottolineato che proprio quando Gramsci, con la reclusione, fu radicalmente deprivato dagli “oggetti” più intensa­mente amati, sia stato spinto a creare o ri-creare quanto aveva perdutoé”.

Le Lettere, grandioso e insieme toccante documento autobiografico, possono suggerire l’idea della ri-creazione ldeiniana d’un mondo affettivo, d’una vita sentimentale e familiare appena intravista e subito svanita.

Ma è soprattutto il credo e il sistema politico, per il quale Gramsci era disposto a sacrificare la sua stessa vita, l”’oggetto” mentale più intensa­mente investito ma passibile di rischi e perdite.

Quaderni, in cui si racchiude il suo teorema concettuale-politico, sembrano perciò polarizzare tutta l’energetica mentale del prigioniero in una riproposta creativa.

Poiché la loro realizzazione può essere letta, specie in Gramsci, sotter­raneamente dettata dal desiderio di colmare o mitigare, con risorse della propria interiorità, situazioni esterne gravemente negative, essa si amman­ta necessariamente dei colori della libertà.

Dal chiuso del carcere e dal labirinto del silenzio, in cui fu costretto e ristretto, Gramsci riuscì a scrivere un’ opera che è un inno alla libertà.

In questa chiave interpretativa, la sua stupefacente esperienza creativa, che si consuma nell’il-libertà, finisce per diventare emblematica della “stra­na” e sofferta creatività dei sardi, sconfinando in significati universali.

Desidero infine richiamare, seppure brevemente, il “grande contributo di Silvano Arieti, un grande interprete della creatività.

In un suo intenso saggio Creatività: la sintesi magica (1979), ma esso stesso magico per profondità e chiarezza, questo psicanalista di simpatie strutturaliste fornisce una sua visione del processo creativo.

L’indirizzo psicostrutturale, da lui seguito in maniera originale, si basa sullo studio della cognitività di persone affette da malattie mentali e dal­l’osservazione clinica di soggetti creativi.

Anche per Arieti il processo creativo affonda le proprie radici nel pro­cesso primario dell’inconscio descritto da Freud.

Ma se per Freud l’opera d’arte nella sua dinamica profonda è ricondu­cibile alle vicissitudini sublimatorie, per Arieti esso è frutto d’una integrazione più elevata e complessa.

 

Studioso di particolari forme cognitive de-differenziate (denominate in vari modi: primitive, arcaiche, concrete, mitiche, ecc.), da lui analizzate in malati mentali, egli osserva che anche soggetti normali allo stato di veglia vi possono ricorrere. In alcuni casi, infatti, specie quando veniamo sopraf­fatti da forti emozioni, come la collera, la paura, l’ostilità, o quando cadia­mo in preda a pregiudizi o a radicalismi ideologici o religiosi o in altre situazioni, possiamo regredire a una struttura di pensiero da lui chiamata “paleologicà’ .

 

Questa forma non è illogica o alogica, ma obbedisce a una logica arcai­ca, diversa da quella che siamo abituati tradizionalmente ad usare.

La forma “paleologica” sovverte i criteri aristotelici.

 

“Mentre nel pensiero normale (o processo secondario) l’identità è fon­data soltanto sull’identità dei soggetti, nel pensiero paleologico (o proces­so primario) l’identità viene accettata sulla base dell’identità dei predica­ti” (Legge di Von Domarusj-”,

 

Poiché i predicati che permettono l’identificazione (predicati identifi­canti) sono innumerevoli e assai più ampi rispetto ai soggetti, il pensiero paleologico (per cui A può anche diventare non-A e quindi B. .. c. .. tra­mite un predicato con carattere di somiglianza) apre il varco a infinite e originali possibilità.

 

Per Arieti anche il creativo ricorre alle forme cognitive paleologiche, del processo primario, che si esprimono tipicamente nel sogno e nel mito. Ma solo quando, in particolari circostanze, esse si integrano con il pro­cesso secondario si traducono in opere letterarie o artistiche.

 

Arieti denomina. questa particolare combinazione, questa “sintesi magica” che caratterizza la creatività, il “processo terziario:’.

 

Nell’ opera creativa si fonderebbero così gli aspetti motivazionali, le particolari forme e le attività simboliche dell’ artista con i sistemi concet­tuali e i codici linguistici trasmessi dal contesto culturale e sociale.

 

Pur rifacendosi a Freud e utilizzando ne il quadro concettuale di riferi­mento generale e suoi aspetti specifici, Arieti tenta di integrarlo con gli aspetti cognitivi e quelli derivanti dalla teoria dei sistemi.

 

Sotto questo profilo la sua originale impostazione permette un’interes­sante chiave di lettura della produzione letteraria e artistica dei sardi por­tatori di specifici modelli cognitivi e culturali.

 

 

 

 

Come calare questo complesso discorso nella cultura sarda per spiegare le sue espressioni creative?

Avanzerò qui alcune considerazioni preliminari senza alcuna pretesa esaustiva, limitandomi al romanzo.

Sorvolo su spinose questioni di fondo.

Al di là della discussa questione se esista o no una letteratura specifica sarda, a me pare che i testi letterari possano comunque essere assunti come documenti che non solo esprimono “il punto di vista” degli scrittori sardi, ma vanno oltre.

Dalla mia prospettiva disciplinare questi documenti non solo chiari­scono gli aspetti concettuali, i modelli cognitivi e il linguaggio del grup­po che scrive, ma ne rivelano i livelli fantasmatici più profondi.

I testi narrativi possono essere colti come simbolizzazione poetico­intellettuale di un’ esperienza storico-culturale di uno specifico popolo e, insieme, come elaborazione metaforica degli aspetti emotivi profondi del suo mondo interno.

Anche nella narrativa del popolo sardo si può : quindi ritrovare, in forme più o meno dirette ed esplicite, la riflessione, a livello di autoco­scienza, sul Sé, sull’ altro da Sé e su tale rapporto.

Partendo da questi presupposti io stessa mi sono recentemente cimen­tata in un discorso sull’identità dei sardi, colta nella sua dimensione rela­zionale e dialettica, tratta dai miti, forme e linguaggi della letteratura sarda.

Il romanzo sardo esaminato nell’ ottica psicodinamica mostra una struttura identitaria e una Weltanshauung diverse da quelle emergenti dal romanzo italiano.

Sebbene la letteratura italiana sia stata meno monocentrica di altre nar­rative europee e si sia meno accentrata su un proprio unico modello, non vi è dubbio che essa abbia comunque proposto modelli, schemi e patterns culturali d’una cultura dominante.

Il romanzo sardo, pur collocandosi all’interno dell’universo linguistico e culturale italiano, se ne discosta per molti aspetti.

Leggendo le opere di Grazia Deledda, di Salvatore Sarta, di Emilio Lussu e, a ben guardare, dello stesso Antonio Gramsci, cogliamo subito una specificità e una diversità.

Confrontate con le altre opere letterarie italiane esse ci appaiono in un certo senso a loro “omogenee” e nel contempo irrimediabilmente “altre”.

Sotto questo profilo la letteratura sarda potrebbe perciò rappresentare un significativo specchio in cui i sardi guardano se stessi ma in cui anche la cultura italiana può cogliere uno sguardo su se stessa da parte di un

gruppo simile/diverso.

In tal senso la narrativa sarda può o potrebbe costituire un polo dialo­gico di significativa importanza e utilità generali.

Se si ritorna al romanzo sardo e lo si pone sotto il riflettore psicodinamico esso rivela temi fondanti, già noti agli studiosi di letteratura, Tra questi si possono annoverare quelli relativi:

- al vissuto della perdita

- alla “nostalgia immobile”

- alla caducità

- all’utopia ferma

Come ho altrove sottolineato il romanzo sardo è innervato da vissuti di perdita e da una dolorosa e raggelata coscienza di mancanza.

Se ne potrebbero citare numerosi esempi.

Lesperienza di perdita non appare però solo direttamente e contin­gentemente legata a specifiche situazioni o a eventi di vita. Questi, se affiorano, sembrano solo riacutizzare e slatentizzare un vissuto più antico e profondo.

Anche nella finzione letteraria la perdita dal personaggio va indietro e si dilata a una condizione più radicata e lontana.

. Il ~uo vissuto sembra saldarsi al sentimento generale di una perdita ori­gmana.

In tal senso i personaggi dei romanzi sardi ci appaiono come orfani e apparentati da questa orfanità.

È questa una condizione che sembra trascendere non soltanto il dato anagrafico, ma il sesso, l’età, lo stato sociale, le vicissitudini di vita, le vicende dell’ esistenza, ecc.

Orfani o figli di una “nazione mancata”, i personaggi della narrativa sarda avanzano nudi e dolenti alla perenne ricerca della propria nascita, delle proprie origini, della propria identità.

Ecco perché vivono esiliati nella propria terra, nostalgici di uno spazio e di un tempo che non sono mai esistiti.

Per nascere ed esistere bisogna infatti confinarsi in una casa, che non consiste in quattro muta d’un edificio in una mappa catastale, ma che è un luogo originario e un tempo originario per i significati di appartenen­za, sicurezza e identità che vi sono inerenti.

I ‘personaggi della narrativa sarda, pur specificatamente connotati e pur esprimendo un forte desiderio di appartenenza, sembrano invece rimane­re esiliati nella loro terra ed essere estranei alla propria casa28.

Essi ci appaiono inconfondibilmente pervasi da una sorta di coscienza nostalgica che ho definito “immobile”.

La nostalgia, topos letterario dall’Odissea in poi, è tema ricorrente nella letteratura di molti popoli e Paesi.

Il coinvolgimento nostalgico trova tuttavia nella narrativa sarda una particolare e incisiva valenza.

Su un altro piano avevo d’altronde già evidenziato comprensibili ma insistite e invasive reazioni nostalgiché negli emigrati sardi particolarmen­te vulnerabili alla separazione e al distacco dalla propria terra.

Attanagliati dal sentimento nostalgico, dalla coscienza di un “altrove” estraneo, i sardi vissero un’inquietudine profonda e una disperata tristez­za che spesso sconfinò in quadri depressivi.

Ma ritrovavo questa particolare nostalgia trasfusa anche nel romanzo sardo.

È una nostalgia struggente e destruente e nel contempo “immobile”. Essa sembra declinarsi a prescindere dalla dinamica che solitamente l’accompagna e la determina.

In tal senso è una nostalgia senza viaggio.

Nel romanzo sardo la perdita e la separazione e lo stesso viaggio sono mitici. La patria è perduta o ritenuta tale, non perché ci si è allontanati da casa e divenuta irraggiungibile: essa è irraggiungibile perché è proiettata in un mitico passato.

È il nostos per una condizione originaria, fuori della storia.

Il ritorno è sempre a un continente sconosciuto, inconscio, a cui ogni approdo è possibile.

Qui l’accostamento alI “‘oggetto” kIeiniano perduto sembra trovare una sua pregnante legittimazione.

La “nostalgia immobile”, quale tentativo di ritorno alle origini, conato di raggiungere un “oggetto” irraggiungibile, si riconnette a un altro tema dominante della narrativa sarda: la caducità .

.L’intera gamma del caduco, che si esprime nel sentimento dell’essere effimeri, dell’ essere fuscelli volatili in balia di forze indominabili e pre­ponderanti, dell’ essere canne al vento nel vortice estraneo ed estraniante della sorte e della storia è un leit-motiv della letteratura sarda.

Il vissuto di essere periruri e insieme inutili, sviliti nel proprio valore e, per di più, incapaci di gestirsi e dirigersi autonomamente quindi in con­tinuo rischio di cadere in preda a forze incontrollabili e invincibili ester­ne, è profondamente radicato nella nostra c-ultura e si riflette in molte nostre espressioni letterarie.

lo l’ho esaminato particolarmente in Cenere di Grazia Deledda che ho interpretato alla luce dello scritto di Freud-”.

La caducità, che nell’ ottica psicoanalitica è riconducibile al Thanatos, ha una forza così distruttiva e annientante nella narrativa sarda da conno­tare persino eventi definitivi come la nascita e la morte.

Il vissuto dissolvente della caducità in Cenere è riferito alla nascita, mentre ne Il giorno del giudizio di Salvatore Sarta è riferito alla morte.

In entrambi i romanzi, pur diversi per trama, modalità espressive,lin­guaggio, stile narrativo ecc., la forza del caduco si afferma e si impone in una dimensione violenta e distruttiva.

Così la nascita diviene “cenere” e la morte “effimera’. C’è qui quasi l’ala di un delirio nichilistico, una cupio dissolvi, perentoria e oscura, in cui si toc­cano i più profondi e desolati confini di una desertica landa depressivaj”, Ma anche la tensione visionaria, già richiamata, sembra profondamen­te collegarsi ai primi temi esaminati.

È anch’essa una visionarietà “ferma”, che non si traduce in una spinta in avanti e non anima alcun sogno di trasformazione e cambiamento, magari utopico,

Il sogno rimane esso stesso chiuso, sganciato da un orizzonte di possi­bilità future.

La febbre visionaria sembra così più una risposta vitale agli attacchi distruttivi del Thanatos che una vettorialità propulsiva. La tensione visio­naria perciò rimane rispetto alla direzione dell’ avanti altrettanto ferma di quella della nostalgia rispetto a quella dell’indietro.

Entrambe ci appaiono immobili.

Tutti questi temi presenti e insistiti nel romanzo sardo parlano a mio avviso lo stesso linguaggio. Essi ci dicono una grave sofferenza che può essere definita in senso lato depressiva.

Possiamo dunque affermare che il romanzo sardo, dal punto di vista contenutistico, ne esprime una sua forte e pregnante dimensione.

Il rapporto dello scrittore con la sua opera, il suo “attaccamento” tenace, irreversibile all’oggetto Sardegna, conferma – a mio avviso – una coscienza infelice e minacciata del Sé che si apre diffidente e insicura sul mondo.

Questa coscienza riflette in forme più o meno dirette la cultura e la società in cui il romanziere vive e opera.

La sofferenza che ha segnato l’esistenza individuale e collettiva dei sardi, come d’altronde emerge da valutazioni storiche e antropologiche, si è tuttavia incanalata in una trasposizione creativa.

Ha trovato cioè la forza di percorrere la strada privilegiata della creati­vità e di tradursi in opere e forme letterarie e artistiche.

Il discorso ritorna così ai suoi assunti iniziali e tende a concludersi. Ma, giunta a questa fase finale, temo di aver sollevato più quesiti che offerto risposte. Nutro soprattutto il timore di aver ingenerato equivoci.

Per tentare, sinteticamente, almeno in parte di dissiparli, desidero sot­tolineare alcuni importanti passaggi del discorso, che potrebbero essere persi o dispersi nel tessuto espositivo.

Il primo aspetto che desidero ribadire è che non sostengo che per crea­re bisogna essere depressi.

Questa asserzione sarebbe ingenua e facilmente smentibile dalla comu­ne osservazione che numerosi depressi non sono creativi e che molti di loro possono addirittura cessare di esserlo proprio a causa della forte ini­bizione depressiva.

D’altronde la maggioranza dei non depressi (i soggetti cosiddetti nor­mali o comunque non affetti da evidenti patologie) non mostrano solita­mente spiccate capacità creative.

Le cose sono molto più complicate.

Si può però certamente dire che tra depressione e creatività esiste un legame, una correlazione altamente significativa, così come emerge da rigorosi dati di ricerca.

Questa correlazione, insieme a numerosi dati dell’ esperienza clinica, ci autorizza a pensare che soggetti a gradi contenuti di depressione possono superare le proprie ansie depressive e ribaltarle nell’ opera d’arte.

Coloro che vanno incontro a disturbi dell’umore sono più inclini a sondare e interpretare il proprio mondo interno nel gioco delle luci e delle ombre di oscillazioni estreme dell’umore.

Essi perciò, in certe e irripetibili condizioni socio-culturali e ambien­tali, potrebbero più facilmente operare quella “sintesi magica” che porta alla produzione creativa.

Analogamente si può ipotizzare che, a livello collettivo, gruppi e popo­li, conquistando, specie dopo il buio di dolorose oppressioni, condizioni più favorevoli, divengano capaci di operare “sintesi magiche” e di produr­re artisticamente.

Anche il gruppo sardo, dopo una lunga storia di isolamento e di domi­nazione, emancipatosi, seppure parzialmente, da un’ emarginazione stori­ca, sociale e culturale, potrebbe essere stato spinto da una forte motivazi ne ad emergere e a trovare compensazioni e riparazioni alle passate pri­vazioni.

Accedendo a una più ampia disponibilità di mezzi culturali e al con­fronto con altri gruppi e popoli, i sardi avrebbero potuto imboccare la via della produzione creativa.

Poterebbero essere stati in ciò agevolati da un certo distacco dalle con­tingenze della vita e dall’ abitudine a vivere in solitudine.

D’altra parte l’isolamento, preservando dal totale dissolvimento una cultura originaria assediata, ha fatto si che i sardi fossero portatori di valo­ri, patterns cognitivi e culturali e comportamentali propri, sebbene “resi­duali”. Entrando in contatto con quelli della cultura italiana, avrebbero disposto di schemi cognitivi, non appiattiti conformisticamente sullo schema dominante, e perciò sarebbero stati stimolati a trovare soluzioni “divergenti” e, quindi, creative.

I contenuti depressivi della loro esperienza personale, sociale e storica possono aver così trovato una trasposizione simbolica creativa.

La loro creatività, che si è sinora espressa in condizioni dolorose e dif­ficili, pone problemi e quesiti che si prospettano nel futuro.

Fondamentale importanza riveste la necessità di individuare e incre­mentare i già presenti fattori creativogenici della nostra cultura e della nostra società.

In tal modo la nostra creatività, se convenientemente sostenuta e age­volata, potrebbe dare in futuro straordinari frutti.

Ma per ottenere questi risultati bisogna impegnarsi in un grande sfor­ZO collettivo, in un impegnativo, profondo e rigoroso progetto culturale.

Allora la “misteriosa” creatività dei sardi, di cui ho tentato di illumina­re la faccia nascosta, si potrà dispiegare più potente e libera.

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NOTE

l Questo scritto ricalca, nelle sue linee generali, l’intervento svolto a Cagliari al Seminario su:

“Lidentità dei sardi” tenuta per la Fondazione Culturale Sardinia il 9 Novembre 1998.

Per la stessa ho utilizzato risultati e argomenti tratti da precedenti ricerche di cui ho tentato di rendere conto in lunghi e forse noiosi richiami in nota.

Nel testo sono inoltre confluite impostazioni elaborate insieme a Leonardo Tondo per la rela­zione dal titolo Depressione e Creatività svolta al Convegno Nazionale su “Ansia e depressione come dimensione dell’esistenza”, Torino,29-31 Maggio 1996.

 

2 I:espressione di Eric Hobsbawm, riferita al solo Gramsci, può essere estesa a questi tre gran­di sardi tutti appartenenti all’area interna più isolata.

Cfr. E. Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, Laterza, Bari, 1995.

3 Gli studi sull’isolamento furono parte essenziale di un corpo di circa 66 ricerche che si cimentarono nell’analisi della criminalità rurale in Sardegna.

Iniziati nel lontano 1964 proseguirono in forma sistematica e secondo un approccio multidi_ sciplinare e integrato (a quel tempo insolito) sino al 1972, I risultati furono pubblicati sulla “Rivista Sarda di Criminologia” a nome di Raffaele Camba, Nereide Rudas, Giuseppe Puggioni. Una sintesi è contenuta nel volume Caratteristiche, tendenzialità e dinamiche dei jènomeni di cri­minalità in Sardegna, Doc. XIX n.3-bis, Senato della Repubblica, Roma, 1972, che ne costituisce la elaborazione operata da Nereide Rudas e Giuseppe Puggioni per la Commissione Parlamentare d’Inchiesta.

4 La mappa dell’isolamento fu ricavata mediante tre distinte metodologie. La prima si basava sul complesso calcolo della così detta “popolazione potenziale” e misurava la possibilità teorica che un soggetto di ciascun Comune della Sardegna aveva di incontrare un altro soggetto d’un altro Comune dell’isola. I:ipotesi di base era che i soggetti dei Comuni isolati fossero più limitati in tale possibilità d’incontro,

La seconda si basava sui tassi di endogamia rilevati nei primi 60 anni di questo secolo per tutti i Comuni sardi. I:ipotesi di base era che soggetti appartenenti a comunità chiuse si sposassero pre­feribilmente entro la cerchia parentale.

La terza, infine, prendeva in considerazione la distanza che intercorre tra i Comuni di resi­denza dei due sposi. Essa fu calcolata per i matrimoni celebrati in tutti i comuni sardi. I:ipotesi di base era che le persone di comunità isolate tendono a sposarsi con persone della stessa comunità o di comunità vicine.

Gli indici di isolamento ottenuti con queste tre diverse metodologie confermano l’esistenza d’una area isolata (“triangolo dell’isolamento”). Cfr, G, Puggioni, N. Rudas, Caratteristiche, ten­denzialità e dinamiche dei jènomeni di criminalità in Sardegna, op. cito

I:area dell’isolamento così ottenuta fu confrontata con la pastoralità, con gli indici di istru­zione e con fenomeni di devianza. Ad opera della mia allieva Maria Pia Lai Guaita vi furono con­dotte ricerche sulla personalità di base. Cfr. Personalità e cultura in Sardegna, Edes, Cagliari, 1980. 5 Gli indici dell’isolamento si correlano significativamente con la pastoralità brada e transu­mante. Anche gli indici e i quozienti di criminalità, nonché alcuni reati (abigeato, omicidio, seque­stro di persona) mostrano una spiccata preferenzialità per l’atea pastorale.

Nulla però autorizzò a concludere che la pastoralità di per sé potesse essere considerata un fatto­re criminogenetico. Anzi le numerose analisi di dinamica topograficamisero in luce che la pastora­lità era solo una delle condizioni per il verificarsi dei fenomeni più gravi e specifici di criminalità. Affinché essi si verificassero sembrava necessaria una seconda condizione, individuabile proprio nel­l’isolamento. In ultima analisi solo l’area pastorale isolata esprimeva quella grave fenomenologia cri­minosa che aveva destato e desta tanto allarme sociale. Cfr, G, Puggioni, N. Rudas, op. cito

6 La distribuzione delle malattie mentali ricavata sulla base degli ingressi negli Ospedali Psichiatrici sardi nei primi 60 anni di questo secolo evidenzò che le forme psicopatologiche più gravi (psicosi) si concentravano anche esse nell’area pastorale isolata, I:analisi delle serie topogra­fiche e degli indici di correlazione indicò che al decrescere dell’isolamento corrispondeva paralle­lamente il decrescere delle malattie mentali. In particolare, l’ecologia della depressione, nella sua sintomatologia più severa, rendeva a coincidere con quella dell’isolamento. Cfr. R. Camba, N.

 

Rudas, Distribuzione delle malattie mentali in Sardegna, in Rivista Sarda di Criminologia, 1,349, 1964; Cfr., inoltre, R. Camba, N. Rudas, G. Puggioni, Sul rapporto tra endogamia e psicopatologia,

in Rivista Sarda di Criminologia, 1,443, 1965.

7 Le ricerche sull’ emigrazione sarda, partite dall’ analisi della sua incidenza e dalle sue caratte-

ristiche strutturali e dinamiche, si rivolsero soprattutto agli aspetti psicologici e psicopatologici. Cfr., tra gli altri, N. Rudas, L’emigrazione sarda, Centro Studi Emigrazione, Roma, 1974; Idem, L’émigration énvisagée comme perte in “Migration et Psychopathologie”, dossier sous la direction de Nereide Rudas, René Collignon et Mauro Carta, voI. XXIII, n.B, Paris, 1990-91.

8 Cfr. L’Isola dei Coralli, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1997.

9 Cfr.]. P. Guilford, Creatioity; in American Psychologist, 5,444, 1950; Idem, Creative Ability in the Arts, in Psychological Review, 64, 110, 1957; Idem, Traits ofCreativity, in Creativity and its Cultivation, (a cura di N. C. Andreasen), Harper and Row, New York, 1959.

io Cfr. A. Storr, Solitude, Ballantine, New York, 1989. Su questo tema è ritornato Antonio Da Fonseca, autore d’un bel libro sulla Psychologia de la Creadividad (Lisboa, 1990). In una sua lezio­ne magistrale tenuta a Cagliari (17-3-1996) ha illustrato i profondi vissuti di solitudine di Ernest Hemingway che egli incontrò da giovane medico in una traversata atlantica. Il grande scrittore americano, che già da allora soffriva di episodi depressivi, mori – come è noto – suicida.

11 Negli ultimi decenni alla solitudine d’una ruralità isolata si è andata aggiungendo, anche in Sardegna, una solitudine urbana. La connotazione difettiva della solitudine, parte d’un malessere più ampio e profondo, lacera il tessuto di vita delle persone che vivono in città, il cui orizzonte è divenuto più radicalmente solitario, come la ricerca ha puntualmente confermato.

Gli adolescenti, ma soprattutto gli anziani, soffrono spesso la solitudine urbana. Cfr. N. Rudas, La condizione dell’anziano: da una vita senza qualità a una qualità della vita, TEA, Cagliari, 1987.

12 Questi aspetti sono stati messi in luce dal mio allievo Giacomino Sassu nella sua tesi di spe­cializzazione in Psichiatria su Dioniso, la Maschera e l’Isteria (Università degli Studi di Cagliari,

Anno Accademico 1997-98).

13 I soggetti che fecero parte delle ricerche citate erano in genere affette da malattia maniaco-

depressiva e, particolarmente, da depressione. Senza entrare in un complesso discorso nosografico, è importante precisare che per malattia maniaco-depressiva s’intende una grave entità patologica caratterizzata soprattutto da disturbi dell’umore, ma non esente da distorsioni cognitive.

I “creativi” esaminati presentavano forti oscillazioni dell’umore che spesso determinavano l’al­ternarsi di episodi di depressione (polarità depressiva) a episodi di esaltazione (polarità maniacale). Nel primo caso avvertivano abbassamento del tono dell’umore, diminuzione di interesse e piacere per le attività della vita, apatia, inibizione, insonnia e disturbi del sonno, vissuti di autosvalutazio­ne, sentimenti immotivati di colpa, perdita di speranza, ecc.

Nel secondo caso presentavano, al contrario, un elevamento del tono dell’umore che diveniva

espansivo o irritabile, aumento d’interesse per le attività e tendenza verso quelle ludiche o quelle che determinavano piacere (esaltazione della sfera sessuale), senso di energia, diminuito bisogno di sonno, ipertrofica stima di sé, accelerazione ideativa sino alla fuga delle idee, ecc. La malattia maniaco-depressiva, che enfatizza le comuni esperienze dell’uomo oltre i consueti confini, è carat­terizzata dalla polarità (depressione/esaltazione) e dalla ciclicità.

14 La ricerca è riferita da F. K. Goodwin e K. R. ]amison, Malattia Maniaco-depressiva, VoI. II,

cap. 14, Mc Graw Hill, Libri Italia, Milano, New York, ecc., 1994.

15 Cfr. S. Arieti, Creatività. La sintesi magica, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1979,

parte N, cap. 14.

 

polarirà di esalrazione dell’umore.

17 Kay Redfield ]amison, in un saggio di grande inrensirà rraccia le tormentare vicende bio­grafiche di Lord Byron, Robert Schuman, Henry ]ames, Hermann Melville, Virginia Woolf, Ernest Hemingway, Vincenr Van Gogh, Hector Bedioz, William Blake e Edgar Allan Poe attra­verso un’ analisi penetranre sul legame tra creatività e sofferenza menrale. Cfr. Toccato dal fioco, Longanesi, Milano, 1993.

18 Cfr. N. Rudas, La duplice condanna di Gramsci. Tentativo di lettura “biografica”, in “Minerva Psichiatrica”, VoI. XXIII, n.3, luglio-settembre 1991, poi quasi inregralmenre ripubblicato ne L Isola dei Coralli, cap. 3, op. cito Successivamenre mi sono occupata del rapporto tra creatività e depressione nel grande pensatore sardo. Cfr. Reclusione, solitudine e creatività in Gramsci, relazione presentata al Convegno Inrernazionale di studi su “Gramsci e il Novecento”, promosso dalla Fondazione Gramsci (Roma) e dall’Istituto Gramsci della Sardegna (Cagliari, 15-18 Aprile 1997).

19 Celebri rimangono i suoi studi sulla Gradiva, sul Mosé di Michelangelo e su La Vergine e Sant’Anna di Leonardo da Vinci.Cfr. S. Freud Opere complete, Volumi vari, Boringhieri, Torino. 20 Cfr. N. Rudas, L Isola dei Coralli, op. cit., cap. Il tema è stato successivamente riproposto in Riflessioni sulle Carte d’Arborea come romanzo delle origini in Identità come progetto, pubblicazione dell’Istituto Gramsci per la Sardegna (a cura di Eugenio Orrù), Tema, Cagliari, 1998.

21 Ci si riferisce all’ulteriorità magistralmenre espressa da Ernst Bloch in Spirito dell’Utopia, La Nuova Italia Editrice, Firenze, 1992.

22 Nella “formazione reatriva” si mettono in atto condotte manifeste di segno contrario alla dinamica pulsionale sottostanre. In un esempio classico la iperprotezione materna verso un pro­prio figlio è inrerpretabile come reattiva a in confessati impulsi aggressivi.

23 In tal senso la teoria k!einiana apre il discorso alla complessa problematica della creatività femminile.

24 Il seno, specie il seno che allatta, simbolo della maternità trionfanre era molto insistiro nella cultura sarda tradizionale. Ma proprio perché vissuto come enrità pregiata, il seno poteva essere investito da vettorialità invidiose o di più conclamaro malocchio. Esso era tipicamente un organo a rischio, non nell’accezione che a questo termine attribuisce la moderna medicina, ma a rischio magico, in quanro “organo-in-vista” direttamenre conrrollabile e attaccabile medianre lo sguardo. In tal senso poteva essere oggetto di polarizzazioni negative.

Ricerche sul carcinoma mammario in Sardegna misero in rilievo che la malattia era vissuta in maniera più drammatica nelle donne barbaricine rispetro alle altre donne sarde. In particolare l’a­sportazione del seno costituiva per le prime un vulnus più grave determinando un nucleo di disor­dine emotivo e cognitivo che poteva sconfinare in vere crisi depressive. Cfr. N. Rudas, Carcinoma mammario. Simbolo, sintomo, comunicazione, Lega Italiana contro i tumori, Cagliari, 1992.

25 Cfr. N. Rudas, “LIsola dei Coralli op. cito cap. II.

26 Cfr. N. Rudas, Reclusione, solitudine e creatività in Gramsci, op. cito

27 In un esempio clinico citato da Silvano Arieti una pazienre cattolica vergine si identificava con la madre di Gesù secondo il ragionamenro: “lo sono vergine, la Madonna è vergine e quindi io sono la Madonna”. Questo schema segue la legge scoperta da Von Domarus: idenrità dei pre­dicati sulla base di un elemenro di somiglianza (verginità). È da considerare che la distorsione logi­ca era probabilmenre dettata dal profondo desiderio della pazienre di aderire alla massima figura religiosa femminile della cattolicità.

28 Aquilino Cannas inritola emblematicamenre un suo prezioso libro di poesie dedicato alla

 

Sardegna con le parole dell’ esilio nella propria patria. Cfr. Distierru in terra (La saga dei vinti), TIAM, Cagliari, 1993.

29 Ne L/sola dei Coralli ho interpretato Cenere, famoso romanzo di Grazia Deledda, secondo

l’ottica freudiana della caducità. Cfr. S. Freud, Caducità (1916), in Opere Complete, val. VIII,

Boringhieri, Torino, 1984.                  ,

30 In alcune forme gravi di melanconia il malato può manifestare idee che arrivano a negare

l’esistenza del proprio corpo, del mondo, del tempo e della stessa morte. Le idee di negazione pos­sono organizzarsi in un delirio nichilistico o “Sindrome di Cotard”

 

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