A settembre un convegno per onorare Gianfranco Contu, di Gianfranco Murtas

A settembre, in suo nome, un convegno sulla democrazia sarda nelle diverse stagioni della storia, fra post-Risorgimento, antifascismo, autonomia conquistata (e da ripensare) nella Repubblica federale “una e indivisibile”.


Nel prossimo settembre, alla ripresa cioè delle decantazioni estive, bisogna che il nostro pensiero di testimoni della fatica del vivere che fu propria di Gianfranco Contu a lui ritorni almeno con una serata di condivisioni morali e di incontri culturali. Per onorarne la memoria, vivida sempre, e per rivisitare criticamente la sua opera storiografica. Di lui studioso per vocazione e passione, autore di quindici, venti monografie importanti su Tuveri e il federalismo democratico dell’Otto-Novecento sardo nonché di molte centinaia di articoli – spesse volte sintesi o annunci di saggi alle viste – e chissà di quanti interventi convegnistici. (Bisognerebbe lavorare ad un repertorio di questi titoli distribuiti in un numero imponente di testate: forse è questa una priorità).

Contu il federalista tuveriano ed il sardo-lussiano, Contu il militante socialista con cuore sardista – del sardismo consapevole delle sue radici culturali tutte italiane, risorgimentali e cattaneane –, Contu il “ponte” fra ieri ed oggi delle idealità (e anche di una certa cifra associativa) di Giustizia e Libertà, Contu lo storico analista della partecipazione sarda – dalla parte della sinistra politica – nella guerra di Spagna e severamente e documentatamente censore dei crudeli abusi comunisti (in logica staliniana) nello stesso fronte antifranchista, Contuil massone giustinianeo interno ad una Libera Muratoria vissuta non soltanto come scuola ecumenica di tolleranza valoriale ma anche come sistema “federale”, nella peculiare formula della Comunione obbedienziale di derivazione, in Italia, liberal-democratica, a forti influssi mazziniani, radicali, riformisti e, nell’Isola, anche autonomistici.

Contu il medico di frontiera, studioso anche in quel primario spazio d’una professione che come nessun’altra vanta connotati sociali, e docente alla scuola di specializzazione di ostetricia e ginecologia della nostra università, autore di decine e decine di pubblicazioni scientifiche e di presenze a congressi nazionali e internazionali.

Contu, bisognerebbe anche dire, amico, uomo di ascolto ed esempio di misura, di discrezione, di silenzi attivi e di consiglio, ma anche tormentato nella ricerca della sintesi fra il giusto come meta ed il complessocontraddittorio come status di partenza, fra l’obiettivo morale e il chiaroscuro fragile della nostra condizione umana e civica.

In due lunghi articoli apparsi in questo stesso sito di Fondazione Sardinia l’ho ricordato, Gianfranco Contu – amico e fratello di visioni, aspirazioni ed utopie –, in due articoli, rispettivamente del 13 febbraio 2015 e del 14 gennaio 2016 (titoli “Gianfranco Contu, biografo delle “comunità dentro gli ideali” e “Gianfranco Contu, democratico socialista, federalista, massone giustinianeo”). Siamo ora al terzo anno dalla sua scomparsa e ancora lo sentiamo, noi compagni dei suoi libri e dei suoi scritti, quasi presente, eppure ne avvertiamo con integra amarezza la lontananza. Le sue ceneri riposano nella grande biblioteca di casa, nell’ultima casa vissuta dopo aver lasciato Cagliari e Villanova che per lungo tempo era stata la sua residenza, il luogo degli affetti maturati e di crescita dei figli amatissimi.

Gianfranco Contu era uomo dalle molte predilezioni, sotto l’apparenza del disincanto. Amò molto e amò molti, soprattutto i giovani, con purezza, anche fra i contrasti, ma amò. Ed ebbe sempre, fortissimo, il senso della responsabilità, della famiglia larga che doveva diventare sede di relazioni feconde, tutte positive, dono esse alla società, alla Sardegna bisognosa. Forse anche per questo, la famiglia degli affetti e quella civica e pubblica degli studi potrebbero/dovrebbero accogliere l’invito ad una partecipazione unitaria e corale alla serata in suo onore che ho proposto senza sapere se troverò udienza.

Ho avuto con lui una consuetudine che ha superatodi qualcosa il quarantennio, e il rapporto è stato intenso e sul piano umano e su quello civile e politico, oltreché degli studi storici, tanto più quelli relativi all’azionismo degli anni ’40 ed alla sua declinazione mazziniano-sardista. Ho pensato così di chiosare questa breve nota con alcune sue pagine che all’azionismo e ai suoi esponenti di maggior rilievo specificamente si riferiscono: cominciando da Francesco Fancello, destinatario del suo maggior amore nel novero dei campioni dell’antifascismo. Non il Fancello combattente politico però, ma il Fancello scrittore (pseudonimo Francesco Brundu). E questa prima pagina vale anche perché combina al nome di Fancello – il Cino d’Oristano del Solco, come della Critica Politica o di Volontà nel prefascismo – una memoria autobiografica dell’autore tutta cagliaritana.

Si trova, questo ricordo, nel lungo articolo pubblicato nei Quaderni Bolatanesi edizione 1999 (titolo “Francesco Fancello teorico e militante dell’Azionismo”, riprodotto anche in un opuscolo edito dall’associazione “Raichinas e Chimas” di Dorgali, promotrice l’anno successivo di un convegno a Cala Gonone all’insegna di “Omaggio a Francesco Fancello politico, giornalista, scrittore”, cui il Nostro intervenne con una centrata relazione su “Francesco Fancello e il socialismo contadino”).

Il secondo estratto, più politico– datato 1995 –,viene dal testo “L’Azionismo in Sardegna”, secondo Quaderno della serie pubblicata dal Movimento d’Azione Giustizia e Libertà, cui Contu offerse, nei primi anni ’90, il suo entusiastico appoggio. Va detto, peraltro, che anche tale testo aveva visto la luce nei Quaderni Bolotanesi, edizione 1994.

Qui l’autore sintetizza il suo attuale pensiero politico di federalista applicandolo alla realtà sarda. Mai nazionalitario nel senso stretto e ristretto della parola, Contu sogna una trasformazione della Repubblica nata dalla resistenza – e timorosa, allora, delle autonomie territoriali, con l’eccezione, potrebbe dirsi, della Sicilia – in una repubblica federale di forte cintura politica (democratica) unitaria e di slancio europeo. Una materia tutta d’oro per un confronto di posizioni fra i democratici ed autonomisti dell’Isola anche nell’A.D. 2017…

Francello-Brundu e quelle letture adolescenziali

Quando eravamo ragazzi, studenti del Liceo Dettori di Cagliari, fummo in pochi, verso la fine degli anni ’40, a poter aver in prestito una delle rare copie circolanti del suo primo romanzo “Il diavolo fra i pastori”. Lo si leggeva avidamente, spesso rubando i rari momenti di scarsa sorveglianza da parte dei nostri professori, nell’aula scolastica. E devo riconoscere che il libro mi piacque, anzi ci piacque moltissimo. Ne discutemmo anche con i professori, alcuni dei quali (ricordo per tutti il professor Danilo Murgia, fra i più stimati docenti di lettere classiche) non esitarono ad affermare che, nonostante un certo stile di chiara impronta deleddiana e l’architettura del racconto prevalentemente autobiografica, ci trovavamo di fronte a una vera opera d’arte narrativa. Per la verità, non mancano nel romanzo alcuni spunti di autentico lirismo (vedi, ad esempio, l’episodio del “Passero della prigione”, che venne pubblicato nella rivista di Piero Calamandrei “Il Ponte”).

Qualche anno più tardi, agli inizi degli anni ’50 (eravamo ormai studenti universitari), potemmo leggere con più calma – anche perché chi scrive ebbe la fortuna di aver avuto in dono dall’Autore una copia del libro –il secondo e ultimo dei suoi romanzi, dal titolo abbastanza stravagante, “Il salto delle pecore matte”.

Il nuovo romanzo era anch’esso di impronta autobiografica, e la vicenda si svolgeva presso l’ambiente degli emigrati sardi di Roma nel periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, e tuttavia ci piacque un po’ meno. In parte, perché non si riusciva ad afferrare bene il nesso fra il titolo bizzarro (“Il salto delle pecore matte”) e lo svolgimento della trama, prevalentemente imperniata sul mondo decadente e corrotto della nobiltà romana (costantemente messo a raffronto con certorigorismo morale della gente sarda), un po’ anche perché non vi si ritrovavano quei tratti poetici che avevano caratterizzato l’opera precedente. Non si può essere quindi molto d’accordo con la recensione che ne fece “La Nuova Sardegna” nel 1950, che parlava addirittura di capolavoro e accostava l’opera al filone di Dostoevskij. Detto questo, bisogna riconoscere che non mancano nel libro le pagine toccanti, nelle quali è possibile riconoscere il Fancello, politico appassionato, autonomista e sardista certamente, ma anche, e soprattutto, socialista e rivoluzionario.

Senza dubbio più scorrevole è la prosa di Francesco Brundu nei suoi racconti. Uno dei più belli è senz’altro quello che ha per titolo “Il cane” e che, ripubblicato recentemente nell’antologia curata da Nicola Tanda, compare nel numero speciale de «Il Ponte”, dedicato alla Sardegna, del 1951.

 

L’Azionismo in Sardegna: conclusioni e prospettive

La fine dell’epopea o, meglio, per sentirsi più realisti e meno sentimentali, il fallimento della breve esperienza del Partito d’Azione, ci ha lasciato qualche utile insegnamento? Pensiamo proprio di sì.

Come abbiamo visto, il generoso tentativo del Partito d’Azione di cercare un nuovo sistema di alleanze sociali (proletariato e ceti medi), fallì alle prime consultazioni elettorali, quando la lotta politica in Italia (riecheggiante l’incipiente divisione del Mondo in due blocchi) si radicalizzò in una sorta di rapporti sociali ben diversi: da un lato, il blocco dominante che era riuscito a convogliare anche i ceti medi e che era egemonizzato dalla D.C., e dall’altro il proletariato, spartito quasi equamente fra i duepartiti storici della classe operaia, il P.S.I. e il P.C.I., strettamente uniti da un patto d’unità d’azione.

Norberto Bobbio ha fatto una descrizione magistrale del dramma degli azionisti alle prese con il nuovo indirizzo politico-sociale.«A chi si rivolgevano? Moralisti d’abord vagheggiavano una restauratio ab imis della vita politica italiana a cominciare dal costume. Ma ritenevano che per fare questa restauratio non occorresse fare la rivoluzione. Così si trovarono ad essere respinti dal grosso della borghesia che non voleva la restauratio e dal grosso del proletariato che non voleva rinunciare alla rivoluzione. Si trovarono così faccia a faccia con la piccola borghesia che era la meno adatta a seguirli. E non furono seguiti». La piccola borghesia preferirà addirittura seguire l’Uomo Qualunque.

Poi, nei decenni successivi, molte cose cambieranno in Italia e nel Mondo.Fin dall’inizio degli anni ’60 (dopo la tragica esperienza dei fatti d’Ungheria, e una volta concretatosi il fallimento dei piani quinquennali nelle democrazie popolari), si comprese finalmente che qualcosa non funzionava nei dettati dei testi marxisti trasferiti nella prassi, e che la tanto declamata solidarietà dei «proletari di tutto il mondo» era una fola. La caduta rovinosa, alla fine degli anni ’80, dell’Impero sovietico, la crisi del nazionalismo grande-russo, contestato da oltre un centinaio di minoranze nazionali alla ricerca della loro identità culturale, quando non dell’indipendenza politica, la richiesta pressante da parte di tutte le compagini dell’Est, della economia di mercato oltre che della democrazia politica, indicano una cosa sola, che va detta ad alta voce (anche se può far male a chi, sinceramente o ingenuamente, vi ha creduto per una intera vita): il marxismo come ideologia e il leninismo come prassi hanno fallito.

D’altronde, anche la geografia delle classi sociali ha subito nel frattempo profonde modificazioni: il proletariato (almeno in Italia e negli altri Paesi industrializzati) non rappresenta più la classe numericamente più forte; l’enorme sviluppo delle attività intermedie e del terziario in genere, la stessa tendenza all’imborghesimento di alcune categorie sociali che pure originano dal proletariato, ha ingigantito la forza e l’importanza dei ceti medi. Per cui, anche il socialismo moderno deve fare i conti con queste forze emergenti. Soprattutto, dopo il recente sconvolgimento del teatropolitico italiano, che ha fatto affiorare il pericoloso grado di corruzione in cui erano precipitati i partiti storici della prima repubblica, emerge pressante la richiesta di nuove forme di associazioni politiche, il cui rinnovamento non risulti soltanto nelle sigle, ma anche negli uomini e nelle idee. Oggi, più che mai, è necessario impegnarsi per operare al più presto una nuova sintesi fra i principi del liberalismo e quelli del socialismo, così come era stato sognato dai padri fondatori di “Giustizia e Libertà” e delle altre correnti del liberalsocialismo, e come il tentativo generoso del Partito d’Azione aveva fatto sperare nell’immediato dopoguerra.

Per la Sardegna il discorso è un po’ diverso, perché ci troviamo di fronte a una situazione del tutto particolare.Il problema per l’isola può apparire insomma più semplice e più complesso ad un tempo.

Più semplice, da un lato, perché il cataclisma che si è abbattuto nel Paese appare in Sardegna come un fenomeno di proporzioni più limitate, almeno finora, anche se non totalmente assente. Più complesso, perché accanto ai problemi della libertà e della giustizia sociale esiste quello, non meno importante, di una nuova autonomia e quindi di un nuovo tipo di rapporto con uno Stato che deve essere anch’esso profondamente rinnovato nelle istituzioni.

La Sardegna dovrà cioè acquisire un nuovo statuto d’autonomia speciale, molto diverso da quello che fu concesso circa mezzo secolo fa da una prima Repubblica riluttante e sostanzialmente centralizzatrice. Uno statuto che abbia competenze in tutte le materie che non contrastino con l’interesse generale dello Stato e che veda riconosciuta l’identità etnico-linguistica dei Sardi.

Contemporaneamente, dovrà sorgere una nuova Repubblica a struttura federale, le cui componenti autonome possano proiettarsi successivamente in una dimensione più vasta, quella di un’Europa di regioni federate: un’Europa molto diversa, cioè, dallo spirito freddamente monetario di Maastricht e da un’Unione di Stati sempre più riluttanti a cedere una parte della loro sovranità.

 

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