Michael Sandel: il filosofo rockstar, di Tonia Mastrobuoni

Da sabato 11 marzo in edicola c’è Dlui. Con storie di cowboy e di supereroine, l’uomo di Amnesty international e gli spin doctor della lotta al terrore, l’epopea dei cowboy e il successo dei fratelli nel business. E il filosofo rockstar Michael Sandel: il suo pensiero, da Harvard, sta conquistando il mondo. Con le sue lezioni riempie teatri e stadi: dagli Usa alla Corea del Sud. Qui, in anteprima, l’intervista che leggerete su Dlui.

MIchael Sandel ha l’aria timida e il sorriso mite. Difficile pensare che sia una rockstar della filosofia moderna, uno che riempie stadi interi (dagli States alla Corea del Sud: guarda quanti erano a Seoul nel 2012) parlando di bene comune e scelte morali. O che sia l’uomo che gli implacabili autori dei Simpson hanno scelto come modello per costruire una parodia al rovescio, quella del crudele Mr Burns. Ma, soprattutto, che i suoi socratici dialoghi con gli studenti e il pubblico, divenuti una popolarissima serie per la Bbc, continuino ad affascinare migliaia di persone.

Abbiamo incontrato il filosofo di Harvard al Forum economico mondiale di Davos, dove ha detto cose che suonano decisamente rivoluzionarie alle orecchie (piuttosto sorde) dei potenti del mondo. E lo abbiamo intervistato su questioni fondamentali come l’ascesa dei populismi e la logica equivoca del concetto di meritocrazia, ma anche sulle ragioni vere del successo di un americano come lui: Donald Trump. Il tutto, scomodamente seduti su una stretta panchina davanti a un guardaroba, nel mezzo del chiassoso viavai di premiati economisti, politici di ogni latitudine e gestori di hedge fund miliardari.

«Il populismo crescente non è soltanto un problema economico: è un problema civico, che ha a che vedere con la sensazione, provata da molti cittadini, di avere perso il potere di intervenire nella cosa pubblica». Sandel sfata subito l’idea dell’uomo avulso dal suo contesto sociale, della monade meccanica che funziona per incentivi, raccontata per anni dai liberisti. Nelle sue lezioni, che non sono mai “cattedratiche”, tenta di stimolare un dialogo costante con l’auditorio. Dal web ne abbiamo scaricate e ascoltate parecchie, prima di incontrarlo. Di solito il professore di diritto e filosofia coinvolge il pubblico facendo alzare le mani, mettendo a confronto tesi e antitesi su questioni come: «Perché non ho il diritto di vendere il mio diritto di voto?» oppure «È giusto, se i freni della mia auto si rompono, scegliere di investire una persona invece di cinque?».
Questioni apparentemente assurde, ma che mettono profondamente in gioco il senso morale e i concetti di giustizia e bene comune. Sandel vuole recuperare queste dimensioni, e gli interessa più la discussione in sé che le eventuali risposte o conclusioni. Come a Socrate. Interrogativi che colmano in parte un grande vuoto lasciato dalla sinistra, e riempito in questi ultimi anni dalle risposte sbagliate della destra. «Tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80», spiega Sandel, «comincia l’era della fiducia incondizionata nei mercati. Thatcher e Reagan arrivano al potere con la tesi esplicita che il governo è il problema e i mercati liberi la soluzione. Successivamente i due abbandonano la scena politica e la lasciano al centrosinistra, ai progressisti come Blair o Schroeder. Ma i nuovi leader non mettono mai in discussione quella fiducia, non smussano gli angoli ma non intaccano la premessa: che i mercati siano lo strumento migliore per conquistare il bene comune. Risultato: hanno condannato se stessi all’irrilevanza. E la reazione odierna contro il capitalismo globalizzato ha tolto consenso soprattutto a loro».

Fin qui, la tesi di Michael Sandel ricorda quella del Nobel dell’economia Paul Krugman, formulata in libro ormai divenuto un classico, La coscienza di un liberal (Laterza). Ma il professore ne fa anche una questione di linguaggio: «Consegnandosi al mercato, perseguendo l’unico obiettivo di far funzionare il sistema, i partiti di centrosinistra hanno lasciato che il ragionamento e il vocabolario tecnocratico prendessero il sopravvento». E il problema è che quel linguaggio non ispira granché: «La dimensione tecnocratica non ha il potere di motivare». Storicamente, ricorda il filosofo nato 64 anni fa a Minneapolis, «l’ascesa dei populismi di destra è il sintomo del fallimento di partiti progressisti e socialdemocratici». E, come insegna l’implosione della Repubblica di Weimar che preparò l’ascesa del nazismo, «è sempre un fallimento dalle enormi conseguenze. Anche adesso l’energia populista, la rivolta contro le élite e la rabbia per le diseguaglianze sono intercettate dai partiti di destra. La sinistra balbetta, dopo avere dimenticato per decenni la questione morale, il nodo delle diseguaglianze, il significato della parola “cittadino”». In alcuni scritti (Giustizia. Il nostro bene comune, o Quello che i soldi non possono comprare, entrambi editi in Italia da Feltrinelli) Sandel mette in discussione alcuni pilastri del pensiero contemporaneo. A partire da quello che ha sempre improntato la discussione economica: il potere degli incentivi monetari. Il filosofo cita numerosi esempi in cui la teoria classica si inceppa. Narra per esempio di un asilo che cercò di scoraggiare i ritardi dei genitori introducendo una multa. I ritardi, viceversa, aumentarono. I genitori avevano interpretato quella sanzione come una tariffa, non come una punizione. In un’altra scuola, in Israele, a un gruppo di studenti fu offerto un premio monetario perché raccogliessero soldi per beneficenza. A un secondo gruppo della stessa scuola fu chiesto lo stesso sforzo ma gratis, senza remunerazione. Fu quest’ultimo a impegnarsi molto di più del primo.
Ma Sandel non si ferma mai alla superficie delle cose e sta mettendo in discussione un’altra narrazione ostinata delle democrazie occidentali degli ultimi decenni: quella delle magnifiche sorti progressive della meritocrazia. «Pochi ci hanno fatto caso, ma Barack Obama e Hillary Clinton hanno continuato a parlare per tutta la campagna elettorale di opportunità e merito». Al contrario, il populista repubblicano Trump e il candidato di sinistra dei democratici, Bernie Sanders, hanno sempre evitato di menzionare quei concetti. «Hanno parlato entrambi di potere, o di vincitori e perdenti». Il fatto è, ragiona Sandel, che «né la mobilità, né la retorica delle opportunità fanno sognare. I partiti progressisti devono trovare un nuovo vocabolario».

Uno che sembra averlo capito, in queste settimane, è il candidato anti-Merkel dei socialdemocratici tedeschi, Martin Schulz. Anche lui, dopo l’infatuazione della generazione progressista stile Gerhard Schroeder per i precetti del neoliberismo, ha cominciato a parlare di solidarietà e di diseguaglianze. Neanche lui parla di merito. Per Sandel, «il punto filosofico è questo. Il messaggio della campagna clintoniana è stato: se lavori duro e ti attieni alle regole, vai avanti. Se ci sono ostacoli, pregiudizi o discriminazioni, in una società meritocratica vengono abbattuti. Sembra incontrovertibile. «Ma quando continua a essere ripetuto per decenni, ti viene il sospetto che non sia vero. E i democratici non hanno visto quanto quel messaggio abbia smesso di ispirare». Soprattutto, non hanno capito quanto sia ormai contraddetto da una società dove la mobilità è ferma, e dove il figlio dell’avvocato, prevedibilmente, diventerà avvocato, ma il figlio dell’operaio ha molte meno possibilità di diventare avvocato rispetto a trent’anni fa. «La possibilità di stare meglio dei propri genitori è crollata, in Europa e in Usa. Oggi diseguaglianze e scarsa mobilità sono due facce della stessa medaglia».

Sandel cita un libro visionario, una satira sulle oligarchie future. Già nel 1958, con L’avvento della meritocrazia, il grande sociologo inglese Michael Young capì che «l’ascesa della meritocrazia avrebbe creato un distopia. Vide che, nella Gran Bretagna dei suoi tempi, la vecchia società aristocratica, dove il destino dipendeva semplicemente dalla famiglia, veniva rimpiazzata dal merito. Ma lui predisse che una società perfettamente meritocratica non sarebbe stata affatto più equa: avrebbe creato basi diverse per riorganizzare le diseguaglianze. Lo vediamo oggi. Nella società odierna chi è in cima pensa di meritarselo, si inebria del proprio successo e tratta di conseguenza chi è in fondo». E chi non ce la fa, conclude Sandel, «ha il senso di colpa ma anche la rabbia verso chi sta in cima». È questo, scandisce, il veleno che nutre i populismi. «E Donald Trump, purtroppo, l’ha capito perfettamente».

 

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